Il Tractatus logico-philosophicus
Il pensiero di Wittgenstein può essere diviso in due fasi: la prima, riconducibile al Tractatus logico-philosophicus, è incentrata sul rapporto tra logica e linguaggio, mentre la seconda, espressa soprattutto dalle Ricerche filosofiche, sviluppa i problemi collegati all'uso quotidiano del linguaggio.
Esemplificando, si può dire che la prima fase del pensiero di Wittgenstein si concentra sulla forma logica del linguaggio, mentre la seconda sul linguaggio "reale", nel suo uso concreto. La molteplicità dei problemi filosofici affrontati da Wittgenstein può essere ricondotta a quattro punti significativi, ai quali il nostro autore ha dato nel corso degli anni soluzioni diverse:
• il rapporto tra linguaggio e realtà;
• che cos'è il senso di una proposizione;
• che cos'è la filosofia e qual è il suo compito;
• qual è il confine tra ciò che si può ragionevolmente dire e ciò che non può essere detto.
Ma che cos'è la filosofia? Nel Tractatus si dice espressamente che spetta alla scienza descrivere il mondo, ma occorre tenere presente che per Wittgenstein la scienza è qualcosa di più ampio rispetto alle discipline specifiche quali fisica, biologia, chimica ecc. Non esiste invece un ambito di indagine proprio della filosofia: essa non è neppure una disciplina, ma deve essere secondo Wittgenstein una pratica, la cui funzione è quella di "chiarire" il nostro uso del linguaggio, liberandoci di conseguenza da errori, anomalie e ambiguità che ne possono derivare («4.0031 Tutta la filosofia è "critica del linguaggio"»). Le teorie metafisiche tradizionali sono paragonabili a "malattie" dovute al cattivo uso delle parole, mentre la filosofia va intesa come la terapia per liberarci dagli errori del linguaggio.
Il Tractatus è legato a diverse eredità filosofiche, come Russell e Frege, ma anche ad altre figure fondamentali della cultura mitteleuropea
Wittgenstein deve molto all'atomismo logico di Russell, che teorizza un mondo popolato da fatti singoli, "atomici" e un linguaggio che lo rap-presenta. Un altro riferimento fondamentale per Wittgenstein è la teoria di Frege che rimanda soprattutto allo studio delle condizioni di validità delle inferenze logiche e alla riflessione intorno ai connettivi, come "e", "o", "se...allora", concepiti come costanti logiche. Inoltre Frege ha introdotto nella logica e nei linguaggi formalizzati uno strumento matematico, ossia il concetto di funzione: così come per una funzione matematica il suo valore è il risultato della stessa, in logica sono possibili due risultati, 1 o 0, che coincidono con il vero o il falso.
Anche le asserzioni intorno al mondo possono essere considerate funzioni dotate di valori di verità: se dico "x è rotonda", questa è una funzione il cui valore di verità è 1, quindi vero, se sostituisco alla variabile x l'argomento "la terra". Ma se introduco nella stessa funzione l'argomento "la Statua della Libertà", il valore di verità diventa 0 perché l'asserzione risulta evidentemente falsa. La concezione vero-funzionale del linguaggio sviluppata da Frege è stata certamente uno dei presupposti fondamentali del Tractatus logico-philosophicus, sebbene Wittgenstein vi abbia apportato importanti cambiamenti.
Nel trattare le relazioni con Frege e con Russell non va tralasciato il riferimento a quel mondo viennese a cavallo dei due secoli che è stato per Wittgenstein qualcosa di più di un semplice punto di partenza della sua biografia umana e culturale. Un libro importante apparso nel 1972 a cura di due studiosi anglosassoni, Allan Janik e Stephen Toulmin, intitolato La grande Vienna, mette in luce la centralità del linguaggio e dei suoi limiti per scrittori come Kraus, Von Hofmannsthal, per artisti come Kokoschka e Loos, senza dimenticare il lavoro fondamentale di Freud.
Linguaggio e ontologia
Ciò che si nota immediatamente leggendo le prime proposizioni del Trac-tatus è la riflessione ontologica, cosa apparentemente curiosa in un lavoro che ha, per ammissione dello stesso Wittgenstein, una finalità interna alla logica. L'ontologia del Tractatus presenta una struttura del mondo basata su tre elementi:
1. gli oggetti;
2. gli stati di cose, cioè le relazioni possibili tra gli oggetti;
3. i fatti, ovvero gli stati di cose effettivamente esistenti.
La prima proposizione afferma che «Il mondo è tutto ciò che accade»: ciò significa che è il fatto e non il singolo oggetto a possedere la caratteristica dell'accadimento, dell'evento.
