Lezioni
CLASSE IV - Sintesi di Filosofia (2) |
Epicuro: la fisica democritea e le paure dell'uomo
L'ideale cosmopolitico e l'individualismo
Il Greco dell'età classica aveva sempre considerato la polis come l'orizzonte unico della vita morale. Ora, l'uomo si trasformava improvvisamente da cittadino in suddito; l'uomo singolo non aveva più alcuna voce, le decisioni ormai venivano prese senza il suo contributo. L'uomo, eventualmente soltanto funzionario o mercenario, assume un atteggiamento di neutrale disinteresse, quando non di avversione. Ciò comporta un radicale ripensamento dei valori etico-politici.
La filosofia greca, negata la polis, si rifugia in un atteggiamento cosmopolita (l'uomo come “cittadino del mondo”), considerando tutto il mondo
un Città, fino a includere in essa anche gli Dei. Conseguenza di tale rinnovato
sforzo di appartenenza al mondo, in modo astratto, è il rifugio in una
prospettiva individualistica ed egoistica, di chiusura del singolo in se
medesimo, introflesso alla ricerca di nuove energie interiori e nuovi contenuti
morali capaci di offrire un nuovo scopo di vita. Il singolo individuo appare
l'unico artefice del proprio valore e del proprio destino, signore di se stesso.
Mentre per Platone e per Aristotele era impensabile un'etica non politicamente
finalizzata, ora, grazie alla scoperta delle dimensioni nuove dell'individuo, la
morale si costituisce in modo assolutamente autonomo.
In tale clima la filosofia perde in vigore speculativo, ma guadagna in estensione, nel senso che un considerevole numero di uomini può ora rendersene partecipe: i filosofi dell'età ellenistica sono sostanzialmente dei moralisti, predicatori e medici dell'animo che procurano con le loro dottrine una terapia di vita che può essere abbracciata da molti.
Il sincretismo e lo spostamento del cuore culturale del mondo
La politica dei regni ellenistici era tesa all'omogeneizzazione attraverso lo
strumento del sincretismo (= uso insieme) religioso e genericamente culturale.
Dal punto di vista linguistico fu diffuso un codice che potesse essere
condivisibile ad ogni capo dell'immenso territorio ellenizzato, una koinè diáleptos (lingua comune) risultante da una facilitazione del greco classico; dal punto di
vista religioso nacque la consuetudine del pantheon (il tempio dedicato
indifferentemente a tutti gli dei).
La mentalità sincretista portò allo spostamento dei centri culturali, tra cui
emerse Alessandria d'Egitto, per la sua favorevolissima posizione geografica,
sede della più grande biblioteca dell'antichità, la prima all'interno della
quale fosse concepito un sistematico riordinamento di tutte le opere scritte
conosciute.
epicuro
La filosofia come tetrafarmaco
Grazie alla negazione chiara ed esplicita del soprasensibile, dell'incorporeo
e dell'immateriale, Epicuro può dirsi il primo materialista che abbia formulato
in modo consapevole la propria dottrina. Peraltro, Epicuro non crea una nuova
ontologia, ma esprime la propria visione materialistica della realtà rifacendosi
a concetti e figure teoretiche formulate dalla filosofia presocratica,
scegliendo l'Atomismo.
Riaffermando la necessità di una teoria dell'essere come fondamento dell'etica,
dichiara però superiore l'etica alla fisica: alla scienza e alla sapienza viene
da Epicuro sovraordinata la saggezza (phrónesis),
cioè la virtù pratica. Ad Epicuro, pertanto non interessa tanto la soluzione del
problema etico sul fronte teoretico, quanto la messa sua in pratica.
La filosofia morale di Epicuro, tuttavia, non ha come sfondo di interesse la pólis, insieme con la tavola dei
valori relativi all'impegno del cittadino, ma la sfera del privato, del singolo
uomo, dell'individuo. La virtù è pertanto quella che perfeziona la vita privata,
al di fuori del contesto sociale e civile in cui è inserita; il motto epicureo
“vivi nascosto”, pertanto, denuncia l'inanità e la pericolosità della vita
politica, mentre proclama la validità e l'eccellenza della vita appartata e
lontana dal tumulto della piazza.
Coerente con questa assunzione pratica, Epicuro sceglie come sede della propria
scuola un edificio con un giardino (o un orto) nei sobborghi di Atene, vicino al
silenzio della campagna. Di qui il nome degli epicurei come “quelli del
giardino”, la cui filosofia si esprime in breve:
- la realtà è perfettamente penetrabile e conoscibile dall'intelligenza
dell'uomo;
- nelle dimensioni del reale c'è spazio per la felicità dell'uomo;
- la felicità è mancanza di dolore e turbamento, è pace dello spirito;
- per raggiungere questa felicità e questa pace, l'uomo ha bisogno solo di se
stesso;
- non servono la città, le istituzioni, la nobiltà, le ricchezze, le cose tutte
e nemmeno gli dei: l'uomo è perfettamente autarchico.
Epicuro vuole dunque fornire agli uomini il quadruplice rimedio contro i mali
della vita:
. vano è il timore degli dei, i quali, se anche esistono, abitano gli spazi
vuoti tra i mondi e non si curano della vita dell'uomo;
. assurda è la paura della morte, in quanto con la disgregazione del corpo il
nulla non consente la coscienza di mali ultraterreni;
. il piacere, inteso correttamente, è a disposizione di tutti e facile da
raggiungere;
. il male o è di breve durata o è facilmente sopportabile.
La vita fisica è, per Epicuro, il vero assoluto, la realtà nella sua completezza, esclusiva di qualsiasi altra dimensione.
La canonica
Il termine “logica”, come si è visto, è di conio stoico; Aristotele chiamava
la sua logica “analitica”, preferendo considerarla órganon, cioè strumento più che
disciplina. La logica epicurea prende il nome di “canonica”, che significa
l'insieme delle regole (kánon) di
base del sistema; in realtà più che di una logica vera e propria, si tratta in
sostanza di una gnoseologia, cioè di una dottrina della conoscenza, che ha il
compito di determinare i criteri di verità in modo propedeutico rispetto alla
fisica e all'etica.
I criteri della verità sono tre:
- la sensazione;
- l'anticipazione (prolessi);
- i sentimenti di piacere e di dolore.
Epicuro rivendica con energia la certezza e la validità oggettiva della sensazione, della quale proclama il valore di assolutezza. Le sensazioni sono sempre e tutte vere, senza eccezione alcuna: i sensi non ingannano. È tale perché essa è un'affezione, cioè è passiva, non si produce da sé, ma deve essere prodotta da ciò di cui è effetto e, quindi, ad esso corrispondente. Dalle cose emanano complessi di atomi che costituiscono le immagini o simulacri nell'anima; il carattere registrativo fa sì che che le sensazioni posseggano di necessità tutte lo stesso valore di verità.
Come secondo criterio della verità Epicuro pone le cosiddette anticipazioni o prenozioni, non altro che rappresentazioni mentali delle cose, concetti materiali risultanti dal ripetersi delle medesime percezioni e dalla loro conservazione nella memoria. Esse rimangono nella mente come un'impronta delle sensazioni passate e ci permettono di riconoscere in anticipo forme e caratteri delle cose senza bisogno di un contatto diretto; precedono e condizionano ogni forma di riflessione, di ragionamento e in genere ogni attività razionale. Ad esse fanno riferimento i nomi.
Come terzo criterio di verità Epicuro considera i sentimenti di piacere e di dolore, che sono oggettivi per le stesse ragioni per cui sono oggettive le sensazioni. Oltre a discriminare il vero dal falso, essi costituiscono il criterio assiolgico per discernere il valore dal disvalore, il bene dal male, e, quindi, costituiscono l'essenziale criterio di scelta.
Essendo poi il ragionare fondamentalmente operazione di mediazione, nasce
l'opinione, che può anche essere falsa. Sono pertanto vere le opinioni che
ricevono attestazione da parte della sensazione, mentre sono false quelle che
dalla stessa sensazione ricevono attestazione contraria.
L'evidenza è evidenza empirica, del tutto ristretta al campo sensuale del
contatto; ci sarebbe da chiedersi sulla base di quale sensazione Epicuro possa
veritativamente parlare di atomi, visto che essi non cadono, in quanto tali
sotto il dominio dei sensi, ma sono il frutto di un'inferenza e di un'opinione
che non può ricevere una conferma sensitiva; ma Epicuro fonda la sua fisica
proprio sul concetto di atomo.
La fisica
Il sistema atomistico è recepito in pieno da Epicuro.
Il tutto, cioè la totalità del reale, è determinato da due costitutivi
essenziali: i corpi e il vuoto. L'esistenza dei corpi è provata dai sensi,
mentre l'esistenza dello spazio vuoto (natura intangibile) è inferita dal fatto
che esiste il movimento. Il tutto è infinito.
I corpi sono, alcuni composti, altri, invece semplici e assolutamente
indivisibili (atomi). Questi ultimi sono originari; la generazione e la
corruzione dei corpi composti avviene sulla base dell'esistenza incorruttibile
degli atomi materiali.
Il vuoto, ovviamente, è natura intangibile e non ha le caratteristiche degli
atomi; non ha capacità di agire.
Gli atomi sono dinamici, cioè si muovono naturalmente verso il basso, in caduta libera; non si muovono, tuttavia, di moto rettilineo, altrimenti non si scontrerebbero mai e non darebbero luogo alle cose, bensì declinano un tantino nella loro traiettoria in modo tale che, dagli urti e dai rimbalzi, risulti il divenire del tutto fortuito e casuale delle cose che si aggregano e si disgregano. La Necessità di tipo stoico è espressamente negata: non c'è alcun logos, alcun disegno di sottofondo a governare il divenire del mondo.
I mondi sono infiniti nell'infinitudine dello spazio e infinitamente
successivi l'uno dopo l'altro nell'infinita successione temporale.
L'anima, come tutte le altre cose, è un aggregato di atomi, i quali, tuttavia,
sono ignei e aeriformi per la parte irrazionale e semplicemente “diversi per
sottigliezza” per la parte razionale. L'anima è, pertanto, mortale:
l'incorporeo, per Epicuro, è infatti soltanto il vuoto. Data la struttura
dell'anima, quindi, si spiega la formazione delle immagini derivanti dalle
sensazioni, come strutture di atomi psichici che rimangono impressionate dal
contatto con le cose.
Anche gli Dei sono materiali e fatti di atomi, abitano gli “intermondi” cioè gli
spazi vuoti tra mondo e mondo, godono di una vita fondata sull'amicizia (di cui
la vita nel Giardino è un tentativo di emulazione) e, ciò che più importa sotto
il profilo etico, sono del tutto indifferenti alla vita umana e a quanto accade
nei mondi.
L'etica
Il fondamento dell'etica è il piacere (edoné); l'etica epicurea è
un'etica edonistica ed individualistica.
Coerentemente con i principi della fisica, alla materialità dell'uomo
corrisponde la materialità del bene: bene e male coincidono con piacere e
dolore. Per Epicuro il piacere in quanto piacere è il valore, il bene e il fine.
Il piacere può essere:
- stabile (catastematico);
- in movimento.
Il vero piacere è quello nella prima forma, cioè quello naturale, proprio della
natura, che si presenta come assenza di dolore.
La posizione di Epicuro implica che il piacere non possa mai essere, di
necessità, un male, perché male è soltanto il dolore. Ora, si deve considerare
che numerosi piaceri (del secondo tipo) arrecano dolori o nei mezzi necessari
per procurarseli oppure negli effetti “collaterali” che essi producono. Quindi,
visto che il vero piacere consiste nella aponía (mancanza di fatica e di sofferenza) ci dovrà essere un criterio capace di
regolamentare la fruizione del piacere stesso in modo da evitare la cessazione
della felicità. Il criterio è, naturalmente la ragione, che si presenta sotto la
forma della saggezza, cioè del calcolo ragionato e della commisurazione dei
piaceri.
