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CLASSE III - Testi di Filosofia |
PLATONE
FEDONE
I
ECHECRATE - Di' un po', Fedone, eri presente tu quando, in carcere, Socrate
bevve il veleno o ne hai sentito parlare da altri?
FEDONE - C'ero io proprio,
Echecrate.
ECHECRATE - E che disse prima di morire? E come morì? Vorrei proprio
saperlo; perché, noi di Fliunte, non andiamo quasi mai ad Atene e da quella
città non è venuto nessuno che potesse riferirci notizie sicure su questo fatto.
Così sappiamo soltanto che è morto dopo aver bevuto il veleno. E nessuno ci ha
saputo dire di più.
FEDONE - Così non sapete nulla nemmeno del processo?
ECHECRATE -
Del processo sì, ne fummo informati; anzi ci meravigliammo del fatto che la
morte fosse seguita a così lunga distanza dalla sentenza. Com'è che è successo
questo, Fedone?
FEDONE - Fu una coincidenza, Echecrate, perché proprio il giorno
prima del giudizio, fu incoronata la poppa della nave che gli Ateniesi mandano a
Delo.
ECHECRATE - Cos'è questa storia della nave?
FEDONE - La nave sulla quale,
anticamente, a quanto dicono gli ateniesi, Teseo andò a Creta con le sette
coppie di ragazzi e di fanciulle e li salvò tutti, scampandone anche lui e
rientrando in patria. Ora, poiché si dice che gli ateniesi avevano fatto un voto
ad Apollo, di mandare ogni anno a Delo una ambasceria sacra, se quei giovani si
fossero salvati, ecco che, da allora, tutti gli anni, adempiono questo rito. E
inoltre c'è una legge che impone che dall'inizio della cerimonia la città si
conservi pura e, quindi, sono assolutamente vietate le esecuzioni capitali per
tutto il tempo che la nave giunga a Delo e non rientri in patria e, talvolta,
può anche accadere che passi molto tempo se i venti contrari ostacolano la
navigazione. La cerimonia, poi, ha inizio dal momento in cui il sacerdote di
Apollo cinge di corone la poppa della nave. Ecco perché Socrate stette in
carcere per tanto tempo prima che la condanna venisse eseguita.
II
ECHECRATE - Ma
che sai dirmi, di preciso, della sua morte, Fedone? Che cosa disse e che fece? E
quali amici si trovò accanto in quell'ora? Oppure i giudici non lasciarono che
ci fosse nessuno vicino a lui ed egli rimase solo e senza conforto?
FEDONE - Anzi,
per la verità, amici ce n'erano e anche parecchi.
ECHECRATE - Andiamo, allora,
raccontaci tutto, per filo e per segno, a meno che tu non abbia altri impegni.
FEDONE - Nessun impegno; e poi voglio raccontarvelo anche perché ricordarmi di
Socrate, o che sia io a parlarne o che ne senta parlare da altri, è per me,
sempre, una cosa dolcissima.
ECHECRATE - Anche per noi, Fedone, che siamo qui ad
ascoltarti. Raccontaci, se puoi, ogni cosa e dicci come effettivamente avvenne.
FEDONE - Ora che ci penso, che strano effetto mi faceva stare accanto a
quell'uomo; ero lì, che moriva un amico, e non provavo alcuna pietà. Mi pareva
felice, Echecrate, sia dal suo modo di fare che da come parlava: c'era in lui
una nobile e intrepida fierezza, tanto da farmi pensare che egli se ne andava
non senza il soccorso di un dio e che, nell'al di là, sarebbe stato il più
felice di tutti. Ecco perché, forse, non provavo quella pietà che pure sarebbe
stata così naturale in tanta sventura. E il bello era che non provavo nemmeno un
sentimento di diletto (anche se si discuteva di filosofia); ma era come se
dentro di me si agitasse una strana sensazione, uno stato d'animo misto di gioia
e di dolore insieme: e sì che, di lì a poco, egli sarebbe morto. E tutti noi che
eravamo là, provavamo, presso a poco la stessa cosa: ora piangevamo, ora
ridevamo, specialmente uno, Apollodoro, tu lo conosci e sai che tipo è.
ECHECRATE - E come non lo conosco?
FEDONE - Era proprio al colmo dell'agitazione ma
anch'io e gli altri eravamo tutti in questo stato.
ECHECRATE - Chi c'era, Fedone?
FEDONE - Di quelli del luogo, oltre ad Apollodoro, c'erano Critobulo con suo
padre, Ermogene, Epigene, Eschine e Antistene; c'erano anche Ctesippo di Peania,
Menesseno e qualche altro. Platone, credo fosse ammalato.
ECHECRATE - E gente di
fuori ce n'era?
FEDONE - Sì. Di Tebe c'erano Simmia, Cebete e Fedonda; poi, vi
erano Euclide e Terpione di Megara.
ECHECRATE - E Aristippo e Cleombroto, non
c'erano?
FEDONE - No. Si disse che erano a Egina.
ECHECRATE - E chi c'era ancora?
FEDONE - Mi pare che fossero presenti solo questi.
ECHECRATE - E dimmi, quali furono
i vostri discorsi?
III
FEDONE - Ora cercherò di raccontarti tutto dal principio.
Sempre, nei giorni che precedettero la morte, io e gli altri eravamo soliti
incontrarci con Socrate. Ci riunivamo al mattino, appena faceva chiaro, nel
tribunale dove venne fatto il processo, che era vicino al carcere e lì,
chiacchierando, aspettavamo che ci venisse aperta la prigione. A volte si
aspettava anche un bel po'; ma quando ci aprivano, correvamo da Socrate e
restavamo con lui anche tutta la giornata. Quella mattina, poi, giungemmo molto
presto perché la sera prima, lasciando il carcere, sentimmo dire che era tornata
la nave da Delo e così fummo d'accordo di vederci il giorno dopo al solito
posto, al più presto possibile. Quando giungemmo, il custode, che ci aveva
sempre fatti passare, venne fuori e ci disse di attendere e di non entrare fino
a quando non ce lo avesse detto lui, perché gli Undici proprio in quel momento
stavano togliendo le catene a Socrate e comunicandogli che quello era il giorno
della sua morte. Dopo un po' tornò e ci disse che potevamo entrare e noi,
infatti, trovammo Socrate libero dai ceppi e Santippe (tu la conosci, no?), che
con il bambino più piccolo in braccio, gli stava vicino. Appena quella ci vide,
cominciò a strillare e a dire le solite cose che dicono le donne: "Ahimè,
Socrate, ecco che è l'ultima volta che i tuoi amici parlano con te e tu con
loro." E Socrate, rivolgendosi a Critone: "Che qualcuno me la levi di torno e la
riporti a casa." Alcuni servi di Critone, così, la condussero via, mentre lei
continuava a smaniare e a battersi il petto. Socrate, intanto, che s'era seduto
sul letto, piegando una gamba, cominciò a grattarsela a lungo: "Che strana cosa,
amici, sembra quella che gli uomini chiamano piacere. E che straordinario
rapporto tra questo e il suo contrario, cioè il dolore. E pensare che essi
convivono nell'uomo e pur si respingono sempre e chi cerca e riesce a cogliere
l'uno, si vede costretto, sempre, a sobbarcarsi anche l'altro come se, pur
essendo due, fossero attaccati entrambi a uno stesso capo." "Credo," soggiunse,
"che se Esopo ci avesse pensato su ne avrebbe fatto una favola presso a poco
così: ‹Dio, volendo riconciliare questi due, sempre in guerra tra loro e non
riuscendovi, li legò insieme per la testa così che dove va l'uno va anche
l'altro.› È quello che è capitato a me: per la catena, qui, alla gamba, poco fa,
io sentivo dolore; ed ecco che ora sento piacere."
