CLASSE III - Sintesi di Filosofia (1) |
Essere e pensiero; filosofia e verità.
La filosofia: pensiero ed essere
La filosofia è esercizio di pensiero.
Che cosa significa ciò?
Nella vita quotidiana il pensiero è
un'esperienza rara: siamo immersi nelle sensazioni, nei ricordi, nelle fantasie,
ma ... "pensare" significa altro. Che cosa?
Esistono le
cose, se nessuno le pensa?
Proviamo a immaginare il globo terrestre senza la
presenza dell'uomo sopra di esso. Rimuoviamo qualsiasi forma di coscienza: c'è
qualcosa? Qualcosa appare a qualcuno? Se apparisse, ci sarebbe una coscienza, ma
noi la coscienza l'abbiamo esclusa. Nulla appare; nulla, dunque, esiste
(esistere significa “venir fuori”, dal nulla, “venire ad essere” - dal latino ex-sistere, “posizionarsi al di fuori”), perché nulla può venire a galla se non
c'è una superficie di coscienza.
Tutto ciò che è, nella misura in cui è, si
manifesta in quanto è. L'atto dell'essere è il manifestarsi.
Ora, per il darsi
della manifestazione dell'essere occorre quel modo specifico dell'essere stesso
che prende il nome di “pensiero”. Il pensare, infatti, è l'apparire (a
se stesso) dell'essere di tutto ciò che è. Tra essere e pensiero corre dunque
un'intima relazione.
La filosofia è il discorso dell'essere che si manifesta
attraverso l'uomo; è l'attitudine e l'attività più umana. Nella misura in cui
pensa, l'uomo è più o meno realizzazione di sé, è più o meno umano.
Il significato di “essere”
Pensiero ed essere si sovrappongono l'un l'altro quasi
confondendosi.
Cos'è, dunque l'essere? La domanda è fuorviante, mal posta,
contraddittoria. Se infatti per assurdo volessimo rispondere “cosalizzando”
l'essere, ci troveremmo sicuramente a fare i conti con una cosa che, per essere
quella cosa che è, cioè l'essere, avrebbe bisogno di se medesima alla base di se
stessa: qualsiasi cosa infatti, per essere, è, dunque anche l'essere, se fosse
una cosa.
La domanda lecita sull'essere, pertanto, dovrebbe essere formulata nel
modo seguente: «che cosa significa (esprime) “essere”? Per rispondere, partiamo
dall'analisi grammaticale. “Essere” si presenta come: voce del verbo essere,
coniugazione propria, modo infinito tempo presente. “Essere” è un verbo, come
tale indica non una cosa, ma un'azione, o meglio un “atto”. “Essere” rappresenta
nella lingua l'atto “sostantivo” (cioè l'atto che sottostà a qualsiasi altro
atto). Come “correre” significa l'atto di chi corre, così “essere” significa
l'atto di chi (qualunque cosa) è.
Ora, la forma participiale del verbo significa
in generale la partecipazione di un soggetto a una determinata azione. Corrente, infatti, è
chi corre; dormiente, è chi dorme. Anche l'essere ha il suo participio: ente
(essente). Ente significa qualsiasi cosa che partecipa all'atto dell'essere.
Il
partecipare, però, può darsi in diversi modi: c'è chi partecipa agonisticamente
a una corsa, chi partecipa in qualità di allenatore, chi in qualità di arbitro,
chi davanti alla televisione. La corsa è la medesima, ma i modi di
partecipazione sono diversi. Ciò vale anche per l'essere: qualcosa prende parte
all'essere in modo semplicemente statico e amorfo (realtà inerte), qualcosa in
modo vegetativo (metabolismo e riproduzione), qualcosa in modo animale
(movimento e sensazione appetitiva), qualcosa in modo umano (intelligenza e
consapevolezza).
Che cos'è il pensiero? La modalità più perfetta e più “piacevole”
di partecipazione all'atto d'essere.
La filosofia e la verità
La filosofia è ricerca della verità.
Verità, tuttavia, è termine problematico. Possiamo limitarci a dire che “verità”
è “ciò che è utile”, pragmaticamente conveniente nel contesto circostanziale
delle singole esperienze di vita? Spesso, infatti, le convenienze individuali
sono in conflitto con altre e ciò comporta la lotta tra gli individui per la
realizzazione delle proprie convenienze. Può dunque essere “vero” questo
significato di verità?
Proviamo a dire che la verità, prima di tutto, non è una cosa, non è una
sostanza. C'è forse differenza tra una cosa (che è) e una cosa vera (che è)?
Nessuna. La verità di una cosa, pertanto, non aggiunge nulla di sostanziale alla
cosa che già è. Che cosa accade, dunque, quando una cosa diventa una cosa vera?
Si stabilisce, semplicemente, una relazione tra quella cosa e il suo apparire,
tra quella cosa e la sua manifestatività. Ma noi abbiamo già definito che la
manifestatività dell'essere prende nome di “pensiero”, perciò possiamo
concludere che la verità si attribuisce a una cosa, quando essa entra in
relazione con un pensiero (pensante, intelligente).
Che cosa significa intelligenza? Letteralmente “lettura intima” (dal latino intus legere, leggere dentro). L'intelligenza è l'attività del pensiero che
legge l'interiorità formale delle cose, che ne coglie l'essenziale. Ma noi
sappiamo, di nuovo, che il pensiero altro non è che l'essere stesso al livello
della sua manifestatività, quindi possiamo concludere che l'intelligenza è
l'attività dell'essere in quanto l'essere si manifesta come pensiero.
Ora: qualsiasi ente (partecipe dell'essere) può divenire manifesto
all'intelligenza nella misura in cui viene conosciuto. Qualsiasi ente, quindi
può diventare “intelletto” (si badi che la parola “intelletto” è un participio
passato, di significato passivo, del verbo latino intelligere), può subire la
conoscenza, può assurgere alla propria manifestatività attraverso la conoscenza
da parte del pensiero.
La verità è la relazione conoscitiva che si stabilisce
tra l'essere (dell'ente conosciuto) e il pensiero (l'essere al livello della
consapevolezza), che non aggiunge all'ente null'altro che questa relazione intenzionale
(cioè di tensione conoscitiva).
Se la verità dell'essere consiste nella sua manifestatività, da dove
scaturisce il non vero o il falso in cui noi ci dibattiamo quotidianamente? Il
manifestarsi in se stesso dell'essere, infatti, non può che essere vero. La
falsificazione dell'essere, invece, viene dal linguaggio, cioè dal mezzo
comunicativo che, nell'uomo, si fa interprete dell'essere nella sua espressione.
Il linguaggio è strutturalmente deficitario, limitato, in quanto procede
discorsivamente, e non può rendere la verità dell'essere “a tutto tondo”, ma
soltanto per prospettive, per angoli visuali, insormontabilmente limitati e
inadeguati.
Quante volte ci troviamo (sinceramente) in imbarazzo di fronte a qualcosa,
magari di noi stessi, per descrivere e comunicare il quale non troviamo le
parole adatte!
In aggiunta, c'è poi il falso volontario, cioè il discorso che, volutamente, fa
ostruzione al manifestarsi dell'essere e spaccia ciò che non è per ciò che è, e
viceversa. Tale genere di falso, diversamente dal precedente, comporta il male
morale.
Filosofia e psicologia; il lessico relativo alle radici "intell-" e "sent-"
Filosofia e Psicologia
Filosofia e psicologia si occupano del pensiero dell'uomo. L'oggetto di
studio, dunque, è il medesimo, ma le due discipline si distinguono radicalmente
a motivo del loro metodo proprio.
Il termine “metodo”, in generale, significa un
modo di procedere interno a una disciplina specifica impostato al fine di
ottenere risultati significativi nel campo di studio di quella disciplina.
Letteralmente “metodo” significa (dal greco méthodos) “via lungo la quale”.
Metodologicamente, appunto, filosofia e psicologia si distinguono in modo netto.
La Psicologia studia il pensiero a posteriori, con un metodo sperimentale: istituite in un
laboratorio di ricerca determinate condizioni d'ambiente, lo psicologo osserva
le reazioni del comportamento animale (e anche umano) al fine di stilare una
statistica di frequenze e, quindi, di formulare una legge di comportamento. Lo
psicologo pone al sua attenzione sulle reazioni del soggetto in osservazione
agli stimoli somministrati sotto controllo, cerca di descrivere, modellizzandolo
(cioè facendolo diventare schema ipotetico), il funzionamento del sistema
nervoso centrale, delinea tipologie di soggetti e di schemi di risposta a
determinati eventi. Lo psicologo mira a prevedere e indirizzare il
comportamento.