La saggezza (phrónesis) è la virtù suprema; consiste nel sapersi
accontentare nella soddisfazione piena del primo tipo di piaceri (naturali e
necessari) e nella limitazione dei secondi (naturali e non necessari). Mai, poi,
si dovrà cedere ai piaceri innaturali e non necessari. Epicuro, in tal senso,
manifesta una presa di posizione quasi ascetica di fronte alla svariata
molteplicità dei piaceri.
L'edonismo individualistico epicureo porta a una stima dell'amicizia, bene (in quanto piacere) essenziale alla vita felice, e alla più completa disistima della vita politica: la carriera politica, infatti è immediatamente una gara e l'antagonismo produce sofferenza. L'ideale epicureo è quello di vivere nel nascondimento, lontano dal contatto con il potere, con l'ambizione, con la fama e con la gloria.
lo stoicismo
Zenone cizico e la fondazione della scuola Stoica
Nel 311/312 a. C. giunse ad Atene, dall'isola di Cipro, un giovane semita,
con l'intento di prendere contatto con le fonti della cultura ellenica e di
dedicarsi alla filosofia. Era Zenone, nato a Cizio (Cipro), il cui padre,
commerciante che si recava spesso Atene, gli aveva portato un giorno alcuni
scritti di ispirazione socratica.
In Atene fu soprattutto Cratete, discepolo di Diogene il Cinico, ad esercitare
su Zenone l'influsso più significativo, offrendogli l'esempio pratico di una
vita filosofica.
Discepolo anche di Senocrate e Polemone, filosofi platonici, rifiutò però le
implicazioni della scoperta metafisica platonica (la “seconda navigazione”),
anche nella versione aristotelica, finendo per considerare le idee
esclusivamente come pensieri interni alla mente umana.
La tripartizione della filosofia. La logica
Oltre a negare l'esistenza di Idee intelligibili trascendenti, negò anche
l'esistenza di un'anima spirituale per natura diversa dal corpo e anche di
Intelligenze immateriali e trascendenti (Demiurgo platonico o Motore immobile
aristotelico). Per Zenone l'anima è fuoco che consente di respirare e di
muoversi, un soffio che, col tempo, si dissolve nel tutto.
Anche Dio, per Zenone, è corporeo, è fuoco eterno; si tratta di una
riformulazione dell'antica dottrina eraclitea del fuoco logico. Per Zenone la
natura è un fuoco artefice, un soffio igneo creatore, è un vero artista, che
provvede e predispone tutto ciò che può essere di utilità e di vantaggio, una
“mente nel mondo”, saggia e provvidente (quantunque materiale).
Zenone non era cittadino ateniese e, pertanto, non aveva diritto di acquistare un edificio in città; per questo motivo tenne le proprie lezioni presso un Portico, che era stato dipinto dal celebre pittore Polignoto. Da ciò la nuova Scuola ebbe il nome di Stoá (= portico) e i suoi seguaci furono detti “quelli del Portico” oppure semplicemente “Stoici”.
Si devono distinguere tre momenti nello sviluppo
della filosofia stoica:
1) Antica Stoá: Zenone, Cleante, Crisippo (IV-III secolo
a. C.);
2) Media Stoá: con
infiltrazioni eclettiche (II-I secolo a. C.);
3) Nuova Stoá: in Roma durante la
diffusione del cristianesimo, con toni e inflessioni spiccatamente morali e
religiose.
Anche Zenone e la Stoá accettarono la tripartizione della filosofia stabilita dall'Accademia. L'intero della filosofia è paragonato dagli stoici ad un frutteto, in cui la logica corrisponde al muro di cinta che delimita l'ambito e lo protegge, gli alberi rappresentano la fisica, perché sono come la struttura fondamentale, ciò senza cui non ci sarebbe il frutteto, infine i frutti, che sono ciò a cui mira tutto l'impianto, rappresentano l'etica.
La logica stoica
Mentre dal punto di vista assiologico il primato nella gerarchia del sapere
tocca all'etica, così come, dal punto di vista ontologico, tocca alla fisica,
metodologicamente parlando il primo posto spetta alla logica.
Più degli Epicurei, gli Stoici sono fermamente convinti che l'uomo abbia la
possibilità di raggiungere la certezza e la verità assolute, e che la pace dello
spirito possa discendere solamente dal raggiungimento e dal possesso pieno di
esse. Lo Stoico sente di essere nella verità, proclama di essere in grado di
dimostrarlo logicamente.
L'anima è originariamente “tabula rasa”, come un foglio di carta pulita. Il momento iniziale della conoscenza è costituito dall'impressione provocata dagli oggetti sui nostri organi sensoriali. L'impressione, tuttavia, non è criterio di verità, finché non diviene rappresentazione nella forma catalettica o comprensiva, che richiede un assenso dettato dal lógos che costituisce la stessa anima. Soltanto con l'assenso si dà l'apprensione che è criterio di verità.
Dalla sensazione si passa all'intellezione in primo luogo con un'operazione
immediata, dalla sensazione particolare fino alla nozione generale, in secondo
luogo attraverso un passaggio mediato, per associazione, combinazione, divisione
di queste nozioni generali.
Gli Stoici ammisero, oltre alle cose esistenti e alle parole significanti, anche
i contenuti di pensiero, le rappresentazioni mentali, privi della caratteristica
della corporeità, propria, per gli Stoici di tutte le cose. Tale incorporeità,
tuttavia, non è da intendere in senso spiritualistico, ma nel senso negativo
della mancanza di quella caratteristica che è tipica della realtà e dell'essere,
cioè della corporeità.
La dialettica (scienza del discutere) distingue al suo interno due sezioni:
lo studio scientifico della grammatica e lo studio delle forme di pensiero.
All'interno di questa seconda sezione, l'interesse si concentra sui giudizi
ipotetici e disgiuntivi, e, di conseguenza dei sillogismi disgiuntivi o
ipotetici. Crisippo cercò di individuare gli schemi fondamentali di ogni
deduzione, cui si riducono tutti i ragionamenti e ne determinò cinque, detti “anapodittici”,
in quanto evidenti di per sé:
- Se A è, anche B è; ma A è; dunque anche B è
- Se A è, anche B è; ma B non è; dunque nemmeno A è
- A e B non possono essere ad un tempo; ma A è; dunque B non è
- O A è o B è; ma A è; dunque B non è
- O A è o B è; ma B non è; dunque A è
Forse, poi, gli Stoici comprendevano tra le forme di ragionamento anche i cosiddetti “ragionamenti insolubili”, cioè paradossi, antinomie, dilemmi, sofismi. Celebri, se attribuibili ad essi, quello del mentitore, il soríte (= il mucchio), quello del calvo, quello del velato e quello del cornuto, oppure il ben più complesso dilemma del coccodrillo.
La fisica: il matrerialismo e il Lógos
La fisica della Stoá
Si tratta di una dottrina della natura in senso presocratico, vale a dire una dottrina che pretende di conoscere la totalità della realtà attraverso i suoi principi e le sue leggi fondamentali; la fisica stoica è un'ontologia (teoria sull'essere delle cose) vera e propria che presuppone l'idea dell'ordine perfetto, razionale e necessario del tutto.
Gli Stoici propongono il monismo, cioè ritengono che il tutto si risolva in un unico principio esplicativo; difendono la teleologia (l'idea che tutto accada in ragione di un fine determinato) e rinnegano il caso; ripropongono idee ilozoiste e vitaliste (tutto, anche la materia amorfa, è vivo); sostengono l'idea di un solo mondo dai limiti ben precisi; negano il vuoto e ritengono che tutto sia divisibile all'infinito; identificano Dio nel principio costitutivo del mondo e con il mondo stesso; fanno della Provvidenza (Pre-scienza, Pró-noia) un dogma fondamentale e ne celebrano l'altro volto come Destino (eimarméne).
Il materialismo stoico, dunque, si configura nettamente come monismo
panteistico (tutto è Dio e Dio è tutto e in tutto), il che implica la negazione
perentoria di qualsiasi realtà che sia puramente spirituale. L'essere, in quanto
tale, è per gli Stoici materia e corpo, senza eccezione alcuna.
“Corpo” è però una realtà complessa, fatta di principio passivo e di principio
attivo, di materia e di Dio (oppure lógos,
natura, forma, ecc.). Tali principi sono logicamente distinguibili nel corpo, ma
non ontologicamente divisibili, nel senso che non si danno mai separatamente
l'uno dall'altro. Dio penetra la realtà tutta e vi si identifica; Dio è in tutto
e Dio è tutto.
L'incorporeo, invece, può soltanto consistere nel significante, visto nella
logica, e in alcuni fenomeni relativi al corpo: lo spazio, risultato
dell'esserci dei corpi, il tempo, risultato del muoversi dei corpi, e del vacuo
concepito come l'effetto dell'assenza dei corpi.
La Natura, dunque, è materia e nel contempo ciò che dà forma alla materia; il Dio stoico è Lógos, cioè principio di intelligenza e di razionalità; il Lógos è fuoco artefice, alito infuocato che tutto quanto penetra e trasforma, principio del divenire universale.
La conseguenza di ciò è che, se tutte le cose senza eccezione sono prodotte dal
principio divino immanente, che è il lógos,
intelligenza e ragione, tutto è rigorosamente e profondamente razionale, tutto è
come la ragione vuole che sia e come non può non volere che sia, tutto è come
deve essere e come è bene che sia, in un insieme assolutamente perfetto.
Tutto, dunque, è pre-visto, tutto è provvidenziale (naturalmente la provvidenza
stoica nulla ha a che vedere con la Provvidenza cristiana); ogni cosa ha la sua
perfetta destinazione grazie alla pre-visione razionale di tutto da parte del
Dio-materia. Se ciò, tuttavia, vale nella prospettiva di Dio, sul versante
dello sguardo umano la stessa destinazione di tutte le cose prende il nome di
Fato, di Destino, cioè l'ineluttabile necessità per cui ogni pur minima cosa
accade, il lógos interiore di ogni
realtà. Tutto è necessario, inevitabile e buono, perché così deve essere, senza
eccezione.
È peraltro chiaro che, entro una prospettiva del genere, la libertà dell'uomo
si riduce alla semplice eventualità dell'assenso, il dire di sì alle cose che
accadono così come accadono. L'accadere nel suo complesso, poi, si sviluppa
secondo un rigidissimo determinismo che conduce il mondo, ciclicamente, da un
inizio ad un altro inizio, attraverso fasi di conflagrazioni (combustioni)
universali, nel gioco ritmico delle palingenesi (rinascite) e delle apocatastasi
(ricostituzioni di tutto, fino nei minimi particolari).
Il divenire del mondo, “animato” dall'alito caldo del lógos,
avviene tramite le ragioni seminali di tutte le cose sparse uniformemente nel
tutto, una sorta di codice genetico di ogni cosa che agisce quando si creano le
condizioni sufficienti al suo attuarsi.
In questo quadro l'uomo singolo partecipa più di ogni altra cosa al lógos divino tramite la sua anima (materiale) che si qualifica come una scintilla del
fuoco divino; l'anima permea tutto intero l'organismo fisico, vivificandolo. Gli
Stoici vi distinguono otto parti: l'egemonico, ossia la parte che dirige l'uomo
e che coincide essenzialmente con la ragione, i cinque sensi esterni, la parte
che presiede alla fonazione e, infine quella che presiede alla generazione.
Alla morte del corpo fisico l'anima viene riassorbito dal lógos stesso e può godere, quindi, di una certa sopravvivenza, benché confusa nella
razionalità universale. Il saggio, pertanto, continua a vivere impersonalmente
nell'ordine necessario di ogni cosa, essendovisi perfettamente adeguato.
L'etica stoica: necessità, virtù e felicità
L'etica
Il fondamento dell'etica è ovviamente il lógos,
che si esprime nel principio di conservazione, cioè in quella naturale (e
razionale) tendenza primigenia che tutte le cose hanno di conservarsi, in
ragione, però non di sé stesse in quanto individui, ma di appartenenti a una
determinata specie.