IV
"A proposito, hai fatto
bene a ricordarmelo, per Giove," intervenne, allora, Cebete, "perché molti e,
appena l'altro ieri, lo stesso Eveno, mi hanno chiesto come mai da quando sei in
carcere tu ti sia messo a far poesie sui ritmi di Esopo, e a comporre un inno in
onore di Apollo dato che, prima d'ora, non avevi mai fatto cose del genere. Se
tu, dunque, vuoi che risponda qualcosa ad Eveno, quando me lo domanderà (perché
di sicuro egli me lo chiede), dimmi che cosa devo riferirgli." "Digli la verità,
Cebete: che io non mi son messo a far versi per competere con lui (il che non
sarebbe stato facile), ma per spiegarmi cosa volessero dire certi sogni e
mettermi così la coscienza in pace; se, per caso, non fosse proprio questo
genere di musica che essi mi ordinavano di comporre. Spesso, infatti, mi è
capitato, per il passato, che lo stesso sogno, in diversi modi, mi ripetesse la
medesima cosa: ‹Socrate,› mi diceva, ‹scrivi e componi musica›; ed io, in un
primo tempo, credevo che il sogno mi incoraggiasse a far quello che già facevo,
cioè, come si incitano i corridori in una corsa, mi esortasse a dedicarmi sempre
più alla filosofia, che consideravo la più alta espressione dell'armonia, ma
dopo il giudizio, poiché la cerimonia in onore del dio aveva rimandato
l'esecuzione della sentenza, pensai se il sogno non avesse voluto intendere che
io avrei dovuto dedicarmi alla composizione di vera e propria musica e se,
dunque, non fosse stato il caso di obbedire al sogno e, prima di andarmene,
mettermi in pace con la coscienza componendo versi e rispettando il
suggerimento. "Fu così che feci, per prima, una poesia per il dio di cui si
celebrava la festa, poi, pensando che un poeta, per essere veramente tale, deve
scrivere per immagini e non per deduzioni logiche ed io non essendone capace,
decisi di prendere spunto da quelle favole di Esopo che ricordavo a memoria,
così come mi venivano in mente.
V
"Rispondi così ad Eveno, caro Cebete;
salutamelo e digli che, se è saggio, mi segua al più presto possibile. Io me ne
vado, oggi, a quel che sembra: così vogliono gli ateniesi." E Simmia: "Che
bell'invito che fai a Eveno, Socrate! Molte volte io mi sono intrattenuto con
lui e, in verità, da quello che mi è parso, non penso sia disposto ad accettare
il tuo consiglio." "Ma come, Eveno non è forse un filosofo?" "Lo è, credo,"
disse Simmia. "E allora, vedrai che non chiederà nulla di meglio che seguirmi e,
insieme con lui, ogni altro che si occupa degnamente di queste questioni. Che
però non faccia violenza a se stesso, perché questo, come dicono, non è lecito."
Mise giù le gambe dal letto e, restando seduto, continuò a parlarci. E Cebete, a
un tratto, gli chiese: "Com'è questo fatto, Socrate, che, da un lato dici che
non è permesso farsi violenza e, dall'altro, che il filosofo non chiede di
meglio che seguire chi muore?" "Ma come, Cebete, tu e Simmia non avete già
sentito simili discorsi alla scuola di Filolao?" "Sì, Socrate, ma nulla di
preciso, però." "Ma anch'io parlo per sentito dire; tuttavia nessuno mi
impedisce di riferirvi quello che ho udito, tanto più che mi sembra cosa assai
naturale, per chi sta per andarsene all'altro mondo, indagare e fantasticare su
questo viaggio e come egli se lo immagina. E poi, cosa potremmo, fare di meglio,
in tutto questo tempo, fino al tramonto?"
VI
"Socrate, ma in che senso dicono
che non è lecito darsi la morte? Che sia una cosa da non farsi (come anche tu
hai or ora accennato), io l'ho già sentito dire da Filolao, quando era tra noi e
anche da altri ma, per quale esatto motivo, mai nessuno me l'ha chiarito." "E,
allora, coraggio; forse adesso lo potrai sapere," disse. "Anzitutto, è probabile
che quello che ti sto per dire ti sembrerà strano anche se, in effetti, è
semplice, che cioè vi sono degli uomini che desidererebbero morire piuttosto che
vivere e, tuttavia, non possono procurarsi questo beneficio con le loro stesse
mani se non vogliono macchiarsi di empietà e, quindi, devono aspettarlo da mani
altrui." "Se Giove ci capisce è bravo," commentò Cebete, sorridendo, nel suo
dialetto. "Veramente la cosa, così com'è, può anche sembrare irragionevole,"
replicò Socrate; eppure, una sua logica ce l'ha. A questo proposito c'è una
frase nei Misteri che dice: ‹In una sorta di prigione siamo rinchiusi noi
uomini, e non è lecito liberarsi da soli, né evaderne.› Una frase, per me, tanto
profonda quanto oscura. Ma una cosa tuttavia è chiara, Cebete, che cioè gli dei
si prendono cura di noi e, noi uomini, siamo un po' come un loro possesso. Non
ti pare?" "Ah, senza dubbio," rispose. "E dimmi un po', allora, non ti
arrabbieresti anche tu se uno dei tuoi schiavi si uccidesse, a tua insaputa,
senza che tu avessi consentito alla sua decisione di morire e non lo puniresti,
per questo suo gesto, se ne avessi ancora la possibilità?" "Certo," asserì.
"Quindi, da questo punto di vista, non sembra per niente illogico che uno non
debba togliersi la vita prima che un dio non lo abbia messo nella necessità di
farlo, come in questa, per esempio, in cui oggi mi trovo io."
VII
"Può essere,"
ammise Cebete. "Ma quello che mi sembra assurdo è il fatto che proprio i
filosofi debbano desiderare la morte se, come dicevi poco fa, di noi si prendono
cura gli dei e, anzi, noi stessi siamo un loro possesso. Infatti non riesco
proprio a capire come costoro, che sono i più saggi, non debbano dolersi di
liberarsi, con la morte, da questa tutela che gli impedisce di continuare a
servire i migliori padroni che ci siano, cioè gli dei. Infatti, non è possibile
credere che un uomo con la testa sulle spalle possa pensare di star meglio, una
volta libero; soltanto un pazzo potrebbe avere una simile idea e credere che sia
un bene fuggire dal proprio padrone, senza pensare che è, invece, un grosso
errore e che è un bene, al contrario, restar legati, quanto più è possibile, al
buon padrone: chi ha un po' di senno, desidera restare sempre con chi è migliore
di lui. Il fatto è, Socrate, che così ragionando, veniamo ad affermare proprio
il contrario di quello che dicevamo prima, che cioè gli uomini di buon senso si
dolgono di morire e gli sciocchi, al contrario, se ne rallegrano." Socrate s'era
tutto rallegrato (almeno così mi pareva) ascoltando il fervorino di Cebete e,
rivolgendosi dalla nostra parte, disse: "Come al solito Cebete va in cerca di
sottigliezze e non si lascia mica tanto facilmente convincere da quello che gli
dicono gli altri." "Sì, però, stavolta," intervenne Simmia, "mi pare che nel
ragionamento di Cebete ci sia qualcosa di valido. Per qual motivo, infatti,
degli uomini di buon senso dovrebbero fuggire e piantare in asso padroni
migliori di loro? E, poi, mi pare che Cebete ce l'avesse proprio con te che, a
cuor leggero, vuoi abbandonare non soltanto noi, ma anche degli ottimi padroni,
quali, come tu stesso dici, sono gli dei." "Avete ragione. Ed io credo che voi
vogliate proprio invitarmi a difendermi da queste argomentazioni, come se fossi
in tribunale." "Proprio così," confermò Simmia.