La Filosofia studia il pensiero attraverso un metodo razionale a
priori, speculativo, teoretico. “Razionale a priori” significa che il metodo
filosofico è ancora al di qua di un esperimento o di un tentativo di
condizionare la realtà, come atteggiamento di pura lettura e formalizzazione del
dato di realtà; “speculativo” significa che il metodo della filosofia consiste
nel rispecchiamento dell'essere, nel lasciar emergere le cose al livello del
loro significato senza intervenire per modificarne l'apparire; “teoretico”
significa che il metodo della filosofia unisce in sé intimamente sguardo e
parola, visione e discorso, manifestatività e narrazione. Il Filosofo si occupa
del pensiero come specchio della realtà, come interprete (traduttore)
dell'essere in parola; la filosofia è il discorso esplicativo della realtà che è
manifesta.
La psicologia pone a tema il “cervello”, cioè l'attività cerebrale relativa
alla relazione stimolo/risposta, la filosofia, invece, tematizza e problematizza
l'ovvio. L'ovvio è tutto ciò che si incontra nell'esperienza, ovvio è il mondo,
ovvio è l'uomo, ovvie sono le cose.
Chi non sa che cos'è l'uomo, che cos'è il mondo e che cosa sono le cose? Bene,
la filosofia si interroga proprio su ciò che, comunemente, è dato per scontato,
e si domanda:
- esiste il mondo?, e che cos'è il mondo? (cosmo-logia);
- esiste l'uomo?, e che cos'è l'uomo? (antropo-logia);
- esiste una condizione del tutto? e che cos'è la condizione del tutto? (teo-logia);
- qual è il significato dell'essere in quanto tale? (onto-logia).
Queste quattro domande costituiscono l'orizzonte della filosofia teoretica, ma
in seconda battuta la filosofia può essere anche pratica, quando si interroga
sul significato e sulla dinamica dell'azione umana più propria, vale a dire
l'azione morale, cioè l'azione volontaria, libera e relativa alla dignità
dell'uomo stesso. In terzo luogo, infine, la filosofia è gnoseologia (teoria
della conoscenza) quando mette a tema il processo e il risultato dell'azione
stessa del conoscere in quanto tale.
La semantica dell'intelligere e del sentire
Alla luce di quanto detto, occorre prestare grande attenzione, in filosofia,
all'uso preciso e tecnico dei termini derivati dai verbi latini intelligere e sentire. Nel linguaggio
comune, infatti, tali termini vanno soggetti a un uso estremamente equivoco.
Intell- |
Sent- |
||
Intellezione |
Atto dell'intelligere, esercizio della facoltà intellettiva |
Sensazione |
Atto del sentire, esercizio della facoltà sentitiva |
Intellettuale |
Relativo all'intelletto, inerente all'intelletto, proprio dell'intelletto |
Sensuale |
Relativo al senso, inerente al senso, proprio del senso |
Intelligibile |
Ciò che può essere intelletto, suscettibile di intellezione |
Sensibile |
Ciò che può essere sentito, suscettibile di sensazione |
Intelletto |
[participio passato] ciò che è stato fatto oggetto di intellezione |
Senso |
[participio passato] ciò che è stato fatto oggetto di sensazione |
Intellettivo |
Proprio dell'atto dell'intellezione |
Sensitivo |
Proprio dell'atto della sensazione |
Intelligente |
[participio presente] ciò che “intellige” |
Senziente |
[participio presente] ciò che sente |
Intelligenza |
Facoltà intellettiva |
[Senzienza] |
Facoltà sensitiva |
Mýthos e Lógos. L'acqua di Talete e l'indeterminato di Anassimandro
Mito e Lógos
L'antecedente della cosmologia filosofica è costituito dalle teogonie e
cosmogonie mitico-poetiche, di cui è ricca la letteratura greca, e il cui
prototipo paradigmatico è la Teogonia di Esiodo.
Essa narra la nascita di tutti gli Dei; e, poiché alcuni Dei coincidono con
parte dell'universo o con fenomeni del cosmo, oltre che teogonia essa diviene
anche cosmogonia, ossia spiegazione fantastica della genesi dell'universo e
dei fenomeni cosmici.
Benché, tuttavia, la Teogonia esiodea e in genere le rappresentazioni
teogonico-cosmologiche siano l'antecedente della cosmologia filosofica, è
peraltro indubbio che fra questi tentativi poetico-mitologici e la cosmologia
filosofica (anche la più primitiva, cioè quella di Talete) c'è un solco
nettissimo. Le teogonie, infatti, mancano dell'elemento razionale, secondo,
che è qualificante e determinante. Esse procedono col mito, con la
rappresentazione fantastica, con l'immaginazione poetica, con intuitive
analogie suggerite dall'esperienza sensibile; pertanto, restano al di qua del lógos, ossia della spiegazione
razionale.
Mentre, infatti, in Esiodo o negli autori di teogonie il ruolo determinante è
dato dall'elemento fantastico-poetico-mitologico, in Talete sarà invece dato
dal lógos e dalla ragione. Nella
Teogonia esiodea manca proprio quel punto che qualifica la cosmologia
filosofica, cioè il tentativo di individuare il primo principio imprincipiato,
la fonte assoluta di tutto. La fantasia, infatti, che si alimenta del
sensibile e delle analogie desunte dal sensibile, giunta al caos si appaga, e,
non sapendo più immaginare forme ulteriori, si ferma; la filosofia, per
contro, marcerà in senso opposto alla fantasia, all'immaginazione e ai sensi e
inferirà le sue figure speculative con la forza del logos.
Alle origini, dunque, la
filosofia si volge a comprendere, in modo non più mitologico, la natura (phýsis).
Phýsis, termine greco, significa letteralmente “crescenza”, “enfiséma”,
gonfiamento, crescita continua; “natura”, termine latino, significa “essere per
generare”, generazione, “genitura” senza fine.
I primi filosofi, i Milesii (cioè dell'ambiente di Mileto, in Asia Minore), sono
colpiti dal fenomeno dell'immenso ed incontrollabile nascere che circonda
l'uomo, e cercano di darne una spiegazione razionale.
i fisiologi di mileto
Per i primi filosofi il problema consiste nel ritrovare un principio di comprensibilità universale capace di offrire un'interpretazione completa del tutto (del mondo intero) a prescindere da soluzioni mitiche, bensì attraverso la speculazione razionale. Si tratta cioè di ritrovare il cosmo nella natura, l'armonia, la regolarità nelle cose.
La parola “principio”, in filosofia, non significa banalmente “inizio”; il
principio, in filosofia, non può essere considerato come la prima parte di
qualcosa, la prima porzione di una misura, o qualcosa del genere. Nel linguaggio
filosofico, infatti principio e fine si identificano, si confondono, così come
“primo” ed “ultimo”. In filosofia, ciò che è ultimo in linea di fatto, è primo
in linea di diritto, nel senso che ciò in cui qualcosa si risolve è sicuramente
ciò che sta al fondamento di quella stessa cosa.
La parola “principio” significa di per sé “prima comprensione” e indica ciò
da cui, ciò attraverso cui, ciò in cui qualsiasi cosa si
genera, si sviluppa e si risolve, pur senza costituirne in alcun senso una
parte, cioè senza alcun contatto o mescolanza.
Il principio di tutte le cose, pertanto, si considera in astratto, non fa parte
integrante delle cose; il “principio” è una lettura razionale delle cose, è il
cosmo, è la cosmicità delle cose, sorpresa dallo sguardo contemplante del
filosofo quale orizzonte di comprensione delle cose stesse.
Talete
Da Aristotele noi sappiamo che Talete disse che «tutto è fatto
dall'acqua».
L'acqua di Talete, ovviamente, non è l'acqua che beviamo, ma è il “principio”,
cioè è l'orizzonte di comprensibilità di ogni cosa, dell'intero.
Osservando la natura, l'acqua si mostra come l'elemento più pervasivo: essa
penetra ovunque, dilaga ovunque, rinnova la vitalità, mitiga l'arsura, scioglie
il gelo, produce la vita e ne è parte integrante in tutti gli organismi.
