CLASSE IV - Sintesi di Filosofia (1) |
ARISTOTELE
Intorno al 366/65 a. C., all'età di diciotto anni, Aristotele si trasferì ad Atene e incominciò a frequentare l'Accademia di Platone. Vi rimase per ben vent'anni, cioè fino alla morte del maestro, avvenuta nel 347, quando decise di uscirne a motivo della direzione presa dalla scuola sotto la guida di Speusippo. Intorno al 343/42 Filippo il macedone lo chiamò a corte e gli affidò l'educazione del figlio Alessandro, il futuro Alessandro Magno. Nel 335/34 fece ritorno ad Atene e vi fondò, presso un edificio attiguo al tempio di Apollo Licio, la propria scuola, il Liceo (o Peripato, dal verbo peripatèin, che significa “passeggiare”, visto che le lezioni si tenevano, appunto, passeggiando per il giardino). Dopo anni fecondi di produzione, morì nel 322, in esilio a Calcide, dopo essere stato coinvolto dalla reazione antimacedone conseguente alla morte di Alessandro avvenuta nel 323.
Aristotele e Platone
È rilevante il fatto che Aristotele frequentasse per ben vent'anni la scuola
di Platone, partecipando attivamente alla discussione della dottrina del
maestro, fino a giungere al suo superamento attraverso una metafisica propria
capace di rispondere alla principali aporie del platonismo.
Aristotele non è l'anti-Platone, ne è invece un fecondissimo interprete che ha
proceduto sulla linea platonica della “seconda navigazione”. Ha criticato la
dottrina platonica delle Idee ed è giunto alla fine a negare che esistano Idee o
Forme trascendenti. Ma con questo, egli non ha affatto inteso negare che
esistano realtà soprasensibili: egli ha voluto dimostrare, invece, che il
soprasensibile non è quale Platone pensava essere.
Platone nelle Idee soprasensibili aveva indicato la “causa” delle cose. In
quanto cause delle cose, le idee erano state da lui intese immanenti nella
relazione con le cose, in quanto soprasensibili, invece, erano state pensate
come altro dalle cose e quindi trascendenti. Come potessero le Idee essere
insieme immanenti e trascendenti Platone non riuscì mai a spiegarlo. In ogni
caso Platone, che non aveva interesse per i fenomeni sensibili come tali, si era
preoccupato di indagare la struttura del mondo ideale come tale, piuttosto che
la sua relazione con quello sensibile.
Aristotele, per contro, reagiva energicamente a questo ordine di considerazioni,
ritenendo che la trascendenza delle idee non avrebbe potuto mai spiegare
l'esistenza e la conoscenza delle cose sensibili. Pertanto, il filosofo di Stagira introduceva la teoria delle forme immanenti, cioè strutture interiori
alle cose che ne plasmano e ne informano la materia. Il mondo platonico delle
Idee trascendenti, diventa la struttura intelligibile immanente alle cose.
Ciò non ha condotto Aristotele ad abbandonare la concezione del soprasensibile, ma a perfezionarla: oltre alle forme, infatti, Aristotele pone al vertice della realtà un Dio-Motore immobile primo, un certo numero di altre realtà analoghe al Motore primo e le anime intellettive; Aristotele, cioè, alla concezione platonica del soprasensibile inteso prevalentemente come intelligibile, sostituisce una concezione del soprasensibile inteso prevalentemente come intelligenza.
Le differenze di fondo individuabili fra Aristotele e Platone, invece, si
possono così descrivere:
- manca in Aristotele l'afflato mistico e religioso che caratterizzava l'opera
platonica, con la sua tensione escatologica;
- Platone era interessato alle scienze matematiche, ma non provava interesse
per le scienze empiriche, salvo la medicina, ed era generalmente privo di
curiosità per i fenomeni fisici e genericamente empirici considerati,
Aristotele, invece, aveva grandissimo interesse per quasi tutte le scienze
empiriche e per i fenomeni anche considerati in quanto tali, che, di fronte al
disprezzo platonico, riteneva di poter e di dover salvare attraverso il loro
fondamento metafenomenico (al di là del fenomenico);
- alla forza poetica dello stile dei dialoghi platonici fa riscontro
lo spirito scientifico di Aristotele, che in luogo di opere coinvolgenti come
quelle platoniche, propone una sistemazione stabile dei quadri della
problematica del sapere filosofico.
Il distacco da Platone
Per Platone la realtà è idea. Il termine idea ha a che fare con la radice del
verbo vedere; l'idea è una visione, un'intuizione intellettuale, una
rappresentazione archetipica che abita in un mondo sovraceleste e
sovrasensibile: l'iperuranio. Per Aristotele, invece, la realtà è sostanza, che
è nel contempo, analogicamente, rappresentante individuale di qualsiasi specie
di cose e natura intima del medesimo, sua forma o sua essenza.
Nella “Scuola di Atene” di Raffaello, Platone e Aristotele sono raffigurati
rispettivamente con il dito della mano alzato verso l'alto e con il palmo della
mano aperto e disteso ad indicare il basso. Aristotele era un discepolo di
Platone, ha frequentato la sua scuola per anni, ma ha “preferito la verità” (amicus
Plato, sed magis amica veritas), si è staccato da lui e ha organizzato
un'altra scuola, il Perípato.
Il sapere platonico è finalizzato alla pedagogia e alla politica: Platone vuole
educare l'uomo per costruire la città ideale. Il filosofo, per Platone, è colui
che contempla il mondo iperuranio e da tale contemplazione trae gli spunti per
organizzare la società ideale (la visione platonica diviene utopia). Per
Aristotele il vero filosofo è colui che si sofferma nella contemplazione, una
contemplazione della realtà e non dell'archetipo. Il sistema di Platone si
proietta in verticale, gerarchizzando gli ordini di realtà dal nulla all'ideale
archetipo; il sistema di Aristotele si occupa di tutti i campi della realtà,
orizzontalmente e fenomenologicamente puntando lo sguardo al profondo delle
cose.
La critica a Platone
La spiegazione platonica è il frutto di uno sforzo teoretico considerevole
(la cosiddetta “seconda navigazione”) e l'approdo al mondo puramente
intelligibile, vale a dire alla realtà soprasensibile delle idee, è stato di
sicuro un traguardo di enorme valore rispetto alla speculazione precedente. Le
idee platoniche sono un criterio validissimo di interpretazione del mondo, nella
misura in cui stabiliscono che la verità consiste nell'aspetto intelligibile
della realtà, non in quello sensibile, che risulta, invece, soltanto opinabile
nel suo incessante divenire. Di fronte a un dato qualsiasi di realtà (il solito
tavolo) tutto ciò che è suscettibile di sensazione (colore, odore, densità,
suono, gusto) risulta effimero e contingente rispetto al suo nocciolo “veramente
significativo”, uno schema di natura tale da essere suscettibile soltanto di
un'apprensione intellettuale, cioè che può rappresentarsi soltanto a titolo di
idea e non di sensazione.
L'idea è qualcosa di inimmaginabile, qualcosa che deve prescindere, pena il
rischio del suo misconoscimento, da qualsiasi forma di finzione o di
immaginazione. L'idea di tavolo, infatti consiste nel corrispettivo della sua
definizione: arredamento da appoggio, ma deve prescindere ed esulare totalmente
da qualsiasi rappresentazione “visiva” di un benché generico tavolo, pena
l'impossibilità di ritenere autentica l'originaria scoperta del tavolo da parte
del suo primo utilizzatore.
Ora, la soluzione platonica dell'iperuranio, il mondo alternativo in cui l'idea
risiede intelligibilmente nella sua perfetta realtà immateriale, porta con sé
una pregiudiziale dualistica (di radicale opposizione) nei confronti dell'intera
realtà, costituita appunto di idea, la sua dimensione reale e vera, e di
materia, la sua dimensione reduplicativa e, per tanto imperfetta, per non dire
degenerata in un incessante sequenza di negazioni. Per Platone il mondo delle
cose sensibili è copia, imitazione, falsità.
Aristotele, per contro, sente la necessità di non svalutare il sensibile, cioè
il mondo delle realtà concrete, ma di salvarlo (di salvare il “fenomeno”, ciò
che appare) per darne pienamente ragione senza dover ricorrere a una realtà
oltremondana, a suo parere fonte di confusione e di complicazione piuttosto che
di semplificazione. Aristotele obietta a Platone che, se il mondo iperuranio
fosse reale come alternativa al mondo delle cose concrete, allora ogni cosa
dovrebbe trovare la propria ragion d'essere in una realtà estranea,
completamente estranea, e perciò individua tanto quanto il concreto materiale.
Ma ciò comporterebbe come spiacevole conseguenza l'incontrollabile
proliferazione dell'idea stessa, che per ogni singola cosa, anche la più
insignificante (come un certo pelo della barba), dovrebbe esistere un modello
archetipo, contraddittoriamente molteplice nella misura di tutte le (infinite)
singole caratteristiche e affezioni di quella cosa (come l'esser curvo piuttosto
che l'esser bianco o l'esser lungo o corto e liscio o riccio ecc.). Per un pelo,
... quante idee!
Aristotele è d'accordo con Platone nel sostenere che ciò che di valido si dà in
realtà è ciò che corrisponde al suo aspetto intelligibile, ma è fermamente
convinto che, nella spiegazione delle cose, non si debba ricorrere a un
paradigma trascendente (un modello che supera, che va al di là della stessa
realtà), ma si debba pensare a un principio immanente (insidente, che rimane
all'interno) alla cosa medesima di cui è ragione; un principio, ovviamente, di
natura intelligibile, la forma.
La forma, per Aristotele, significa il profilo interiore, la strutture,
l'impalcatura logica delle cose, l'aspetto intelligibile ed universale
riconoscibile (astraibile) in esse mediante un'intenzione della ragione.
Meraviglia e filosofia. Le opere di Aristotele
Gli scritti
Logica, metafisica, fisica e psicologia, zoologia, politica, etica e poetica
costituiscono gli interessi di Aristotele, il quale, diversamente da Platone, la
cui filosofia era costruita in funzione della pedagogia e della politica, pensa
a una formazione enciclopedica, cioè aperta a tutti i rami della conoscenza
scientifica, in tutte le sue regioni d'essere.
Due note:
- tradizionalmente si distinguono nel corpus aristotelico opere essoteriche, cioè rivolte al pubblico esterno alla scuola del Peripato, e opere esoteriche, quelle su cui veramente avveniva l'insegnamento e il dibattito
all'interno della scuola.
- le opere di logica vengono raggruppate dalla tradizione nel corpus che
prende il nome di organon, che in greco significa strumento; ciò sta a
significare che la logica gode di uno statuto sui generis, essendo, più che
scienza vera e propria, lo strumentario metodologico e argomentativo di tutte le
scienze, il criterio trasversale della loro correttezza sintattica e semantica.
L'organizzazione dei saperi scientifici. La metafisica come scienza di cause
La ripartizione delle scienze
Per scienza Aristotele intende una disciplina dimostrativa.