VIII
"E sia. Cercherò di
difendermi, allora, dinanzi a voi, in maniera più convincente di quanto non
abbia fatto davanti ai giudici. È vero, miei cari Simmia e Cebete, se io non
fossi convinto di andare presso altri dei, saggi e buoni e, inoltre, tra uomini
morti, di gran lunga migliori dei vivi, oh, certo, sarei ben uno sciocco a non
dolermi di morire. Che io mi recherò tra uomini buoni è, beninteso, una speranza
e non lo posso sostenere con sicurezza, ma che io mi troverò accanto a degli dei
che sono ineguagliabilmente ottimi padroni, oh, questo sì, io lo posso affermare
fino in fondo. "Ecco perché non mi rattristo, come gli altri, al pensiero di
morire ma, anzi, mi consola la speranza che al di là della morte, come da tempo
si afferma, qualcosa ci sia e assai migliore per i buoni che per i malvagi." "E
proprio ora che te ne vuoi andare, Socrate, - interruppe Simmia -, vuoi
tenertela tutta per te questa fede e non parteciparla anche a noi? È questo un
bene che deve essere elargito un po' a tutti, almeno così mi pare, e che, al
tempo stesso, potrà essere la tua difesa se quello che dici riuscirà a
convincerci." "Cercherò, ma prima vediamo cosa vuol dire il buon Critone." "Eh?
Nient'altro che quello che mi sta ripetendo, da un pezzo, l'uomo che dovrà
somministrarti il veleno, che cioè tu discuta il meno possibile, perché se parli
troppo e ti accalori, il veleno potrà anche non fare il suo effetto e, allora,
dovrai berne anche due o tre volte." "Digli di non preoccuparsi: faccia pure
quello che deve fare e sia pronto a darmelo anche due e tre volte, se sarà
necessario." "Me l'ero immaginato che avresti risposto così; ma quello è da
molto che insiste." "E tu lascialo dire. Ma a voi, come se foste miei giudici,
voglio esporre le mie ragioni e dirvi perché io credo che un uomo che abbia
dedicato tutta la sua vita alla filosofia, quand'è sul punto di morire, non ha
alcun timore, ma, anzi, una legittima speranza di ottenere, nell'al di là, premi
grandissimi. Come questo sia vero, miei cari, cercherò di dimostrarvelo.
IX
"Gli
uomini non sospettano affatto che chi si dedica alla filosofia, nel senso più
vero della parola, non miri ad altro che a morire e presto. E, dunque, sarebbe
veramente ben strano che chi per tutta la vita ha desiderato la morte, quando
poi essa giunga, si addolorasse proprio di ciò che ha, per tanto tempo,
desiderato e cercato." Sorrise Simmia e: "Per Giove, Socrate," disse, "io non ne
avevo voglia e tu mi hai fatto ridere perché penso a tutta quella gente che,
nell'ascoltare queste tue parole, crederà che tutti i filosofi siano degli
aspiranti alla morte; specialmente, poi, i miei concittadini direbbero che essi
se la meritano." "E avrebbero ragione di dire così, Simmia, salvo poi a capirne
qualcosa; però, credo che non comprenderebbero in che senso i veri filosofi
aspirino alla morte e a quale specie di morte e come di essa ne siano degni. Ma
lasciamo perdere la gente e ragioniamo, dunque, tra noi. Orbene, a nostro
avviso, la morte è qualcosa?" "Sicuro." "E che altro è se non separazione
dell'anima dal corpo? E il morire cos'è se non un distinguersi del corpo
dall'anima, un isolarsi in sé, un separarsi dall'anima e, questa, a sua volta,
dal corpo? Che altro è la morte se non questo?" "Proprio così." "Guarda, ora,
mio caro, se sei d'accordo con me, perché questo è importante per comprendere
meglio quello di cui discutiamo. Ti pare che un vero filosofo possa curarsi di
piaceri come quelli del mangiare e del bere ?" "Niente affatto." "E di quelli
d'amore?" "Nemmeno." "E degli altri piaceri del corpo, come, per esempio, bei
vestiti, scarpe di marca, altri ornamenti del genere, tu credi che il filosofo
li tenga in gran conto e, comunque, più di quanto la necessità lo richieda?"
"Credo che il vero filosofo le disprezzi tutte queste cose." "E allora,"
proseguì, "non ti pare che tutte le preoccupazioni di un uomo simile siano
rivolte non al corpo, che anzi, per quanto può, egli trascura, ma all'anima?"
"Sì, certo." "E, allora, non è chiaro, tanto per cominciare, che, in tutto
questo, il filosofo cerca di liberare, per quanto possibile, l'anima da ogni
influenza del corpo, riuscendovi assai meglio degli altri?" "Pare." "Per questo
motivo, Simmia, la maggior parte della gente giudica indegno di vivere colui che
non prova diletto per certi piaceri materiali, anzi come se fosse già col piede
nella tomba chi non si cura di quei piaceri che sono propri del corpo." "Dici
proprio giusto."
X
"E per quanto riguarda l'acquisto della sapienza, pensi che
il corpo possa essere d'impedimento se noi ne chiediamo il concorso? Voglio dire
questo, cioè: la vista o l'udito danno agli uomini la certezza assoluta oppure,
come ci dicono i poeti, noi nulla vediamo e nulla udiamo con precisione? E se
questi sensi non sono né sicuri, né adeguati, noi non possiamo fare affidamento
sugli altri che, in effetti, sono ancora più approssimativi e difettosi, non
credi?" "Eh, certo." "Quand'è, dunque, che l'anima coglie la verità? evidente
che, quando essa si accinge a considerare qualche questione e lo fa con l'aiuto
dei sensi, cade in inganno." "Esatto." "E allora, non è attraverso l'attività
razionale, più che con ogni altra, che l'anima coglie in pieno la verità del
reale?" "Sì." "E, senza dubbio, l'anima esplica questa sua atti-vità quando
nessun turbamento, da parte dei sensi, venga a distoglierla, né la vista, né
l'udito, né il dolore o il piacere; solo quando resta tutta isolata e raccolta
in sé, trascurando il corpo, staccandosi completamente da esso, senza più alcun
contatto, essa può cogliere la verità." "È così." "Non è quindi per questo che
l'anima del filosofo disprezza il corpo e lo fugge e, d'altra parte, desidera
isolarsi in se stessa?" "È chiaro." "Ma, Simmia, che dobbiamo concludere,
allora? Che esiste il giusto con la ‹G› maiuscola, o no?" "Sicuro che esiste,
per Giove." "E, così, che c'è anche il Bello e la Bontà?" "Come no." "Ma le hai
viste tu, con i tuoi occhi, queste cose?" "Io no, mai," ammise. "E le hai forse
conosciute con qualche altro senso? E, bada, che non mi riferisco solo alle cose
che ho nominate ma ad ogni altra, per esempio, alla Salute, alla Forza, in una
parola, cioè, alla vera realtà di tutte le cose, a quello che ogni cosa è in se
stessa. E allora? La realtà in sé delle cose si conosce attraverso i sensi
oppure pensi che giunga alla perfetta conoscenza di essa chi, tra noi, si
appresti a esaminare e penetrare le cose nella loro intima realtà, con la pura
attività razionale?" "Così, certamente." "E a questo risultato, dunque, giungerà
unicamente chi, per cogliere la realtà in sé delle cose, userà, nel più alto
grado, la sola ragione, senza ricorrere all'ausilio della vista o, che so io, di
qualche altro organo di senso; chi, con la ragione e grazie soltanto ad essa,
cercherà di attingere il vero escludendo, quanto più possibile, l'intervento del
corpo, l'uso degli occhi, degli orecchi, che sono essi a turbargli l'anima e ad
impedirgli di attingere verità e conoscenza. Non è, dunque, costui, o Simmia,
l'uomo che più di ogni altro potrà cogliere la realtà?" "È proprio esatto quanto
dici, Socrate."