Lo scopo del vivere umano, quindi, è la felicità, come il modo migliore della
conservazione di sé. Istinto e ragione sono i principi motori di tutto ciò che è
fatto in funzione della felicità.
Vivere secondo natura significa allora vivere realizzando pienamente
l'appropriazione o conciliazione del proprio essere con ciò che attua la propria
conservazione; in particolare l'uomo deve conciliarsi con il suo essere
razionale, cioè con il suo essere partecipe del Lógos del tutto.
Ora, la virtù è la perfezione di ciò che è peculiare e caratteristico
dell'essere umano, ma poiché caratteristica dell'essere umano è la ragione, la
virtù è la perfezione della ragione. Pertanto, il vivere secondo natura coincide
esattamente con il vivere secondo ragione e quindi con il vivere secondo virtù.
Siccome, infine, la virtù è l'esplicazione e l'attuazione perfetta della natura
umana, essa coincide con la felicità.
La concezione stoica della virtù ribadisce le conclusioni socratiche: se
peculiare dell'uomo è la ragione e il lógos è evidente che la virtù deve essere scienza e conoscenza, in particolare scienza
del bene e del male, cioè saggezza. Chi possiede la saggezza possiede, quindi,
tutte le virtù ed è uomo virtuoso in tutti gli ambiti; inoltre, siccome il lógos è unico, la virtù dell'uomo è anche la virtù di Dio.
Dato poi l'orizzonte necessitaristico di tutta la filosofia stoica, è chiaro che
il criterio dell'esercizio della virtù, cioè il criterio della vita morale è il
dovere. Le azioni buone, infatti, sono necessarie, quindi l'uomo buono, che
agisce secondo necessità agisce perché deve, e il dovere della sua azione si
giustifica da sé in forza del suo essere l'interpretazione della necessità
stessa.
L'azione secondo il dovere elimina ogni scopo edonistico o egoistico, tanto
da far sì che il saggio sia del tutto apatico, cioè insensibile a tutte le
inclinazioni e le passioni della vita, che si riducono a quattro: il timore dei
mali futuri e l'afflizione per i presenti, il desiderio dei beni futuri e il
piacere dei presenti.
Il saggio poi, trovandosi in condizioni particolarmente avverse all'esercizio
della virtù, giustifica (forse però incoerentemente, dal momento che anche le
condizioni avverse sono necessarie) anche il proprio suicidio.
Lo stoicismo romano
Marco Tullio Cicerone, il maggior rappresentante dell'eclettismo
filosofico romano, non offrì contributi originali, ma fu formidabile espositore, attraverso una prosa chiara e brillante, delle dottrine dei filosofi greci,
contemporanei o precedenti. Scrisse diversi trattati, tra cui La natura degli
dei, I doveri.
Lucio Anneo Seneca, spagnolo, approfondisce il versante religioso della
filosofia, studiando particolarmente l'interiorità dell'uomo e la relazione
dell'uomo con il divino. A motivo dalla sua dottrina della fratellanza
universale si creò su di lui la leggenda di una sua conversione al
cristianesimo, suffragata, nella tradizione, da un carteggio apocrifo con S.
Paolo apostolo. Morì per ordine di Nerone. Quanto all'anima, ripete concezioni
platoniche; afferma poi l'interiorità di Dio all'uomo.
Epitteto, schiavo di Epafrodito, liberto di Nerone, fu filosofo. Ci ha
lasciato un Manuale, cioè uno strumento sempre a portata di mano per
risolvere le questioni importanti della vita. Anche Epitteto approfondisce la
dimensione religiosa.
Lo Scetticismo
Più che di una scuola, si tratta di un'impostazione del pensiero, apertosi ad
una ricerca (sképsis) senza fine in conseguenza della constatata relatività di
tutte le umane convinzioni.
Lo “scettico” non è colui che diffida di tutto, che non crede, come siamo
abituati a pensare, ma colui che non ritiene di poter affermare nulla di
definitivo, stante la possibilità, per ogni conclusione, di essere messa in
discussione e ulteriormente discussa, in vista di un risultato infinitamente più
profondo.
L'atteggiamento scettico, dunque, è quello della sospensione del giudizio (epoché).
Lo scettico non mette in discussione la realtà, ma qualsiasi teoria sulla
realtà, cioè non l'oggetto in se stesso, ma quanto sull'oggetto si pretenda di
affermare con convinzione di veridicità.
Ciò, d'altronde, comporta la tendenza ad elevare a sistema il relativismo,
facendolo diventare strumento di irrisione e di sistematico smantellamento di
qualsiasi persuasione consolidata, fino al parossismo.
Dal momento poi che lo scetticismo, possibile al livello della teoria, risulta
impraticabile nella vita quotidiana, lo scettico si atteggia a ironica
indifferenza verso qualsiasi aspetto del fare.
Il neoplatonismo come sistema emanazionistico
IL SISTEMA NEOPLATONICO
Tra secondo e terzo secolo d. C., costituisce l'ultima manifestazione del
platonismo nel mondo antico.
Riassume e porta alla formulazione sistematica le
tendenze e gli indirizzi che si erano manifestati nella filosofia greca e
alessandrina dell'ultimo periodo. Elementi pitagorici, aristotelici, stoici
vengono fusi con il platonismo in una vasta sintesi, nata come filosofia pagana
in concorrenza con il cristianesimo e poi divenuta, quasi paradossalmente, il
modulo fondamentale della teologia cristiana per tutto il medioevo fino all'età
moderna.
Fondato da Ammonio Sacca (175-242), che insegnò senza lasciare scritti
in Alessandria d'Egitto, il Neoplatonismo trovò la sua massima espressione
sistematica nel pensiero di Plotino, stabilitosi a Roma e morto in Campania
verso il 270, e nell'opera di Porfirio, il discepolo di Plotino che ne ha
organizzato ed edito l'opera nelle Enneadi.
Il Neoplatonismo può dirsi la
filosofia dell'emanazione; è il sistema emenazionista. Per emanazionismo si
intende la dottrina che vuole l'origine del mondo in un eterno flusso
dell'essere dall'Uno originario, antecedente l'essere e suprema fonte nonché
fine ultimo di tutte le cose.
PLOTINO
Dai molti all'Uno
La molteplicità delle cose è per Plotino indiscutibile, ma a loro
fondamento egli pone, come condizione, l'unità. Ogni cosa, infatti, anche se
appartenente a una molteplicità di oggetti o costituita da una molteplicità di
parti, è comunque riconducibile, in quanto “quella cosa”, alla propria unità
di fondo, suo principio di intelligibilità. Anche un mucchio di sassi,
infatti, in quanto mucchio è un mucchio di sassi, cioè trova la propria
identificazione nel suo essere uno.
Tolta l'unità, è tolto lo stesso essere dell'ente. Qualsiasi realtà, dunque, è
in quanto è una realtà.
L'unità degli esseri, naturalmente, è distribuita secondo una gradualità
crescente fino all'Uno assoluto, l'Uno primo, totale, in sé, da cui tutto
deriva come dalla radice fondamentale.
Secondo Platone e Aristotele il principio ultimo della realtà erano l'essenza (l'idea o la ousía) e l'intelligenza (il Demiurgo o il Motore immobile); per Plotino, invece, il principio è ancora ulteriore, è l'Uno, il quale è al di là dell'essere e dell'essenza e al di là dell'intelligenza, è principio assoluto.
I caratteri dell'Uno plotiniano
I caratteri dell'Uno
La caratteristica fondamentale dell'Uno è l'infinitudine; l'infinito è
inteso come illimitata, inesauribile, immateriale potenza produttrice,
infinita spirituale energia creatrice.
Ciò comporta che l'Uno non potrà essere considerato né idea, né forma o
essenza, perché tali concetti implicano il significato di limite, cioè
di delimitazione (essenziale o formale) delle cose; ma non potrà essere
neppure la suprema intelligenza autopensantesi eterna e separata. L'Uno
plotiniano deve trascendere ogni forma di finitezza.
Di conseguenza, allora, Plotino tende a dare dell'Uno connotazioni
prevalentemente negative, perché, in quanto infinito, non gli competono le
determinazioni del finito, che sono tutte posteriori rispetto ad esso. L'Uno è ineffabile (cioè indicibile, indescrivibile, irriducibile a qualsiasi
significato finito).
Quando invece Plotino riferisce all'Uno caratterizzazioni positive, usa un
linguaggio chiaramente analogico.
L'uno, dunque, non significa un particolare uno, ma l'Uno in sé, la
causa e ragion d'essere dell'unità di tutte le altre cose. L'Uno significa
l'assolutamente semplice, ragion d'essere del complesso e del molteplice. La
semplicità dell'Uno, tuttavia, non è povertà, ma infinita ricchezza, come
infinita potenza: l'Uno è potenza di tutte le cose.
L'altro termine che Plotino usa di frequente per designare il Principio
assoluto è il Bene. Non, naturalmente un particolare bene, ma il Bene
in sé, quindi non ciò che ha bene in qualche misura, ma ciò che è il bene, ed
è il bene per tutte le altre cose. Si tratta, quindi del Bene assolutamente
trascendente.
L'Uno, dunque, è al di sopra dell'essere, al di sopra del pensiero e anche
al di sopra della vita. Ciò non significa il non-essere, ma il principio
infinito da cui derivano l'essere, il pensiero e la vita.
L'Uno è la ragion d'essere di tutto ciò che ad esso segue; è attività
autoproduttrice. In esso volontà ed atto coincidono con l'essere; è il
supremo positivo, vuole essere quello che è, perché è quanto di più alto vi
sia.
Da ciò deriva che il principio supremo sia anche non solo amabile, ma anche amore, amore di sé stesso. Dunque l'Uno è attività autoproduttrice, assoluta libertà creatrice, causa di sé, ciò che esiste da sé e per sé; è il “trascendente se stesso”.
La derivazione del molteplice dall'Uno
Il problema della realtà molteplice si pone per Plotino sotto due diversi
aspetti:
- perché dall'Uno derivano i molti?
- come avviene tale derivazione?
Per rispondere, Plotino si avvale di immagini splendide, che, tuttavia, in
quanto immagini, rimangono comunque entro un certo margine di ambiguità.
La derivazione delle cose dall'Uno, ad esempio, è rappresentata come
l'irraggiarsi di una luce da una fonte luminosa in forma di cerchi successivi,
via via digradanti in luminosità, mentre la fonte stessa della luce persevera
senza impoverirsi pur nel suo espandersi tutto intorno.
Altrimenti, l'Uno è rappresentato come il fuoco che emana calore, come la
sostanza odorosa che profuma, il vivente che, giunto a maturità, genera.
Altre celebri metafore plotiniane sono quelle della sorgente inesauribile che
genera da sé innumerevoli fiumi o quella dell'albero gigantesco che trae
la linfa dal suo radicamento.
Le attività dell'Uno e le ipostasi
Da tutte le immagini si ricava che il principio (l'Uno) rimane e,
rimanendo, genera, nel senso che il suo generare non lo impoverisce, non lo
menoma, non lo condiziona. Ciò che è generato, poi, è inferiore al generatore,
e non serve ad esso; è il generato che abbisogna del generante, non viceversa.
La realtà tutta promana dall'Uno, attraverso un flusso necessario ed eterno,
un inarrestabile fluire d'essere dal principio.
Le attività dell'Uno
Plotino distingue due tipi differenti di attività dell'Uno:
- l'attività dell'Uno;
- l'attività che deriva dall'Uno.
La prima è attività immanente all'Uno, la seconda ne fuoriesce, dirigendosi
all'esterno; la prima consiste nel “rimanere” tale, la seconda nel “procedere”
o derivare delle cose.
Ora, l'attività dell'Uno consiste nel suo voler essere ciò che è, mentre
l'attività che procede dall'Uno consegue necessariamente alla prima; la
seconda, dunque, costituisce una “necessità voluta”, ossia una necessità posta
da un atto libero che la necessita.
Le ipostasi
La processione (emanazione) della realtà dall'Uno si articola secondo tre stadi,
chiamati ipostasi (realtà sostanziali per sé sussistenti):
- l'Uno;
- l'Intelletto (o Spirito);
- l'Anima.