Pertanto, quando Talete si domanda filosoficamente da dove venga e verso dove
confluisca il tutto, non avendo a disposizione un termine adatto, stabilisce un
paragone e identifica l' “acqua” come principio: come l'acqua è fonte di ogni
vitalità, come l'acqua è l'elemento più pervasivo, così il principio che pervade
il tutto e che alimenta la vita di tutto è (come l') acqua. Un'acqua del tutto
impalpabile, invisibile, priva di peso, di volume.
“Acqua” è il nome del principio per Talete.
Talete disse anche che «tutto è vivo» e che «tutto è pieno di
dei»; ciò colloca il nostro filosofo nel novero degli ilozoisti (ilozoismo
significa pensare che tutta la materia sia viva; ýle =
materia, zoé = vita) e dei panteisti (panteismo significa pensare
che tutto è divino, che tutto è dio).
Anassimandro
Con Anassimandro la filosofia raggiunge un nuovo traguardo,
consistente nell'impiego del ragionamento negativo.
Per Talete, infatti, l'identificazione del principio comporta un lavoro di
paragone, che non riesce a staccare del tutto il discorso dalla determinazione:
è vero che l'acqua di Talete non è l'acqua che noi beviamo, ma è comunque e pur
sempre acqua; il principio, cioè, fa comunque riferimento a un “determinato”
elemento naturale. Perché, dunque, l'acqua e non, piuttosto, ad esempio, la
terra, o il fuoco?
Anassimandro supera questa aporia del discorso filosofico introducendo un
principio di valore negativo.
Se, infatti, in natura tutto è determinato, se tutto si manifesta allo sguardo
nel dettaglio del proprio profilo determinato, allora un principio che voglia
veramente essere alla radice di tutto, senza confondersi con alcuna
determinazione, deve venire descritto come la negazione di qualsiasi
determinazione, cioè come l'indeterminato.
L'in-determinato (o in-finito) di Anassimandro presenta l'enorme vantaggio,
rispetto all'acqua di Talete, di non stabilire alcuna relazione, nemmeno a
titolo di paragone, con alcunché di determinatamente esistente.
L'indeterminato è il frutto di un'operazione razionale di enorme portata, cioè
la rimozione del conosciuto in vista della delineazione in negativo
dell'incognito.
Il principio, così, risulta essere per Anassimandro il “tutt'altro” rispetto a
ciò che fa parte dell'esperienza comune, ciò in ragione del quale, tuttavia,
ogni cosa comune può manifestarsi.
Il teorema dell'indeterminato porta con sé un altro argomento,
che risponde alla domanda circa la generazione del determinato a partire
dall'indeterminato.
Anassimandro sostiene che, laddove l'indeterminato è concepibile come
caldo/freddo, come secco/umido, e così via, la determinazione (il caldo, il
freddo, il secco, l'umido) sorge mediante separazione.
Come il fossile si cela all'interno della pietra informe, e ne esce alla luce
quando la frattura ne rivela il corpo formato e convesso e la corrispondente
concavità nel sedimento, così, analogamente, la frattura dell'indeterminato
offre i profili distinti dei determinati contrari.
La separazione, tuttavia, si attua per una specie di rottura della giustizia
originaria dell'indeterminato, cui le cose devono pagare il debito contratto con
la loro separatezza, volgendosi e rivolgendosi in un perenne movimento di
reciproche sopraffazioni (per comprendere questo strano concetto di giustizia,
possiamo giovarci di una sfumatura semantica del nostro linguaggio, quando,
oltre che di giustizia, parla di equità; alla lunga, questa parola deriva
dal latino aqua [= acqua], cioè quell'elemento che, comunque lo si metta,
quantunque lo si agiti, tendo di suo a ritrovare la quiete in una posizione
perfettamente orizzontale. L'acqua non fa ingiustizie alla sua superficie, è
l'elemento della perfetta equiparazione, dell'indeterminazione superficiale).
Comprendiamo allora come Anassimandro abbia potuto parlare di ingiustizia, che
noi diremmo iniquità; la separazione agita l'indeterminato, creando le ondate e
le risacche, le sporgenze e i rientri.
La dinamica della natura, così, viene interpretata come un perenne rendere conto
all'originario dell'ingiustizia commessa, da ciascuna cosa, distinguendosi.
Così il mondo, gli uomini, e il tutto differenziato sono il frutto di un
interminabile gioco di forze che si sovrastano a vicenda.
Anassiméne. Eraclito di Efeso e il fuoco logico
Anassimene
Con Anassimene, apparentemente, assistiamo a un regresso. L'aria,
infatti, sembra essere, di nuovo, un elemento determinato.
In parte è vero, ma a ben vedere, l'aria presenta caratteristiche che possono
interpretarsi come un ulteriore guadagno teoretico nei confronti di Anassimandro.
L'aria è l'ultimo respiro esalato da ciò che muore; l'aria, poi, da una parte,
si presenta come a-tmo-sfera (sfera che non si taglia), quindi che non si
può distinguere al proprio interno e non si può delimitare in alcun modo,
dall'altra, presenta una dinamicità che la rende idonea a proporsi come
principio, in quanto capace di compressione (che genera calore) e di rarefazione
(che genera raffreddamento). La compressione dell'aria, poi, comporta la
condensazione e la trasformazione in acqua, e poi in terra e in pietra.
La dinamica sottostante al processo, pertanto, produce le differenziazioni e,
così, tutte le cose.
La novità di Anassimene consiste, appunto, nell'applicazione di un fattore
dinamico al principio fondamentale della realtà.
Eraclíto di Efeso
Fu detto “l'oscuro” a motivo della difficoltà del suo linguaggio; è il cosiddetto “filosofo del divenire”.
Tra filosofia e mentalità degli uomini, secondo Eraclito, corre lo stesso
rapporto che c'è tra verità ed errore. La verità, per questo filosofo si
configura come la direzione chiara dell'essere che i (pochi) filosofi seguono
con certezza, mentre l'errore (più che essere lo sbaglio) si presenta come il
vagare a tentoni, l'errare, l'andare errabondi e senza meta del resto degli
uomini, privi di qualsiasi orientamento. La stessa divaricazione si stabilisce
anche tra chi dorme e chi è desto: chi non dorme coglie il divenire dell'essere,
mentre chi è assopito nelle sue rappresentazioni erronee si finge un essere
inesistente e inconsistente.
È errore, allora, prendere per buona la stabilità delle cose, come se esse
“fossero” quello che sono; è errore dibattere senza fine di opinioni di cui non
si riconosce la matrice, ma che valgono per se stesse nelle loro reciproche
contraddizioni. È invece verità considerare le cose divenienti, in perenne
trasformazione, travolte in un incessante flusso che non può permettere di
fissarne l'identità essenziale. La maggioranza degli uomini si finge realtà
stabili, cose certe, laddove i pochi filosofi scoprono dell'essere la sua unica
tenace e stabile caratteristica, il perenne divenire.
Si è detto che la domanda: «che cos'è l'essere?» è impropria e contraddittoria;
bene, secondo Eraclito lo è anche l'altra: «che cos'è il divenire?», per lo
stesso motivo. Essere e divenire, infatti, non significano cose, ma atti.
Per Eraclito, il significato dell'essere è il divenire; per Eraclito è il
divenire l'essere delle cose. “Divenire”, allora, significa essere, nel senso
che le cose, a suo modo di vedere, non “sono”, ma “divengono”. Delle cose non si
può predicare l'essere, ma si deve predicare il divenire. «Non è possibile
scendere due volte nello stesso fiume, né toccare due volte la stessa sostanza
mortale». Risulta chiaro: la realtà è un flusso, una corrente in continua
trasformazione all'interno della quale non è possibile individuare alcunché di
fisso e di solido: tutto scorre, “il” tutto scorre (panta réi).
Tutto “è e non è”, cioè diviene; volendo, si potrebbe dire che soltanto il
divenire permane “come l'essere”.
C'è una rappresentazione, un'immagine che Eraclito sceglie per dare forma al suo
divenire: è quella del fuoco, l'elemento che appare irreprensibile, ma che tutto
consuma.
Il fuoco non è certo quello che riscalda, un fuoco sensibile e concreto, ma
un fuoco del tutto intelligibile, concettuale. Esso è il corrispettivo del
“principio” (arché).
Per comprendere, dobbiamo prima di tutto stabilire il significato
filosofico della parola “principio”. In filosofia esso non coincide con
“inizio”; il principio, in filosofia non può essere considerato come la prima
parte di qualcosa, la prima porzione di una misura, o qualcosa del genere. Nel
linguaggio filosofico, infatti principio e fine si identificano, si
confondono, così come “primo” ed “ultimo”.