XI
"E allora," soggiunge Socrate, "necessariamente, tutte queste
considerazioni inducono i veri filosofi a un ragionamento presso a poco di
questo genere: ‹Esiste come un sentiero che ci porta nella direzione giusta, ma
fino a che avremo un corpo e la nostra anima sarà confusa a una simile bruttura,
noi non giungeremo mai a possedere ciò che desideriamo, che è, poi, quello che
noi chiamiamo verità. E non solo il nostro corpo ci procura infiniti fastidi,
per il fatto stesso che, ovviamente, dobbiamo nutrirlo, ma quando si ammala,
sorgono sempre nuovi impedimenti che ci distolgono dalla nostra ricerca della
verità; e, poi, ancora, amori, desideri, timori, visioni fallaci d'ogni genere,
vanità innumerevoli, non fanno che frastornarci (è la parola giusta) così che,
fino a quando siamo in sua balia, non possiamo concentrarci su nulla. E così
pure le guerre, le discordie, le zuffe, è il corpo che le fa nascere con le sue
passioni. La brama di possesso, ecco la causa di tutte le guerre e se noi ci
affanniamo a procurarci la ricchezza, è il corpo di cui siamo gli schiavi. Da
tutto questo deriva il fatto che noi non troviamo più il tempo per dedicarci
alla filosofia. E il peggio è che, se pure, riusciamo, per un momento, a
liberarcene e a volgere la nostra mente a qualcosa, subito ne siamo distolti,
per la sua importuna intrusione, che ci confonde, ci distrae, ci frastorna, al
punto di renderci incapaci, ormai, di distinguere la verità. ‹Dunque, è chiaro
che se vogliamo giungere alla pura conoscenza di qualche cosa, dobbiamo
staccarci dal corpo e contemplare con la sola anima le cose in sé. Soltanto
allora, a quel che sembra, noi avremo ciò che desideriamo e che dichiariamo di
amare: la sapienza, ma dopo che saremo morti e non certo da vivi, come tutto
questo discorso vuol dimostrare. ‹Se, infatti, non ci è possibile conoscere
nulla nella sua purezza, perché siamo legati al corpo, due sono le cose: o in
nessun modo ci è dato acquistare il sapere o esso ci sarà concesso solo dopo
morti, perché soltanto allora l'anima sarà libera dal corpo e tutta sola con se
stessa, prima no. Ma è chiaro che durante la nostra vita, noi saremo tanto più
vicini alla conoscenza, nella misura in cui meno avremo a dipendere dal nostro
corpo e ad avere con esso rapporti, se non per assoluta necessità, nella misura
in cui riusciremo, cioè, ad essere, il meno possibile, contaminati dalla sua
natura e quanto più, d'altronde, resteremo puri dal suo contatto, fino al giorno
in cui dio non ci avrà del tutto da esso disciolti. Oh, allora, liberi e puri
dalla fallacia del corpo, noi saremo uniti, con ogni probabilità, ad esseri
simili a noi e potremo noi stessi contemplare tutto ciò che è puro. Questa,
forse, è la verità: non è lecito, a chi è impuro, toccare ciò che è puro.›
"Questo io penso, Simmia, debbano essere le parole e i pensieri di tutti coloro
che sono i veri amici della sapienza, non credi?" "Oh, sì, niente di più
probabile, Socrate."
XII
"E, allora, amico mio," proseguì Socrate, "se questa è
la verità, quale grande speranza per chi giunga dove ora io sto per andare
perché, più che in qualsiasi altro luogo, potrà ottenere pienamente quello per
cui tanto tribolammo quaggiù, nella nostra vita trascorsa. E, quindi, questo
viaggio che oggi mi si comanda, non è senza una lusinghiera speranza che si
compie, per me, come per chiunque altro abbia disposto l'anima sua alla
purezza." "Oh, indubbiamente," fece Simmia. "E questa purificazione non la si
raggiunge, come dice anche l'antica tradizione, separando, più che sia
possibile, l'anima dal corpo, esercitandola a restarne staccata, tutta in sé
raccolta, nella presente come nella vita futura, libera dal corpo che è il suo
carcere?" "Certamente." "E non è questa la morte, questo liberarsi, questo
separarsi dell'anima dal corpo?" "Verissimo." "E questa separazione, come
abbiamo detto, dell'anima dal corpo, la desiderano soltanto e soprattutto quelli
che si occupano rettamente di filosofia perché questo è, appunto, l'impegno dei
filosofi: separare e riscattare l'anima dal corpo. Non è così?" "È, chiaro."
"Non sarebbe, dunque, ridicolo, come dicevo poco fa, che un uomo, il quale in
tutti i suoi anni s'è preparato a vivere in modo che la sua vita somigliasse,
quanto più possibile, alla morte, quando questa poi giunga se ne rammaricasse?"
"Certo che sarebbe ridicolo." "E, dunque, Simmia, quelli che si occupano
seriamente di filosofia, si abituano alla morte e l'idea di morire a loro fa
meno paura che agli altri uomini. Giudica tu, allora. Se i veri filosofi, che
hanno avuto sempre in uggia il corpo, che ardentemente e sempre desiderano che
la loro anima sia da esso staccata e tutta raccolta in sé, dovessero, poi,
lasciarsi prendere dalla paura e dal dolore, quando ciò si avvera, non sarebbe
illogico, dico, se non andassero tutti lieti là dove, una volta giunti, possono
sperare di ottenere quello che, per tutta la vita, hanno desiderato: la sapienza
cioè, di cui erano innamorati e così sciogliersi da ciò che li impacciava,
sentirsi finalmente liberi dal suo potere? "E, poi, molti scesero nell'Ade
spinti dalla speranza di rivedere mogli, o figli, o amanti, insomma creature
dilette e ricongiungersi a loro nell'al di là, e vuoi, allora, che un uomo, il
quale è stato innamorato della sapienza e che ha sempre nutrito la speranza di
conseguirla in nessun altro luogo se non nell'al di là, vuoi che costui si
spaventi di morire e non si rallegri di andare laggiù? Oh, proprio no, amico
mio, se è un vero filosofo, perché egli sarà pienamente convinto che soltanto
laggiù e in nessun altro luogo potrà trovare la sapienza pura. Stando così le
cose non sarebbe veramente assurdo, come dicevo un attimo fa, che un uomo simile
avesse paura della morte?" "Ah, certo," ammise.
XIII
"E non pensi," riprese "sia
una prova più che sufficiente vedere uno che, in punto di morte, si rattrista,
per dire che egli non è amante della sapienza ma del proprio corpo? Anzi, c'è da
credere che costui amerà anche ricchezze e onori o addirittura le due cose
insieme." "Di sicuro, è proprio come dici tu." "E dimmi un po', Simmia, ciò che
noi chiamiamo coraggio, non si addice, forse, in modo particolare, ai filosofi?"