Le generazione delle ipostasi successive all'Uno implica, oltre alle due attività viste sopra (dell'ente e dall'ente), una terza attività, il “rivolgersi” al principio superiore da cui ciascuna ipostasi deriva per guardarlo e per contemplarlo.
L'Intelletto come cosmo intelligibile
La seconda ipostasi, l'Intelletto, si determina e diviene mondo
delle forme rivolgendosi all'Uno, guardando e contemplando l'Uno da cui deriva
per emanazione e fecondandosi e riempiendosi di Esso. La nascita della seconda
ipostasi, pertanto, è nascita di un molteplice, di una molteplicità
intelligibile, di un mondo di idee; tale molteplicità si spiega per
l'incapacità da parte della seconda ipostasi di cogliere l'Uno nella sua
integralità infinita, e per la conseguente necessità di guardarlo per infinite
prospettive, per angoli visuali differenti.
L'Intelletto o Spirito, infatti, non pensa direttamente l'Uno, ma pensa se
medesimo riempito e fecondato dall'Uno, vede sé come molteplice.
L'Anima e la produzione del sensibile
L'Uno è “potenza” di tutte le cose, l'Intelletto o Spirito è, a sua volta,
“tutte le cose”. Lo Spirito è intima e inscindibile unione di Essere,
Pensiero, Intelligibile e Intelligenza. Lo Spirito è anche Vita, non
necessariamente fisica, ma spirituale, extratemporale.
L'Intelletto o Spirito, infine, è cosmo intelligibile, suprema armonia,
bellezza insuperabile ed assoluta; infinita varietà.
La terza ipostasi, l'Anima, deriva dalla seconda come la seconda
dalla prima, cioè in virtù dell'attività dall'ente di cui si diceva
sopra. Analogamente all'Intelletto, anche l'Anima diviene tale nell'atto di
rivolgersi al suo principio, l'Intelletto, appunto, per contemplarlo.
Attraverso lo Spirito medesimo l'Anima vede il Bene, cioè l'Uno, e proprio per
questo ottiene il fondamento della propria realtà.
L'essenza dell'anima consiste nel produrre e nel dar vita a tutte le altre
cose che sono (ossia le realtà sensibili), nell'ordinarle e nel governarle.
L'Anima costituisce il momento estremo nel processo di espansione
dell'infinita potenza dell'Uno, è l'ipostasi che genera il mondo come ultimo
dono di sé, dando manifestazione alla dimensione del sensibile.
La posizione intermedia dell'Anima
L'Anima, quindi, è l'ultima dea, cioè l'ultimo livello (il più basso) del
divino, ed ha due volti, orientati l'uno verso l'alto, cioè verso
l'incorporeo, l'altro verso il basso, cioè verso il corporeo.
Nel generare il corporeo, pur continuando ad essere e a permanere realtà
incorporea le accade di avere rapporti con il corporeo prodotto e, quindi, di
assumerne anche le caratteristiche, benché in modo puramente intelligibile.
Indivisibile di per se stessa, essa diviene divisibile e divisa nei corpi,
entrandovi in tutte le parti. L'Anima è dunque divisa e indivisa, una e
molteplice in quanto regge e governa il mondo sensibile da lei prodotto.
La molteplicità dell'Anima si manifesta anche in una gerarchia sussistente nel
proprio intimo; l'Anima è:
- l'Anima universale, cioè la terza ipostasi intelligibile;
- l'Anima del Tutto, o Anima del mondo sensibile, che regge e governa il
corporeo senza lasciarsi compromettere da esso;
- le anime particolari, che presiedono ai singoli corpi, in quanto frutto
della discesa dell'Anima nel corporeo ove la differenziazione è d'obbligo.
L'Anima del mondo è quella deputata alla generazione dell'Universo fisico; essa, tuttavia, rimane perennemente nel mondo intelligibile accanto allo Spirito. Il lembo estremo, l'orlo di quest'anima (è un'immagine di Plotino) costituisce la physis, la natura, che è attività accompagnata dalla ragione e derivante da ragione, non produzione cieca e irrazionale.
La materia come soglia del male
La processione della materia
Dopo l'Anima, al di sotto di essa, si estende il mondo del corporeo e del
sensibile, ossia l'universo fisico.
Come e perché dall'Uno incorporeo è derivato, oltre il molteplice incorporeo,
anche il mondo corporeo?
Anche nel mondo incorporeo esiste una materia, ma a livello del tutto
intelligibile, come pensiero. Tutto ciò che deriva dall'Uno, infatti, deriva a
titolo di potenza che, rivolgendosi all'Uno stesso, si realizza prima come
Intelletto e, in secondo luogo, come Anima.
Caratteristica di ogni materia è quella di essere indefinita, indeterminata,
illimitata. La materia sensibile è un'immagine di quella intelligibile, che
deriva dall'intelligibile come estrema tappa attraverso un progressivo
indebolimento dell'impulso primigenio, che rasenta ora la soglia del nulla. La
materia sensibile diventa, così, esaurimento totale, privazione estrema della
potenza dell'Uno, privazione del Bene.
In questo senso essa diventa soglia del male, non come forza
positivamente opposta al bene, ma come, semplicemente, rarefazione estrema,
definitiva assenza, estremo svanire del Bene.
La materia volge verso il non-essere, perde ciò che è proprio del mondo
dell'essere e dell'intelligibile. Essa non ha più la forza di volgersi verso
il principio generante e di contemplare a sua volta, tanto che tocca alla
stessa Anima il compito di reggerla e di governarla, in quanto da sé sola è
incapace di qualsiasi organizzazione.
La processione della materia e il male
La configurazione del mondo fisico e la temporalità
In un primo tempo è posta la materia dall'Anima, successivamente l'Anima stessa dà forma a questa materia, squarciando l'oscurità da cui essa è caratterizzata e ricuperandola alla luce dell'intelligibilità. La prima operazione deriva dal fatto che l'Anima vede affievolirsi il proprio anelito all'Uno, la seconda da una sorta di riscossa di di questo stesso anelito, per cui essa dà forma alla materia. Le idee, che costituiscono l'Essere e lo Spirito, sono contemplate e pensate dall'Anima come Forme e sono poi, calate nel mondo fisico come determinazione razionale.
Il passaggio dal mondo intelligibile al mondo sensibile comporta il passaggio dall'essere al divenire, dall'eternità alla temporalità. La temporalità coincide con l'attività stessa con cui l'Anima crea il mondo fisico. L'eternità è vita senza mutamento, vita tutta simultaneamente presente; ma l'Anima, per una sorta di “desiderio di appartenere a se stessa”, non appagata dalla visione del tutto simultaneo nella dimensione dell'eternità, avanza e si distende in un prolungamento di atti seriali che si succedono l'un l'altro e ordina in successione di prima e di poi ciò che era tutto insieme e simultaneo. L'Anima temporalizza il proprio prodotto, cosicché il mondo è strutturalmente immerso nel tempo, benché dall'eternità, in quanto il processo di temporalizzazione avviene da sempre.
L'epistrophé, il ritorno all'Uno
Il “ritorno” all'Uno attraverso l'uomo
In alternativa al Cristianesimo, che propone il teorema della creazione, il Neoplatonismo propone l'emanazione; parallelamente, in alternativa alla redenzione operata dal Cristo, propone l'epistrophé, cioè il ritorno all'Uno operato attraverso l'uomo.
L'uomo non nasce al momento in cui sorge il mondo corporeo, ma preesiste ad esso, sia pure in una condizione diversa, cioè allo stato di pura anima (in accordo con le tesi platoniche). Le anime degli uomini erano, in quella condizione, associate all'Anima universale e pertanto conoscevano intuitivamente e simultaneamente la totalità delle cose dello Spirito e, attraverso di esso, il Bene in sé.
Secondo la “norma” della processione del mondo, tuttavia, l'Anima deve
esplicare tutte le proprie possibilità, anche attraverso le cose particolare
e, quindi anche attraverso i viventi particolari, tra cui, oltre gli animali
bruti, c'è anche l'uomo. La discesa dell'anima nel corpo, quindi, non è
volontaria (e dunque non può addebitarsi a una colpa).
Nel contempo, tuttavia, Plotino non può non ammettere che dimorare presso lo
Spirito era meglio che scendere nei pressi della materia, il che, pertanto,
costituisce un peggioramento della condizione dell'uomo e quindi un male
(dovuto a una forma di temerarietà e dunque, in certo modo, a una colpa).
Questa colpa/non-colpa è dunque da un lato una “voglia di appartenersi” da
parte dell'anima, quasi una forma di narcisismo di essa, dall'altro un
chiudersi nell'individualità attraverso l'eccesso di cura per il corpo
acquisito, che sia accompagna all'allontanamento dall'Origine unitaria per
mettersi al servizio della divisione e della differenza. Proprio in ciò
consiste, secondo Plotino, il male dell'anima, che le fa dimenticare la
propria origine nell'uno e la fa disperdere nel molteplice sulla soglia del
non essere.
L'uomo e la via del ritorno all'Uno. Cristianesimo e filosofia
Tale colpa, non può tuttavia cancellare per intero la memoria della
condizione originaria. Laddove, infatti, nell'al di là l'anima tende a
lasciare cadere i ricordi legati al corporeo e al temporale, nell'al di qua
l'anamnesi delle cose superne non può mai interamente oscurarsi.
Attraverso l'attività più alta, in cui consiste la libertà, l'anima pone la
propria forza operante sulla scia dello Spirito e nell'agire di conseguenza,
secondo quei modi che la portano a unirsi allo Spirito e all'Uno-Bene stesso.
La libertà dell'uomo, pertanto, è sempre e solo la libertà dell'anima che
vuole e cerca di raggiungere il Bene, il che accade nella misura della sua
capacità di distacco dal corporeo e dal materiale.
Per Plotino la felicità è attingibile già in questa vita, nella misura del
distacco dal corpo; il percorso da compiere verso la felicità passa attraverso
le virtù civili (giustizia, saggezza, temperanza e fortezza), semplice punto
di partenza o condizione di possibilità per l'assimilazione a Dio, e in
seconda istanza attraverso l'erotica (arte e amore) e la dialettica
(filosofia).
In quest'ultimo ambito, che consiste essenzialmente nella contemplazione e
nella fruizione della bellezza, l'anima muove dal bello e, superandone la
dimensione sensibile, progredisce lungo i suoi gradi incorporei fino a
diventare essa stessa perfettamente bella identificandosi con il Bello
assoluto (lo Spirito) e con il principio stesso del Bello (il Bene o l'Uno).
L'estasi
La via del ritorno all'Uno, dunque, ripercorre a ritroso la processione o
emanazione proprio attraverso quell'anima che rasenta il nulla attraverso la
sua condizione fisica e mondana. Il ricongiungimento all'Uno, dunque, consiste
nella sottrazione di ogni differenziazione e alterità, ossia in una sorta di
“semplificazione” (áplosis).
Spogliarsi di ogni alterità significa, per l'uomo, rientrare in se medesimo,
nell'intimo della propria anima, distaccarsi dal corporeo e dal corpo e da
tutto quanto ad esso inerisce, anche dalla parola e dalla ragione discorsiva,
perfino dalla conoscenza riflessa.
Icasticamente, il percorso plotiniano si riduce all'imperativo: «spogliati di
tutto!», il che significa il fare ritorno da parte dell'anima a se stessa,
trovando l'aggancio all'Uno, all'essere di tutte le cose.
Lo spogliamento conduce l'anima alla pienezza e al contatto con l'assoluto, vivibile, ma poi non esprimibile, in uno stato di estasi (ékstasis, cioè lo “star fuori di sé”), compresenza, intima unione con il contemplato (l'Uno), assolutamente priva si qualsiasi differenziazione da esso, uno stato di iper-coscienza in cui l'anima vede sè in Dio, riempita dell'Uno e assimilata a Lui.