Ciò che è ultimo in linea di fatto, infatti, è primo in linea di diritto, nel
senso che ciò in cui qualcosa si risolve è sicuramente ciò che sta al
fondamento di quella stessa cosa.
“Principio” significa prima comprensione e indica ciò da cui, attraverso cui,
in cui qualsiasi cosa si genera, si sviluppa e si risolve, pur senza
assolutamente costituirne parte, cioè senza alcun contatto o mescolanza di
sorta.
Il principio di tutte le cose è astratto, non fa parte integrante delle cose;
è una lettura razionale delle cose. Per Eraclito esso è il fuoco/divenire.
La guerra regina di tutte le cose. Il Pitagorismo tra filosofia ed esoterismo
L'opinione dei molti, secondo i quali un opposto può vivere senza il proprio
contrario (il bene senza il male, il bello senza il brutto), è una falsa
illusione, perché il divenire della realtà consiste proprio nell'incessante
contrapposizione di tutti gli opposti, la cui stretta connessione costituisce la
legge segreta del mondo. I contrari, infatti, vivono l'uno dell'altro, nel senso
che l'uno è negazione e morte dell'altro, vicendevolmente, non potendo stare
l'uno senza l'altro.
L'opposizione dei contrari costituisce la legge del tutto, la logica intrinseca
alla realtà, il Lógos stesso da intendersi come il fuoco che governa il
divenire di ogni cosa.
Tale legge logica della contrapposizione verrà ripresa nel secolo XIX dal
filosofi tedesco Hegel, che ne farà la dinamica dello Spirito, l'intima legge
dell'intero.
Eraclíto è convinto assertore della positività della discordia e della guerra:
la Guerra, infatti, viene da lui considerata come madre di tutte le cose, di
tutte regina. Se la guerra scomparisse dal mondo, tutto verrebbe immediatamente
ridotto a stasi e a morte: la guerra è la vitalità delle cose.
La concezione dell'universo in Eraclíto sfocia in un sostanziale panteismo; Dio è il tutto e il tutto è Dio. Certo, Dio è da intendersi non nel senso personalistico cui siamo abituai da secoli di Cristianesimo, ma come concetto di eminenza: il divino è ciò che vi è di più nobile nella natura.
Il Pitagorismo (e Pitagora)
Ci spostiamo dall'Asia minore (Mileto) alla Magna Grecia
(Crotone, in Calabria). Prendiamo, però, in considerazione non personalità
filosofiche individuali, ma una scuola che si è mantenuta attiva a lungo.
Con il Pitagorismo siamo a metà tra la filosofia e il mistero, e benché
l'Illuminismo del XVIII secolo ci abbia educati a considerare il mistero come il
corrispettivo dell'ignoranza e, quindi, della superstizione, il significato
genuino del termine “mistero”, è al contrario estremamente significativo e
gravido di conseguenze.
“Mystérion”, il termine greco, può dividersi in my-s-terion.
Analizziamone le singole parti:
- la s ha una valenza esclusivamente eufonica;
- terion è il suffisso che in molte parole, anche italiane, indica il
luogo (nelle varianti terio, torio, tero: dormitorio,
dicastero, acroterio, cimitero, ecc.);
- my costituisce la radice del termine ed è, nella fattispecie, radice
del verbo mýo, mýein, che significa “socchiudere” (il mi-ope
è colui che, per vederci, socchiude le palpebre).
Data questa analisi, possiamo ricostruire il significato completo del mistero,
come quel luogo in cui l'occhio (dell'intelligenza) si socchiude a motivo
dell'incandescente luminosità di un contenuto intellettuale, quasi per ritrarsi
e guardare per prospettive o dietro un filtro adeguato.
Nella Grecia antica i Misteri erano dottrine che venivano coltivate e trasmesse
presso determinati santuari, per accedere alle quali era necessario sottoporsi,
da parte degli adepti, a un percorso di iniziazione.
Il Pitagorismo è una filosofia che si colloca al limite della dottrina misterica,
in cui il maestro (Pitagora) assume un profilo quasi divino e diviene
l'irreprensibile ed oracolare rivelatore di verità profonde.
La dottrina del numero
I Pitagorici si dedicano allo studio del cosmo (cioè
dell'armonia nella realtà) a partire da una prospettiva che non è naturalistica,
come quella della scuola di Mileto, ma aritmologica, cioè relativa al numero.
Per i Pitagorici il principio della realtà è, dunque, il numero. Numero che non
deve essere inteso secondo la nostra mentalità formalistica, come cifra
simbolica (numero arabo o lettera algebrica), frutto di astrazione, ma come
qualcosa che ha una forma, un contorno, una figura, una realtà geometrica.
Il numero è il cosmo insito nelle cose, è l'armonia sorpresa nei ritmi delle
cose e nelle loro relazioni.
La tradizione vuole che la scuola pitagorica sorgesse presso la bottega di un
fabbro. L'ascolto ripetuto e disinteressato del frastuono dei martelli e degli
incudini avrebbe favorito l'intuizione dell'armonia, cioè di quella particolare
relazione esistente tra grandezze di ordini differenti, cioè tra quantità
metalliche (martelli e incudini di diverse dimensioni) e intervalli musicali. Da
casi come questo il pitagorismo avrebbe tratto l'idea del numero come principio
sottostante a qualsiasi realtà significativa del mondo.
Il numero pitagorico è il calcolo, nel senso più antico del
termine, cioè il “sassolino” che serve per la computazione, e con il quale è
possibile tracciare delle figure schematiche che interpretano le cose.
Il numero sta alla base di ogni cosa e ogni cosa trova la propria ragione nel
numero, cui essa può essere ricondotta.
Tutta una serie di realtà e di fenomeni naturali, infatti, sono traducibili in
rapporti numerici e sono rappresentabili in modo matematico. La musica è
traducibile in proporzione numerica; sono precise leggi numeriche che
determinano l'anno, le stagioni, i giorni, sono precise leggi numeriche che
regolano i tempi dell'incubazione del feto, i cicli dello sviluppo e i vari
fenomeni della vita.
I pitagorici stabiliscono una distinzione fondamentale tra i
numeri: il pari e il dispari (dai quali si distingue l'uno, che genera il pari e
il dispari), generati dalla prevalenza in essi dell'illimite e del limite.
Contrariamente alla nostra mentalità, però, i pitagorici concepivano la
perfezione come carattere dell'elemento limitante (dispari) e l'imperfezione
come carattere dell'elemento illimitato (pari), in quanto aperto, privo di
contorno definito, privo di proporzioni.
L'uno, per i pitagorici, corrisponde al punto, il due alla linea, il tre alla
superficie, il quattro all'elemento solido; i solidi geometrici sono
assimilabili agli elementi del cosmo: il cubo alla terra, la piramide al fuoco,
l'ottaedro all'acqua, l'icosaedro all'aria.
In tal modo l'universo dei pitagorici acquista un volto nuovo
rispetto a quello degli ionici di Mileto: gli elementi contrastanti sono
pacificati in armonia in un mondo costituito dal numero, con il numero e secondo
il numero. Un vero “cosmo”. Il mondo cessa così di essere teatro di forze oscure
e potenzialmente maligne e si trasforma in uno scenario ordinato e, pertanto,
dominabile con la ragione.
Il dominio del numero significa il dominio della razionalità e della verità: non
sorprende che i pitagorici pensassero che i mondi, sferici, ruotando secondo
numero e armonia producessero bellissimi concerti.
L'aspetto misteriosofico del pitagorismo
Si è detto sopra che la disciplina pitagorica corre a cavallo
tra la filosofia e il mistero.
Pitagora, sotto questo aspetto, è certamente stato il primo filosofo ad
insegnare la dottrina della metempsicosi, cioè della trasmigrazione delle anime.
Le anime, secondo tale dottrina, sarebbero costrette a reincarnarsi più volte in
successive esistenze corporee, non solo in forme di uomini, ma anche in diverse
forme di animali, per espiare un'originaria colpa commessa (la dottrina sembra
essere di origine orfica)
L'uomo deve vivere in funzione dell'anima, cioè deve vivere in modo tale da
purificare l'anima e da scioglierla da quei legami con il corpo che essa ha
contratto a causa della sua colpa.
Laddove gli orfici avevano indicato nelle pratiche religiose e nei sacri misteri
i modi con cui ottenere la purificazione dell'anima, i pitagorici, invece
additarono soprattutto nella scienza e nella vita contemplativa la via della
purificazione.