"Senza dubbio." "E la temperanza, quella che comunemente si chiama così, cioè
quell'atteggiamento distaccato e prudente in virtù del quale si dominano le
passioni, non è proprio e soltanto di quelli che disprezzano il corpo e vivono
da filosofi?" "Certo." "E se pensi un po' al coraggio e alla temperanza degli
altri uomini, vedrai che sono ben strani." "E come può essere, Socrate?" "Lo sai
che tutti gli altri uomini considerano la morte tra i mali peggiori?" "Lo
credo," disse. "E che quelli, tra costoro, che si ritengono coraggiosi, quando
sono a tu per tu con la morte, l'affrontano per il timore di mali ancora più
grandi?" "È così." "E, dunque, tutti paurosi e vigliacchi nel loro coraggio,
tranne i filosofi, anche se è una contraddizione dire che si è coraggiosi per
paura e per viltà." "Ah, certo." "E passiamo a quelli che sono i temperanti; non
è per una sorta di intemperanza che sono tali? Potremmo dire che anche questo è
assurdo, ma, in effetti, costoro, in virtù di questa loro specie di temperanza,
si vengono a trovare in una situazione analoga. Infatti, solo nel timore di
privarsi di certi piaceri, che essi desiderano e di cui sono schiavi, rinunciano
ad altri. Ma l'esser dominato dai piaceri è proprio dell'intemperante ed è
quello che succede a costoro che, solo per godere di alcuni piaceri, ne dominano
altri. Questo era quello che volevo dire poco fa quando accennavo che per
intemperanza costoro sono temperanti." "E, infatti, è così." "Ma questo, caro
Simmia, non è proprio un cambio all'insegna della virtù, questo barattare
piaceri con piaceri, dolori con dolori, paura con paura, una cosa che vale di
più con una che vale di meno, come se fossero monete. E, invece, bisognerebbe
dar via tutto per la sola moneta che vale, il sapere, grazie alla quale si
possono davvero vendere e comprare coraggio, saggezza, giustizia, insomma la
virtù vera, non disgiunta dalla sapienza, si accompagnino, poi, o meno, piaceri,
timori e passioni del genere. "Quando, invece, tutto questo è separato dal
sapere e diviene oggetto di mutuo scambio, oh, allora, non è vera virtù ma la
sua apparenza ingannevole, una virtù d'accatto, che non ha nulla di sano e di
vero. Piuttosto là verità è che la temperanza, il coraggio, la giustizia nascono
quando ci si purifica di tutte queste passioni e che il sapere è, forse, il
mezzo per questa purificazione. "Inoltre io non credo che siano stati uomini
dappoco quelli che istituirono i Misteri i quali, sotto il velo dell'enigma, ci
hanno pur detto, fin dai tempi più remoti, che chi giungerà nell'oltretomba,
come un profano, senza esserne iniziato, giacerà immerso nel fango, mentre chi
vi giungerà purificato e consapevole, abiterà con gli dei. Perché, vedi, come
dicono gli interpreti dei Misteri, ‹molti portano il tirso ma pochi sono i veri
iniziati›. E solo questi ultimi, a mio avviso, son quelli che si son dedicati
nel vero senso della parola, alla filosofia. E per essere anch'io dei loro,
nulla ho trascurato nella mia vita ma anzi, per quanto ho potuto, vi ho messo
tutto lo zelo e, se ho agito rettamente, se ho ottenuto qualche risultato, lo
sapremo quando, a dio piacendo, saremo di là, come io credo. "Questa è la mia
difesa, o Simmia e Cebete, e queste le ragioni per cui, lasciando voi e i miei
padroni di quaggiù, io non sono in pena né in collera, dal momento che sono
convinto di trovare laggiù, non meno che qui, padroni e amici altrettanto buoni.
La gente non presta fede a queste cose, è vero, ma io sarei felice se in questa
mia difesa fossi stato con voi più persuasivo di quanto non fui con i giudici
ateniesi."
XIV
Così concluse Socrate e Cebete, intervenendo: "Benissimo,
Socrate, anch'io son d'accordo con te su molte cose, ma per quel che riguarda
l'anima, a mio avviso, gli uomini restano alquanto scettici, perché pensano che,
una volta separatasi dal corpo, essa non abbia più esistenza alcuna, che anzi si
dissolva e perisca nell'istante in cui l'uomo muore; temono, insomma, che nel
momento in cui si distacca dal corpo, se ne voli via come soffio di vento o un
po' di fumo, così, dissolta nel nulla. "Se fosse vero, invece, che essa si
rifugiasse in qualche luogo, tutta raccolta in sé e libera da quei mali che tu,
or ora, hai elencati, oh, allora, che bella e grande speranza nascerebbe dalle
tue parole. Quindi, occorre, senza dubbio, una prova, e non è cosa facile, per
dimostrare che l'anima non solo continui ad avere una sua esistenza, anche dopo
la morte del corpo, ma pure una sua forza vitale, una sua capacità
intellettiva." "È vero, Cebete. E allora, cosa vogliamo fare? Vuoi che
discutiamo di questo argomento per vedere se la questione è degna di fede o
meno?" "Sicuro. Sarei proprio contento di sapere quali sono le tue idee in
proposito." "Ed io penso che non vi sarà nessuno che, ascoltandomi, abbia ora il
coraggio di dire (nemmeno se fosse un poeta comico), che io sono un ciarlatano e
che parlo di cose che non mi riguardano. Se lo vuoi, dunque, esaminiamo a fondo
la questione.
XV
"Cominciamo, dunque, a considerare questo: se nell'Ade vi siano
o meno le anime dei morti. Un'antica tradizione, di cui ci è rimasto il ricordo,
ci dice che laggiù vi sono le anime di coloro che vissero sulla terra, le quali,
di nuovo, torneranno quassù, rigenerandosi dai morti. Se è così, se dai defunti
nascono i vivi, come non ammettere che le nostre anime vivano nell'al di là? Non
è possibile, infatti, che esse rinascano se non esistessero. Basterebbe questo a
provare la loro esistenza, dimostrare, cioè, che i vivi non hanno altra origine
se non dai morti. Se, invece, non è così, allora è necessario ricorrere a un
altro ragionamento." "Certamente," ammise Cebete. "Non esaminare, però, la
questione limitandola soltanto agli uomini ma, se vuoi che essa ti sia più
comprensibile, estendila anche agli animali e alle piante, insomma a tutto ciò
che ha una nascita e vediamo, così, se ciascun essere nasce in questo modo, cioè
dal suo contrario (laddove, ovviamente, esiste una tale antitesi), per esempio,
il bello dal brutto, che è il suo contrario, il giusto dall'ingiusto e così via
di seguito. In conclusione, dobbiamo esaminare se ogni cosa che ha un suo
contrario, non nasca necessariamente da esso. Per esempio, quando una cosa
diventa più grande, non è forse divenuta tale da piccola che era prima?"
"Certo." "E quando una cosa diviene più piccola, non diventa tale da più grande
che era prima?" "È così." "Per lo stesso motivo, quindi, dal più forte non nasce
il più debole e dal più lento il più veloce?" "Sicuro." "Ne vuoi di più? Una
cosa che diventa peggiore, non è nata, forse, da una migliore e quella più
giusta non deriva, per caso, dalla più ingiusta?" "E come può altrimenti?" "E,
quindi, sufficientemente abbiamo provato che tutte le cose nascono dai loro
contrari." "Va bene." "Però c'è un fatto che tra due contrari c'è qualcosa di
intermedio, come un duplice processo generativo che va da un'estremo all'altro e
viceversa. Prendiamo una cosa più grande e una più piccola: tra le due non c'è,
rispettivamente, un processo di crescita e di decrescita per cui noi diciamo che
l'una cresce e l'altra diminuisce?" "Sì." "E il decomporsi e il generarsi delle
cose, il loro raffreddarsi e riscaldarsi, il loro continuo mutare, non si
svolge, forse, in questo modo, attraverso un reciproco divenire, un processo di
mutua generazione dell'uno dall'altro, anche se non abbiamo termini esatti per
definire tutto questo?" "Certamente."