Nella seconda proposizione Wittgenstein chiarisce che per «fatto» intende il «sussistere di stati di cose» che esistono nella realtà effettuale, ma soprattutto che «lo stato di cose è un nesso tra oggetti (enti, cose)». Per fare un esempio, non si dà una torta se non in relazione al tavolo su cui è appoggiata, a me che la mangio, alle caratteristiche che possiede (di panna, buona, grande) e, allo stesso modo, non usiamo nel linguaggio il nome "torta" se non in connessione con altre parole: "La torta è di panna", "La torta è sul tavolo", "Io mangio la torta", e così via.
Wittgenstein intende affermare che, sia sul piano ontologico (quello della realtà), sia sul piano raffigurativo (quello del linguaggio), noi abbiamo a che fare con enti che sono sempre connessi tra loro in certe relazioni.
I nomi corrispondono alle cose, cioè a ogni possibile oggetto del mondo; le proposizioni dotate di senso designano le possibili relazioni in cui gli oggetti possono trovarsi tra loro, ma solo le proposizioni vere designano fatti reali. L'insieme di tutte le proposizioni vere corrisponde a quello della totalità dei fatti, ovvero degli stati di cose, le relazioni in cui gli oggetti si trovano effettivamente. Rimangono tuttavia aperti dei problemi, specialmente sulla natura degli "oggetti", sulla quale Wittgenstein non dà ulteriori specificazioni.
Per esplorare più a fondo il rapporto tra linguaggio e realtà la questione fondamentale è individuare la vera essenza degli oggetti nella loro natura relazionale di stati di cose
Il problema ontologico fondamentale diventa quindi chiarire "che cosa è il mondo". Per risolverlo dobbiamo tenere presente che la nostra comprensione della realtà dipende dal linguaggio: il rapporto che sussiste tra linguaggio e mondo è esemplificato dalla relazione tra una frase e lo stato di cose, ovvero tra nomi e oggetti.
Che cosa si intende per "oggetto"? Wittgenstein si limita ad affermare che «L'oggetto è semplice», senza però fornire ulteriori indicazioni. Per esempio, una sedia è un oggetto semplice, ma perché non fare riferimento alle parti che la compongono (gambe, seduta, schienale) o addirittura alle parti più piccole (viti, barre di legno) o minime (molecole, atomi)? In realtà Wittgenstein non sta parlando di un oggetto che non sia ulteriormente scomponibile in parti minori (molecole, atomi ecc.), bensì di un oggetto che non ha bisogno di riferirsi alle sue componenti interne per essere compreso ed entrare in relazione con altri oggetti con un senso chiaro. La sedia è quell'oggetto semplice che risponde a specifiche caratteristiche che ne fanno quell'oggetto e non un altro: ha delle gambe, una seduta, uno schienale (perché senza schienale sarebbe uno sgabello). Perciò quando dico sedia mi riferisco a quell'oggetto specifico, indipendentemente dalle possibili varianti.
Può essere di aiuto un altro esempio; se sul tavolo c'è una torta, è possibile fare un lavoro quasi infinito di scomposizione dei due oggetti nelle loro componenti minime (parti, materiale, ingredienti, struttura molecola-re, atomi ecc.), ma ciò non è assolutamente necessario per capire che cosa voglia dire l'asserzione "sul tavolo c'è una torta" ', ossia quale stato di cose rattiguri.
Per questo motivo Wittgenstein afferma che nel definire i nomi, e quindi gli oggetti che a essi corrispondono, dobbiamo evitare la trappola della scomposizione. Questa base di "semplici", ossia di entità che sono poste in relazione tra loro, dà luogo ad asserzioni minime dotate di senso che costituiscono "la sostanza del mondo".
Ciò che Wittgenstein chiama "forma logica" è la chiave di volta per la comprensione del Tractatus perché è ciò che permette la relazione tra linguaggio e realtà
Alcuni oggetti hanno la possibilità di combinarsi tra loro secondo relazioni possibili, mentre non possono combinarsi con altri, per cui l'insieme di queste possibilità è detto da Wittgenstein spazio logico del mondo. «Noi ci facciamo immagini dei fatti» e tali immagini sono loro stesse dei fatti.
Qui si entra nella parte decisiva del lavoro: dopo avere delineato la struttura ontologica del mondo, Wittgenstein spiega come sia possibile che noi possiamo in qualche modo parlare del mondo. È quest'ultima una domanda antica: com'è possibile che un certo insieme di suoni o segni grafici possa corrispondere a un certo insieme di oggetti di tutt'altra natura? La risposta è in linea con una tradizione che risale per lo meno ad Aristotele e poggia sulla capacità del linguaggio di rappresentare il reale: «L'immagine è un modello della realtà». Per Wittgenstein la capacità raffigurativa del linguaggio è resa possibile da una identità di struttura (isomorfismo) tra le asserzioni che riguardano il mondo e gli stati di cose che compongono il mondo stesso. Questa identità non risiede nel contenuto, bensì nella forma
di una frase, semplice o complessa, che deve coincidere con i rapporti che le cose hanno o possono avere tra di loro; questo è ciò che intende per forma logica.