Le scienze, per Aristotele, si distinguono in:
- scienze teoretiche, che ricercano il sapere in sé medesimo, a
prescindere da qualsiasi scopo di ordine operativo;
- scienze pratiche, inerenti al sapere come mezzo per raggiungere la
perfezione morale;
- scienze poietiche o produttive, che ricercano il sapere in
vista del fare o produrre oggetti.
Le scienze teoretiche si distinguono come tali (cioè in quanto “teoretiche”)
perché si dedicano alla pura speculazione della realtà, a prescindere da
qualsiasi intervento in essa da parte dell'uomo. Metafisica, Fisica (che comprende la Psicologia) e Matematica, le scienze
teoretiche, sono considerate da Aristotele le più elevate per dignità e per
valore.
Si occupano di realtà
necessarie, cioè di tutto ciò che non può non essere diversamente da come è, di
ciò che è inevitabile perché fissato così com'è dalla sua stessa ragion d'essere
così com'è. Esempio di una realtà necessaria è qualsiasi definizione di ordine
geometrico (la somma degli angli interni di un triangolo è equivalente a un
angolo piatto, 180°) o qualsiasi definizione di essenza (l'uomo è l'animale
ragionevole).
Ciò che è necessariamente non può non essere.
Le scienze pratiche si occupano del possibile, cioè del non necessario. Ciò risulta ovvio se si pensa che, di fronte alla volontà, tutto è possibile.
LA METAFISICA
“Metafisica” non è un termine aristotelico. Probabilmente esso è stato coniato in occasione dell'edizione delle opere di Aristotele fatta da Andronico di Rodi, nel primo secolo a. C., per una questione di ... spazio: metà tà physiká, letteralmente, significa “dopo la fisica”, espressione adottata come titolo per quel fascicolo di appunti aristotelici, di materia diversa e difficilmente classificabile e che non potevano rientrare nelle opere di altro genere, che fu posto, appunto, “a fianco”, “dopo” i volumi di Fisica nella classificazione bibliotecaria dell'intera opera del filosofo.
Le definizioni aristoteliche di metafisica sono:
- scienza delle cause e dei principi primi;
- scienza dell'essere in quanto essere (o meglio: dell'ente in quanto
ente);
- scienza della sostanza;
- scienza di Dio e della sostanza soprasensibile.
Tali definizioni sono, rispettivamente, in linea con tutta la tradizione
precedente
. che, da Talete a Platone, aveva ricercato l'arché o causa prime di
tutta la realtà,
. che da Parmenide a Platone aveva costituito il centro di interesse ontologico
della filosofia,
. che, dopo il superamento del monismo eleatico-parmenideo, precisa quale sia
il significato primario dell'essere, l'essere fondamentale,
. che considerava il “principio” nella sfera del divino.
Aristotele, dal canto suo, usava per lo più l'espressione filosofia prima o anche teologia per designare la metafisica, in opposizione alla filosofia seconda o fisica. La metafisica, secondo Aristotele nasce
nell'uomo a motivo della meraviglia che egli prova di fronte alle cose; nasce
dal puro amore di sapere, dal bisogno tutto umano di conoscere il perché
ultimativo delle cose.
La scienza delle cause
La causalità è, ovviamente, presente nei filosofi venuti prima di Aristotele,
Platone, in primo luogo, ma anche in precedenza, fino a Talete. La causalità,
infatti è intimamente connessa con il problema filosofico del “perché”, della
ragion d'essere.
In Aristotele, tuttavia, la causalità trova la sua prima
formulazione organica e, presumibilmente, completa nel contesto della filosofia
prima. Aristotele enumera quattro ordini di cause:
- materiale, vale a dire ciò di cui una sostanza è fatta, come ad esempio il
bronzo per la statua o il legno per l'armadio;
- efficiente (o agente), cioè ciò da cui una sostanza è fatta o mossa (o si
trasforma nel divenire), nel significato dell'operatore (o del realizzatore) di
una sostanza, come il vasaio per l'anfora o il carpentiere per l'imbarcazione,
ma anche come il sole per la crescita o l'umore per l'istinto;
- formale, ciò per cui una sostanza è quella sostanza che è, cioè l'intimo
profilo intelligibile di una sostanza, da non confondere, certo, con la sua
esteriorità materiale o il suo volto fisico; si tratta di quella delineazione
essenziale che corrisponde, nel linguaggio alla definizione della cosa, come la
ragionevolezza attribuita all'animale nel caso dell'uomo;
- finale, ciò in vista di cui (alla luce di cui) una sostanza è pienamente
intelligibile, la causa primaria (in senso metafisico, cioè anche ultimativa)
che costituisce il senso stesso della causalità degli altri ordini di cause.
La causa finale. L'ente in quanto ente
La causa finale
Proprio la causa finale esige un'ulteriore chiarimento, data la sua statura
di fondamento della stessa causalità.
Il fine, in filosofia, non può coincidere con lo scopo, cioè l'obiettivo
dell'azione di una sostanza, pena l'insignificanza di qualsiasi proposizione di
senso metafisico. Sulla questione del fine (o della finalità) sta o cade tutta
la pregnanza della metafisica. Facciamo un esempio per capire.
A spasso per un parco naturale, ad onta della natura incontaminata e della
verginità dell'ambiente, mi imbatto improvvisamente, sul limitare di una
magnifica radura, in un frigorifero riverso al suolo. Che orrore, che criminale
quel pendaglio da forca che per disfarsi di un elettrodomestico ingombrante ha
pensato bene di abbandonarlo in quel modo incivile! Certo, è un frigorifero;
magari ancora funzionante, se supportato dalla necessaria erogazione di corrente
elettrica. Potrebbe ancora realizzare il proprio scopo conservando i cibi a
temperatura ridotta, ciò per cui è stato costruito. Eppure quel frigorifero è un
assurdo, un dato incomprensibile, perché così abbandonato non realizza la
propria finalità.
Che cos'è, dunque la finalità? Non può essere certo lo scopo cui una cosa
qualsiasi tende con la sua azione. Se, ad esempio, la finalità dell'uomo
coincidesse con la crescita e con l'età adulta, diventerebbe d'obbligo
chiedersi, una volta raggiunta l'età adulta, quale altra finalità dovrebbe
governare il suo agire. Forse la vecchiaia e, al termine di tutto, la morte? I
fini non realizzano, in quanto tali, ma soltanto in ragione di un orizzonte più
ampio, la finalità appunto, all'interno della quale ottengono significato.
L'adulto, allora, può essere sì la finalità dell'uomo, ma come il significato della
piena maturità, che sta a monte di qualsiasi uomo, a fondare la significatività
della sua crescita e della sua vita intera. L'essere adulto, in questo caso,
diventa il fine anche del vecchio e del morente, pur non potendo esserne lo
scopo, vista l'irreversibilità del tempo.
La finalità del frigorifero, invece, è l'economia domestica, non la
conservazione dei cibi.
D'altronde, qual è la finalità dell'uomo? Forse uno
scopo che l'uomo si propone? Se così fosse, l'uomo sarebbe inevitabilmente
frustrato, perché ad ogni scopo raggiunto se ne aggiungerebbe un altro, e un
altro ancora, fino a quando la fine interromperebbe inesorabilmente la catena.
La finalità dell'uomo non è uno scopo, ma la sua stessa posizione nell'ordine
dell'essere; la finalità dell'uomo consiste nella realizzazione della manifestatività dell'essere, cioè nella coscienza. La finalità dell'uomo è
l'intelligenza (la sua forma è la razionalità), l'intelligenza che consiste
(letteralmente) nella “lettura intima” delle cose, nell'identificazione
(dell'uomo) nella loro natura essenziale. L'intelletto (participio passato di
senso passivo del verbo intelligere), infatti, altro non è se non la natura
della cosa in quanto “letta nell'intimo” (intel-letta) nell'ordine della
rappresentazione.
La finalità, quindi, costituisce l'orizzonte di comprensibilità delle cose
(che divengono nel mondo), il contesto previo all'interno del quale esse godono
di significato pieno, anche a prescindere da una loro singolare ed empirica
realizzazione (come nel caso in cui un individuo, per motivi di ordine
accidentale, non possa realizzare appieno la propria forma). Essa è l'orizzonte di intelligibilità di una
sostanza, il panorama entro il quale il suo significato si manifesta, il tessuto
di relazioni che costituiscono una sostanza come un elemento integralmente
comprensibile nel tutto, la condizione di senso. La finalità è un punto di
partenza e, solo in seconda istanza, anche un punto di arrivo.
A questo punto dovrebbe risultare chiaro perché, a prescindere dalla finalità,
ogni causalità perda di significato. Perché infatti costruire un frigorifero al
di fuori di un'idea di economia domestica? Perché vivere al di fuori di un
orizzonte di intelligenza? La finalità è intimamente connessa con la non
contraddittorietà: qualcosa è quel qualcosa e non può non essere quel qualcosa
che è.
La prima “storia della filosofia”: Metafisica I
Discutendo della causalità, nel primo libro della sua Metafisica,
Aristotele si propone di descrivere e di commentare le prese di posizione dei
suoi predecessori. Da Talete, infatti, cioè dal VII secolo, la filosofia si è
interrogata, in un modo o nell'altro, sulla questione del principio cosmico,
cioè sull'origine causale dell'intero complesso naturale che costituisce il
teatro dell'esperienza.
Costruendo una prima, piccola, storia della filosofia, Aristotele passa in
rassegna le risposte offerte dai suoi più illustri predecessori, non senza
mettere in evidenza, a suo giudizio, i progressi, i regressi e le aporie
(problematicità irrisolte) dei discorsi filosofici precedenti, a cominciare da
Talete di Mileto, ritenuto da lui (come da noi) il padre del discorso
filosofico.
Guardando al passato nella prospettiva del concetto di causa Aristotele affronta
infine i diversi problemi del platonismo e critica la dottrina del maestro (come
si è già visto), benché aperta alla pluralità delle cause.
In Platone, in effetti, vengono contemplate la causa materiale (la chora),
la causa formale, le Idee, e la causa efficiente, il Demiurgo, ma a giudizio di
Aristotele manca ancora l'ordine di causalità fondamentale, quella finale, che
si fa carico della giustificazione della causalità in generale.
È in questo senso che Aristotele supera la concezione dell'intelligibile
platonico assegnando invece all'intelligenza il primato nell'ordine dell'essere.
Solo un'intelligenza (fondamentale) è capace di assicurare senso completo alle
cose entro il quadro di un mondo coerente.
L'ente “in quanto” ente
Veniamo ora al significato dell'essere. La metafisica è scienza
dell'essere, o meglio scienza dell'ente, perché considera le realtà esistenti
in quanto realtà, non in quanto specificamente determinate secondo le diverse
configurazioni essenziali.
L'essere delle piante è studiato dalla botanica (le piante sono enti
vegetali); l'essere del mondo in quanto realtà materiale in movimento è
studiato dalla fisica (il mondo è ente in movimento); l'essere degli armenti,
dei volatili, dei pesci è studiato dalla zoologia (armenti, volatili e pesci
sono enti animali).