Agostino Aurelio: la vita e la conversione. Le tematiche
la filosofia patristica
Il Cristianesimo
Propriamente parlando, il Cristianesimo non è la Religione cristiana, che ne è l'espressione socio-culturale.
Il Cristianesimo è la fede professa nella divinità di Gesù di Nazaret
riconosciuto come Cristo (Christós,
unto di Dio, consacrato) e Figlio di Dio in base alle testimonianze storiche
sulle circostanze della sua risurrezione; quest'ultima è un fatto in sé metastorico,
soggetto, appunto, alla fede e non suscettibile di verifica sperimentale o di
conoscenza razionale.
La fede professa cristiana consiste nella sequela, cioè nell'itinerario pratico
(prima ancora che dottrinale) di assimilazione al Cristo, che ogni iniziato
(battezzato) è sollecitato a compiere (dalla predicazione) sulle orme del
Maestro. La fede cristiana è una fede personale, cioè fede nella persona del
Cristo, consiste nell'assimilazione a lui; non è una fede dottrinale, se non in seconda istanza.
La condizione rivelata del cristiano è quella dell'uomo redento e associato,
attraverso il battesimo, alla vita e all'eredità divina, in quanto affratellato
adottivamente al Figlio stesso di Dio.
Cristianesimo e filosofia
Il Cristianesimo non è una filosofia.
Il Cristianesimo, diffuso nella cultura greco-romana ellenistica a partire dalla fine del I secolo, produsse raggurdevoli effetti nello sviluppo della filosofia, non a partire dalle proprie istanze (cioè dall'esplicito contenuto del messaggio testamentario), ma in conseguenza della conversione di intellettuali e filosofi i quali, sospinti dalle esigenze proprie della loro professione filosofica, sentirono il bisogno di trovare una via interpretativa analoga alla filosofia per riesprimere i contenuti della rivelazione in linguaggio filosofico.
Dallo sforzo ermeneutico di tali filosofi, educati prevalentemente secondo i canoni del platonismo (nelle sue ramificate inflessioni), nacque la cosiddetta filosofia Patristica, cioè la filosofia dei Padri della Chiesa, una filosofia che per circa tre secoli, dal I al IV, si è espressa in lingua greca e in lingua latina, gettando le basi della più tarda teologia cristiana.
AGOSTINO AURELIO
Vita vissuta e filosofia sono, in Agostino, intimamente connesse; ciò è bene
espresso nell'opera che descrive il suo itinerario spirituale, le Confessioni.
Egli è determinato nel voler conoscere nient'altro che l'anima e Dio: l'uomo
interiore, l'io nella semplicità e verità della sua natura, e l'essere nella sua
trascendenza, senza il quale non è possibile riconoscere la verità dell'io.
Nacque a Tagaste, nell'odierna Algeria, nel 354.
Figlio di Patrizio, un piccolo proprietario terriero, e di Monica, fervente
cristiana, compì gli studi letterari a Madaura, Tagaste e Cartagine, studi che
perfezionò da autodidatta leggendo molti classici, in primo luogo Cicerone.
Recatosi a Roma e poi a Milano, dove aveva ottenuto la cattedra municipale di
retorica, maturò la conversione al cristianesimo, che compì all'età di trentatré
anni al termine di un itinerario di ricerca intellettuale e religiosa iniziato a
diciannove anni, quando la lettura dell'Ortensio ciceroniano (opera oggi
perduta) aveva risvegliato nel suo animo l'amore per la filosofia.
Durante il suo percorso di ricerca della verità, Agostino aveva abbracciato
per circa un decennio il manicheismo (una dottrina settaria nata tra
cristianesimo e gnosi per opera di Mani, nobile persiano del III sec. che
accreditò sue visioni e rivelazioni facendosi promotore di una dottrina
cosmologica dualistica), finché non rimase deluso da un incontro con il vescovo
manicheo Fausto, la cui ignoranza lo convinse della sostanziale falsità di
quella religione (383). Decise perciò di aderire al cristianesimo, religione in
cui sin dall'infanzia era stato educato dalla madre.
Non era riuscito tuttavia a superare alcune difficoltà quali la concezione quasi
esclusivamente materialistica della realtà e la ripugnanza per lo stile
disadorno della Bibbia. Gli ostacoli caddero dopo l'incontro con il vescovo di
Milano, Ambrogio, il quale fornì ad Agostino elementi per un'esegesi allegorica
della Sacra Scrittura e lo indirizzò verso la filosofia neoplatonica.
La lettura dei trattati di Plotino e di Porfirio mise Agostino in condizione di
intuire l'esistenza del mondo intelligibile e lo aiutò a guadagnare una
fondazione critica della conoscenza, superando il materialismo e lo scetticismo
accademico.
La definitiva adesione al cristianesimo, secondo il racconto delle Confessioni, avvenne per ulteriori tappe.
Dapprima l'incapacità di una vita di continenza dopo il distacco dalla donna con
la quale aveva vissuto per quattordici anni e da cui aveva avuto un figlio,
Adeodato, portò Agostino a scegliersi una nuova compagna. In seguito il racconto
fattogli da alcuni amici, della conversione di due ufficiali dell'impero, e la
scoperta della vita monastica come pratica forte della sequela cristiana,
maturarono in lui la decisione finale presa nel 386, nel giardino della sua casa
di Milano, dopo la lettura del passo biblico in cui San Paolo invita il
cristiano ad abbandonare «bagordi e ubriachezze, giacigli e lussuria» (Romani 13,13). Agostino decise di lasciare definitivamente la donna e la professione e
di farsi battezzare.
Dopo un periodo di ritiro a Cassiciacum, in Brianza, nella vigilia
pasquale del 387, Agostino ricevette il battesimo, a Milano, dalle mani di
Ambrogio.
Lo stesso anno, a Ostia, sulla strada del ritorno in Africa, morì la madre
Monica; pochi anni dopo (389) a Tagaste morì anche il figlio Adeodato.
Ordinato sacerdote nel 391, cinque anni dopo fu eletto vescovo di Ippona
(l'attuale Bona). Durante il lungo episcopato Agostino di dedicò all'attività
pastorale, soprattutto alla predicazione, alla difesa dei poveri, alla
partecipazione alla vita della Chiesa universale (colloqui, dispute, concili) e
alla stesura di numerose opere.
Tra le opere filosofiche le più importanti sono: Contro gli accademici, La musica, La vera religione, Il maestro, La quantità dell'anima, Soliloqui; tra le opere teologiche le principali sono: La dottrina cristiana, La Trinità, La città di Dio.
Ragione e Fede; conoscenza e verità
Ragione e fede
Dio e l'anima, come già accennato, sono stati i termini verso i quali si è
costantemente indirizzata la filosofia di Agostino; di fronte a tali argomenti
null'altro risulta importante e degno di considerazione: solo Dio e anima.
Dio e anima, d'altronde, sono per Agostino intimamente connessi in una
reciprocità che le rende conoscibili nel loro confronto continuo. Cercare
l'anima, cioè indagare l'intimità dell'uomo, significa nel contempo e
identicamente cercare Dio; viceversa, indagare la natura divina significa
aprirsi la possibilità di cogliere i caratteri più propri dell'anima.
L'uomo è fatto per Dio e trova quiete soltanto in lui.
In questa cornice speculativa ragione e fede sono altrettanto intimamente
connesse. Le due modalità epistemiche (della conoscenza), infatti, l'una fondata
ultimamente sulla constatazione empirica diretta e mediata dal ragionamento,
l'altra radicata nel sapere di una fonte di cui è accertata l'autorevolezza,
sono complementari nella vita dell'uomo e si sostengono a vicenda.
Il credere è la prerogativa per comprendere, mentre il comprendere è la
condizione stessa del credere più maturo e consapevole, che a sua volta diviene
la nuova prerogativa del sapere in una crescita di livelli che conduce
all'approfondimento speculativo continuo della realtà.
Verità e conoscenza
Agostino sostiene che non è possibile dubitare della propria esistenza, in
quanto il dubbio stesso offre la garanzia della certezza dell'esistenza. Il
dubitare, infatti, non è possibile del dubitare stesso; già lo stesso dubitare è
certezza di dubbio, e il dubbio non può essere a prescindere dall'esistenza: se
dubito, esisto; nella misura stessa in cui dubito.
Inoltre, se il dubbio muove sulla verità, la verità risulta certa, in quanto se
è vero il dubbio, se, cioè, è vero che non si dà verità certa, allora si dà la
certezza, cioè la verità certa, che la verità non è data, ma questo è
contraddittorio. Se dunque la verità non c'è, in quanto messa in dubbio, essa
c'è nella misura della verità del dubbio stesso.
Il dubbio presuppone, per sua stessa natura, un rapporto dell'uomo con la
verità. Tuttavia la verità, di cui l'uomo partecipa, conoscendo, non si
identifica con l'uomo stesso o con le sue capacità; la verità trascende l'uomo
che ne è soltanto fruitore e partecipe. L'uomo si sperimenta mutevole,
incostante, incerto proprio a fronte di una verità immutabile, salda e
assolutamente certa. Tale verità è il nome stesso di Dio, è Dio e da esso,
dunque proviene all'uomo che ne può partecipare.
L'uomo è illuminato dalla verità, che si presenta come una fonte inestinguibile
di quella luce nella quale all'uomo è data la conoscenza. L'uomo conosce alla
luce della verità. Dio-Verità, dunque illumina interiormente l'uomo, ne è
maestro interiore.
Gli attributi di Dio; l'immagine di Dio nell'uomo
La dottrina dell'illuminazione, nome con il quale si intende comunemente la
teoria della conoscenza di Agostino, spiega in modo cristiano ciò che Platone
diceva con la teoria dell'anamnesi o reminiscenza. Laddove Platone esigeva la
vita metempirica dell'anima, precedente alla vita carnale, come situazione in
cui l'uomo apprende tutte le conoscenze che poi può essere condotto a ricordare
nella vita nella materia, Agostino ritiene che tutto ciò che l'uomo conosce, in
particolare rispetto alle verità intramontabili ed eterne (non ai fatti
contingenti) derivi direttamente dalla luce che abita nell'anima e che è infusa
direttamente da Dio in termini di verità salde e incorruttibili.
Per Agostino la verità non è la ragione, ma la legge della ragione, la formula
dell'ordine stabilito da Dio all'atto della creazione del mondo. Per conoscere
la verità l'uomo non deve indagare vanamente al di fuori di se stesso, ma deve
rientrare in sé, nel proprio intimo e, sperimentandosi mutevole ed incerto,
superarsi nel senso della profondità fino a raggiungere la radice più intima del
proprio essere, cioè Dio che trascende i limiti dell'uomo e apre un orizzonte
infinito di conoscenza, da desiderare e da amare.
I giudizi di valore, contraddistinti dall'immutabilità e dalla necessità che la realtà coincida con quello che si afferma, non possono derivare dei sensi né dall'immaginazione, né dalla ragione, tutte facoltà mutevoli; la necessità di quei giudizi può solo derivare dall'intelligenza, il livello più nobile dell'anima umana, in cui ridiede la stessa luce di Dio partecipata agli uomini. Mediante l'illuminazione divina, l'uomo dispone della conoscenza di alcune verità essenziali, relative al mondo spirituale; Dio non è perciò conosciuto al termine di una dimostrazione, è, invece, la prima realtà conosciuta dalla mente, essendo egli la luce interiore, lo stesso criterio di verità partecipato all'anima umana.
Gli attributi di Dio
La verità, dunque, è Dio. Dio è scoperto come Essere e Verità, Trascendenza e
Rivelazione, Padre e Lógos. Egli è
Trascendenza dell'intimità stessa dell'uomo, ma nel contempo è Rivelazione in
quanto luce di conoscenza; in base, poi, alla rivelazione biblica, Dio è Padre
(corrispettivo dell'Essere), ma nella misura in cui è Padre, termine relativo, è
anche Figlio, quindi Lógos, Verbo
(corrispettivo della Rivelazione).