Per Wittgenstein ciò che mette in connessione linguaggio e realtà è una identità di struttura, la possibilità quindi che enti "ontologicamente diversi" come parole e cose siano disposti nello stesso modo; se aRb è la relazione tra i nomi che compongono una determinata proposizione A, quest'ultima si può riferire allo stato di cose B perché aRb è anche la relazione che troviamo tra le cose che compongono B.
In una nota dei Quaderni che precede il Tractatus, Wittgen- stein fa riferimento all'uso nei tribunali di modellini per ricostruire le dinamiche degli incidenti stradali. E la posizione che le automobiline hanno sul plastico e tra di loro a dirci come sono andate le cose, a dare senso all'accaduto:
che i modellini siano tanto simili a macchine vere o, al contrario, molto stilizzati, è invece qualcosa che non ci interessa. Così come quel plastico raffigura l'incidente e determina quindi il comportamento di assicuratori, giudici ecc., allo stesso modo il linguaggio raffigura il mondo e la raffigurazione, o modello (Bild), è possibile grazie alla forma logica (TESTO La forma logica).
Ciò che caratterizza il linguaggio è il senso, inteso come la capacità di rappresentare un possibile stato di cose e di possedere quindi una forma logica
Il concetto di forma logica diventa determinante per ripensare la distinzione di Frege tra senso (Sinn) e significato (Bedeutung).
Per Wittgenstein, infatti, «solo la proposizione ha senso» poiché «solo nella connessione della proposizione un nome ha significato». I nomi hanno significato nella misura in cui rimandano a oggetti del mondo, mentre le asserzioni possiedono senso, se rappresentano stati di cose, possibili o effettivi (fatti). Se davanti a me c'è una torta al cioccolato e io la indico dicendo "questa è una torta alla panna", affermo qualcosa di evidentemente falso, ma non di insensato perché:
• è possibile che esistano torte di panna;
• "torta" e "panna" fanno parte di quei nomi che possono andare insieme.
La proposizione "questa è una torta alla panna", per quanto falsa, è comunque dotata di senso perché lo stato di cose che indica è possibile, anche se non si verifica in occasione della mia asserzione. Il senso non ha a che fare con il vero o il falso, bensì con la possibilità di dire qualcosa intorno al mondo, il che significa possedere una forma logica.
Consideriamo ora queste due importanti asserzioni del Tractatus:
4.021 La proposizione è un'immagine della realtà: infatti io conosco la situazione da essa rappresentata se comprendo la proposizione. E la proposizione la comprendo senza che me ne si sia spiegato il senso.
4.024 Comprendere una proposizione vuol dire sapere che accada se essa è vera. (La si può dunque comprendere senza sapere se è vera.) La si comprende se se ne comprendono le parti costitutive. Il senso di una proposizione riguarda direttamente il nostro modo di com-prenderla: se dico "Napoleone morì in battaglia" la mia frase è palesemente falsa, ma un senso lo possiede perché posso immaginarmi benissimo uno stato di cose nel quale questo evento sarebbe potuto accadere.
Esiste una forte relazione tra la forma logica di una proposizione e il suo senso: avere una forma logica è la condizione necessaria affinché una frase abbia senso e quindi sia in relazione con la realtà. Va intesa pertanto come la struttura a priori, per usare un termine kantiano, che permette al linguaggio di riferirsi al mondo.
Linguaggio e logica
Come abbiamo visto, il mondo è esaurito dalla totalità dei fatti e ai singoli fatti corrispondono le proposizioni semplici o atomiche; il linguaggio consente di unire le proposizioni atomiche con dei connettivi e formare quindi le proposizioni complesse.
Asserzioni come "Piove o non piove", "Se fa caldo, allora tolgo la giacca", "Mangio la torta e il gelato", "Vai al cinema se e solo se hai studiato filosofia", sono composte da proposizioni atomiche (relative a fatti atomici) unite da connettivi che possono essere congiuntivi, disgiuntivi o condizionali. Ma occorre tenere presente che i connettivi logici non corrispondono a fatti e quindi non possiedono un corrispettivo nel mondo: detto altrimenti, non esistono fatti disgiuntivi, congiuntivi, o condizionali. Ne consegue che i fatti che accadono sono solo quelli atomici, cioè espressi da una proposizione semplice; la possibilità di mettere insieme le proposizioni atomiche attraverso il linguaggio non crea i fatti, ma consente di fare discorsi più complessi sul mondo.
Pertanto, i connettivi non hanno alcun riferimento, non indicano nulla, ma permettono di negare (-) unire (^) contrapporre (V) o subordinare una all'altra (→) delle proposizioni. Il significato di una proposizione elementare è dato dal riscontro empirico (che appura se è vera o falsa): ma che cosa mi permette di attribuire un significato a proposizioni complesse? Rielaborando la concezione vero-funzionale della verità di Frege e Russell, Wittgenstein afferma che possiamo far coincidere la verità con il valore 1 e la falsità con il valore 0; perciò nel caso delle proposizioni semplici è sempre possibile stabilire se sono vere o false guardando la realtà esterna, e quindi attribuire loro un "valore di verità". Nel caso delle proposizioni complesse, queste sono dipendenti dalla verità o falsità delle proposizioni atomiche, quindi diciamo che sono "funzioni del valore di verità" di queste ultime.