L'essere in quanto tale, invece, o meglio l'ente in quanto ente è studiato
dalla metafisica, che si occupa di piante, corpi materiali e animali non
relativamente alle loro singole specificità, ma in quanto, appunto,
generalmente enti. Tutte le cose che sono, partecipano dell'essere, sono,
cioè, enti. La metafisica, dunque, studia il loro essere “in quanto” tale. La formula “in quanto” significa “nella misura in cui”, “per quanto si
consideri”, ecc... “Ente in quanto ente” significa che lo studio della
metafisica si concentra sull'essere dell'ente a prescindere dal suo grado di
partecipatività.
L'essere dell'ente è un concetto analogo. Ciò significa che essere si dice
(si predica) in molti modi; quando infatti in qualsiasi proposizione usiamo il
verbo essere, considerato in se stesso esso assume significati diversi.
Diciamo preliminarmente che un termine può essere univoco, equivoco o analogo a
seconda delle sue prerogative di predicabilità:
- univoco è il termine che si
predica sempre nel medesimo significato (ad esempio il nome triangolo);
- equivoco è il termine che si predica di realtà del tutto differenti (ad esempio cane, che
si dice del quadrupede, del percussore nelle armi da fuoco e della
costellazione; pesca si dice del frutto e della pratica di caccia ittica);
- analogo è il termine che si predica di cose differenti, ma in
ragione di (in relazione a) un unico principio di significato (ad esempio l'aggettivo sano, che
si dice dell'individuo, del sangue, del cibo e dell'ambiente in ragione del
significato della salute intesa ora come qualità, ora come sintomo, ora come
causa, ora come effetto).
L'essere (dell'ente) è dunque un termine/concetto analogo, che riveste diversi significati; Aristotele ne seleziona quattro: esso, infatti, si dice come accidente, come categoria, come vero e come atto/potenza.
L'accidente
È ciò che accade, che capita: l'essere, infatti si dice (si predica) di tutto
ciò che si manifesta, in qualsiasi modo si manifesti.
Se si dice, ad esempio:
«il cielo è blu», l'essere blu del cielo viene predicato accidentalmente, perché
in quel momento e in quel luogo il cielo è di un bel blu terso. Se si dice:
«sono seduto», l'esser seduto si predica accidentalmente, perché in quel preciso
istante capita che io sia seduto, non supino né in piedi, il che, peraltro,
sarebbe possibile.
Le categorie
Il termine categoria proviene dall'antico linguaggio forense del mondo greco,
quando significava capo d'accusa, imputazione di reato. Categorizzare
significava accusare, cioè riconoscere un soggetto all'interno di una
fattispecie criminale.
Aristotele ha improntato filosoficamente il termine
“categoria”, assegnandogli il compito di indicare i predicati dell'essere, cioè tutte
le possibili “imputazioni” di cui un soggetto reale può essere fatto segno.
A suo parere sono dieci (omaggio al pitagorismo) i generi ai quali è possibile
ricondurre tutti i predicati:
- la Sostanza gode
di un primato: si dice “per sé” e non “per altro”, cioè si predica sempre in
riferimento a se stessa e mai in riferimento ad altro. Ciò significa che quando si
predica una sostanza (ad esempio uomo), il predicato è capace di presentarsi da
sé solo, senza bisogno di un soggetto (sostanziale) di inerenza. Quando infatti
si predicano altre categorie (ad esempio bianco), allora il predicato si
appoggia necessariamente a un soggetto di inerenza, (per esempio il bianco
dell'uomo o
il bianco del tavolo).
- la Qualità e gli altri generi predicamentali, invece, si dicono della
sostanza “per altro”. Ad esempio, come si è detto, quando si dice che il tavolo è bianco. Il bianco inerisce (“si
applica”, “si appiccica”) al tavolo come sua qualità; il tavolo si porta dietro
il suo bianco.
- la Quantità. Ad esempio, il banco pesa un tot, cioè il peso (o le misure) gli ineriscono.
- la Relazione dice il riferimento della sostanza ad altro da sé. Il
banco sta accanto all'altro, appoggia al muro. La relazione non è una sostanza
“terza” tra due sostanze, il banco e il muro dell'esempio, ma è una proprietà
sia del banco sia del muro, inerente ad essi.
Le categorie di luogo, tempo, azione, passione, abito e sito. L'essere come ver
- il Tempo. Fabbricato nel 1998: ha già 7 anni.
- il Luogo. Bisogna spiegarsi: Aristotele, com'è ovvio, non conosceva Newton;
pertanto, non concepiva lo spazio nei termini di relazioni quantitative tra
tempo e velocità, nei termini cioè di rapporti numerici misurabili, ma lo
intendeva, per così dire, come l'involucro ultrasottile e impalpabile di una
cosa, come il primo limite che costituisce il profilo di ogni ente, come l'abito
attillatissimo di ogni cosa. Il nostro solito tavolo, quindi, non si sposta di
luogo in luogo, secondo Aristotele, ma “si porta appresso” il suo
proprio luogo, ovunque venga spostato. Il luogo è, per così dire, il volume della porzione di materia
entro la quale si raccoglie ciascuna sostanza.
- l'Azione. Il nostro tavolo preme sul tappeto, urta il muro, ostacola il
passaggio.
la Passione. Il nostro tavolo subisce un'incisione da parte di un vandalo, sopporta un carico.
- l'Abito. Si tratta di una categoria difficile da identificare: potremmo
chiamarla comportamento acquisito, profilo assunto in seguito all'uso, quasi
deformazione contratta per usura: ad esempio il piano del nostro tavolo si è incurvato per l'uso ormai
decennale e per l'umidità dell'ambiente.
- il Sito. Analogamente dobbiamo procedere in modo congetturale anche per
questa categoria, di difficile chiarificazione. Si tratterebbe di una forma di
contesto all'interno del quale la sostanza acquista un ruolo proprio. Ad
esempio, il nostro
tavolo è “da gioco”.
Aristotele non ha codificato con questo una distinzione rigorosa di ambiti predicamentali; la sua ricerca è, invece, fenomenologica, volta a raggruppare i predicati, senza la pretesa di incasellarli rigidamente. I predicati di qualità possono infatti confluire nella categoria della relazione, così quelli di luogo; abito e sito sono di difficile individuazione; ciò che è quantitativo, poi, è per Aristotele anche qualitativo, senza creare contraddizione. Ci muoviamo, infatti, nell'ambito dell'analogia.
L'esser vero
Il vero, per Aristotele, è l'equivalente dell'essere, perché vale la convinzione
ingenua (non critica) che tutto ciò che è, proprio in quanto è, si manifesta e
quindi appare alla coscienza, nel significato della sua verità: dire “essere” e
dire “esser vero”, per Aristotele è immediatamente equivalente. La riflessione
successiva (non di Aristotele) porterà a individuare nel vero uno dei cinque
predicati cosiddetti “trascendentali” (uno, vero, buono, cosa e alcunché), cioè
capaci di essere convertibili con l'ente, e quindi più ampi delle configurazioni
categoriali.
Atto e potenza
L'essere in atto significa l'esercizio reale di qualcosa, la sua
configurazione presente, l'essere in potenza, invece, ne significa l'esercizio
possibile, la sucettibilità o la versatilità.
La coppia atto/potenza si rivela decisiva, in Aristotele, per la spiegazione del
divenire.
La scienza della sostanza: forma e substrato
La metafisica come scienza della sostanza (usiologia)
La sostanza, si è visto, è la categoria che si predica di per sé, che risulta
significativa in se stessa senza dover inerire ad altro per trarne significato
compiuto.
Con il termine sostanza (ousía), poi,
Aristotele intende significare, secondo l'analogia:
- la Forma;
- il Substrato;
- il Sinolo.
La sostanza è il principio della filosofia aristotelica; mentre per Platone la
realtà si configurava in modo pieno e perfetto come idea, per Aristotele il
significato più consistente della realtà è quello della sostanza, cioè, in prima
istanza, il significato di tutte le cose che si offrono all'esperienza
dell'uomo, a partire dallo sguardo che osserva la natura del mondo fenomenico.
Aristotele, al di là di Platone, non vuole svalutare il fenomeno, la realtà che
appare ai sensi, ma lo vuole interpretare e ne fa l'oggetto proprio della sua
speculazione filosofica.
La Forma
Il corrispettivo immanente dell'idea platonica, già lo sappiamo, è la
forma (morphé), che in Aristotele gioca il ruolo di principio di
determinazione e di versante attuale delle cose. La forma è il profilo
interiore di tutto ciò che è in quanto è ciò che è, è la causa formale della
sostanza, rappresenta la differenza specifica di ogni ente che si esprime nella
definizione.
Aristotele usa una formula un po' criptica per designare la forma: “ciò che era
l'essere”.
Per esaminarne il significato dobbiamo partire dalla considerazione del tempo
del verbo che vi compare: l'imperfetto. L'imperfetto è il tempo
dell'indeterminazione del tempo, cioè quel tempo che esprime un passato non del
tutto passato che continua anche nel presente e che si estende al futuro; si
tratta, cioè, di un passato eterno che non ha inizio né ha fine.
Ora, alla luce di tale osservazione, possiamo dire che la forma corrisponde alla
continuità dell'essere, a ciò che, nelle cose, al di là dei mutamenti di
superficie, permane identico al di sotto del tempo. La forma è ciò che
l'essere era. L'essere inteso come la permanenza, infatti, non è, ma
“era”, proprio come quando i bimbi, giocando nel mondo delle loro finzioni
extratemporali, si dicono l'un l'altro: «facciamo che tu eri l'autista
del bus, e io ero il signore che doveva salire. Allora, tu non ti fermavi al mio cenno e io, infuriato, ti gridavo le più terribili
maledizioni... Dai, lo facciamo?».
La forma, dunque, dice la delineazione fissa di una cosa, ciò che non muta sotto le apparenze: l'intelligenza razionale, infatti, in cui consiste la dignità umana permane anche al di sotto delle sembianze brutali dell'individuo cerebroleso e preesiste nell'individuo allo stato embrionale e ancora non nato: sono uomini!
Il Substrato
Il corrispettivo dell'indeterminata chóra platonica, la “regione
informe” di cui il Demiurgo dispone per plasmare il mondo, è in Aristotele il
principio di indeterminazione (versante potenziale) presupposto in
qualsiasi realtà concreta appartenente al mondo, disponibile come la cera ad
assumere la forma di qualsiasi sigillo impresso.
Il substrato è la materia (ýle), ma
non è materiale, non si può “toccare”; esso è frutto di un'operazione mentale di
progressiva sottrazione di qualsiasi determinazione formale, fino alla più
debole.
Il sub-strato, che letteralmente significa “sdraiato di sotto”, è la
sostanza che funge da soggetto di inerenza delle forme, quali che siano; è ciò
che si presta e che, per così dire, si prostituisce, rendendosi disponibile per
assumere tutte le possibili forme.
Il Sinolo
Sýnolon è termine
intraducibile; significa il “con-tutto”, il “tutto intero”, il “tutto insieme”.
È la sostanza nel suo significato più proprio e più aristotelico. Sinolo sono
tutte le cose che si incontrano nell'esperienza, strutturate di materia e di
forma in un insieme integrale e significativo, concreto e saldo in se stesso,
fintantoché non interviene una causa di dissoluzione che opera la
trasformazione.