XVI
"E allora? C'è qualcosa di contrario
alla vita, come alla veglia c'è il sonno?" "Certo." "Che cosa?" "La morte,"
ammise. "E questi due stati non si generano l'uno dall'altro, poiché sono
reciprocamente contrari ed essendo due, non è anche duplice il loro processo
generativo?" "Ma certo." "Ebbene, di una delle due coppie di contrari, che ora
ho citato, te ne parlerò io, chiarendoti il suo duplice processo generativo; tu,
poi, mi dirai dell'altra. Allora io ti dico: da una parte c'è il sonno,
dall'altra la veglia; dal sonno nasce la veglia e dalla veglia il sonno; di
questi due estremi i processi generativi sono l'addormentarsi e il ridestarsi. È
chiaro o no?" "Chiarissimo." "Dimmi ora tu," disse, "riguardo alla vita e alla
morte. Non convieni che la vita è il contrario della morte?" "Io sì." "E che
l'una si genera dall'altra?" "Sì." "Che cosa nasce dunque dalla vita?" "La
morte." "E dalla morte?" incalzò Socrate. "Ah, bisogna convenire," ammise, "che
nasce la vita." "Cioè che dai morti nascono le cose viventi, caro Cebete, i
vivi?" "È chiaro," ammise. "E allora, le nostre anime, sono nell'Ade?" "Almeno."
"E del duplice processo generativo dei contrari di cui stiamo parlando, ce n'è,
forse, uno che non lascia alcun dubbio? Infatti, il morire è fuori discussione,
o no?" "Certamente," disse. "E allora, come la mettiamo? Non contrapporremo a
questo processo generativo il suo contrario? O che forse la natura, in questo
caso, presenta una falla? Non bisogna invece contrapporre al morire il processo
opposto?" "Ma certamente," disse. "E quale?" "Il rivivere." "Dunque, se esiste
il rivivere non sarà proprio questo il processo generativo dai morti ai vivi?"
"Senza dubbio." "Siamo d'accordo, allora, su questo: che i vivi si generano dai
morti, non meno che i morti dai vivi. Stando così le cose è sufficientemente
provato che le anime dei morti esistono in qualche luogo e che da lì tornano,
poi, a nascere." "Dopo quanto si è detto, Socrate, anche a me sembra così."
XVII
"Vedi, dunque, Cebete, che non senza ragione ci siamo trovati d'accordo, come
sembra. Se, infatti, un processo generativo non procedesse continuamente
dall'altro, come un perenne ciclo, se il divenire si svolgesse secondo una linea
retta, da uno all'altro contrario, senza che ciascun contrario facesse la via
all'indietro e confluisse, a sua volta, quasi compiendo un giro, nel suo
opposto, oh, allora, tu capisci che tutte le cose avrebbero un unico aspetto e
si troverebbero nel medesimo stato e il loro divenire si arresterebbe." "Come
dici?" fece. "Non è difficile capire quello che sto dicendo. Per esempio, se ci
fosse l'addormentarsi senza che gli corrispondesse il destarsi, che è il suo
contrario, capirai che la condizione ultima di tutte le cose farebbe apparire il
caso di Endimione una banalità, perché tutto si troverebbe nelle sue condizioni,
immerso, come lui, nel sonno. E, ancora, se tutte le cose si unissero, senza mai
decomporsi, il detto di Anassagora ‹tutte le cose insieme›, sarebbe presto una
realtà. "E supponiamo, ancora, caro Cebete, che ogni cosa che ha vita morisse e
che, una volta morta, rimanesse sempre in questo stato, senza mai più rivivere;
non vi sarebbe, allora, necessariamente, soltanto morte e più nessuna forma di
vita? E ammettiamo, infatti, che i vivi nascano non dai morti ma da altri esseri
e che poi muoiano; come si potrebbe evitare che tutte le cose siano consumate
dalla morte?" "In nessun modo, Socrate, a mio giudizio," ammise Cebete. "Mi
pare, anzi, che tu abbia proprio ragione." "Infatti, Cebete, la mia opinione è
che la questione stia proprio così e che il nostro accordo non si fondi su un
inganno. Vi è, infatti, proprio una realtà che continuamente si ridesta alla
vita e i vivi son generati dai morti e le anime dei morti hanno una loro
esistenza, migliore quelle buone, peggiore quelle malvage."
XVIII
"Infatti,"
aggiunse Cebete, "mi sembra che sia proprio questo il senso di quella frase
famosa (ammesso che sia vera) che tu sei sempre solito ripetere, che cioè sapere
non è altro che ricordare. Da ciò deriva il fatto che noi dobbiamo avere già
imparato, in un tempo precedente, ciò che ora ricordiamo; e questo non sarebbe
possibile se la nostra anima non fosse già esistita in qualche luogo prima di
assumere la sua forma umana. Anche per questo motivo, dunque, è da credere che
l'anima sia immortale." "Ma, Cebete, come possiamo provarlo, tutto questo?"
interloquì Simmia. "Cerca, di rinfrescarmi la memoria, perché in questo momento
mi pare di non ricordare più bene." "Ma esiste una prova formidabile," assicurò
Cebete. "Prova a interrogare un uomo qualsiasi: se ci sai fare, vedrai che ti
saprà rispondere da sé, su tutto e questo non potrebbe essere se in lui non ci
fossero già delle cognizioni e una capacità di giudizio. Mettilo, poi, davanti a
un problema di geometria o a qualcos'altro del genere, e vedrai chiaramente,
allora, che le cose stanno proprio così." "Se però questo non riesce a
convincerti," intervenne Socrate, "vedi un po' se la questione, come te la pongo
io, può trovarti d'accordo. Tu, in fondo, non riesci a convincerti come la
conoscenza non sia altro che ricordo." "Che io proprio non ne sia convinto,"
precisò Simmia, "non è esatto; solo vorrei provare su di me l'evidenza della
nostra questione, cioè, vorrei che mi si facessero ricordare le cose. Veramente,
da quello che ha detto Cebete, mi par già di ricordare qualcosa e comincio a
convincermi; ad ogni modo, vorrei sentire com'è che tu imposti la questione."
"Così. Siamo d'accordo, è vero, che quando uno ricorda qualcosa deve,
indubbiamente, averla già vista prima?" "Ma certo." "E quindi siamo anche
d'accordo su questo punto: che il sapere, cioè, quando si acquista attraverso un
particolare procedimento, è reminiscenza? E ti dico subito da quale: se uno ha
visto una cosa o ne ha sentito parlare o ne ha provato una sensazione qualunque,
non conosce solo questa data cosa, ma se ne richiama alla mente un'altra, del
tutto diversa, che non ha nulla a che fare con la prima. Non dobbiamo, allora,
affermare che egli si è ‹ricordato› di questa cosa che s'è venuta in lui
ridestando?" "Che intendi dire?" "Questo, cioè, che altro è il concetto di uomo,
altro quello di lira." "Be', certo." "E non sai che gli innamorati, vedendo una
lira o un mantello o qualche altra cosa che la loro dolce metà, di solito,
adopera, non solo riconoscono la lira ma richiamano alla loro mente l'immagine
fisica della persona amata cui la lira appartiene? E questo è la reminiscenza.