Le relazioni tra le proposizioni dipendono dal tipo di connettivo logico che le unisce: le tavole di verità servono a valutare il valore di verità di una proposizione complessa in ogni possibile occorrenza
Se due o più proposizioni semplici sono in relazione tra di loro, la proposizione complessa ha un valore di verità dipendente dai valori di verità delle singole proposizioni elementari. Facciamo qualche esempio: p, "la terra è rotonda" ', e q, "Obama è il presidente degli USA", sono due proposizioni semplici. Introducendo il connettivo "e", otteniamo la proposizione complessa "La terra è rotonda e Obama è il presidente degli Usa", che formalizziamo mediante l'espressione p ∧ q. In quali casi questa proposizione complessa è vera e in quali è falsa? Per scoprirlo dobbiamo calcolare tutte le quattro situazioni possibili.
p | q | p ∧ q |
---|---|---|
V | V | V |
V | F | F |
F | V | F |
F | F | F |
L'unico caso in cui la proposizione complessa risulta vera è quello in cui entrambe le proposizioni semplici lo sono, quindi una congiunzione è vera solo se entrambi i congiunti lo sono. Se consideriamo invece il caso di una proposizione complessa data da due frasi semplici in un rapporto di disgiunzione inclusiva (il vel latino per intenderci), come per esempio "piove o c'è il sole" otteniamo la seguente tavola:
p | q | p ∧ q |
---|---|---|
V | V | V |
V | F | V |
F | V | V |
F | F | F |
Le tavole di verità stabiliscono anche i casi possibili per l'inferenza "se... allora...," p → q, come per esempio "se piove prendo l'ombrello":
p | q | p ∧ q |
---|---|---|
V | V | V |
V | F | F |
F | V | V |
F | F | V |
Il senso di una proposizione complessa è quindi riconducibile alle sue possibilità di verità che sono espresse dalla relativa tavola.
Wittgenstein esamina due casi particolari, quello della tautologia, in cui la tavola di verità è sempre vera, e quello della contraddizione, in cui è sempre falsa
Se prendiamo la frase "piove o non piove", la possiamo esprimere attra- verso la seguente tavola di verità
p | ¬p | p ∨ ¬p |
---|---|---|
V | V | - |
V | F | V |
F | V | V |
F | F | - |
pe p non possono essere simultaneamente entrambe vere o entrambe false, per cui nei casi restanti questa frase è sempre vera, perciò si tratta di una tautologia. Affrontiamo ora l'altro caso: "La risposta è giusta e non è giusta" che scriviamo come p ^ - p
p | ¬p | p ∧ ¬p |
---|---|---|
V | V | - |
V | F | F |
F | V | F |
F | F | - |
Qui è evidente l'impossibilità logica che p e - p siano entrambe vere o entrambe false, mentre gli altri due casi, come prevede la tavola di verità della congiunzione "e", comportano la falsità della proposizione complessa; in questo caso abbiamo una contraddizione.
Occorre tenere presente una distinzione sottile ma molto importante: per Wittgenstein tautologia e contraddizione sono prive di senso (sinnlos), tuttavia non sono insensate (unsinnig). La lingua tedesca contiene una sfumatura che nella traduzione si perde: insensato e privo di senso sono per noi espressioni pressoché identiche. Invece per Wittgenstein è insensata un'asserzione che non corrisponde a stati di cose, né reali (i fatti) né possi-bili, per esempio "gli elefanti rosa volano". Le asserzioni insensate violano quindi le relazioni possibili tra parole e cose e non possono avere una forma logica; in questo caso non si può parlare di verità o falsità perché mancano le condizioni per un confronto con la realtà.
Al contrario, una tautologia è vera per qualsiasi stato di cose e una contraddizione è falsa per qualsiasi stato di cose; a differenza delle proposizioni insensate, si possono in questo caso attribuire i valori di verità e falsità.
Le tautologie non dicono nulla intorno al mondo e sono quindi prive di senso; proposizioni come "lo scapolo è un uomo non sposato" oppure "il triangolo ha tre lati" sono sempre vere, ma non specificano alcuna situazione realmente possibile. Anche la matematica è priva di senso, proprio perché le asserzioni matematiche non riguardano fatti, non rimandano a nulla che ci può essere nel mondo. Allora a che cosa servono?
Wittgenstein afferma che il loro scopo, così come quello delle tautologie e delle contraddizioni, consiste nel mostrare la struttura logica del linguaggio. Ciò significa che quando ci occupiamo di logica e di matematica, non stiamo dicendo niente intorno al mondo, pertanto non c'è alcun significato in senso fregeano, nessun rimando ai fatti: stiamo semplicemente evidenziando come funziona il linguaggio, nel senso della possibilità stessa di rappresentare il mondo.