Il sinolo è ciascuna realtà ilemorfica.
La sostanza sinolo, poi, gode di tutti i seguenti caratteri:
- si predica di per sé, indipendentemente da qualsiasi inerenza predicativa ad
altro;
- sussiste separatamente, in quanto, grazie alla sua compiutezza, è
indipendente da altro;
- è determinata;
- è unica ed integrale nel suo essere, anche se risulta dall'aggregazione di
elementi o di componenti (es.: il “mucchio”);
- è sempre in atto in quanto considerata di per sé.
Atto e potenza: il divenire
Nella lingua di Aristotele, atto si diceva enérgheia e/o entelécheia;
potenza si diceva dýnamis.
Vediamo nel dettaglio i significati dei tre
termini per meglio comprendere la valenza della coppia aristotelica atto-potenza:
- enérgheia si traduce in italiano energia, che significa,
sottilizzando, “in-ergía”, “in-operatività”, nel senso in cui diciamo: «è in
atto un forte temporale», «è in atto un colpo di Stato», ecc.;
- entelécheia è intraducibile, ma si potrebbe traslitterare in
“in-finalizzazione”, cioè lo stato di raggiungimento della piena corrispondenza
alla finalità, che, se si ricorda, non significa lo scopo, ma l'orizzonte di
piena comprensibilità della sostanza: possiamo parlare della piena realizzazione
dell'essere;
- dýnamis si traduce potenzialità, potenziale, e trova una sua immediata
esemplificazione nel concetto di “dinamite”, ovvero qualcosa che si trova in una
condizione di totale inerzia, ma che è suscettibile di esprimere un'energia devastante,
se opportunamente innescato.
L'esperienza insegna che oltre il modo dell'essere in atto, qualcosa si presenta
anche secondo il modo di essere in potenza, cioè di essere capace di
diventare altro da sé: il seme, ad esempio, in atto come seme, è nel contempo pianta in potenza, e la
pianta, a sua volta, in atto come pianta, è, nel contempo, frutto in potenza, o seme, oppure, altrimenti,
barca o armadio. Il tutto senza contraddizione, cioè fatto salvo il principio
per cui l'essere non può non essere l'essere che è (nello stesso tempo e sotto
il medesimo rispetto).
Resta da osservare che, dal punto di vista gnoseologico (conoscitivo; da gnósis = conoscenza) e dal punto di vista ontologico l'essere in atto detiene
il primato, cioè ricopre un ruolo fondativo e riveste un significato ultimativo
(finalizzante).
Per Aristotele viene prima la gallina, non l'uovo; dalla
gallina, infatti deduco l'uovo, non viceversa.
Il divenire
Il divenire delle cose è un dato. Il problema è pensarlo e, quindi, darne un'interpretazione filosofica.
Eraclito aveva presentato addirittura il divenire come il vero nome dell'essere,
predicando della realtà il suo divenire e non il suo essere. Parmenide, per
contro, aveva stigmatizzato la via del divenire come via della falsità, legata
all'illusione dei sensi, legando invece saldamente la verità al criterio
razionale dell'essere, espresso dal principio di non contraddizione: l'essere è e
non può non essere. Il che, tuttavia, aveva paralizzato il discorso filosofico.
Nel Sofista già Platone aveva superato l'impasse parmenidea scoprendo la
modalità del diverso (cioè del contrario) accanto a quella del contraddittorio,
e in base ad essa aveva
potuto riconoscere che il “non essere altro” del qualcosa significa la sua
diversità nell'ambito dell'essere e non, contraddittoriamente, l'opposto
dell'essere, ovvero il suo completo e radicale non-essere.
Tuttavia, benché si mostrasse in grado di interpretare il mondo delle idee, finalmente
gerarchizzabile, il modello platonico non si era
dimostrato in grado di offrire una spiegazione esauriente al divenire delle cose
sensibili e aveva aperto all'interno della realtà un'insanabile frattura tra mondo indiveniente
(soprasensibile) e mondo
diveniente (sensibile).
Aristotele, invece, riesce a superare lo scoglio della contraddizione di ciò
che è e che trascorre nel non essere e, viceversa, di ciò che non è e che viene
all'essere, grazie ai significati ontologici di atto e potenza, in virtù dei
quali il passaggio dall'essere al non essere e dal non essere all'essere non implica
più la contraddizione del il principio parmenideo secondo cui
l'essere è e non può non essere.
Mediante i modi di essere dell'atto e della potenza, infatti, Aristotele offre la spiegazione del divenire
mantenendosi sul piano esclusivo dell'essere, dal momento che le formule “essere in atto” e “essere in potenza”,
relativamente al qualcosa, significano entrambe l'essere del qualcosa, senza
implicare alcuna parvenza di non essere.
La soluzione aristotelica del divenire, il passaggio dalla potenza all'atto
grazie all'innesco di una causa efficiente, permette di spiegare la
trasformazione (trans-forma, da una forma all'altra) senza incorrere nel vietato
impiego del non-essere. Atto e potenza, infatti, sono modi dell'essere,
entrambi, senza ricorso all'inintelligibile nulla.
Ciò, peraltro, non sembra far scadere il teorema aristotelico in un sistema del
necessitarismo per cui ad ogni potenza corrisponda un atto ineluttabile;
Aristotele, a maggior ragione, sembra proporsi come il filosofo della contingenza, in
quanto la complessità delle cause in gioco nel divenire è tale da garantire, in
linea di fatto, l'aleatorietà e l'opinabilità delle conseguenze, non certo la loro necessità. È
infatti vero che dal seme di melo nasce sempre (o meglio “innanzitutto e per lo
più”) un melo, ma non è detto che, dal melo, sopravvenienti altre cause, derivi
una nuova specie di frutto.
Il “fissismo” del sistema aristotelico sembra
piuttosto essere un'interpretazione a posteriori più che un implicita
conseguenza della sua applicazione alla natura concreta.
La dimostrazione della sostanza soprasensibile: il motore immobile
La dimostrazione della sostanza soprasensibile
Per Aristotele esistono tre generi di sostanze gerarchicamente ordinate, due
di natura sensibile e uno di natura soprasensibile:
- sostanze sensibili che nascono e che periscono (tutto ciò che si trova al di
sotto del cielo sublunare);
- sostanze sensibili incorruttibili (tutto ciò che costituisce i pianeti e i
cieli ad essi relativi);
- Dio e le altre intelligenze motrici (preposte al movimento delle diverse
sfere di cui il cielo consiste).
I primi due generi di sostanze sono costituiti di materia e forma (sono ilemorfiche), dei quattro elementi quelle corruttibili, di etere puro quelle
incorruttibili. La sostanza soprasensibile è, invece forma del tutto priva di
materia. Di quest'ultima si occupa la metafisica in quanto scienza di Dio.
L'esistenza del soprasensibile viene dimostrata da Aristotele con un
ragionamento complesso.
Se tutte le sostanze fossero corruttibili (ipotesi per assurdo) non esisterebbe
assolutamente nulla di incorruttibile.
Ma – dice Aristotele – il tempo e il movimento sono incorruttibili. Il tempo,
infatti, non si è generato né si corromperà, visto che, anteriormente alla
generazione del tempo, avrebbe dovuto esserci un “prima” e posteriormente alla
distruzione del tempo avrebbe dovuto esserci un “poi”, ma essi non sono che
tempo. Per il movimento, poi, vale un ragionamento analogo, perché il tempo non
è altro che una determinazione del movimento (lo si vedrà nella Fisica).
Un movimento eterno, dunque, non può esistere se non in ragione di una causa
adeguata ad esso, cioè un principio primo che sia eterno: se eterno è il
movimento, infatti, eterno deve essere anche il suo principio, la sua ragion
d'essere.
Tale principio, tuttavia non può essere, a sua volta, in movimento, ma deve
essere immobile, perché un ricorso infinito a motori in movimento di
realtà in atto di movimento risulta assurdo, in quanto non sarebbe possibile, a
partire dall'infinito, constatare l'attualità del movimento esistente nell'oggi.
Se immobile, il principio non può che essere un puro atto, dal momento
che la presenza di margini di potenzialità in esso implicherebbero la necessità
di un principio motore a sua volta anteriore necessario per l'attuazione di tali
potenzialità.
Ora, un principio eterno, immobile e puramente attuale non può che essere una
sostanza soprasensibile, del tutto priva di materia, cioè di potenzialità
(principio di potenzialità), come si voleva dimostrare.
I caratteri del motore immobile. La Fisica: i generi di movimento. Lo spazio
Come può muovere un principio motore che rimanga assolutamente immobile?
Aristotele risponde: «come l'oggetto amato muove l'amante», cioè come l'oggetto
del desiderio supremo, vale a dire la perfezione assoluta. La causalità del
Primo Principio dunque non è una causalità di tipo efficiente, ma una causalità
finale, un orizzonte totale che assicura senso a tutto ciò che in esso è
compreso.
Il primo motore immobile è Dio, e come tale gode, immobile, di ogni perfezione:
esso è vita, vivo della migliore specie di vita, cioè di vita intellettuale;
esso è pensiero di pensiero, cioè pensiero pensante ciò che di più
perfetto esiste (ovvero se stesso) in quanto pensiero.
Come tale, in quanto privo di qualsiasi ombra di potenzialità, esso è
disinteressato del mondo: è il mondo, infatti, che si interessa ad esso, in
quanto orizzonte di totale perfezione, ma esso, come tale, non può che rimanere
nella sua perfetta e indifferente immobilità, non può piegarsi a curare le cose
del mondo. Amato, non ama.
la fisica
La seconda scienza teoretica per Aristotele è la fisica (o “filosofia
seconda”), la quale ha come oggetto di indagine la realtà sensibile,
intrinsecamente caratterizzata dal movimento. Il termine fisica non deve trarre
in inganno: non si tratta della scienza della natura galileianamente intesa,
vale a dire quantitativamente intesa, ma di una scienza qualitativa della
natura, una sorta di ontologia del sensibile. Siamo di fronte a una
considerazione squisitamente filosofica della natura.
Il soprasensibile, continua ad essere considerato causa e ragion d'essere del
sensibile e il metodo applicato è lo stesso metodo della metafisica.
Il mutamento (movimento)
Il movimento è un dato di fatto originario, per Aristotele, e non può essere
messo in dubbio da alcuna considerazione di tipo ontologico (nel senso
parmenideo del termine); esso, come sappiamo, è precisamente il passaggio
dall'essere in potenza all'essere in atto (sempre sul piano dell'essere). Le
categorie secondo le quali avviene il mutamento sono: 1) la sostanza, 2) la
qualità, 3) la quantità, 4) il luogo.
Quindi, secondo ciascuna delle quattro categorie, avremo il mutamento:
- di generazione e corruzione;
- di alterazione;
- di aumento e diminuzione;
- di traslazione.