Risultano quindi dedotte le prime due persone della Trinità cristiana, ma in
quanto Padre e Figlio, perché tali, suppongono una relazione, anche la loro
relazione, vissuta a livello divino, è persona che va sotto il nome di Spirito
Santo, relazione d'amore tra Padre e Figlio.
Dal Dio-Verità Agostino giunge al Dio-Amore; l'Amore non si rivela se non a chi
cerca la Verità. Dio è la condizione che rende possibile e vero ogni amore.
La scoperta della volontà. Il problema del male
La struttura dell'uomo e la volontà
La possibilità di dialogare interiormente con Dio e di sperimentarlo
nell'amore è offerta all'uomo dalla sua stessa struttura. L'uomo, creato a
immagine e somiglianza di Dio, ne rispecchia la trinitarietà, essendo
costituito, nella propria anima da tre facoltà analoghe, nell'operazione alle
tre persone divine.
L'uomo conosce e ama, cioè è, pensa e vuole; in ciò
rispecchia Padre, Figlio e Spirito in quanto memoria, ragione (intelligenza) e
volontà, le tre facoltà che, nell'insieme, costituiscono una sola vita, come
uno solo è Dio in tre persone.
La volontà è una novità di rilievo nella concezione filosofica dell'uomo.
L'antropologia greca non aveva saputo individuare la facoltà pratica, fermandosi
con Aristotele a parlare di determinazione razionale e con Plotino di libertà
incanalata dallo Spirito, incorrendo irrimediabilmente nei paradossi
intellettualistici di ascendenza socratica per cui l'uomo buono è il sapiente
(che non può errare in quanto sapiente) mentre l'uomo malvagio è l'ignorante
(che non può non sbagliare in quanto cieco).
In base alle suggestioni raccolte nel testo biblico, la filosofia giunge invece
a teorizzare il volere dell'uomo come facoltà dell'assenso e del dissenso nei
confronti dell'essere. Oltre l'intelligenza, facoltà teoretica dell'anima, la
filosofia scopre la capacità dell'uomo di decidere del manifestarsi o meno
dell'essere per quello che è, cioè la capacità di intervenire, con un giudizio
di approvazione o di rifiuto, nei confronti dell'ordine stabilito da Dio
all'atto della creazione. La volontà, dunque, a partire dal cristianesimo, si
configura filosoficamente come la facoltà dell'amore e dell'odio, da intendersi
questi ultimi come l'accoglimento e la promozione della realtà o la resistenza
ad essa e la sua distruzione.
In connessione con la scoperta della volontà, cambiano quindi i connotati
della condizione umana che, nella filosofia greca poteva darsi come sapienza o
come ignoranza, corrispondenti a felicità e ansia, imperturbabilità e
turpitudine, ma che ora, alla luce della Bibbia, viene a differenziarsi come
condizione di grazia o di peccato, di adesione o di rifiuto nei confronti di
Dio.
Il peccato, ancor prima di essere inteso come trasgressione di un precetto,
appare come la defezione da Dio e dall'essere, come uno stato di decadimento
della natura umana derivante dalla scelta consapevole dell'uomo stesso di
recedere dal tipo di vita offertogli con la creazione, per aderire a un progetto
autonomo tanto resistente quanta è la forza che l'uomo può impiegarvi, fino al
suo esaurimento nella degenerazione e nella morte.
Il male naturale, il tempo e la storia
Il male
«Se Dio esiste, d'onde viene il male?».
L'interrogativo è drammatico, in quanto sembra denunciare una contraddizione
insanabile che tormenta dalle origini tutta la realtà.
In gioventù, per tentare una soluzione, Agostino aveva aderito al Manicheismo,
che in un certo senso offriva una risposta al problema del male nel mondo,
perché faceva derivare tutta la realtà dall'esito della lotta tra due principi
supremi: il principio del bene e quello del male, la luce, da cui deriva la
bontà propria del mondo spirituale, e le tenebre, da cui trae origine il male
che contrassegna il mondo materiale e che si diffonde per mezzo della materia.
Scoprendo l'illusorietà della soluzione manichea del problema, Agostino
comprende che la materia in sé non è male e che il principio del male non può
esistere, perché, per essere un vero e proprio male dovrebbe esserlo “molto
bene”, il che è contraddittorio. Il male, dunque, non può che essere privazione
del bene, in quanto non è in grado di produrre nulla e non può coincidere con
nulla che esista positivamente, perché ogni esistenza manifesta la positività
che solo il bene esprime.
Il male non può essere una sostanza, quindi, perché se lo fosse sarebbe un bene,
ma, privo di sostanzialità, il male come tale non esiste né può esistere.
Il male, allora, viene ricondotto da Agostino alla volontà dell'uomo, che può
darsi, negativamente, come volontà del non-essere di ciò che è. La perversione
della volontà che si volge dalla parte opposta della sostanza somma verso le
realtà inferiori, dunque, costituisce la radice del male, che, in sé, non
consiste (già Plotino aveva anticipato tale teoria, attribuendo l'origine del
male al narcisismo dell'Anima, distratta dall'Uno e rivolta alla materia).
Se di male si vuole parlare, allora, a proposito dei cosiddetti mali di natura,
bisogna distinguere:
- il male che deriva dalla necessaria differenziazione delle realtà create del
cosmo, da intendersi come inferiorità di certe cose rispetto alla superiorità di
certe altre, un male, cioè, che risulta funzionale alla completezza del mondo in
tutte le sue varietà;
- il male funzionale all'armonia del creato, come l'ombra rispetto alla luce o
la dissonanza rispetto all'accordo.
I mali fisici, poi, che affliggono l'uomo, discendono per Agostino dal peccato
dell'uomo che ha corrotto l'originaria perfezione della natura umana,
soggiogandola alla morte, mentre il male morale fa capo al peccato in quanto
tale, cioè consiste nella volontà del non essere di ciò che è, nella volontà
della sua distruzione.
La creazione e il tempo
L'universo è il risultato dell'atto libero di creazione da parte di Dio, che
Agostino legge come un atto di amore divino verso le cose create e verso l'uomo
in particolare, il quale, scrutando l'universo sensibile, scopre l'immagine
dell'ordine, della bontà e della bellezza del suo creatore.
Dio ha creato tutto attraverso la Parola, il Lógos coeterno con il Padre, il Figlio. Questi contiene in sé le ragioni immutabili
delle cose, eterne come eterno è egli stesso; in conformità con tali forme o
ragioni sono dal Padre formate tutte le cose sensibili e transitorie. Queste
idee eterne, dunque, non costituiscono un cosmo intelligibile (l'iperuranio
platonico), ma l'eterna Sapienza attraverso la quale Dio ha creato il mondo.
Tali ragioni di sapienza vengono associate da Agostino alla ragioni seminali (di
origine stoica) che assicurano la divisione e l'ordinamento delle cose nell'atto
della creazione.
La discussione sulla creazione sollecita l'interrogativo sul “quando” della creazione, cioè sulle coordinate temporali dell'atto divino: «Che cosa faceva Dio prima della creazione del mondo?». La domanda è oziosa, ritiene Agostino, perché il tempo fa parte della creazione stessa, è la dimensione di ciò che è creato, e quindi non può essere attribuita a Dio che della creazione è autore: l'avverbio “prima”, infatti, è un avverbio di tempo, che non può essere attribuito al fare di Dio, come se Dio abitasse una dimensione temporalmente antecedente il tempo (il che sarebbe una contraddizione).
Che cos'è, dunque, il tempo?
La difficoltà ad attribuire un volto preciso al tempo, costituito dal presente,
il quale tuttavia si disperde nell'inesistenza del passato, ed è generato dal
futuro, che ancora non esiste e quando esiste non è più futuro, ma è diventato
il presente, spinge Agostino verso una soluzione originale del problema: il
tempo non esiste nelle cose, non fa parte della realtà del mondo fisico, ma
esiste nello spirito, nell'anima dell'uomo. Il tempo, propriamente, è un
distendersi dell'anima, una distensione dello spirito del soggetto che rileva le
cose nel passato (con la memoria), nel futuro (con l'attesa) nel presente (con
l'attenzione).
Il tempo non è una realtà oggettiva, esiste solo in rapporto con l'attività
della coscienza; è la misura delle vicende con cui l'anima entra in relazione,
attraverso l'attenzione (presenza del presente), il ricordo (presenza del
passato) o l'attesa (presenza del futuro).
A partire dalla sua professione retorica, Agostino ragiona sul significato di un
discorso, che, nell'immediatezza della sua pronunciazione è fatto di singoli
suoni istantanei privi di connessione e di significato, ma che, nell'azione del
suo svolgersi dalle premesse alla conclusione ottiene un senso compiuto proprio
grazie al ruolo della coscienza (la presenza a sé) che interviene attraverso le
sue singole dimensioni per raccogliere in unità tutti i segmenti sonori.
Il tempo dunque è la dimensione attraverso la quale l'uomo raccoglie la propria
esperienza storica, fatta di segmenti in se stessi privi di un senso compiuto,
entro un'unità di vita che costituisce l'identità di ciascuno, all'interno della
quale è la decisione dell'uomo a costituire il grado di importanza e di
incisività dei singoli momenti.
Il tempo, dunque, non è una realtà per sé stante, indipendentemente dalle
cose che mutano e che si succedono; “prima” della creazione, allora, esisteva
solo Dio, nella sua perenne immutabilità, totalmente al di fuori del tempo. Dio,
infatti, non si distende nel passato e nel futuro, ma è eterno presente, è
l'eternità, la quale escludendo da sé ogni mutamento e ogni successione, non può
essere considerata come il prolungarsi all'infinito della linea del tempo.
L'eternità è un presente immobile, che non ha durata come lo stato di riposo
dell'anima quando non pensa a niente.
La storia
Connesso con il tema del tempo è quello della storia, alla cui base sta la
convinzione di fondo che l'universo è segnato dalla contingenza, cioè è
appoggiato sull'eventualità del suo possibile non essere; il mondo non è
necessario, Dio avrebbe potuto non crearlo.
Non c'è storia senza tempo, anche se può esservi tempo senza storia, il tempo
della natura oggettivata, priva di coscienza, quale potrebbe immaginarsi la
natura delle cose prima della creazione di Adamo; il tempo della storia implica
la coscienza e la successione. Il contingente è temporale, storico, ma lo è
perché il corso del tempo riceve un ordine, che è l'ordine della coscienza
storicizzante.
Ciò che diviene è storico non in quanto diveniente, ma in quanto, pur fluendo
incessantemente, trova una sua stabilità nella memoria che impedisce ai fatti
transeunti di precipitare nella dimenticanza.
Tra il silenzio del passato e il silenzio del futuro c'è il momento che
sempre si rinnova del presente, della coscienza, l'istante del tempo interiore
che riesce a vincere quei due silenzi e a far nascere la storia. Il divenire
chiuso tra due silenzi non può essere storia; solo dando voce al passato e al
futuro nel presente della memoria, che ricorda e che attende, la storia acquista
la sua voce, che è la stessa parola del presente.
Il corso progressivo del tempo, la sua unidirezionalità e irreversibilità,
risultano dalla finalità della coscienza (dall'orizzonte significativo della
coscienza) che tende a rappresentarsi il tempo e quindi a possederlo,
inscrivendolo nell'unità permanente del soggetto che si distende nell'attenzione
(responsabilità), nella memoria (eredità) e nell'attesa (progetto).
In ciò il pensiero di Agostino risulta estremamente innovativo, e certamente
moderno, nel senso che la storia che noi oggi continuiamo a considerare discende
direttamente dalla concezione agostiniana, benché secolarizzata attraverso
l'Illuminismo.
Il modello creazione/caduta/redenzione/eskaton (definitività), cioè la
storia della salvezza, che scardina la visione ciclica della storia che i greci
avevano sostenuto fino a quel momento, diviene il modulo interpretativo delle
cose umane che ha guidato la cultura occidentale fino ad oggi, benché dal '700
si sia sostituito alla definitività escatologica del Regno di Dio il mito del
progresso della civiltà e della scienza.