Senofane di Colofone. Parmenide di Elea: il principio di non contraddizione
[p. 52, §§ 2-3]
Parmenide di Elea
È il padre dell'ontologia, cioè la disciplina dell'essere (da ón [óntos],
participio presente greco del verbo essere); la
esprime attraverso la poesia di un carme Sulla natura.
Il principio di non contraddizione
Attraverso la filosofia di Parmenide trova espressione il principio di
non-contraddizione, sul quale si incardina qualsiasi discorso filosofico
(classicamente inteso): l'essere è e non può non essere, il non
essere non è e non può essere.
Tale principio ha valenza nel contempo logica e ontologica, vale, cioè, come
legge fondamentale del pensiero e dell'essere. Essere e pensiero, pertanto, si
sovrappongono nella mentalità di Parmenide.
Le due vie
Davanti all'uomo, secondo Parmenide, si aprono due sentieri,
quello della verità, basato sulla ragione, che percorre la via dell'essere (cioè
procede rigorosamente secondo il principio di non-contraddizione, considerando
vero ed affidabile solo quanto discende immediatamente dal principio stesso), e
quello dell'opinione (erronea), basato sui sensi, che percorre la via del non
essere (cioè sostiene la persuasione del divenire, considerando vero e
affidabile il movimento e il trasformarsi delle cose così come è attestato dai
sensi).
Parmenide intende
sostenere che soltanto l'essere esiste e può essere pensato, mentre il
non-essere, che risulta tanto indicibile quanto impensabile, non può esistere.
Pensiero ed essere coincidono. Essere e non-essere nel discorso parmenideo sono
presi nel loro significato integrale e univoco: l'essere è il puro positivo, il
non-essere il puro negativo.
L'essere di Parmenide, così concepito, finisce per
immobilizzare qualsiasi possibilità di formulare un discorso sull'essere, dal
momento che il dettato del principio di non contraddizione, non permette di
affermare se non l'identità dell'essere stesso con se stesso. L'essere, infatti,
è concepito come cosa, l'unica cosa, comprensiva di tutta la realtà. La
concezione di Parmenide immobilizza il discorso; fissa la speculazione senza
possibilità di eccezione.
Qualsiasi discorso, infatti, che si basa sulla constatazione dei sensi, si
muove, per Parmenide, lungo la via dell'errore che, contrariamente al principio
di non contraddizione, attestano il movimento e la molteplicità della realtà. Ma
i sensi, per Parmenide, ingannano.
Parmenide non possiede ancora – com'è ovvio – la consapevolezza filosofica
di Aristotele, pertanto si pone effettivamente la domanda sull'essere considerandolo, in ultima analisi, come una cosa, o come il tutto. L'essere di Parmenide non
è più un “principio” semplicemente naturalistico, ma non è ancora “altro” (cioè
“distinto”) dall'essere del principio naturalistico stesso del cosmo.
La via della verità, che identifica l'essere con il pensiero,
implica alcune caratteristiche dell'essere, attributi fondamentali che connotano
l'essere vero ed autentico. L'essere è:
- ingenerato e incorruttibile: non può né nascere né corrompersi,
pena il derivare dal nulla e il venir meno, nel non-essere, di ciò che il
principio sancisce come essere nel modo più assoluto;
- eterno: privo delle dimensioni del passato e del futuro, senza inizio né
fine;
- immutabile e immobile: non può cambiare aspetto ne posizione, pena la
diversificazione al proprio interno e, di conseguenza il non-essere ancora e il
non-essere più;
- unico: pena la contraddizione di una molteplicità che si
contrappone a se stessa contraddicendosi nel non-essere;
- omogeneo: cioè dello stesso genere senza differenziazione
alcuna al suo interno, sferiforme in quanto paragonabile al concetto di sfera
intelligibile (equidistanza da un centro);
- finito: perfettamente circoscritto nella sua totalità.
I sensi sembrerebbero attestare il divenire, il movimento,
il nascere e morire, e, dunque, l'essere e insieme il non-essere. Ma ammettere
l'essere e insieme il non-essere significherebbe ammettere il nulla insieme con
la sua pensabilità.
Ora, i sensi illudono e ingannano e l'opinione dei mortali,
gente senza giudizio che sostiene l'identità di essere e non-essere, percorrendo la
via dell'errore.
(Giovanni Reale sostiene che Parmenide pensasse anche a una “terza via” dell'opinione plausibile, fondandola nella ricomprensione di luce e tenebre, che gli uomini stolti considerano radicalmente
distinte nell'essere e nel non-essere, nell'alveo comune dell'essere, in una sua
forma di unità: «La
ricostruzione del mondo dei fenomeni dovrebbe dunque procedere nel rispetto del
supremo principio, vale a dire negando il non-essere e affermando solo l'essere.
Senonché, questo tentativo [...] era destinato, fatalmente, a spezzarsi nelle
mani di Parmenide: una volta riconosciute come “essere”, luce e notte dovevano
perdere qualsiasi nota differenziante e divenire identiche, perché l'essere è
sempre e solo “uguale”, cioè identico a se medesimo, e non ammette differenze di
sorta, qualitative o quantitative che siano [...]: pertanto, nell'istante stesso
in cui Parmenide tentava di ricostruire un mondo dei fenomeni in modo
plausibile, cioè senza contravvenire al suo principio della verità, fatalmente
lo svuotava di tutta la sua ricchezza di mondo e lo impietriva nell'immobilità
dell'essere»).
Zenone, i paradossi; Melisso e la sistemazione del parmenidismo
Gli sviluppi della scuola eleatica:
Zenone e Melisso
La dottrina di Parmenide dovette suscitare reazioni e vivaci polemiche a
motivo della sua paradossalità.
Fu probabilmente attaccata soprattutto nei punti
che più clamorosamente contrastavano con i dati dell'esperienza, quali la
negazione del divenire e del movimento e la negazione, implicita, del
molteplice.
Zenone di Elea
Si impegna a confutare le tesi (cioè a portare a contraddizione,
assumendole per valide) le tesi dei detrattori del maestro Parmenide.
Formula alcuni argomenti contro la molteplicità e contro il movimento.
- Argomenti contro la molteplicità (per esserci la molteplicità, dovrebbero
esserci molteplici unità, il che risulterebbe, secondo Zenone, contraddittorio):
se, ad esempio, si considerassero molte cose insieme e poi ciascuna
separatamente, si mostrerebbe che esse si comportano in modo contraddittorio (un
chicco di riso, cadendo, non fa rumore; una grande quantità di riso, invece fa
un rumore enorme, il che è contraddittorio); se poi ciascuno dei molti fosse
uno, per essere tale non dovrebbe aver dimensioni, mentre se le avesse sarebbe
divisibile e, quindi, non più uno; se gli esseri fossero molteplici dovrebbero
nel contempo essere finiti (perché in numero non inferiore e non superiore al
loro numero) e infiniti (perché tra ciascuno di essi un altro di essi sarebbe
sempre pensabile, all'infinito, un medio); ecc.
- Argomenti contro il movimento (per esserci, il movimento, sarebbe spaziale, e
lo spazio sarebbe infinitamente divisibile):
il movimento sarebbe assurdo, perché, per raggiungere una meta, un corpo in
movimento dovrebbe raggiungere la metà dello spazio esistente tra sé e la meta,
ma per giungere alla metà dovrebbe giungere alla metà della metà, ecc.
all'infinito, senza mai potere raggiungere l'obiettivo (argomento dello stadio);
Achille, partendo anche solo leggermente discosto da una tartaruga, pur essendo
il leggendario piè veloce, non riuscirebbe mai a raggiungerla, perché nella
frazione di tempo impiegata da lui per raggiungere il punto di partenza della
tartaruga, essa si sarebbe comunque mossa, benché di poco, e così via,
all'infinito, senza mai poter giungere alla pari (argomento dell'Achille); la freccia scagliata dall'arciere percorre
soltanto apparentemente una distanza (tra l'arco e il bersaglio), perché in
realtà essa, occupando sempre una posizione determinata in ogni istante, è immobile in ciascuno degli infiniti istanti del proprio
“percorso”.
Gli argomenti “tengono”, benché nel paradosso, perché la logica
considera entità puntuali ed inestese, non sostanze concrete; in tal modo, la
divisione all'infinito dello spazio, coerente nel quadro di una disciplina
razionale, comporta la plausibilità di un'estensione all'infinito di qualsiasi
quantità, sebbene minima, con la conseguente infinitizzazione di qualsiasi
ordine di distanze.