Naturalmente nell'ambito della fisica valgono le considerazioni fatte circa la
dottrina delle cause: forma e materia sono cause intrinseche del divenire,
mentre la causa efficiente costituisce il motore in atto che opera il passaggio
dalla potenza all'atto del divenire stesso della sostanza e il tutto trova la
sia ragion d'essere nell'orizzonte finalistico, per il quale ogni mutamento
acquista la valenza di realizzazione e di perfezionamento dell'essere.
Aristotele ha distinto la realtà sensibile in due sfere fra loro nettamente
differenziate: da un lato il mondo cosiddetto sublunare e dall'altro il
mondo sopralunare o celeste. Il mondo sublunare è caratterizzato
da tutte quante le forme di mutamento, fra le quali predominano la generazione e
la corruzione. Invece i cieli sono caratterizzati dal solo movimento locale, e
precisamente dal movimento circolare. La differenza tra i due mondi, entrambi
sensibili, consiste nella diversa materia di cui sono costituiti.
La materia in
cui risiede la potenza dei contrari (cioè le condizioni delle varie specie di
mutamento qualitativo e quantitativo), infatti, è data dai quattro elementi
(terra, acqua aria e fuoco) che possono trasformarsi tra loro (l'acqua
raffreddata dà luogo alla terra, l'aria riscaldata al fuoco, l'aria raffreddata
all'acqua e l'acqua riscaldata all'aria); la materia che possiede solo la
potenza di passare da un punto ad un altro, e che quindi è suscettibile di
ricevere il solo movimento locale, invece, è l'etere (letteralmente significa:
“che corre sempre”), detto anche “quint'essenza”.
Mentre il movimento
caratteristico dei quattro elementi è rettilineo (dal basso verso l'alto quelli
leggeri o dall'alto verso il basso quelli pesanti), quello dell'etere è invece
circolare perché l'etere non è né pesante né leggero.
L'etere è ingenerato e
incorruttibile, non soggetto ad accrescimento e ad alterazione né ad altre
affezioni che implichino questi mutamenti; perciò i cieli sono incorruttibili.
Lo spazio e il vuoto
Gli oggetti non sono nel non-essere, che non esiste, ma
sono in un “dove”, ossia in un luogo, che dunque è qualcosa che è.
L'esperienza
mostra che esiste, prima di tutto, un «luogo naturale» cui ciascuno degli
elementi tende, quando non sia contrastato da un ostacolo: fuoco e aria tendono verso l'alto,
terra e acqua verso il basso. Alto e basso non sono qualcosa di relativo a noi,
bensì qualcosa di oggettivo, sono determinazioni naturali.
Il luogo viene
definito come tò próton periéchon (= il più vicino “avente attorno”), cioè una
certa forma di limite (o di limitare) impalpabile della sostanza. È da intendersi
come il contenente, ma non come il recipiente, cioè come qualcosa di contiguo al
contenuto, un recipiente che non si può dissociare dalla sostanza cui inerisce.
Da tale definizione di luogo segue che non è pensabile un luogo fuori
dell'universo, cioè fuori del tutto, né un luogo in cui sia l'universo: il cielo,
infatti è il tutto e come tale non può essere in altro. Così, il movimento del
cielo sarà possibile solo nel senso della circolarità su se medesimo, non
essendoci “posto” per una qualsiasi traslazione. Il vuoto, pertanto, è
impossibile; se al contrario fosse possibile, dovrebbe considerarsi un luogo dove non c'è nulla, una
contraddizione in termini.
Il tempo
Il tempo non esiste. Una parte di esso, infatti non è più; un'altra parte non è ancora. L'istante tra le due parti, poi, non ha dimensione alcuna, è soltanto un limite, una soglia tra l'una e l'altra (tra il futuro e il passato). Dunque, il tempo è fatto di nulla e, pertanto non esiste. Per parlare di tempo, quindi, occorre parlare di mutamento e di anima, i due termini imprescindibili della realtà del tempo. Quando infatti non mutiamo nulla all'interno del nostro animo, o non avvertiamo nessun mutamento, ci pare che il tempo non sia trascorso. Diciamo, invece, che il tempo compie il suo percorso quando abbiamo percezione del prima e del poi nel movimento. Il tempo, perciò, è il numero (numerazione) del movimento secondo il prima e il poi (cioè secondo le fasi del divenire). Se si esclude il numerante (l'anima) il numerato (il tempo) non è dato.
LA PSICOLOGIA
L'anima
Per Platone l'anima è la realtà vera dell'uomo, in quanto componente di
ordine ideale dualisticamente unita per incorporazione alla materia che
costituisce una fastidiosa zavorra, sede della concupiscenza e delle passioni,
da cui liberarsi attraverso la pratica delle virtù. Il concupiscibile e
l'irascibile, le due parti dell'anima (o due anime) che il Noûs cerca di
governare, si presentano nel mito come cavalli bizzosi che comportano la caduta
dell'auriga (l'anima intellettuale) nel mondo delle immagini corporee.
Di Platone, la dottrina psicologica di Aristotele conserva soltanto l'idea della
tripartizione, che tuttavia viene reinterpretata secondo il consueto criterio
fenomenologico che governa gli interessi dello Stagirita.
I livelli di vita e le tre manifestazioni dell'anima
L'anima è definita da Aristotele nell'ordine della finalità: essa, infatti, è
atto (entelécheia) primo di un corpo fisico organico, che possiede la
vita in potenza. L'anima costituisce la finalizzazione di un ente organico che,
potenzialmente, è capace di esercitare determinate facoltà vitali, legate al suo
livello di specializzazione. Tale finalizzazione, appunto, prende il nome di
anima (psyché).
Fenomenologicamente (vale a dire a partire da uno sguardo
che si sforza di mettere in evidenza l'essenziale delle cose che si manifestano
nella realtà) Aristotele distingue tre livelli di animazione degli organismi:
- un primo livello vegetativo, le cui proprietà consistono nella nutrizione e
nella riproduzione;
- un secondo livello animale, le cui proprietà consistono nella sensazione e
nel movimento;
- un terzo livello intellettuale, le cui proprietà consistono nell'astrarre e
nel conoscere.
A proposito del livello intellettuale dell'anima la tradizione ha imposto una
interminabile questione, a motivo della poca chiarezza dei termini usati da
Aristotele per parlarne. Nel passo più significativo del trattato Sull'anima,
infatti, Aristotele dice che questa facoltà dell'intelletto è “separata”, senza
peraltro precisare bene in che senso debba intendersi tale connotazione
dell'intelletto; ciò ha prodotto, nella tradizione successiva, una discussione
senza fine che ha dato origine a diverse correnti di pensiero aristotelico,
diversamente impostate a seconda del significato attribuito a tale separatezza
dell'intelletto.
L'anima intellettiva e la conoscenza
La conoscenza
Per comprendere senza fraintendere il concetto aristotelico di conoscenza,
bisogna considerare che, dall'età moderna in poi (da Cartesio in avanti nella
storia del pensiero), ci siamo abituati a pensare la conoscenza come un
immagazzinamento di esperienza, che avviene all'interno di una sostanza che si
chiama (variamente) pensiero, mente, intelletto, cervello, ecc. La conoscenza si
configura nel nostro sentire comune come un bagaglio, come una realtà che
"entra", chissà come, chissà dove.
Per la mentalità antica, invece la conoscenza è una dinamica di assimilazione
alla/della realtà del mondo, l'essere del quale, in un suo modo proprio,
consiste nella verità, cioè nella relazione di manifestatività che si attua in
quanto "apparire". L'essere dell'ente, infatti, nella misura in cui appare ed
esiste, si manifesta "a", cioè è sotto forma di conoscenza in quanto si fa
presente alla coscienza.
La natura dell'intelletto, infatti, è per Aristotele la stessa natura delle cose, in quanto
astratte e conosciute (intellette), in quanto rappresentate.
L'intelletto, cioè, non è una cosa, ma “le”
cose in quanto conosciute; tale manifestazione dell'essere, quella
intellettuale, costituisce la prerogativa della fascia più elevata di
partecipazione all'atto d'essere all'interno dalla natura, cioè la modalità
dell'intelligenza, che, come già si è visto, costituisce la natura del Motore
immobile (pensiero di pensiero).
La stratificazione degli “intelletti”, cioè delle conoscenze acquisite,
costituisce per Aristotele una sorta di abito intellettuale, cioè di possesso o
di patrimonio a disposizione della conoscenza, che costituisce la scienza: essa
si definisce “abito intellettuale” (ciò che è avuto dalla conoscenza), la
familiarità con i principi e le nozioni.
Intelletto possibile e intelletto attivo. Il complesso sensitivo
Aristotele, dunque, distingue un
intelletto agente e un intelletto recettivo, l'uno paragonabile a un fascio di
luce che investe l'intelligibile (la forma) da astrarre e da conoscere nella realtà,
l'altro che effettivamente conosce, facendosi capace delle cose sotto l'aspetto
della forma (o della specie astratta). Naturalmente ciò non significa che si
diano nell'uomo "due" intelletti, quasi una forma di schizofrenia, ma che,
filosoficamente, nell'intelletto si possono considerare l'aspetto potenziale e
l'aspetto attuale, cosa che non accade al livello massimo dell'intelligenza, nel
Motore immobile, che consiste di un'attualità assoluta.
Le cose, dunque, si presentano all'indagine filosofica come realtà intelligibili,
vale a dire in potenza alla conoscenza, suscettibili di conoscenza, e come realtà
intellette, cioè attualmente realizzate entro l'orizzonte della manifestatività
dell'intelligenza.
Il complesso sensitivo
L'ambito (animale) della conoscenza comprende una complessa articolazione di
funzioni che, in prima istanza, si distingue nell'apparato dei sensi esterni e
di quelli interni. I sensi esterni sono i cinque sensi cui siamo abituati a
pensare parlando in generale di sensi. È comunque da tenere presente che il
termine “senso” (come il termine intelletto) è in realtà da considerarsi un
participio passato (sensato), il che sta a significare che in verità il senso
non è l'organo di senso, come comunemente siamo abituati a pensare, ma l'oggetto
proprio della sensazione, cioè il sensibile che si è attuato attraverso,
appunto, la sensazione. Il senso, dunque, è la (cosa) “vista”, il (suono)
“udito”, il (sapore) “gus(ta)to”, l'(odore) “olfatto”, il (ruvido) “tatto”: una
serie di participi passati, dal verbo udire, vedere, ecc.
Ogni organo di senso ha un sensibile proprio (come il colore per la vista e il
suono per l'udito) e dei sensibili comuni (come la forma per la vista e per il
tatto).
I sensi interni sono quattro, vale a dire memoria, immaginazione, estimativa e
senso comune.
Fantasia e memoria; il problema della "separatezza" dell'intelletto
Possiamo facilmente associare la memoria al ricordo e l'immaginazione alla combinazione e alla dissociazione dei referti dei sensi esterni o interni, mentre dobbiamo considerare l'estimativa come quel senso che presiede all'appetito e al rifiuto, all'attrazione e alla ripulsa. Il senso comune, infine, è la regia interna della sensazione, cioè il sensorio che permette l'organizzazione unitaria di tutti i dati della sensazione, coordinati e conformati secondo un “fantasma sensibile”, ciò che, in definitiva, viene sottoposto alla “radiazione” dell'intelletto agente e da cui viene astratta la forma intelligibile, per la conoscenza intellettuale del concetto.