Scienza e filosofia
La questione del vero e del falso appartiene soltanto alla scienza, intesa da Wittgenstein, in un senso molto generale, come quel discorso che verte intorno al sussistere o meno di stati di cose. «La totalità delle proposizioni vere è la scienza naturale tutta (o la totalità delle scienze naturali).» Solo la scienza, ma più in generale, solo le nostre proposizioni che dicono qualcosa sui fatti, possono essere valutate in termini vero-funzionali. Le proposizioni della logica e della matematica sono, come dicevamo prima, prive di sen-so, mostrano quindi il funzionamento del pensiero, ma non dicono nulla intorno al mondo.
Poiché solo le nostre asserzioni intorno ai fatti possono dirsi sensate, compito della filosofia è indicare come possiamo usare correttamente il linguaggio:
Scopo della filosofia è la chiarificazione logica dei pensieri. [...] Risultato della filosofia non sono "proposizioni filosofiche", ma il chiarirsi di proposizioni. La filosofia deve chiarire e delimitare nettamente i pensieri che altrimenti, direi, sarebbero torbidi e indistinti. (Tractatus logico-philosophicus)
Cosa intende dire Wittgenstein quando afferma che la filosofia non deve elaborare "proposizioni filosofiche"? Per capirlo, prendiamo, per esempio, la famosa definizione 6 dell'Etica di Spinoza: «Per Dio intendo un Ente assolutamente infinito: cioè una Sostanza che consta di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime un'essenza eterna ed infinita». Oppure l'affermazione di Hegel contenuta nella prefazione alla Fenomenologia dello Spirito: «Tutto dipende dal concepire ed esprimere il vero non tanto come sostanza, bensì propriamente come soggetto». Sono due asserzioni complesse, composte da proposizioni atomiche che non hanno alcun riferimento a fatti derivati dall'esperienza, pertanto sono insensate.
Dunque per Wittgenstein la filosofia intesa come metafisica è insensata, ma non solo.
Prendiamo in considerazione Aristotele quando dice che «la giustizia, sola tra le virtù, pare essere un bene per gli altri, perché è rivolta al prossimo, infatti il giusto compie azioni utili all'altro» (Etica Nicomachea, Libro V, 3); oppure l'affermazione di Kant «l'autonomia della volontà è l'unico principio di ogni legge morale» (Critica della ragion pratica, Libro 1, cap. I, §8). Sono affermazioni chiare e, in un certo senso, concrete, attinenti cioè a cose che ci possono riguardare direttamente. Eppure, anche in questo caso non sono sensate, in quanto, nell'ontologia di Wittgenstein, non esistono nel mondo oggetti, quali "giustizia", "virtù", "volontà" e "bene".
Ne consegue che anche i discorsi etici sono insensati in quanto ricadono nell'ambito di ciò che non può essere detto. Su questo punto i neopositivisti concordano pienamente con Wittgenstein affermando che le proposizioni etiche hanno a che fare con valori e non con dati empirici, di conseguenza non è possibile fare un discorso filosofico fondato intorno alle questioni morali.
Nel Tractatus Wittgenstein ha esaurito il compito della filosofia come chiarificazione del linguaggio, distinguendo ciò che può essere detto da ciò che non può essere detto. Tuttavia, i problemi morali, benché inesprimibili, sono sentiti come i più importanti
Ciò che abbiamo visto sinora non significa che per Wittgenstein l'etica non sia importante, al contrario, la sua personale inquietudine e il suo bagaglio di letture lo convincono che le grandi questioni dell'esistenza umana riguardano uno spazio non riconducibile ai fatti e al linguaggio, incapace quindi di esibire una forma logica e un senso per tali problemi, ma non per questo sono meno importanti. I problemi tradizionali della filosofia hanno a che fare con valori, non con fatti, i quali «appartengono tutti soltanto al pro-blema, non alla risoluzione». Se il linguaggio che Wittgenstein ha analizzato nel Tractatus è quello che riguarda i fatti, ecco che l'esistenza dell'uomo, le questioni etiche, la morte e così via si sottraggono inevitabilmente alla possibilità di essere detti e questo dà senso alla celebre frase finale del libro: «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere».
Nel Tractatus Wittgenstein usa il termine "mistico" per intendere "l'ine-sprimibile", ossia tutto ciò che ha a che fare con le questioni esistenziali, religiose ed etiche, di conseguenza con la sfera di ciò che non può essere detto dal linguaggio.
L'importanza fondamentale dei problemi morali ed esistenziali è data proprio dal fatto che, nonostante non possano essere detti, possono però essere mostrati, esattamente come la forma logica non può essere spiegata, ma può esibir-sì. Così come il cardine della teoria della raffigurazione sfugge alla possibilità di essere detto, allo stesso modo ciò che realmente è decisivo per l'uomo non si lascia ricondurre nei limiti del linguaggio e resta ineffabile, com'è evidente dalla seguente proposizione del Tracta-tus: «Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppur toccati».