Allo stesso modo che vedendo Simmia ci si ricorda di Cebete. E di esempi simili
se ne possono citare a migliaia." "Caspita, ma certo," riconobbe Simmia. "E, in
questo caso, non si ha una reminiscenza? Specialmente, poi, per quelle cose che,
o per il tempo o perché non sono più sotto i nostri occhi, avevamo dimenticate?"
"Sicuro," confermò. "E dimmi ancora: se uno vede il disegno di un cavallo o
quello di una lira, si può ricordare di un uomo? O se vede il ritratto di
Simmia, ricordarsi di Cebete?" "Ma certo," fece. "E ci si può ricordare di
Simmia, in carne e ossa, vedendo un suo ritratto?" "Sicuro che si può."
XIX
"E
da tutto questo, non ne consegue che la reminiscenza nasce da ciò che è simile
ma anche da ciò che è dissimile?" "È vero." "Ma quando il ricordo di qualcosa
viene stimolato da qualche altra cosa che le somiglia, necessariamente, non vien
fatto di pensare se vi sia somiglianza più o meno perfetta tra l'oggetto che ha
suscitato il ricordo e l'immagine ridestatasi nella nostra memoria?"
"Certamente," disse. "E allora, vediamo un po' che succede," riprese Socrate.
"Noi diciamo, senza alcun dubbio, che vi è l'eguale, non voglio dire nel senso
di un pezzo di legno che è eguale a un altro pezzo di legno o di una pietra
eguale a un'altra e così via, ma alludo a qualcosa che è all'infuori di tutti
questi oggetti eguali, diversa, cioè all'Eguale in sé. Dobbiamo dire che esiste
o no?" "Certo che dobbiamo affermarlo, per dio," disse Simmia. "E sappiamo pure
che cosa sia?" Sicuro." "E da dove ne è derivata la sua conoscenza? Forse da
quelle cose di cui parlavamo, legni, pietre e roba del genere, che, vedendoli
eguali, ci han suggerito il concetto dell'Eguale in sé, che è diverso dagli
altri? O forse, a te, non sembra tale? Ebbene, sta attento: non può essere che
legni o pietre eguali, pur restando sempre quelli, ad alcuni sembrano eguali e
ad altri no?" "Certo." "Ebbene, l'Eguale in sé ti è mai apparso diseguale, cioè
l'eguaglianza ti si è mai presentata come disuguaglianza?" "Mai, Socrate."
"Difatti, questi eguali e l'Eguale in sé, non sono la stessa cosa." "Mi pare
proprio di no, Socrate." "Eppure, non è proprio da queste cose eguali, sebbene
diverse dall'Eguale in sé, che tu hai potuto risalire e giungere alla conoscenza
di quest'ultimo?" "Verissimo," rispose. "Sia che somigli o che sia diverso da
quelle, non ti pare?" "Certo." "È, naturale, non c'è differenza," confermò,
"perché ogni volta che tu, vedendo una cosa ne pensi un'altra, eguale o diversa
che sia, necessariamente, in te s'è prodotta una reminiscenza." "Esatto." "Ma,
allora," ribatté, "non possiamo dire che succede qualcosa di simile riguardo
all'eguaglianza dei pezzi di legno o degli altri oggetti eguali di cui si
parlava or ora? Ci sembrano proprio eguali all'Eguale in sé o mancano di
qualcosa per essere come quello?" "Mancano di molte cose," ammise. "E noi,
quindi, non siamo d'accordo che se uno, vedendo una cosa pensa: ‹quest'oggetto
che io ora vedo, tende ad essere simile a un'altra realtà, ma non riesce a
conformarvici per una sua imperfezione, anzi ne resta inferiore›; non siamo
d'accordo che per pensare così, indubbiamente, è necessario che abbia conosciuto
prima questa realtà cui egli fa assomigliare il suo oggetto per quanto
difettoso?" "Certamente." "E, allora, è così o no, anche per noi, a proposito
delle cose eguali e dell'Eguale in sé?" "Proprio così." "Necessariamente,
quindi, noi dobbiamo aver conosciuto l'Eguale in sé prima che la vista di cose
eguali ci abbia fatto pensare che esse tendono ad essere come l'Eguale in sé,
pur restandogli inferiori." "È proprio così." "E allora noi ci troviamo
d'accordo anche su questo altro punto: che alla base di tutte le nostre
cognizioni su quanto si è detto e delle loro stesse possibilità, vi è la vista,
il tatto e qualche altra sensazione, qualunque essa sia, tanto non fa
differenza." "Infatti, Socrate, questo, per la nostra questione, non ha alcuna
importanza." "Comunque sia, sono certamente le nostre sensazioni a farci
comprendere che tutte le eguaglianze sensibili tendono alla realtà dell'Eguale
in sé a cui, però, restano inferiori. Altrimenti, come potremmo dire?" "Così."
"E quindi, prima che noi cominciassimo a vedere, a udire e a percepire con gli
altri sensi, noi dovevamo avere, necessariamente, in qualche modo, già una
conoscenza dell'Eguale in sé e della sua realtà, perché altrimenti noi non
avremmo mai potuto paragonargli le eguaglianze sensibili, né pensare che, pur
aspirando ad essergli simili, queste ultime gli restavano inferiori." "Da ciò
che si è detto, Socrate, è proprio così." "E noi non abbiamo cominciato a
vedere, a udire, a usare gli altri sensi, subito, appena nati?" "Sicuro." "Ma
non abbiamo detto che, per questo, era necessario aver prima la conoscenza
dell'Eguale in sé?" "Sì." "Quindi, questa conoscenza, noi l'avevamo prima di
nascere." "Pare di sì."
XX
"Dunque, se noi, prima di nascere, possedevamo questa
conoscenza e, con la nascita, ne potemmo disporre, ne consegue che già prima e,
poi, una volta nati, noi avevamo non solo il concetto di Eguale in sé e quello
di Maggiore e di Minore, ma anche tutte le altre Idee. Perché il nostro
discorso, ora, non vale solo per l'Eguale in sé ma anche per il Bello, per il
Buono, per il Giusto, per il Santo, insomma per tutto ciò che noi, parlando,
definiamo coi termine di ‹realtà in sé›, sia nelle questioni che poniamo che
nelle risposte che diamo. Dunque, necessariamente, di tutte queste realtà, noi
dobbiamo averne avuto conoscenza prima di nascere." "È così." "E se una volta
acquistata, noi non perdessimo con la nascita, questa conoscenza, nasceremmo
sempre sapienti e tali saremmo per tutta la vita. Esser sapienti, infatti,
significa aver acquistato conoscenza di qualcosa e conservarla, non perderla;
perché forse, dimenticanza non è, Simmia, perdita di conoscenza?" "Senza dubbio,
Socrate." "Al contrario, se dopo aver perduto con la nascita questa conoscenza
precedentemente acquisita, in seguito, con l'uso delle sensazioni, noi veniamo
riacquistando le cognizioni che un tempo avevamo, ciò che noi chiamiamo imparare
non consiste forse in un riacquisto di quel sapere che era già nostro? E se
questo noi chiamiamo ‹reminiscenza›, non diciamo bene?" "Sì, certo." "Infatti,
si è dimostrato, che, percependo noi una data cosa con la vista o l'udito o con
qualche altro organo di senso, ci si presenta alla mente un'altra cosa, che
avevamo dimenticato, ma che ha una relazione con la prima, che può assomigliarle
o meno. Da qui, una delle due: o siamo nati con la conoscenza, ripeto, delle
realtà in sé e continuiamo ad averla per tutta la vita, oppure, quelli che noi
diciamo che imparano dopo non fanno che ricordarsi e, in tal caso, la sapienza
non è che reminiscenza." "Effettivamente è così, Socrate."