Melisso di Samo
Può essere definito il “sistematore” del
pensiero eleatico.
Parmenide aveva lasciato poeticamente indeterminati alcuni
degli attributi dell'essere e, soprattutto, ne aveva lasciati alcuni
semplicemente affermati e non dedotti.
Invece di concepire l'eternità di questo
essere tutta raccolta nell'istante atemporale senza passato e senza futuro,
Melisso preferì dilatarla all'infinito e concepirla come un “sempre era e sempre
sarà”. Melisso intende il suo essere come rigorosamente aprocessuale, da sempre
e per sempre già tutto attuato.
Inoltre, a differenza di quanto appariva in Parmenide, Melisso afferma l'infinità dell'essere, eludendo il presupposto
pitagorico dell'imperfezione dell'infinito a fronte della perfezione del finito;
l'essere di Melisso è infinito nel tempo e nello spazio, uguale, inalterabile e
immobile.
Infine, l'infinito è incorporeo, non perché spirituale (la categoria
dello spirito non esiste ancora), ma perché uno-infinito, e come tale non
determinato da alcuna “ben rotonda sfera” parmenidea.
Melisso procedette alla
sistematica eliminazione del mondo dei sensi e della doxa (opinione), e con lui l'audacia
del lógos eleatico raggiunge la punta estrema: «se dovessero esistere i molti,
questi dovrebbero essere tali quale io dico che è l'Uno. Per conseguenza risulta
che né vediamo né conosciamo cose che sono».
Aristotele avrebbe successivamente
rimproverato agli Eleati in genere, e a Melisso in specie, di rasentare la
follia: la follia della ragione, che non intende riconoscere null'altro che se
medesima e la propria legge, respingendo categoricamente l'esperienza e i suoi
dati.
Platone e Aristotele avrebbero tentato di porre riparo a questa «follia»,
cercando di riconoscere le ragioni della ragione e, insieme, le ragioni
dell'esperienza.
I pluralisti: Empedocle e Anassagora
i fisici pluralisti
Empedocle di Agrigento
Con i fisici pluralisti, di cui Empedocle è il primo rappresentante, il problema è quello di coniugare unità e molteplicità, nel tentativo di superare l'impasse creata dalla speculazione della scuola parmenidea.
Empedocle individua quattro "radici" delle cose: terra, acqua,
aria e fuoco, i quattro elementi, che rimarranno fissi nella tradizione
filosofica fino alla tarda età moderna.
I quattro elementi (in greco: “rizómata”, cioè radici) obbediscono al
principio parmenideo: il fuoco, infatti è fuoco e non può non essere fuoco;
l'aria è aria e non può non essere aria; ecc.
Il divenire delle cose, tuttavia, cioè il loro apparente nascere, trasformarsi e
morire, è dovuto all'incessante aggregarsi e disgregarsi degli elementi ad opera
di due forze cosmiche antagoniste, Amore e Contesa, di origine
divina, l'uno aggregante, l'altra disgregante.
Nella fase in cui domina totalmente l'Amore, tutti gli elementi sono unificati e
legati nella più completa armonia (lo “Sfero”); la Contesa, però, incrina
questo perfetto equilibrio e produce unità parziali, cioè le cose del mondo come
appaiono nel divenire. Il tutto è riassorbito in un ciclo senza fine con alterne
vicende di Amore e di Odio.
Con tali componenti del suo pensiero, l'una di origine naturalistica, l'altra di
origine misterica, Empedocle tenta una spiegazione della realtà che riesca a
conciliare l'esigenza della non contraddizione, che garantisce l'essere, con
l'evidenza delle percezioni, che attestano il divenire. Il problema che si
impone, dunque, è quello della relazione tra l'uno e i molti, che avrà tanta
fortuna nel pensiero successivo.
Dal punto di vista gnoseologico (cioè dal punto di vista dello
studio delle modalità della conoscenza umana), Empedocle sostiene che le cose
vengono conosciute in quanto gli elementi simili che sono nelle cose e che sono
nelle capacità conoscitive dell'uomo si riconoscono e si assimilano: la
conoscenza avviene mediante l'incontro degli elementi simili, cioè terra e
terra, acqua ed acqua, aria ed aria, fuoco e fuoco, che sono presenti sia nelle
cose sia nell'uomo.
Anassagora di Clazomene
Omeomeria è termine greco che significa letteralmente
“parte simile”. È il temine con cui Aristotele denominò i semi (spérmata)
di cui Anassagora parlava.
Le omeomerie sono per Anassagora parti infinitesimalmente piccole di ciascuna
qualità materiale: di tutto, cioè, ci sono omeomerie, di legno, di pietra, di
acqua, di vapore, di carne, di oro, ecc.
Anche le omeomerie, come le radici di Empedocle, obbediscono al principio di
Parmenide, in quanto, viste in sé, osservano la non contraddizione, non
trasformandosi in alcunché d'altro da sé.
Le cose si differenziano per la densità o la prevalenza di una omeomeria
rispetto alle altre, sempre e comunque presenti in tutto. In tutto, dunque, c'è
di tutto, ma sempre secondo un ordine di prevalenza, in modo tale che la
prevalenza determina, almeno apparentemente, la qualità di una cosa.
In Anassagora, rispetto ai filosofi precedenti, c'è poi una novità: il Noûs,
cioè la Mente divina, l'intelligenza ordinatrice che sta alla base e che governa
dalle origini il mondo.
Risulta peraltro ozioso e del tutto inutile decidere si tratti, a proposito di
questo Noûs, di una realtà materiale o spirituale, dal momento che
Anassagora si trovava – teorieticamente parlando – nella condizione di non
potere distinguere spirito e materia come principi d'esperienza. La Mente è
certamente una figura significativa, destinata a godere di notevole fortuna
nella speculazione filosofica successiva, ma non le si possono attribuire quei
connotati che soltanto la speculazione successiva avrebbe codificato
chiaramente.
Per quanto concerne la dottrina della conoscenza, poi, per Anassagora,
contrariamente a quanto sostenuto da Empedocle, la conoscenza avviene tra
dissimili, vale a dire che è l'assenza di tutto il resto che determina il
riconoscimento di una determinata qualità (riconosco l'oro, in quanto nella cosa
che mi si presenta mancano o sono rare le omeomerie di tutte le altre qualità).
L'atomismo di Democrito: l'idea di atomo e le qualità
Gli atomisti
La dottrina atomistica, fondata da Leucippo e sistematicamente
sviluppata e portata al successo dal discepolo Democrito, è l'estremo tentativo
di sanare le difficoltà suscitate dall'eleatismo, cercando, comunque, di
salvaguardarne il principio di fondo dell'essere senza rinnegare, cionondimeno,
i fenomeni.
Occorre inoltre osservare che, con Democrito, ci troviamo già in età socratica (Democrito
muore parecchi anni dopo Socrate), quando la filosofia si è ormai aperta al
problema dell'uomo. Nonostante ciò, il centro speculativo della sua filosofia,
la dottrina degli atomi, non sembra risentire della nuova temperie umanistica,
mentre appare, invece, nei suoi scritti, un profondo senso del dovere dell'uomo
rispetto al tema della vera felicità di questa vita.
Secondo Democrito, l'atomo è l'unità indivisibile, ciò oltre a
cui non si può procedere nella divisione delle cose, pena la contraddizione del
non essere.
A suo parere, in risposta a Zenone, non si può procedere all'infinito nella
divisione della realtà, senza dover sopportare la conseguenza dello svanire di
tutto nel non-essere, conseguenza vietata dal principio parmenideo.
L'atomo è l'ulteriormente indivisibile (“atomo” deve essere considerato
aggettivo, non sostantivo); non si tratta di una cosa, ma di ciò che, in
qualsiasi cosa, costituisce la parte irriducibile, il segmento insuperabilmente
infrangibile di cui tutte le cose sono fatte.
L'atomo non si distingue qualitativamente (come le omeomerie di Anassagora o le
radici di Empedocle), ma soltanto quantitativamente, cioè in ragione della forma
geometrica o di ciò che fa riferimento, in qualche modo, a quanto può essere
misurato. Con Democrito, dunque, compare nella filosofia la distinzione tra
qualità cosiddette “primarie” e qualità cosiddette “secondarie”, le une di
ordine aritmetico-geometrico, le altre di ordine differentemente sensibile,
“oggettive” le prime, “soggettive” le seconde.