La “Città di Dio” e il significato dello Stato
Il progetto dell'opera venne ispirato ad Agostino dalla valutazione del
destino di Roma sottoposta all'assedio dei Visigoti di Alarico e al successivo
orribile saccheggio (24 agosto 410).
L'enorme impressione suscitata dalla violazione di Roma, plurisecolare simbolo
di una civiltà considerata grande e perciò imperitura, indusse il mondo pagano
ad accusare i cristiani della decadenza di Roma e della dissoluzione della sua
civiltà, dal momento che i cristiani non intendevano impegnarsi nella vita
politica e nella difesa della civiltà romana. D'altronde, molti cristiani
avevano sviluppato un disegno di Roma come della nuova capitale religiosa del
mondo, visto che dai tempi della distruzione di Gerusalemme (70 d. C.) essa
aveva assunto le funzioni di culla del cristianesimo, di centro depositario e
propulsore della religione di Cristo e della sua chiesa.
Agostino si impegnò allora per mostrare come la religione e la cultura della
Roma pagana (città terrena) dovessero cedere il posto alla religione e alla
cultura cristiana (città di Dio).
Nella città terrena confluiscono tutte le città, tutti gli imperi e tutte le
civiltà creati dagli uomini e destinati a perire; il vero fine della storia è
legato all'insegnamento del Vangelo di Gesù Cristo, e coincide con la
costruzione di quella città che ha Dio stesso come architetto e costruttore, una
città “futura” quindi, perché in continua crescita.
Finché l'uomo vive sulla terra, città di Dio e città terrena sono talmente
intrecciate e intimamente mescolate fra loro, che il pensiero umano è incapace
di tracciare una distinzione netta tra le due.
Agostino elabora una lettura cristiana dello Stato che è segnata
dall'ambivalenza radicale del tempo della storia, all'interno della quale il
bene e il male crescono insieme, senza la possibilità di essere separati prima
della fine della vicenda storica stessa. L'ultima fonte del potere, poi, è vista
nell'ordine stabilito da Dio con l'inserimento di ogni autorità nel piano
provvidenziale di Dio nei confronti del creato; nel potere costituito, infatti,
il cristiano non coglie solo l'aspetto umano, ma altresì il riflesso di qualcosa
di trascendente.
Uno stato puramente terreno non ha valore definitivo per il cristiano, il quale
non è interessato ad esso, perché la sua vera patria non è costituita da questo
mondo. Il dominio dell'uomo sull'uomo risulta assolutamente estraneo alla natura
umana integra, qual era prima del peccato originale; uno stato che non faccia
riferimento alla giustizia connessa con il Dio cristiano è soltanto un
“latrocinio”, come un insieme di soprusi e di prepotenze.
L'esistenza di un'autorità terrena è per l'uomo il prezzo della prima colpa,
in un certo senso è una conseguenza del peccato originale: all'instaurazione del
regno di Dio, ogni dominazione umana avrà termine. Nell'attesa che ciò si
realizzi, lo schiavo deve ubbidire al padrone, il governato al governante: la
condizione di schiavo e di suddito infatti è in un certo modo naturale, in
quanto è legittima in rapporto al disordine in cui giace l'uomo dopo il peccato,
all'avvilimento della sua natura conseguente alla disobbedienza.
Dunque, il potere temporale trae forza e giustificazione da ciò stesso che lo
condanna, cioè dal suo rapporto con il peccato.
Severino Boezio: Sommo bene e libertà
L'ETÀ MEDIEVALE
Con la caduta dell'impero romano d'Occidente nel 476 inizia il periodo
storico delle “Medioevo”, ossia età di mezzo fra la civiltà imperiale e la
ripresa della civiltà classica con l'Umanesimo e il Rinascimento (sec. XV-XVI).
Il tramonto della civiltà romana e il sorgere della nuova civiltà occidentale e
contrassegnato dal tentativo di mediazione politico-culturale operato da uomini
di grande levatura culturale: spiccano i nomi degli italiani Severino Boezio e
Aurelio Cassiodoro (sec. VI), dello spagnolo Isidoro di Siviglia (sec. VII) e
dell'inglese Beda, soprannominato il Venerabile (sec. VIII).
Nel 529 l'imperatore Giustiniano decretò la chiusura della scuola di Atene, che
per molti secoli aveva ereditato e trasmesso la filosofia dell'Accademia fondata
da Platone; l'esilio dei professori contribuì allo spegnersi della filosofia
pagana tardo-antica e favorì il sorgere di nuovi orientamenti di pensiero; in
particolare entrarono in circolazione, nei centri di dibattito filosofico. le
componenti dottrinali della religione cristiana, che si era ormai saldamente
radicata nei territori dell'antico impero romano.
Severino Boezio
Nato nel 480, discendente dalla nobile famiglia romana degli Anici, Severino
Boezio si stabilì a Ravenna, alla corte del re ostrogoto Teodorico, di cui
condivise l'illuminato programma di conciliazione tra romanesimo e germanesimo,
mirante a una stretta e feconda alleanza fra la forza difensiva gotica e la
cultura romana.
Nel 522 divenne “Maestro degli uffici”, cioè direttore generale della corte
dello Stato; nel 524 egli s trovò coinvolto in una congiura di palazzo:
accusato di cospirazione ai danni di Teodorico, venne imprigionato e poi
giustiziato in un sobborgo presso Pavia.
Negli anni del soggiorno a Ravenna, Boezio aveva elaborato un ambizioso
programma, quello di tradurre dal greco in latino tutte lo opere di Platone e
Aristotele, per avvivare a mostrarne l'intima conciliabilitià; il programma
venne interrotto dalla prematura e tragica conclusione della vita del maestro,
il quale aveva tuttavia ultimato la stesura di una serie di trattati sulle arti
liberali del ciclo più propriamente scientifico, detto quadrivium (quadruplice via, comprendente l'aritmetica, la geometria, la musica,
l'astronomia); inoltre aveva composto una serie di opere logiche, dedicate allo
sviluppo dei trattati aristotelici sulla logica.
Tutti questi trattati boeziani furono determinanti, durante il Medioevo, per la
conoscenza del pensiero filosofico e scientifico dell'antichità; in particolare
Boezio contribuì alla trasmissione di un importante problema logico-filosofico,
quello degli universali, relativo cioè alla natura propria dei concetti che si
formano nella mente dell'uomo, attraverso i quali si costruiscono le
proposizioni filosofiche e scientifiche.
La “Consolazione”
L'opera maggiore di Boezio, che gli assicurò fama nel Medioevo non solo sul piano filosofico, ma nel vasto campo delle espressioni letterarie, è rappresentata dalla Consolazione della Filosofia, composta durante i mesi di carcere che precedettero la sua esecuzione capitale (525).
La prima verità forte verte sull'esistenza del sommo bene: che un bene sommo
possa esistere in realtà, e che dunque non si tratti di un'astratta proiezione
del pensiero, lo si evince dal fatto che il mondo dell'esperienza sensibile
rivela soltanto dei beni imperfetti, incapaci di offrire definitive
soddisfazioni del desiderio di bene; la stessa felicità conseguita mediante beni
soggetti alla corruttibilità risulta felicità insoddisfacente.
Facendo leva sulla nozione di imperfetto, Boezio giunge a quella di perfetto;
tutto ciò che viene detto imperfetto, infatti, è evidentemente tale per
diminuzione del perfetto, ne consegue che, se in un qualsiasi genere di cose
sembri esservi alcunché di imperfetto, debba ivi trovarsi necessariamente anche
un qualche cosa di perfetto, e in effetti, tolta la perfezione, non può neanche
immaginarsi da dove sia venuto fuori quel che è imperfetto. Porre i beni
imperfetti senza la contemporanea ammissione del bene perfetto, infatti,
comporta la contraddizione insita nella posizione di chi riconduce l'essere al
nulla: essendo chiaramente contraddittorio che l'essere provenga dal nulla, si
deve affermare che l'imperfetto deriva dal perfetto. La possibilità del bene
perfetto ne implica, dunque, anche l'esistenza reale: se il bene perfetto è
possibile (e tale è perché altrimenti il bene imperfetto, che è reale, sarebbe
impossibile), esso deve esistere nella realtà.
Il sommo bene è Dio.
Un secondo problema affrontato nella Consolazione è quello del
rapporto fra la prescienza divina e la libertà dell'uomo. Se Dio conosce tutto
sin dall'eternità, com'è possibile, infatti, affermare che l'uomo è realmente
libero nelle sue scelte?
La risposta formulata da Boezio diventerà classica presso tutti i maestri
medievali: l'uomo vive nella dimensione temporale, in cui tutto si succede
liberamente, Dio abita l'eternità (definita come completo e perfetto possesso di
una vita senza termini), dalla quale vede e conosce l'intero svolgimento
temporale delle vite umane senza intervenire condizionalmente in esse,
nell'istantanea presenza a tutto il loro percorso.
La Quaestio de universalibus; dialettica e teologia
La “Questione degli universali”
Introducendo allo studio delle Categorie di Aristotele, il filosofi
neoplatonico Porfirio aveva istruito il problema degli universali ponendo circa
il valore dei generi e delle specie (ad es.: “animale” e “cavallo”), i concetti
universali, appunto, la seguente concatenazione di domande, cui, peraltro, aveva
evitato di dare una risposta:
- se generi e specie siano realtà oppure concetti della mente;
- se, ammesso e non concesso che essi siano realtà, essi siano corporei o
incorporei;
- se, ammesso e non concesso che essi siano incorporei, essi siano sussistenti
di per sé oppure in relazione con le cose.
Nel secolo VI Severino Boezio, traducendo e commentando l'Introduzione porfiriana, aveva trasmesso la questione degli universali all'Occidente latino
fornendo anche una risposta personale: gli universali sono realtà che sussistono
in prossimità delle cose materiali (circa, cioè intorno ai sensibili), ma
vengono compresi intellettualmente a prescindere dai corpi attraverso una
distinzione razionale che prende il nome di astrazione.
Più tardi, invece, le soluzioni del problema si erano codificate secondo tre
interpretazioni:
- realismo radicale o esagerato (di tipo platonico): generi e specie sono
realtà sussistenti in un mondo separato, come l'iperuranio, e consistono nelle
idee;
- realismo moderato (di ispirazione aristotelica): si tratta, in buona
sostanza, della posizione boeziana;
- nominalismo: l'unica consistenza reale dei termini universali è quella del
loro suono, cioè della parola pronunciata, oppure quella della loro sostanza
grafica (inchiostro, gesso, incisione).
Anselmo d'Aosta
Dialettica e Sacra pagina
Nel secolo XI si è soliti individuare un dibattito tipico, tra dialettici e
teologi. Esso consiste nel problema relativo alla liceità o meno
dell'applicazione della logica aristotelica, trasmessa all'Occidente attraverso
le opere di Boezio alla pagina biblica. Ci si chiedeva se la parola di Dio,
quale era ritenuta essere la Bibbia in quanto testo rivelato, fosse suscettibile
di indagine grammaticale e logica, senza il pericolo di snaturarne il contenuto
a partire dalle regole della sintassi della parola umana.
Le posizioni, al tempo, furono diverse: alcuni, come Pier Damiani, si opposero
risolutamente all'esercizio della logica in campo teologico, ritenendolo
pericoloso e potenzialmente eretico; altri, come Berengario di Tours, assunsero
posizioni estremamente critiche nei confronti della dottrina tradizionale della
Chiesa, proprio a partire dall'applicazione indiscriminata dei principi logici
alle pagine bibliche, desumendo conseguenze inedite e indebite da una lettura
razionalistica della letteratura religiosa; altri ancora, assumendo un cauto
atteggiamento mediano, aprirono la strada alla stagione più feconda della
teologia occidentale.
Tra questi Lanfranco da Pavia e il suo discepolo Anselmo di Aosta.
Un problema che si è dimostrato centrale in questo dibattito (e che ha
costituito i prodromi della disciplina teologica) è quello dell'esistenza di
Dio.