Nonostante la convinzione di avere risolto i problemi logici e scientifici attraverso la chiarificazione del linguaggio, così Wittgenstein si esprime in una lettera: «Il mio lavoro consiste di due parti: di quello che ho scritto, e inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante». Il compito del Tractatus è terminato con uno scacco inevitabile; esserne consapevole è l'unica possibilità per l'uomo, così come per chi, salito su una cima, getta via dietro di sé la scala. E a questo punto Wittgenstein decide di intraprendere altre strade.
Il "secondo" Wittgenstein:
le Ricerche filosofiche
Dopo la pubblicazione del Tractatus Wittgenstein abbandona Cambridge e la filosofia ritenendo di avere concluso il proprio compito; la rinuncia alla filosofia è però parziale, dal momento che partecipa a lunghe e appassionanti conversazioni con gli esponenti del Circolo di Vienna, tanto che nel 1929 decide di ritornare a Cambridge e ridiscutere i risultati della sua precedente teoria.
C'è un aneddoto molto famoso ed emblematico della svolta teorica che si stava compiendo nella testa di Wittgenstein, della quale le Ricerche filo-sofiche, composte tra il 1936 e il 1947, sono espressione. Durante gli anni trascorsi a Cambridge Wittgenstein stringe un forte sodalizio con l'economista napoletano Piero Sraffa, al quale, durante una conversazione, il filosofo austriaco cerca di spiegare la propria teoria della raffigurazione, così com'è stata elaborata nel Tractatus. A un certo punto Sraffa chiede quale sia la forma logica del gesto, tipicamente napoletano, di ostentare indifferenza passandosi le dita sotto il mento. Wittgenstein incapace di dare una risposta coerente con la propria teoria della rappresentazione viene messo in crisi. Al di là di questa vicenda, Wittgenstein è sempre più convinto che intendere le proposizioni del linguaggio esclusivamente come raffigurazioni di fatti sia una prospettiva insufficiente e che la natura del linguaggio debba essere cercata in un'altra direzione.
Ritornando a fare filosofia, Wittgenstein comprende di essersi sbagliato nell'avere impostato il rapporto nomi-cose nei termini tradizionali della corrispondenza tra ciò che viene detto e ciò che esiste. Questo modo di concepire il rapporto tra realtà e linguaggio aveva radici lontane a partire dal mondo antico;
Wittgenstein trova infatti nel pensiero di Agostino (Confessioni) una delle più influenti e intuitive teorie del linguaggio: «E precisamente questa: le parole del linguaggio denominano oggetti - le proposizioni sono connessioni di tali denominazioni». Secondo Wittgenstein, «in questa immagine del linguaggio troviamo le radici dell'idea: ogni parola ha un significato. Questo significato è associato alla parola. E l'oggetto per il quale la parola sta» (Ricerche filosofiche). Si tratta della teoria che lo stesso Wittgenstein aveva avanzato anni prima nel Tractatus e che ora intende mettere in discussione.
La teoria della raffigurazione non esaurisce la complessità del linguaggio nei suoi molteplici usi: Wittgenstein elabora pertanto una teoria del linguaggio basata sul significato
Alla base della seconda fase del pensiero di Wittgenstein c'è la consapevolezza che per ogni pratica linguistico-culturale esiste un modo particolare di usare le parole, così come esiste una pluralità di linguaggi (verbali, sonori, gestuali, visivi e così via). Il linguaggio non è composto solo di nomi e la somma delle proposizioni che formuliamo non si può ridurre ad asserzioni della forma "soggetto + predicato"; inoltre il linguaggio non si limita a designare fatti, nel senso che con le parole possiamo fare molte altre cose. Con il linguaggio è possibile dire qualcosa intorno alla realtà, formulando asserzioni che possono risultare vere o false, ma è anche possibile recitare una preghiera, ordinare a qualcuno di alzarsi, imprecare, cantare una canzone. In tutti questi casi l'uso del linguaggio è indipendente dalla concezione vero-funzionale del Tractatus:
ognuna di queste prassi linguistiche ha un modo di svolgersi e dei codici che le sono propri, esattamente come ogni gioco ha caratteristiche e regole che lo contraddistinguono. Ma se la teoria della raffigurazione non esaurisce la complessità del linguaggio, è ancora sostenibile la teoria del senso come forma logica, così come è stata sviluppata da Wittgenstein nel Tractatus? La svolta passa attraverso una ridefinizione del termine significato: «Per una grande classe di casi - anche se non per tutti i casi - in cui ce ne serviamo, la parola "significato" si può definire così:
"il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio"». Conoscere il significato di una parola vuol dire anche sapere come usarla. Non è più possibile riferirsi esclusivamente a una sola struttura portante del rapporto linguaggio-mondo come nel concetto di forma logica del Tractatus: è il nostro modo di usare un linguaggio entro una particolare situazione a dare senso al linguaggio stesso. Nelle Ricerche filosofiche Wittgenstein rinuncia alla pretesa di fornire, attraverso il concetto di forma logica, una struttura universale per comprendere la relazione tra qualsiasi proposizione del linguaggio e qualsiasi stato di cose del mondo.