Il problema della separatezza dell'intelletto
L'atto intellettivo è analogo all'atto percettivo, in quanto è un ricevere o assimilare le forme intelligibili, così come quello era un assimilare la forma sensibile, ma differisce profondamente dall'atto percettivo, perché non è mescolato al corpo e al corporeo:
Circa la parte dell'anima, con cui essa conosce e pensa – sia essa qualcosa di separato, oppure di non separabile spazialmente ma solo idealmente – bisogna vedere quale caratteristica essa possiede, e come mai si produce il pensare. Ora, se [per assurdo] il pensare è come il sentire, deve essere un subire alcunché da parte del pensato, o qualche altra cosa del genere. Ma allora, a rigore, esso non deve subir nulla, ma soltanto accogliere la forma, e diventare in potenza simile alla cosa ma non già di fatto la stessa cosa: insomma la relazione del pensante al pensato deve essere simile a quella del senziente al sentito. Occorre, di conseguenza, che l'intelletto, in quanto pensa tutto, sia scevro di ogni mescolanza, come appunto Anassagora dice che deve essere affinché possa "dominare" il che vuol dire: affinché possa conoscere. Qualunque cosa estranea, che si presentasse in mezzo, opererebbe infatti come un ostacolo e una preclusione: quindi l'intelletto non può avere proprio nessuna natura, se non appunto questa, dell'essere potenzialità. Quel che dunque, nell'anima, chiamiamo Noûs (e intendo, con questo nome, ciò con cui l'anima pensa e opina) non è, in atto, nessuna delle realtà esistenti, prima del suo effettivo pensare. E perciò non è ragionevole che esso sia commisto col corpo: perché subito acquisterebbe una certa qualità, e sarebbe freddo o caldo, oppure sarebbe uno strumento di una certa specie, come è l'organo del senso. Ora, invece, non è nulla di questo. E hanno ragione quelli che dicono che l'anima è il luogo delle forme ideali: salvo che ciò non va detto di tutta l'anima, ma solo di quella pensante, e che le forme ideali non vi esistono in atto ma solo in potenza. E che l'immunità dal subire azione non sia uguale nel caso della facoltà intelligente e di quella senziente, è chiaro se si considerano gli organi di senso, e la sensazione stessa. Se infatti, in ciò che vien percepito sensibilmente, la percepibilità è troppo intensa, il senso non può sentire: così, i suoni troppo forti non vengono distinti, e lo stesso vale per i colori troppo luminosi, e per gli odori troppo violenti. Ma quando l'intelletto pensa un pensiero che sta al più alto livello della pensabilità, non perciò esso ha minore capacità di pensare le cose di minor conto, anzi ne ha di più. Ché l'organo del senso non sta senza il corpo, mentre l'intelligenza sta per conto suo. E quando, in tal modo, l'intelligenza diventa tutte le cose, così come accade a colui che vien chiamato sapiente quando trasforma la sua capacità in atto (e ciò ha luogo quando questo suo attuarsi dipende solo da lui stesso), anche allora essa è, in certo modo, in potenza, per quanto non nello stesso senso in cui lo era prima di aver appreso e di aver scoperto. Così allora l'intelletto può pensare da se medesimo.
Anche il conoscere intellettivo, dunque, così come quello percettivo, è
spiegato da Aristotele in funzione delle categorie metafisiche di potenza e
atto.
L'intelligenza è, di per sé, capacità e potenza di conoscere le pure forme; a
loro volta, le forme sono contenute in potenza nelle sensazioni e nelle immagini
della fantasia; occorre pertanto qualcosa che traduca in atto questa doppia
potenzialità, in modo che il pensiero si attualizzi cogliendo in atto la forma,
e la forma contenuta nella immagine diventi concetto in atto colto e posseduto:
E c'è dunque un intelletto potenziale in quanto diventa tutte le cose e c'è un intelletto agente in quanto tutte le produce, che è come uno stato simile alla luce: infatti anche la luce in un certo senso rende i colori in potenza colori in atto. E questo intelletto è separato, impassibile e non mescolato e intatto per sua essenza: infatti l'agente è sempre superiore al paziente e il principio è superiore alla materia [...]. Separato [dalla materia], esso è solamente ciò che appunto è, e questo solo è immortale ed eterno.
Riguardo al paragone con la luce, è da pensare che, come i colori non
sarebbero visibili e la vista non li potrebbe vedere, se non ci fosse la luce,
così le forme intelligibili che sono contenute nelle immagini sensibili
resterebbero in queste allo stato potenziale e l'intelletto potenziale non
potrebbe a sua volta coglierle in atto, se non ci fosse come una luce
intelligibile, che permetta all'intelletto di "vedere" l'intelligibile e a
questo di essere veduto in atto.
L'affermazione, invece, secondo la quale l'intelletto viene dal di fuori,
significa che esso è irriducibile al corpo per sua intrinseca natura, e che
dunque trascende il sensibile. Il che significa che nell'uomo c'è una dimensione
metempirica, soprafisica, divina. L'intelletto agente, quindi, rispecchia i
caratteri del divino e soprattutto la sua assoluta impassibilità:
Ma l'intelletto sembra che sia in noi come una realtà sostanziale e che non si corrompa. Infatti, se si corrompesse, dovrebbe corrompersi per l'indebolimento della vecchiaia. Ora accade invece ciò che accade agli organi sensoriali: se un vecchio ricevesse un occhio adeguato, vedrebbe alla stessa maniera di un giovane. Pertanto la vecchiaia non è dovuta ad una affezione che patisce l'anima, ma il soggetto in cui l'anima si trova, come avviene negli stati di ubriachezza e nelle malattie. L'attività del pensare e dello speculare illanguidisce quando un'altra parte all'interno del corpo si guasta, ma essa è di per sé impassibile (apathés). Il ragionare, l'amare o l'odiare non sono affezioni dell'intelletto, ma del soggetto che possiede l'intelletto, appunto in quanto possiede l'intelletto. Perciò una volta che questo soggetto sia perito, non ricorda e non ama: infatti ricordare e amare non sono propri dell'intelletto ma del composto che è perito e l'intelletto è certamente qualcosa di più divino e impassibile.
Questo intelletto è individuale? Come può venire "dal di fuori"? Che rapporto
ha con l'individualità e l'io? Quale rapporto ha con il comportamento morale? È
completamente sottratto a qualsiasi destino escatologico? Che senso ha il suo
sopravvivere al corpo?
Sono problemi cui Aristotele non ha fornito una risposata
L'etica. Il rapporto tra felicità e virtù; virtù etiche e virtù dianoetiche
L'etica
La disciplina morale (etica) concerne gli atti umani, cioè quegli atti che
sono presieduti da deliberazione, in quanto è in gioco qualcosa che promuove
(nel bene) o lede (nel male) la dignità stessa dell'uomo, cioè la sua
specificità razionale e la sua libertà.
In quanto disciplina degli atti, la morale concerne
i fini che motivano le scelte dell'uomo, primo fra tutti la felicità. La
felicità, in quanto sommo bene, risulta desiderabile di per sé, cioè non in
vista di altro da sé.
Tra bene ed essere non corre differenza, in quanto si dice bene l'essere nella
sua piena realizzazione, non qualcos'altro che esuberi dall'essere stesso;
d'altronde, essere e fine (nel senso di finalità, non certo di scopo) si
identificano, in quanto la finalità rappresenta l'orizzonte di significato entro
il quale ogni cosa si realizza, quindi il suo essere pienamente.
Felicità e virtù
Stante la revisione del platonismo, per la quale
Aristotele ha escluso che il significato della realtà sia un'idea trascendente,
così anche per il fine primario, la felicità, dobbiamo egualmente pensare che
essa non possa trovarsi al di fuori dell'uomo, in un mondo separato, ma che
debba inerire intimamente all'uomo e quindi proporsi come fine e bene immanente. Il bene supremo per l'uomo, perciò, il fine felicitante, potrà identificarsi con ciò che gli è
primariamente peculiare dal punto di vista dell'essere, cioè con la ragione e con l'attività secondo ragione.
Operare secondo ragione, tuttavia, implica l'operare secondo il criterio della virtù, cioè mediante quelle
disposizioni che favoriscono la realizzazione dei fini. La felicità, dunque,
consiste in un'attività dell'anima secondo virtù.
Come ogni livello dell'anima
ha un'attività peculiare, così ciascuno ha una sua peculiare virtù, tenendo
comunque conto del fatto che la virtù veramente umana è quella in cui rientra
l'attività della ragione. Pertanto, dobbiamo osservare che, mentre la facoltà
vegetativa non impegna la ragione, la facoltà sensitiva, pur essendo di per sé
irrazionale, in qualche modo partecipa della ragione, nella misura in cui viene
temperata nei suoi appetiti propri. Si può allora parlare, a questo livello di
“virtù etiche”.
Quando infine prendiamo in considerazione la facoltà
intellettiva, allora questo sarà il campo della virtù più propriamente umana,
che prenderà il nome di “virtù dianoetica” (dianoetico significa “attraverso il
conoscitivo”).
Le virtù etiche e le virtù dianoetiche
Le virtù etiche sono numerose come numerosi sono gli impulsi e gli appetiti sensitivi che la
ragione è chiamata a moderare.
Si apprendono mediante l'esercizio e si
consolidano come “abiti” dell'animo in chi si esercita costantemente. Consistono
nella moderazione degli estremi, cioè nella “medietà” delle inclinazioni: tra
l'eccesso della temerarietà e il difetto della pavidità (entrambi vizi) si
troverà, mediante l'esercizio razionalmente governato, il giusto mezzo del
coraggio; tra il difetto dell'avarizia e l'eccesso della prodigalità ci sarà il
giusto mezzo della liberalità; tra il difetto dell'ostilità e l'eccesso
dell'adulazione ci sarà il giusto mezzo dell'amabilità; ecc.
Al di sopra delle
virtù etiche, secondo Aristotele, si collocano le virtù della parte più elevata
dell'anima, cioè dell'anima razionale. Sostanzialmente le virtù dianoetiche sono
due, la saggezza e la sapienza, relative rispettivamente alla conoscenza delle
cose contingenti e transitorie e a quella delle cose necessarie e immutabili.
In
ordine alla felicità, al primo posto dobbiamo collocare la vita condotta secondo
le virtù dianoetiche, in secondo luogo quella condotta secondo le virtù etiche.
La felicità della vita contemplativa porta in qualche modo al di là dell'umano,
realizzando una sorta di tangenza con la divinità, la cui vita può soltanto
essere vita contemplativa (pensiero di pensiero). Assimilarsi a Dio significa
contemplare il vero così come Dio lo contempla, e anche, contemplare Dio, che è
la suprema razionalità.