Le diverse cose che compongono la realtà del mondo, dunque, si costituiscono in
ragione di un dinamismo totale per il quale le collisioni tra atomi producono le
associazioni e le dissociazioni atomiche che ne determinano l'apparire.
Il presupposto di questo movimento degli atomi è, per Democrito, il vuoto; la
conseguenza del movimento caotico degli infiniti atomi nel vuoto infinito (come
il pulviscolo che si vede muovere in sospensione attraverso un fascio di luce) è
l'esistenza di un'infinità di mondi che da sempre e per sempre si avvicendano
nel tutto.
Il problema della causa e del caso
Il problema cruciale del sistema atomistico, comunque, è
quello che si costituisce attorno alla discussione del concetto di causa.
Dante, nell'Inferno (IV, 136), dice di Democrito che «il mondo a caso pone»,
escludendo che l'atomismo sia un sistema compatibile con il teorema della causalità.
Un pensiero più debole di quello aristotelico (e dantesco), invece, assicura a
Democrito un preciso posto tra coloro che, senza cedere a illusioni più o meno
“poetiche”, rendono ragione delle cose secondo la dinamica che intercorre tra caso
e necessità, cioè sulla base della concatenazione di determinati fatti con
determinati altri fatti, a prescindere dalla pretesa di un loro previo
significato.
È, in sintesi, il dibattito sulla finalità, che si apre a partire dall'ipotesi
dell'esistenza di una realtà intelligibile a prescindere da un ordinamento
intellettuale di fondo, che ne renda ragione.
Se si propende per un pensiero “forte”, come quello aristotelico, la casualità non appartiene all'ordine delle cause, se invece si sposa
una posizione di pensiero più debole, allora la casualità ha pieno
diritto ad essere annoverata tra le cause di questo mondo.
Di fatto l'atomismo sostiene che per ogni cosa c'è, a questo mondo, una precisa
ragione necessitante, cioè c'è una consequenzialità rigida tra determinati fatti
e determinati altri fatti, tra un prima e un poi, il che costituirebbe una
ragione sufficiente di spiegazione dei fenomeni. L'urto degli atomi, infatti,
darebbe luogo, per l'atomismo, alle più diverse conformazioni della realtà, sulla
base delle forze efficienti in gioco, a prescindere da qualsiasi piano
preventivo di organizzazione intelligibile delle cose stesse. I mondi infiniti
esisterebbero necessariamente in ragione esclusivamente dei movimenti che li
producono: il caso, cioè sarebbe una causa efficiente, ma non
cieca, che renderebbe ragione delle cose.
C'e da chiedersi (teoreticamente) se poi, di fatto, l'intelligenza conseguente
delle cose generatesi per caso non dovrebbe richiedere una sua
implicazione preliminare, cioè una sua effettiva presupposizione.
Un sistema come quello democriteo, dunque, che non contempla una causalità finale (da non confondere con lo scopo, ma da intendere come orizzonte previo di
significatività), è veramente in grado di offrire una spiegazione plausibile del
divenire?
Il sistema atomistico democriteo manca completamente di questo orizzonte di significato e dunque, alla luce di una considerazione “forte” come quella dantesca, come si è detto, risulta privo di ogni fondamento quanto alla prospettiva della causalità.
Dal punto di vista della conoscenza, l'intelligenza è,
ovviamente “atomica” in Democrito; ciò significa che la conoscenza è un fatto di
atomi, come tutta la realtà. Si tratta del processo per cui gli atomi psichici,
più sottili, fluidi e pervasivi degli altri, entrano in contatto con gli effluvi
di atomi che promanano dalle cose.
Non sono dunque le cose che, direttamente, entrano in contatto con gli organi di
senso, ma i fumi (per così dire) che si disperdono dalle cose stesse che
sfiorano e impressionano gli atomi psichici presenti e diffusi nel corpo.
Per quanto concerne, invece, il discorso etico, occorre
osservare che Democrito visse in età socratica (sopravvisse di diversi anni a
Socrate stesso) e fu perciò condizionato dall'ambiente culturale in cui già si
era ampiamente sviluppato il discorso antropologico ed etico. La sua profonda
personalità risente delle tematiche del bene e del dovere, ma il suo discorso
etico, peraltro altrettanto profondo, non risulta dedotto dal sistema atomistico
che invece costituisce il centro del suo interesse scientifico.
Il Democrito scienziato non entra nel merito delle tematiche morali, ma l'uomo
Democrito risente indiscutibilmente delle nuove acquisizioni della cultura
filosofica a lui contemporanea. La sua etica si pone sul piano del discorso
sapienziale, sostanziato di massime che testimoniano l'applicazione della
ragione al piano pratico, senza peraltro dipendere dal sistema scientifico.
La sofistica. La tesi di Protagora
LA SOFISTICA
Mondo democratico e linguaggio
Tra V e IV secolo a. C. si consolida in Atene l'esperienza democratica
maturata nel periodo delle guerre contro i Persiani.
Il contesto di partecipazione politica coopera ad una trasformazione radicale delle
istanze di interesse della filosofia, che si apre all'orizzonte dello studio
dell'uomo e della sua vita pratica, chiudendo temporaneamente la precedente fase
di ricerca sulle cause naturali e sull'ordinamento fisico del mondo.
La filosofia problematizza (propone per l'indagine) l'uomo; emerge il problema
antropologico.
L'ambiente democratico, infatti, implica il dominio del linguaggio come lo
strumento indispensabile per potere esprimere il proprio parere in un contesto
assembleare, per dominare e governare le opinioni e per convincere oltre che per
simulare.
La parola, con tutte le sue prerogative appare lo strumento principe della
politica, con la conseguenza che, chi di fatto riesce a presentarsi come
professionista della parola, riesce anche a imporre il proprio magistero,
naturalmente dietro adeguato compenso. Chi infatti vuole ottenere consenso e
prestigio nel contesto politico, deve apprendere l'arte del discorso dai maestri
che si siano affermati per chiara fama.
Nasce l'arte retorica, cioè l'arte del discorrere persuasivamente.
I professionisti della parola si chiamano sofisti (sophistái), il che
non deve indurre a identificarli immediatamente come spregevoli venditori di
imbrogli, come la sensibilità odierna porterebbe a pensare.
Il sofista, nella Grecia del V secolo, è il sapiente, il maestro, il
professionista; la connotazione negativa che accompagna oggi il termine
“sofista” dipende, invece,
dalla campagna denigratoria che, a partire da Socrate e Platone, si è scatenata
contro chi, esercitando la propria professione, otteneva un compenso per
trattare della verità e del bene, commercializzandoli, prassi ritenuta dopo
Socrate come indegna del vero sapiente, perché intima con la stessa natura
dell'uomo, la sua anima e la sua virtù [cose che si approfondiranno in seguito].
Due tratti caratteristici della sofistica si possono individuare:
- nell'atteggiamento critico nei confronti di qualsiasi assunzione priva di una
discussione razionale;
- nell'acquisizione di un atteggiamento cosmopolita, altrettanto critico nei
confronti di qualsiasi “ingiustificata” posizione particolaristica.
Il sofista è libero nel pensiero e nel costume ed è cittadino del mondo, perché
possiede il linguaggio, che è la cifra comune dell'appartenenza a qualsiasi
comunità umana.
Il problema antropologico non viene affrontato ancora al livello dell'essere, cioè non si indaga in che cosa consista veramente la sostanza umana, ma si profila come l'indagine sulla prerogativa primaria dell'uomo, cioè il suo linguaggio.
Protagora di Abdera
La concezione dell'uomo
È il sofista passato alla tradizione per il celebre principio: «l'uomo è
misura di tutte le cose».
Tale principio, apparentemente banale, deve invece essere analizzato in ogni sua
parte, per capirne il significato profondo.
Incominciamo con il termine misura (gr. métron). Diciamo subito che misura non significa qui “unità di misura”; l'unità di misura, infatti è quel modulo arbitrariamente stabilito che si riporta lungo le dimensioni di qualcosa per stabilire raffronti di ordine quantitativo. Possiamo dire che una fune è più lunga di un'altra riportando esattamente il nostro metro lungo le rispettive lunghezze. Diciamo anche che misura non significa qui neppure il dato numerico risultante dall'attività di misurazione di qualcosa. Nel nostro caso, invece, misura significa “criterio”, vale a dire luogo decisivo, punto di discernimento, linea di separazione. Affermare, con Protagora, che «l'uomo è misura di tutte le cose», quindi, significa fare dell'uomo la fonte del valore o del disvalore delle cose, renderlo l'arbitro del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto, del bello e del brutto.