Il concetto di gioco consente di comprendere la natura del linguaggio in quanto ne esemplifica la molteplicità delle pratiche possibili
Il superamento della concezione raffigurativa del linguaggio e la nuova teoria del significato come uso, si basano sull'idea che ciò che viene detto è comprensibile nella misura in cui è riferito a un vasto mondo di attività linguistiche ed extralinguistiche, sociali, culturali ecc. Wittgenstein sceglie la metafora del gioco innanzitutto perché si tratta di un'esperienza universale che tutti possono facilmente comprendere, e poi perché la natura stessa del gioco si sottrae a una descrizione univoca.
Non è possibile ricondurre a un unico fattore comune e universale la pluralità delle attività designate come gioco: si gioca insieme o da soli, da bambini e da adulti, con oggetti o con la fantasia, per vincere o solo per divertirsi, rispettando delle regole o stravolgendole, e così via. La natura proteiforme del gioco è analoga a quella del linguaggio: i fenomeni linguistici non hanno in comune una "essenza", in base alla quale impieghiamo per tutti la stessa parola, ma sono imparentati l'uno con l'altro in molti modi differenti (TESTO / giochi linguistici).
L'idea di parentela serve a caratterizzare le somiglianze tra i fenomeni linguistici come somiglianze di famiglia: «infatti, le varie somiglianze che sussistono tra i membri di una famiglia si sovrappongono e si incrociano allo stesso modo: corporatura, tratti del volto, colore degli occhi, modo di camminare, temperamento ecc.». In altre parole, Wittgenstein sostiene che, dati gli elementi A, B, C e D, A e B si possono assomigliare per la qualità x, B e C per la y, C e D per la w, A e D per la z, senza che ci debba essere per forza una sola qualità comune a tutti gli elementi. In questo senso, quindi, i giochi formano una famiglia (TESTO Le somiglianze di famiglia). Un altro esempio è quello di un filo la cui robustezza «non è data dal fatto che una fibra corre per tutta la sua lunghezza, ma dal sovrapporsi di molte fibre l'una all'altra»: è l'ininterrotto sovrapporsi delle fibre a percorrere tutto il filo.
Questa posizione richiede anche una nuova riflessione sul concetto di insensatezza: se nella teoria del linguaggio come raffigurazione è insensata la proposizione che non corrisponde a nessuno stato di cose possibile, ora si parla piuttosto di "giocare" il gioco sbagliato. È come mettersi a giocare con le mani durante una partita di calcio, cercando di applicare le regole del basket; da qui nasce la confusione. Qualcosa del genere succede per esempio in filosofia quando, come sostengono gli empiristi logici, i filosofi della tradizione metafisica portano nel campo filosofico "regole" che sono piuttosto della poesia e dell'arte.
Nelle Ricerche filosofiche viene ridefinito il ruolo della filosofia: non si tratta più di cogliere la natura del linguaggio, ma di descrivere la pluralità dei giochi linguistici cogliendone la specificità
La teoria della forma logica contenuta nel Tractatus voleva in qualche modo svelare l'essenza del linguaggio intesa come capacità di raffigurare fatti. Una volta compreso che la funzione del linguaggio va ben oltre la sua capacità raffigurativa, Wittgenstein giunge a mettere in discussione la pretesa di buona parte della filosofia occidentale di scovare un'essenza a fondamento della realtà. A partire da Socrate e Platone, la possibilità di elaborare concetti sul piano linguistico coincide con il definire che cosa caratterizza un determinato ente, cosa lo fa essere ciò che è. Wittgenstein critica l'idea di "concetto" e la sua capacità di indicare l'essenza dell'ente cui fa riferimento.
La filosofia diventa analisi del linguaggio: il suo compito non è quello di descrivere concetti o essenze, ma di analizzare i diversi giochi linguistici e comprendere le regole per il corretto uso del linguaggio. Ciò significa comprendere la grammatica del gioco, intesa come l'insieme di condizioni e regole che dicono come vanno usate le parole entro un certo ambito. L'altro compito che spetta alla filosofia è quello di mettere in luce i casi in cui l'uso del linguaggio devia rispetto alle regole di un determinato gioco linguistico generando delle insensatezze. Praticare un gioco linguistico (che sia descrivere il funzionamento del cosmo, pregare, fare la conta, dettare la lista della spesa ecc.) impone di seguire delle regole condivise da tutti coloro che praticano il gioco in questione. Per esempio, se subisco un fallo in area, tirerò un rigore, se il re è sotto scacco e non può spostarsi, è matto, se a nascondino riesco a trovare tutti ho vinto ecc. La teoria del linguaggio come raffigurazione, avanzata nel Tractatus, è uno dei tanti possibili giochi linguistici, la cui grammatica consiste proprio nell'associare a un oggetto del mondo un nome: questa è la condizione per giocare correttamente. Una preghiera o un comando fanno riferimento a grammatiche diverse.