L'amicizia e il piacere. La politica
L'amicizia e il piacere
Legata alla felicità è, secondo Aristotele, l'amicizia, imprescindibile per una
vita soddisfacente, insieme con una relativa indipendenza dovuta agli agi e alle
ricchezze. Tre sono le cose che l'uomo ama e per cui fa amicizia: l'utile, il
piacevole e il buono. A seconda che un uomo cerchi in un altro l'utile, il
piacevole o il buono, nasce un'amicizia di specie diversa. Tre, dunque, sono le
specie di amicizia.
L'amicizia è tuttavia un fatto accidentale; colui che è amato, infatti, non
viene amato per via di quello che è, ma in quanto procura chi un bene chi un
piacere. Data questa caratteristica, pertanto, l'amicizia duratura è quella
fondata sulla virtù, quella dei buoni e dei simili nella virtù. Per essere amici
veri, quindi, occorre essere proporzionati negli atteggiamenti e nelle
aspettative, nonché nel ceto di appartenenza, e nelle caratteristiche più
salienti.
L'amicizia intesa come benevolenza e gratuità, invece, è un concetto del tutto
alieno alla mentalità aristotelica.
La risonanza soggettiva della felicità oggettivamente goduta è il piacere, che si manifesta, appunto, ogniqualvolta la felicità si realizza in un ambito della vita. Il piacere non è, per Aristotele, una forma di riempimento o di completamento, ma è un'attività in ogni momento perfetta: il piacere si accompagna ad ogni attività e la perfeziona. Il criterio del piacere è, ancora una volta la virtù, attraverso la quale è possibile stabilire una gerarchia di piaceri, più o meno buoni.
Psicologia dell'atto morale
Aristotele tenta di superare l'intellettualismo etico e i suoi paradossi. Da
buon realista, infatti, si è accorto che la dimensione dell'intelletto spiega il
bene e il male dal punto di vista ideale, nell'ambito cioè della della
conoscenza, ma non dà nessun contributo interpretativo quando si tratta di
distinguere tra la conoscenza del bene e del male e la loro attuazione.
In primo luogo chiarisce come si distinguano le azioni volontarie da quelle
involontarie: le prime sono quelle il cui principio risiede in chi agisce, le
seconde sono quelle che si compiono per costrizione o per ignoranza. Secondo
Aristotele, peraltro, sono volontarie anche le azioni degli animali e le azioni
spontanee dell'uomo o anche quelle che si producono sotto l'influsso delle
passioni.
In secondo luogo Aristotele spiega che le azioni volontarie più proprie
dell'uomo sono caratterizzate da una scelta (prohaíresis),
la quale implica un ragionamento e una riflessione, cioè implica una
deliberazione.
Per deliberazione si stabiliscono quali siano le azioni che servono per
raggiungere uno scopo, per scelta si attuano tali azioni scartando tutto ciò che
sarebbe irrealizzabile.
La scelta, tuttavia non corrisponde ancora alla volontà: essa infatti,
riguarda i mezzi per raggiungere il fine, non il fine stesso. È invece la
volizione del fine che ci rende buoni o malvagi, ma ancora una volta tale
volizione appare essere un fatto teoretico piuttosto che pratico, cioè legato
intellettualisticamente al sapere delle cose e piuttosto che al volere.
Di fatto Aristotele sposta il problema dei paradossi intellettualistici della
morale, introducendo la mediazione della deliberazione e della scelta tra l'uomo
e il fine, ma non lo risolve. Bisognerà attendere il Cristianesimo per avere
un'idea chiara, grazie al supporto della Rivelazione, sul significato della
volontà del bene e del male.
LA POLITICA
Lo Stato
Il bene singolo individuo e il bene dello Stato sono della medesima
natura, consistendo ambedue nella virtù, tuttavia il bene dello Stato è più
importante, più bello, più perfetto e più divino.
La ragione di ciò è da cercare
nella natura dell'uomo, la quale dimostra che egli non è assolutamente capace di
vivere isolatamene, e che ha bisogno, proprio per essere se medesimo, di avere
rapporti con i suoi simili in ogni momento della sua esistenza.
Per Platone lo Stato nasce dai bisogni dell'uomo, per Aristotele, invece, lo
Stato scaturisce dalla stessa natura dell'uomo in quanto tale. L'uomo è
naturalmente socievole.
In primo luogo la natura ha distinto gli uomini in maschi e femmine, che si
uniscono a formare la prima comunità, vale a dire la famiglia, per la
procreazione e per il soddisfacimento dei bisogni elementari.
Poiché, tuttavia, le famiglie non bastano a se stesse, sorge il villaggio, che è
una comunità più ampia fatta per soddisfare in modo più completo e organico ai
bisogni della vita.
Ciò è sufficiente a soddisfare i bisogni della vita in generale, ma non basta a
garantire le condizioni della vita perfetta, cioè della vita morale secondo
virtù. Nello Stato, pertanto, l'individuo trova le leggi, le magistrature e in
genere tutte le istituzioni che lo portano a uscire dal proprio egoismo (autoreferenzialità esclusiva)
e a vivere secondo ciò che è oggettivamente buono.
L'uomo è più socievole di ogni altro animale che viva in greggi: l'uomo è l'unico animale dotato di parola, che serve a indicare l'utile e il dannoso, il giusto e l'ingiusto. Pertanto, chi non possa entrare a far parte di una comunità, e chi non abbia bisogno di nulla, bastando a se stesso, non è parte di una città, ma o è una belva o è un dio.
La famiglia
È costituita da quattro elementi:
- il rapporto marito-moglie;
- i rapporti padre-figli;
- il rapporto padrone-servi;
- l'arte di procacciarsi le ricchezze (crematistica).
Circa il terzo elemento, Aristotele ritiene che, al fine di acquisire proprietà e ricchezze, la famiglia debba disporre degli idonei strumenti, tra i quali egli considera indispensabili gli schiavi, che egli ritiene per natura portati esclusivamente a servire.
Per quanto concerne il quarto punto, invece, Aristotele distingue tre modi
per procurarsi beni e ricchezze:
. tramite caccia, pastorizia e agricoltura;
. tramite il baratto, cioè lo scambio di beni equivalenti;
. tramite un innaturale commercio in denaro, che fa uso di tutti gli strumenti
idonei ad aumentare senza limiti la ricchezza.
Quest'ultimo modo, detto crematistica, viene considerato pericoloso da
Aristotele, in quanto per esso è facile essere portati a scambiare ciò che è un
semplice mezzo di arricchimento (il denaro) con il fine dell'arricchimento
stesso.
Una sana economia è quella che si limita ai primi due modi di arricchimento e che tende a procurare quanto basta a soddisfare i bisogni naturali che hanno un limite fissato dalla natura stessa.
Il cittadino
Per essere cittadino nel vero senso del termine (polítes)
occorre la partecipazione ai tribunali o alle magistrature, occorre cioè
prendere parte all'amministrazione della Città.
Per Aristotele, pertanto, il numero dei cittadini all'interno della comunità
statale, è ristretto, mentre tutti gli altri uomini rientrano nello Stato a
titolo più che altro di mezzi per soddisfare ai bisogni dei primi.
Le forme costituzionali
Il problema politico consiste nello
stabilire in che modo lo Stato possa costituirsi.
La costituzione è la struttura
che dà ordine alla città, stabilisce le cariche e il loro funzionamento e
soprattutto definisce l'autorità sovrana.
Il potere sovrano può essere
esercitato:
- da un solo uomo;
- da pochi uomini;
- dalla maggioranza degli
uomini.
In tutti questi tre casi, poi, l'autorità può essere esercitata in modo
corretto o in modo scorretto; si hanno di conseguenza tre forme di costituzioni rette
(monarchia, aristocrazia, politía) e altrettante forme
di costituzioni degenerate (tirannide, oligarchia, democrazia [demagogia]).
Tutte e tre le
forme di governo, quando sono rette, sono naturali e quindi buone, perché il
bene dello Stato consiste nel mirare al bene comune, tuttavia, in linea di
diritto, Aristotele non fa mistero che sarebbe la monarchia la forma migliore di
governo, benché, per forte senso realistico, sia poi portato a considerare la politía la più conveniente tra le forme di governo, in quanto è via di mezzo tra
democrazia e oligarchia e valorizza il ceto medio, garanzia di stabilità
(secondo il criterio della medietà della virtù).
Le scienze poietiche; la tragedia e le tre unità
La poetica
Il terzo genere delle scienze è quello delle scienze produttive o poietiche. Esse insegnano a fare e a produrre cose, oggetti, strumenti,
secondo regole e conoscenze precise. Costituiscono un sapere che non è né fine a
se stesso e nemmeno un sapere voltò a beneficio di che agisce, bensì volto a
beneficio dell'oggetto prodotto.
Le scienze poietiche, nel loro complesso, non interessano se non indirettamente,
la ricerca filosofica, eccezion fatta per le “arti belle”, cioè le arti che
imitano la natura e che, prive di utilità pragmatica, ne riproducono o ricreano
taluni aspetti, con materiale plasmabile, con colori, suoni o parole.
Aristotele si limita peraltro alla trattazione della sola poesia e, in
particolare della poesia tragica e di quella epica.
Platone aveva fortemente biasimato l'arte, appunto perché la intendeva come
imitazione di cose materiali e quindi come imitazione di imitazioni, copia di
copie, parvenza di parvenze. Aristotele, per contro, a partire dal suo punto di
vista più aperto al fenomeno sensibile, interpreta l'imitazione come un'attività
che, per così dire ricrea le cose secondo una nuova dimensione essenziale.
Per Aristotele, il poeta (al contrario dello storico) descrive e rappresenta
l'universale, trasfigura le cose, facendole assurgere ad un'altitudine
universalizzata, anche utilizzando il paradossale e l'impossibile a patto che il
tutto risulti verosimile.
L'universalità della rappresentazione della poesia nasce dalla sua capacità di
riprodurre gli eventi secondo la legge della verosimiglianza e della necessità;
d'altronde la poesia non è tout court filosofia in quanto il suo
universale non è l'universale logico, ma qualcosa a sé stante, che gode di un
valore autonomo.
I canoni del fare artistico si sintetizzano nel rispetto dell'oggetto e nel
rispetto della convenienza del modo espressivo all'oggetto; nella tragedia
nell'unità di luogo, di tempo e di azione.
A proposito della tragedia, che costituisce l'asse portante della sua
poetica, Aristotele dice che essa è imitazione di un'azione seria e compiuta in
se stessa, con una certa estensione, la quale, mediante una serie di casi che
suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l'animo da
siffatte passioni.
In tal senso si potrebbe interpretare che Aristotele accordi alla tragedia (e
con essa all'arte) una funzione pedagogico-politica, quale strumento di stimolo
alla virtù per il cittadino che ne fruisce; ma la spiegazione della catarsi non
è concorde tra gli interpreti.
La logica: il concetto, la definizione e l'enunciazione. Il quadrato proposizionale
la logica
All'interno del corpo delle opere di Aristotele gli scritti di logica sono
raccolti nell'Organon, che in greco significa “strumento”.
Ciò segnala un
problema che deve essere analizzato prima di addentrarsi nell'indagine delle
diverse parti della logica stessa, vale a dire se la logica
sia o non sia una scienza.