Tale problema non è da intendere, naturalmente, nel suo senso razionalistico e
moderno, quello che, a partire dalla filosofia di Renato Cartesio (nel XVII
secolo), è divenuto centrale nella speculazione filosofica, fino a divenire
l'assurdo tormento dei pensatori, vale a dire la cosiddetta “prova
dell'esistenza di Dio”, concepita come se la ragione umana fosse, per così dire,
capace di affermarsi superiore a Dio stesso dimostrandone senza appello
l'obbligatoria esistenza; l'argomentare sull'esistenza di Dio, invece, per i
medievali significa dimostrare che, proprio grazie a Dio, dato per scontato come
presupposto evidente di ogni cosa, le linee guida del pensiero umano, e quindi i
criteri teoretici ed etici (del pensiero e dell'azione), collimano con le
dinamiche del creato in una sintonia facilmente rintracciabile ad ogni livello,
benché disturbata dalla limitatezza e dalla fatica della condizione dell'uomo
(condizione di peccatore).
Dimostrare l'esistenza di Dio, allora, significa per il medievale arrivare a vedere per via
intellettiva ciò che appare come la più grande evidenza estetica, o come la
prima e più ingenua persuasione dell'uomo.
Anselmo di Aosta: rectitudo e Monologion
Nato ad Aosta, priore del monastero benedettino del Bec e infine arcivescovo
di Canterbury, Anselmo, come si è detto, è uno dei principali rappresentanti
della via mediana tra dialettica e sacra pagina.
Il problema dell'esistenza di Dio gli si è presentato come un crocevia
irrinunciabile per poter affrontare una riflessione “dialettica” sulla
Rivelazione.
La verità come rectitudo
Sullo sfondo dei diversi percorsi dell'intelletto volti a rendere evidente in
linea dialettica l'esistenza di Dio dobbiamo costantemente tenere presente il
concetto anselmiano di verità: essa è, con un'espressione latina non
immediatamente traducibile, rectitudo, cioè rettitudine. La rettitudine
di cui Anselmo parla potremmo chiamarla, per capire, allineamento,
unidirezionalità; significa la scoperta che il linguaggio dell'intelletto è
potenzialmente in linea con le strutture della realtà, significa che la realtà è
intelligibile proprio perché l'intelletto, che ne fa parte, è modulato secondo i
medesimi criteri di essa e, pertanto, li sa e li può esprimere. La verità dunque
esprime la possibilità del linguaggio di essere corrispondente e coerente con
l'esperienza: ciò che l'intelletto formula coerentemente è la necessità della
natura.
Se il linguaggio dell'intelletto può esprimere l'esistenza di Dio, è perché Dio
esiste; allora Dio esiste, né potrebbe essere altrimenti.
Gli argomenti del Monologion (discorso con se stesso)
Si tratta di percorsi che traggono spunto da una ricognizione fenomenologica,
cioè che fanno appello alla constatazione di qualcosa per poter argomentare a
partire da essa nel quadro di diversi ordini di realtà: l'essere, la causalità,
le perfezioni.
Lo schema del ragionamento è analogo in tutti i casi:
- si constata che nel mondo si danno all'esperienza diversi gradi di essere,
che cioè ci sono cose che “sono” più di altre, il cui spessore di esistenza è
più consistente di quello di altre cose. Ma, se non esistesse un criterio
d'essere estraneo alla scala graduata dell'essere delle cose, cioè un criterio
d'essere assoluto, la gradualità non avrebbe neppure senso. Ora, il senso la
gradualità ce l'ha, dunque il criterio assoluto è un dato reale, benché non
immediatamente percepibile, in quanto non appartenente all'esperienza
compromessa entro i gradi. Dio è il criterio d'essere assoluto;
- si constata che nel mondo si danno all'esperienza diversi gradi di causalità,
che cioè ci sono cose che “causano” più di altre, il cui spessore di causalità è
più consistente di quello di altre cose. Ma, se non esistesse un criterio di
causalità estraneo alla scala graduata della causalità delle cose, cioè un
criterio di causalità assoluto, la gradualità non avrebbe neppure senso. Ora, il
senso la gradualità ce l'ha, dunque il criterio assoluto è un dato reale, benché
non immediatamente percepibile, in quanto non appartenente all'esperienza
compromessa entro i gradi. Dio è il criterio di causalità assoluto;
- si constata che nel mondo si danno all'esperienza diversi gradi di
perfezione, che cioè ci sono cose che sono più perfette di altre, il cui
spessore di perfezione è più consistente di quello di altre cose. Ma, se non
esistesse un criterio di perfezione estraneo alla scala graduata della
perfezione delle cose, cioè un criterio di perfezione assoluto, la gradualità
non avrebbe neppure senso. Ora, il senso la gradualità ce l'ha, dunque il
criterio assoluto è un dato reale, benché non immediatamente percepibile, in
quanto non appartenente all'esperienza compromessa entro i gradi. Dio è il
criterio di perfezione assoluto.
L' argomento “unico” del Proslogion (discorso rivolto ad altri)
Insoddisfatto dai precedenti percorsi a motivo del loro strutturale
riferimento all'indagine fenomenologica, Anselmo cerca un argomento che si
qualifichi “unico” per la sua esaustività e per il proprio riferirsi unicamente
alla facoltà dialettica, a prescindere da qualsiasi appoggio esterno.
Coerentemente con la sua posizione di teologo dialettico, si impegna a formulare
un percorso argomentativo che renda ragione dell'essere di Dio esclusivamente
facendo appello alle risorse del pensiero.
Per fare ciò intavola una conversazione fittizia con l'insipiente del Salmo
XIII, il quale diceva “in cuor suo”, cioè nel proprio intimo pensiero, «Dio
non esiste».
Dopo avere ringraziato Dio per avere impresso nel suo intimo la sua immagine da
sottoporre ad indagine, Anselmo esprime a Dio il suo desiderio di comprenderlo
nella verità, che già con il cuore e con la mente dice di amare. Anche Anselmo
crede per comprendere e afferma: «Se non crederò, non comprenderò».
Ecco allora l'argomento:
La fede, dice Anselmo, insegna a credere Dio come id quo maius cogitari
nequit. Ora, anche l'insipiente, pur professando la non
esistenza di Dio, quando sente con l'orecchio l'espressione “ciò di cui
non si può pensare il maggiore” ne capisce il significato: il significato dei
singoli termini usati in quell'espressione, infatti, gli è noto e, pertanto, gli
è noto anche il significato globale. Altro, tuttavia, è l'essere
nell'intelletto, a livello di comprensione, altro è il comprendere l'essere in
natura, a livello di esistenza. Ma “ciò di cui non si può pensare il maggiore”
non può comprendersi come esistente soltanto nell'intelletto, a livello di pura
comprensione, altrimenti sarebbe possibile pensarlo anche come esistente in
natura e, di conseguenza, lo si potrebbe pensare maggiore di sé, il che è
contraddittorio. Se infatti fosse possibile pensare qualcosa di maggiore di “ciò
di cui non si può pensare il maggiore” (in quanto esistente anche in natura), è
evidente che si penserebbe la contraddizione, perché “ciò di cui non si può
pensare il maggiore” non sarebbe in verità “ciò di cui non si può pensare il
maggiore”. Dunque, “ciò di cui non si può pensare il maggiore” esiste
necessariamente anche in natura.
Tale conclusione non significa, come dopo qualche secolo si è detto (da parte
di Emanuele Kant), che Anselmo pretenda un indebito passaggio dall'ordine logico
all'ordine ontologico, una passaggio che Anselmo, con le categorie filosofiche
disponibili al suo tempo non avrebbe nemmeno potuto immaginare; significa,
invece, nella prospettiva anselmiana della verità come “rettitudine”, che il
predicato dell'esistenza compete di necessità a ciò che viene espresso con la
formula “ciò di cui non si può pensare il maggiore”. Siccome, poi, vale che
l'esistenza di Dio è un'evidenza anteriore alla prova e che il linguaggio umano,
grazie all'immagine di Dio impressa nell'uomo all'atto della creazione, è
chiamato a corrispondere alla realtà in un perfetto allineamento, ecco
dimostrata la necessità di attribuire l'esistenza a Dio, anche da parte di chi
pretenda di negarla, visto il significato dei termini: Dio esiste in verità e
non è possibile pensare il contrario. L'insipiente poté affermare la non
esistenza di Dio per il solo motivo di essere insipiente, cioè incapace di
comprendere il significato delle parole.
La dialettica si ritrova al servizio della teologia per confermare la
persuasione della fede secondo l'adagio: «credo per comprendere, comprendo per
credere».
Il monaco Gaunilone, peraltro, si prese la briga di contestare ad Anselmo
l'inefficacia dell'argomento, obiettando:
- che “ciò di cui non si può pensare il maggiore” può benissimo essere
nell'intelletto alla stregua di una pittura finita nell'animo di un pittore che
si accinge a produrla;
- che in verità non è possibile possedere con la mente il significato pieno
dell'espressione “ciò di cui non si può pensare il maggiore”;
- che se valesse l'argomento allora dovrebbero esistere le isole beate,
cioè le isole dove la vita è “la vita di cui non si può pensare vita migliore”.
Anselmo, in sostanza, risponde che l'argomento può valere solo ed esclusivamente
per la formula “ciò di cui non si può pensare il maggiore”, in quanto solo tale
formula esprime l'assoluto. Soltanto a “ciò di cui non si può pensare il
maggiore” si può applicare l'argomento perché esprime la perfezione assoluta e
insuperabile e non una perfezione relativa e parziale come quella delle isole
felici.
Pietro Abelardo di Nantes
Figura di rilievo del secolo XII, rappresentante e protagonista della cultura scolastica, celebre per la sua acribia nell'atteggiamento critico e indipendente da qualsiasi autorità. Egli assume una posizione in parte innovativa, benché discutibile, all'interno della “Questione degli universali” e segna un progresso significativo in campo pratico, aprendo la stagione dell'etica dell'intenzione.
Abelardo, contestando come platoniche le posizioni sostenute via via dal
maestro Guglielmo di Champaux, sostanzialmente boeziane, sostiene la teoria
secondo la quale la consistenza dei termini universali consiste nel loro
significato e viene espressa con il termine “stato”, che significa lo stato di
cose, la condizione in cui si trova attualmente ogni singola sostanza. Tale
“stato” non avrebbe un suo spessore d'essere, ma rappresenterebbe il significato
a partire dal quale ogni individuo viene compreso in situazione, data
l'impossibilità di conoscerlo nel dettaglio preciso.
Non si capisca, poi, come tale stato sia riconoscibile nell'atto conoscitivo, se
non in ragione di un previo universale già conosciuto che ne permetta
l'individuazione, ma Abelardo, su tale problema, non dà risposta.
In quanto maestro, Abelardo viene considerato l'iniziatore del metodo scolastico della quaestio disputata (= problema dibattuto) grazie al metodo applicato nella sua opera dal titolo Sic et non, che, allo scopo di discutere esaurientemente varie questioni di ordine filosofico-teologico, riporta ordinatamente a titolo di documentazione le opinioni favorevoli e le opinioni contrarie alla tesi da dimostrare per poi, attraverso il loro confronto, giungere a una soluzione magistrale del problema indagato e proporre risposte confutatorie nei confronti delle tesi avverse. Tale metodo, inaugurato, appunto, da Abelardo, sarebbe divenuto il metodo consueto per tutti i maestri delle scuole nei secoli a venire.
Sotto il profilo etico, infine, il pensiero di Pietro Abelardo risulta fortemente innovativo, per avere sottolineato l'importanza decisiva che, nel giudizio morale, deve essere attribuita all'intenzione, cioè alla componente soggettiva dell'atto libero, rispetto alla materia dell'atto in quanto tale, il versante oggettivo dell'azione, che, precedentemente costituiva il criterio quasi esclusivo di valutazione morale. Tale innovazione comporta, di conseguenza, la distinzione tra vizio e peccato, considerati rispettivamente come l'inclinazione a peccare, che non può ancora essere considerata un male, e come l'atto trasgressivo nei confronti della legge morale, il vero e proprio male morale.