Chi stabilisce queste grammatiche? Chi decide come si usa il linguaggio all'interno di un gioco linguistico? Wittgenstein afferma che si tratta di pratiche che nascono e muoiono all'interno di contesti sociali e culturali, quali possono essere il mondo dei bambini e, appunto, dei loro giochi, le comunità scientifiche, il gergo di una determinata professione, e così via.
Wittgenstein parla di "forme di vita" (Lebensform) intese come quei modi di stare insieme tra le persone che obbediscono agli scopi più disparati, ma che hanno in comune, e solo questo hanno in comune, il bisogno di comunicare. Gli esiti delle Ricerche filosofiche si sono rivelati fondamentali non solo per la filosofia del Novecento, ma anche per molte altre discipline, come l'an-tropologia e la sociologia, che hanno indagato il rapporto profondo tra le pratiche della vita associata e il linguaggio. A Wittgenstein e alle Ricerche filosofiche spetta certamente il grande merito di avere mostrato come non si possa comprendere un linguaggio con le sue parole e le sue regole senza collocarsi all'interno della forma di vita che lo ha prodotto.
Wittgenstein esclude la possibilità di un linguaggio privato, capace di significare i miei stati interiori e di comunicarli
Nelle Ricerche Wittgenstein affronta un argomento caro a molti filosofi, la possibilità di un linguaggio che esprima i nostri stati interiori: «[...] Le parole di questo linguaggio dovrebbero riferirsi a ciò di cui solo chi parla può avere conoscenza. Alle sue sensazioni immediate, private. Dunque un altro non potrebbe comprendere questo linguaggio». Ma se un linguaggio funziona nella misura in cui si può decidere della sua correttezza o meno, allora non è possibile parlare di un linguaggio privato, dato che la giustificazione delle parole deve essere riportata a uno standard compreso da tutti.
Questo è particolarmente evidente nel caso di una definizione osten-siva, relativa cioè a qualcosa che mostro e indico con un nome: "questa è una mela", "questo è un gatto", "questo è un Klimt". E evidente che uso queste espressioni quando voglio indicare un ente e il nome che lo denota a un ascoltatore. Posso fare la stessa cosa quando dico "ho male", "ho male di testa", "ho male alle gambe"? Nessuno mette in dubbio che a un certo stato interiore o a una sensazione privata io possa associare un'espressione di questo tipo, né più né meno come dire "Ahi!" quando mi faccio male.
In questo caso però nessuno può verificare il mio stato interiore, e quindi viene a mancare la condizione necessaria per definire un termine o una proposizione come dotati di significato, ossia la possibilità di un uso scorretto. Dal momento che nessuno può verificare se al mio dire "ho mal di testa" corrisponda veramente uno stato interno di dolore al capo, ne segue l'impossibilità di un linguaggio privato significativo.
La nuova concezione del linguaggio ha un'importante conseguenza per quanto riguarda il problema della verità
La teoria della raffigurazione logica elaborata nel Tractatus prevedeva una concezione classica della verità come corrispondenza: "La torta è sul tavolo" è un enunciato vero se sussiste un fatto nella realtà per cui effettivamente la torta è sul tavolo. Ma se abbiamo a disposizione una pluralità inesauribile di giochi linguistici e se il senso di una proposizione è dato dal suo uso e non più dalla corrispondenza con uno stato di cose possibile, allora l'idea stessa di verità va ripensata.
L'esito finale del pensiero di Wittgenstein è una raccolta di riflessioni scritte nell'ultimo anno di vita e pubblicate postume nel 1969 con il titolo Della certezza. Venendo meno la questione della verità in senso tradizionale, si deve parlare più correttamente delle convinzioni che possiamo avere in merito alla verità delle proposizioni. Il problema slitta quindi dalla corrispondenza tra asserzioni e fatti, al nostro essere certi di tali asserzioni. Le proposizioni che consideriamo più evidenti non valgono tanto perché dicono qualcosa di indubitabile, ma perché costituiscono lo sfondo di certezze che un certo insieme di soggetti accetta e condivide. Tali certezze non vanno considerate come qualcosa di acquisito intorno alla realtà, bensì il punto di partenza indispensabile per la conoscenza del mondo. Queste nostre credenze vanno quindi intese come valide all'interno di una forma di vita e di un determinato gioco linguistico, allo scopo di poter parlare del mondo all'interno del gioco stesso, come espresso dal seguente pensiero:
Ma la mia immagine del mondo non ce l'ho perché ho convinto me stesso della sua correttezza, e neanche perché sono convinto della sua correttezza. È lo sfondo che mi è stato tramandato, sul quale distinguo tra vero e falso. (Della certezza)