Aristotele sembra propendere per la seconda ipotesi,
che ritiene che la logica si costituisca come strumento di conduzione del
discorso di qualsiasi disciplina scientifica che a sua volta se ne serva.
La
logica, cioè, appare come un impianto tecnico, come un corredo di attrezzature,
che trovano la loro applicazione all'interno dello sviluppo delle discipline
scientifiche, non un metodo, quindi, ma un criterio di correttezza e di
completezza dei sistemi scientifici applicato durante lo svolgimento della
ricerca.
La logica, però, può anche considerarsi scienza
nell'accezione di “epistemologia”, cioè di disciplina che studia la
scientificità delle scienze, la disciplina che descrive e prescrive i canoni
della scientificità di un discorso.
Il termine “logica”, comunque, non è di uso
aristotelico, ma risale alla più tarda filosofia stoica (età ellenistica);
quando parlava di logica, Aristotele intendeva l'analitica.
Nel sistema
aristotelico la logica mantiene una relazione strettissima con la metafisica,
dal momento che, per Aristotele, le strutture del pensiero e le strutture
dell'essere si sovrappongono per identificarsi, vista la profondissima
similarità tra essere e pensiero.
L'intelligibilità delle sostanze, infatti,
coincide con la loro formalità essenziale, e le dinamiche dell'essere
corrispondono alle dinamiche del vero.
I libri di logica dell'Organo
aristotelico sono:
- Categorie
- (trattato) Sull'interpretazione
- Analitici primi
- Analitici secondi
- Topici
- Elenchi (significa “confutazioni”) sofistici.
I “capitoli” della logica sono: il concetto, la proposizione, il
ragionamento.
Il concetto (e la definizione)
Come si è già avuto modo di vedere, una tradizione manualistica consolidata assegna la
scoperta del concetto a Socrate.
In realtà, Socrate e Platone hanno
rispettivamente posto le basi ed elaborato la dialettica per codificare il
significato del concetto, servendosene abbondantemente all'interno della
loro dialettica, ma non ne sono stati i consapevoli scopritori.
Per avere una
speculazione matura sul concetto, infatti, bisogna rivolgersi ad Aristotele, il
primo consapevole teorizzatore della logica.
Nel contesto dell'ironia, Socrate
stringeva l'avversario a dichiarare senza equivoci la propria posizione sul “che
cos'è” delle problematiche in questione, e certamente, l'interrogativo “che
cos'è” presuppone come risposta l'individuazione del concetto, ma soltanto con
Aristotele il primo elemento logico, il concetto, appunto, riceve un'adeguata
attenzione come oggetto di studio.
Il concetto è il primo elemento del discorso, è
la conoscenza elementare (nel senso che è l'elemento primario di ogni
conoscenza); è una nozione (notizia, nota interiore) universale e necessaria.
Universale significa “che si dice, si predica di molti”, il che implica
l'astrattezza, la non-individualità, e la pura intelligibilità, slegata da
qualsiasi concretezza materiale; necessario significa “strutturale,
strutturalmente costituente, irrinunciabile” (necessario, in filosofia, non
comporta nessuna relazione di bisogno, né alcuna forma di relazione con la
figura del destino).
Un concetto, date tali caratteristiche, non contiene
alcunché di “visibile”, di “palpabile”, ecc.; è una pura astrazione che si
costituisce come possibilità di riconoscimento di una determinata natura
all'interno della complessità del reale.
Il concetto di ruota, per esempio, non
è certo dotato di pneumatico né di mozzo, né di raggio; corrisponde
semplicemente all'intuizione della possibilità del rotolamento. È il concetto,
infatti, che permette la scoperta e l'invenzione (del fuoco, della ruota, dello
scaldabagno, ecc.).
Il concetto non è né vero né falso, dal momento che si tratta di un pura intuizione.
Il concetto si esprime nella definizione, che,
ancora, non è né vera né falsa, ma può essere “buona” o “non buona”.
Una buona
definizione contiene in sé stessa soltanto due elementi, il genere prossimo
(cioè il più vicino nella scala dei generi) e la differenza specifica, cioè la
causa formale della propria specificità. Ad esempio: uomo è il concetto che si
esprime nella definizione “animale ragionevole”; se si dicesse diversamente, per
esempio, che uomo è “ente
ragionevole”, la definizione sarebbe meno soddisfacente della prima perché il
genere ente non è nella prossimità della specie razionale, ma di diversi gradi a
monte, talché ci si potrebbe domandare a buon diritto se l'uomo sia anche
vegetale, visto che una specie dell'ente vivente è anche quella vegetale, oltre
che quella animale.
I cinque concetti predicabili sono:
- sostanza (ad es.:
uomo);
- genere (ad es.: animale);
- specie (ad es.: razionale);
- proprietà
(ad es.: educabile);
- accidente (ad es.: musico).
I generi della predicazione sono le dieci categorie già considerate in
metafisica.
Dei concetti possiamo
considerare le caratteristiche di estensione e di comprensione, tra loro in
relazione di proporzionalità inversa.
L'estensione consiste in quella
caratteristica di generalità per cui un concetto è capace di raccogliere in sé
una vasta gamma orizzontale di specie a sé subordinate; la comprensione, al
contrario, consiste nell'opposta caratteristica di peculiarità, per la quale un
concetto significa con molta precisione, senza ovviamente poter raccogliere in
se che una ristrettissima gamma di realtà.
La proposizione
Esprime in forma
logica il giudizio, cioè l'atto con cui la nostra mente afferma o nega qualcosa.
La proposizione congiunge o disgiunge un soggetto e un predicato, cioè afferma
qualcosa di qualcosa o lo nega.
Della proposizione prendiamo in considerazione la qualità e la
quantità.
Qualitativamente le proposizioni sono o affermative o negative. Quantitativamente sono universali, particolari e singolari; la quantità proposizionale è determinata dal quantificatore, cioè dall'operatore di
quantità:
- universale: tutti, ogni, nessuno;
- particolare: qualche, alcuni,
qualche ... non, alcuni ... non;
- singolare: questo, quel, nome proprio (non).
Le relazioni verofunzionali tra proposizioni sono regolate secondo il seguente schema quadratico:
Le contrarie possono essere entrambe false o l'una vera e l'altra falsa.
Le
contraddittorie sono necessariamente l'una falsa e l'altra vera, in quanto
interpretano il principio di non contraddizione.
Le subcontrarie possono essere entrambe vere o l'una vera e l'altra falsa.
Per quanto riguarda
le subalterne, è rilevante il fatto che dalla verità dell'universale è
deducibile la verità della particolare, ma non viceversa, mentre dalla falsità
dell'universale non è deducibile la falsità della particolare, ma viceversa
dalla falsità della particolare è deducibile la falsità dell'universale.
L'argomentazione: deduzione e induzione
Alla
proposizione assertoria si affianca la proposizione modale.
La modalità di una
proposizione dipende dall'operatore modale, che interviene sul significato del
“detto” assertivo, condizionandolo con le connotazioni di necessità e
possibilità (e contingenza).
La proposizione modale, dunque, è introdotta da:
- è
necessario che,
- è possibile che,
- è contingente che.
È ovvio che l'operatore
modale condiziona la verofalsità della proposizione.
L'argomentazione
L'argomentazione è una sequenza di proposizioni concatenate.
L'argomentazione, formulazione logica del ragionamento, può essere deduttiva o
induttiva.
Nell'argomentazione deduttiva si procede da premesse (conoscenze) universali per ottenere conseguenze (conoscenze) particolari.
Il sillogismo e l'induzione. L'Ellenismo
Il
sillogismo è la forma più significativa di ragionamento deduttivo.
Il sillogismo
è quel ragionamento in cui, poste alcune (due) premesse, segue di necessità una
conclusione in quanto le premesse sono date.
Esso si compone, dunque, di tre
proposizioni che associano o dissociano in tutto tre termini:
- una premessa
maggiore (perché contiene il termine detto estremo maggiore),
- una premessa
minore (perché contiene il termine detto estremo minore),
- una conclusione, che
associa o dissocia i due estremi grazie al terzo termine presente in entrambe le
premesse che viene detto termine medio.
Il sillogismo, come del resto qualsiasi
argomentazione, può dirsi “buono” (o corretto) o “cattivo” (o nullo) più che
vero o falso. È questione di struttura formale: un sillogismo può essere
corretto, pur presentando una conclusione falsa; la bontà dell'argomentazione,
infatti, è indipendente dalla verità delle proposizioni che la compongono.
A
partire da premesse di ordine necessario si otterranno sillogismo scientifici,
dimostrativi in senso pieno (apodittici); a partire da premesse di ordine
probabile si otterranno sillogismi dialettici (cioè probabili), a partire da
premesse apparentemente probabili si otterranno sillogismi eristici.
Nell'argomentazione induttiva si parte da premesse particolari per ottenere una conseguenza di ordine generale, non universale. “Universale”, in questo caso, significa valido di molti, che si può dire di molti; “generale” significa valido statisticamente per tutti, ma aperto all'eccezione.
Occorre prestare attenzione al fatto che Aristotele usa l'appellativo induzione (epagoghé) per
significare:
- il procedimento argomentativo mediante il quale, a partire da
una collezione di casi particolari, estesa quanto più è possibile, si giunge a
una conclusione di ordine generale, statisticamente valida per tutti i casi;
- l'intuizione intellettuale (altrimenti detta noûs) dei principi primi, che
costituiscono le trame della logica e gli assiomi delle scienze.
È ovvio che,
quando si parla di intuizione, non si intende alcun ragionamento, ma un semplice
atto della mente per il quale essa è “condotta” alla conoscenza dei primi
principi.
LA FILOSOFIA ELLENISTICA
La grande spedizione di Alessandro Magno e la conquista dell'Oriente (334-323
a. C.) produssero una rivoluzione che fu di enorme importanza, non solo per le
conseguenze politiche che provocò, ma anche per tutta una serie di concomitanti
mutamenti di antiche convinzioni, i quali determinarono una svolta radicale
nella vita dello spirito dei Greci.
Gia Filippo il Macedone, padre di Alessandro, aveva incominciato a minare i
principi basilari delle poleis greche, rispettandone soltanto formalmente
le strutture, ma servendosene per realizzare il suo disegno di predominio sulla
Grecia. Alessandro, invece, distrusse la polis in tutti i sensi,
togliendole ogni libertà formale e sostanziali, al fine di realizzare il suo
grandioso disegno di una monarchia universale e divina, che avrebbe dovuto
riunire in unità paesi e razze diverse.
Morto improvvisamente Alessandro nel 323, il potere politico passò dal dissolto
impero ai nuovi regni che si formarono in Egitto, in Siria, in Macedonia e a
Pergamo, e le poleis cessarono definitivamente di fare storia. I monarchi
accentrarono tutto il potere nelle loro mani, non tollerarono alcuna
limitazione, si identificarono con lo Stato in modo pressoché totale e per
conseguenza cancellarono ogni forma di libertà politica.
Di colpo, in tal modo, veniva distrutto quel valore fondamentale della vita
spirituale della Grecia classica, che Platone e Aristotele avevano teorizzato e
sublimato.