In secondo luogo, consideriamo il termine uomo. Nel principio protagoreo “uomo” può significare il singolo (Tizio piuttosto che Caio), la comunità (gli ateniesi piuttosto che i tebani) o il genere universale (tutti gli uomini rappresentati nella differenza specifica, cioè nella razionalità). Sembra qui di poter dire che Protagora pensasse a quest'ultimo significato di uomo, quando enunciò il proprio principio, ma, a ben vedere, ciascuno dei tre significati potrebbe agevolmente interpretare la filosofia di Protagora senza comportare che delle varianti di margine e comunque compatibili e interscambiabili tra loro.
Infine, osserviamo anche che le cose (gr. chrémata) non devono essere intese come gli oggetti, come i soggetti singolari che costituiscono il mondo, ma come le “cose che contano”, i valori, anche le “azioni”, se per azioni si intendono gli atti che impegnano l'uomo nella sua dignità e nelle sue relazioni.
L'uomo, dunque, è per Protagora il supremo giudice del senso della vita, l'istitutore dei costumi e l'arbitro insindacabile delle vertenze legate alla propria natura.
Il relativismo. Gorgia antiparmenideo. Il problema del rapporto tra natura e legge
Il relativismo
In conseguenza del principio appena esposto, il sistema di pensiero di
Protagora è stato considerato una forma di umanismo, dal momento che il
presupposto di ogni affermazione è sempre l'uomo come criterio, ma tale umanismo
può anche essere considerato fenomenismo, che, a sua volta fa essere il sistema
di Protagora un sistema relativista.
Qualsiasi acquisizione all'interno dell'orizzonte interpretativo protagoreo,
infatti, nega la possibilità di proporsi come assoluto (=sciolto, svincolato da
qualsiasi criterio) nella misura della sua dipendenza dal criterio centrale,
quello dell'uomo-misura, il quale tuttavia – lo si deve notare – sembra
assurgere a un'indebita (e contraddittoria) pretesa di assolutezza.
In base a tale relativismo il sistema protagoreo proclama l'eterogeneità e la
diversità degli ideali che governano la convivenza umana, dichiarando nel
contempo l'impossibilità di paragonarli fra loro. Ciò, infatti, che presso un
popolo è ritenuto sacrosanto, presso un altro popolo può diversamente e senza
contraddizione essere ritenuto nefando; ciò che taluni stimano bello è
facilmente ritenuto brutto da altri. Lo stesso vale per il giusto e l'ingiusto,
il buono e il cattivo, il nobile e il vile, e così via.
L'utile
Forse consapevole della potenziale contraddittorietà del proprio sistema di
idee, in quanto relativista, l'unica istanza che, a parere di Protagora, può
assurgere a criterio regolativo dell'agire dell'uomo è il principio “debole”
dell'utile, cioè il criterio che individua ciò che favorisce il comodo
momentaneo e che, tuttavia, deve rimanere svincolato da qualsiasi considerazione
di ordine morale, ma si evince soltanto attraverso l'esercizio retorico
applicato alla convenienza pragmatica delle circostanze. Solo l'analisi della
storia può insegnare che cosa di fatto abbia promosso l'uomo e che cosa, invece,
lo abbia fatto regredire.
In questo senso l'utile non supera l'uomo, imponendoglisi, ma rientra nelle
prerogative della valutazione umana in obbedienza al criterio fondamentale della
filosofia di Protagora: l'uomo misura di tutte le cose (secondo la prospettiva
dell'utilità).
Il sofista, in questa prospettiva, si configura come un maestro dell'utile, chi cioè può convincere e trarre dalla parte di ciò che promuove l'uomo.
Gorgia di Lentini
L'anti-Parmenide
L'interpretazione di questo sofista non è stata sempre concorde.
È stato tra l'altro considerato un ciarlatano, gonfio soltanto dell'enfasi della
propria arte eristica. In realtà il pensiero di Gorgia non sembra essere una
finzione, ma un messaggio significativo, intriso (senza esagerare in senso
troppo nietzscheano) di senso della tragicità, conseguente alla riflessione
disincantata sulle effettive capacità conoscitive dell'uomo.
Gorgia passa alla tradizione come l'anti-Parmenide, cioè quel filosofo
che ha costruito una dottrina del non essere speculare rispetto a quella del
padre degli Eleati.
Tale filosofia si sintetizza in tre affermazioni, consequenziali tra loro:
- nulla è;
- se anche qualcosa fosse, non sarebbe conoscibile;
- se anche qualcosa fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile.
Si tratta di tre espressioni di senso antieleatico, laddove per Parmenide
“l'essere è e non può non essere” (“Il non-essere non è e non può essere”) nella
perfetta coincidenza con il pensiero e la parola (il lógos). Gorgia si è
costituito come l'anti-Parmenide negando la possibilità stessa della filosofia
come discorso emergente dall'essere, quale sua manifestazione e traduzione nel
discorso. Gorgia, con il suo sistema, nega la trasparenza stessa dell'essere, ne
fa un torbido caos senza fondo.
La prima proposizione (“nulla è”) sta infatti a significare l'impossibilità
del riconoscimento di alcunché di causale da parte dell'uomo, cioè l'impossibilità della pensabilità del principio, l'oggetto di ricerca dei naturalisti
precedenti.
La seconda proposizione (“se anche qualcosa fosse, non sarebbe conoscibile”), a
sua volta, avverte che, nell'evenienza già dichiarate impossibile di una qualche
forma di rilevazione di un principio della realtà, tale principio risulterebbe comunque al
di fuori della portata del pensiero umano, cioè del tutto inconoscibile,
impossibile da rispecchiare nel pensiero.
La terza proposizione (“se anche qualcosa fosse conoscibile, non sarebbe
comunicabile”) significa che il linguaggio è una realtà completamente “altra”,
cioè diversa, dal resto, una realtà assolutamente irrelata, a sé stante,
separata ed eterogenea rispetto a qualsiasi eventualmente conoscibile forma di
realtà esistente.
L'agnosticismo
Il messaggio più profondo della dottrina di Gorgia, quindi, può sintetizzarsi
in una forma di agnosticismo, vale a dire l'atteggiamento che sospende ogni
dichiarazione, ogni giudizio e ogni presa di posizione nei confronti dell'essere
e della realtà per la decisa e dichiarata impossibilità della conoscenza, dovuta
alla persuasione dell'incapacità delle facoltà conoscitive dell'uomo di fronte
al mondo.
Volendo temperare la connotazione così negativa del pensiero gorgiano, lo si può
eventualmente considerare uno scetticismo metafisico, tenendo presente che il
termine “scetticismo” significa la ricerca senza limiti conseguente alla perenne
insoddisfazione per i risultati raggiunti nell'ambito di qualsiasi studio.
A fronte dell'agnosticismo circa la questione dell'essere, del tutto irrelato
dal reale si erge il linguaggio, realtà autonoma e completamente umana,
all'interno della quale tutto diviene possibile come il proprio contrario,
dichiarando una potenza assoluta che coincide, in ultima analisi con l'impotenza
più totale.
La retorica, dunque, costituisce l'unica potenza nelle mani dell'uomo, pur
dimostrandosi incapace di stabilire alcune relazione con il mondo. È questo il
senso della tragicità della vicenda umana nel mondo, l'impossibilità, cioè, di
dire alcunché di positivo nei confronti della realtà stessa all'interno della
quale è nondimeno necessario vivere, sprofondati nel mistero e nell'irrazionale.
Ippia
Legge naturale e legge positiva
È un sofista “minore”, comunque importante per avere teorizzato, per primo,
la differenza tra la legge naturale e la legge positiva.
La prima, la legge naturale, consiste nell'intima struttura delle cose, nel
profilo interiore dei tutto ciò che esiste; è perfetta, ma è originariamente
ignota.
La seconda, la legge positiva (= posta dall'intendimento cosciente dell'uomo) è
la codificazione della prima, la sua formulazione, la formalizzazione in
linguaggio normativo; è nota, ma imperfetta, perché infinitamente perfettibile,
in quanto nella storia l'uomo si rende progressivamente consapevole dalla
natura, ma mai in modo esauriente e totalmente soddisfacente.
Dato ciò, la legge positiva può essere anche, in se stessa, contraddittoria,
fino a un suo “dialettico” superamento.
Ippia si propone come il primo consapevole teorizzatore di tale differenza,
mettendo in evidenza il contrasto tra le “diverse” leggi dei diversi uomini.