XXI
"Cosa ne pensi,
dunque, Simmia, che noi siamo nati già sapienti, oppure che, man mano, in
seguito, ci ricordiamo di quanto già conoscevamo?" "Mah, così sul momento, non
so proprio che cosa dire, Socrate." "Però saprai dirmi la tua opinione almeno su
questo: un uomo che sa, sarà in grado di render conto delle cose che sa?" "Certo
che lo sarà, Socrate." "E credi che tutti siano capaci di dare una ragione delle
realtà di cui ora parlavamo?" "Ah, lo vorrei proprio, ma temo," rispose Simmia,
"che domani a quest'ora non ci sarà nessuno capace di cavarsela degnamente."
"Quindi, Simmia, secondo te, non tutti conoscono queste realtà?" "Ah, no di
certo." "Allora si ricordano di quello che appresero un tempo?" "Certamente."
"Ma quand'è che le nostre anime hanno conosciuto queste realtà? Non certo da
quando è iniziata la nostra vita umana?" "No, certo." "Allora prima?" "Sì."
"Quindi, Simmia, le anime esistevano prima ancora di assumere forma umana,
separate dal corpo e dotate di intelligenza." "A meno che, Socrate, questa
conoscenza non l'acquistiamo al momento di nascere. C'è anche questa
eventualità." "Ah, sì? Ma allora quand'è che noi perdiamo la conoscenza di
queste realtà? Infatti, abbiamo appena detto che noi non la possediamo alla
nostra nascita. O pensi che la perdiamo nel momento stesso in cui l'abbiamo
acquistata? O mi sai dire quando?" "No, Socrate e ora m'accorgo di aver detto
una sciocchezza."
XXII
"Non è così, Simmia? Se esistono queste realtà di cui
stiamo tanto parlando, cioè, il Bello, il Buono, e così via e se ad esse
riconduciamo le cose che percepiamo con i sensi, perché riconosciamo che quelle
realtà sono in noi preesistenti, se ad esse confrontiamo le cose sensibili,
allora bisogna pur dire che come esistono queste realtà così anche la nostra
anima esiste ancora prima della nostra nascita. Se non fosse così, non se ne
andrebbe all'aria tutto il nostro ragionamento? Non è, quindi, logico e
necessario che, se esistono queste realtà, anche le nostre anime devono esistere
prima della nostra nascita e, viceversa, se non esistono le une, non possono
nemmeno esistere le altre?" "Sicuro, Socrate," ammise Simmia, "c'è un'innegabile
correlazione tra i due fatti e mi pare proprio che la questione si sia risolta
in questo rapporto necessario tra l'esistenza dell'anima, prima della nostra
nascita, e quella delle realtà di cui hai parlato. Niente ora è più chiaro di
questo, cioè che tutte queste realtà di cui s'è parlato, il Bello, il Buono e
così via hanno al più alto grado, una loro esistenza. E mi pare che questo sia
stato dimostrato abbastanza." "E Cebete?" soggiunse Socrate, "bisogna
convincere, ora, anche lui." "Ma lo sarà anche lui," disse Simmia, "almeno
credo, per quanto sia l'uomo più cocciuto del mondo di fronte a certe questioni.
Penso, comunque, che anch'egli si sia convinto che le nostre anime esistono
prima della nostra nascita."
XXIII
"Però, c'è un punto, Socrate, che neanche a
me sembra ancora dimostrato, se cioè l'anima continua ad esistere anche dopo la
morte; resta valida l'opinione comune, quella a cui poco fa accennava Cebete,
che cioè l'anima si disperda con la morte dell'uomo e conclude così la sua
esistenza. Infatti, se essa si genera e si forma in qualche luogo ed esiste
prima di entrare in un corpo umano, com'è che poi, dopo esservi entrata e
successivamente distaccatasene, non muore anch'essa e non si dissolve?" "Ben
detto, Simmia," approvò Cebete. "È chiaro che si è dimostrato solo la metà di
ciò che bisognava dimostrare, cioè solo che la nostra anima esiste prima che noi
nasciamo; occorre ora dimostrare che essa esisterà, né più né meno, anche dopo
la nostra morte, se vogliamo che la dimostrazione sia completa." "Ma la
dimostrazione," intervenne Socrate, "è presto fatta, Simmia e Cebete, basta che
voi fate coincidere ciò che ora s'è concluso con la questione che poco fa ci ha
trovato tutti d'accordo, cioè che ciò che è vivo nasce da ciò che è morto.
Giacché se è vero che l'anima esiste prima della nascita del corpo, se, per
generarsi e per vivere essa deve nascere dalla morte e dall'essere noi
precedentemente morti, non sarà altrettanto vero che essa sopravviverà alla
morte per il fatto che deve nuovamente generarsi? Ecco che la cosa cui avete
accennato è già bell'e dimostrata.
XXIV
"Eppure, se non mi sbaglio, tu e Simmia,
vorreste esaminare più a fondo la questione perché mi pare che siete spaventati
come dei bambini, quasi che l'anima, appena fuori del corpo, se la portasse via
il vento e la disperdesse, specie poi quando ci tocca morire non con tempo
sereno ma in mezzo a una gran bufera." "E tu assicuraci, Socrate," fece Cebete,
sorridendo, "come se noi, effettivamente, avessimo paura o meglio, come se non
fossimo noi ad essere spaventati ma quel fanciullo che è in noi. Dunque, fa in
modo che questo fanciullo non abbia paura della morte come del bau-bau."
"Bisognerebbe fargli ogni giorno gli incantesimi," ammise Socrate, "per
liberarlo da questi timori." "E dove andremo a trovarlo un incantatore capace,
per queste paure, visto che tu ci stai per lasciare?" "Oh, Cebete, la Grecia è
grande," rispose, "e non manca di uomini in gamba; e poi, vi sono i paesi
esteri, verso i quali voi dovete rivolgere le vostre ricerche. E non risparmiate
né spese né fatiche per un tale incantatore, perché voi non potreste spendere
meglio il vostro denaro. Ma soprattutto datevi da fare voi stessi, gli uni con
gli altri, perché è difficile che troviate persone capaci di assolvere questo
compito, più che voi stessi." "Ma certo, lo faremo," assicurò Cebete. "Però,
ora, se non ti dispiace, torniamo al punto dove eravamo." "Affatto, figurati,
perché dovrebbe?" "Bene, allora."
XXV
"Anzitutto," riprese Socrate, "dobbiamo
chiederci qual è la cosa destinata a dissolversi e per la quale, perciò, noi
temiamo la morte e quale invece, no. In seguito considereremo a quale delle due
appartenga l'anima; ed è solo allora che potremo star tranquilli o temere per la
sua morte." "È vero," disse. "Non credi che soltanto ciò che è composto, che è
tale per natura, è soggetto a una corrispondente decomposizione, mentre ciò che,
per sua natura, non è composto sfugge a tale destino?" "Sembra così anche a me,"
ammise Cebete. "E le cose non composte non sono quelle che restano sempre
costanti e immutabili mentre quelle composte mutano continuamente e assumono ora
un aspetto ora un altro?" "Certo." "E allora, torniamo al discorso di prima.
Quella realtà in sé di cui, tra domande e risposte, demmo la definizione, resta
sempre la stessa o muta di volta in volta? L'eguale in sé, il bello in sé, la
realtà in sé di ogni cosa, la sua essenza, sono, per quanto poco, mutabili? O
piuttosto, ciascuna di queste realtà, che esiste in sé e per sé, resta costante
e immutabile e non ammette, in alcun modo, giammai, alcuna alterazione?" "Ah,
resta sempre costante e invariabile, penso, Socrate," confermò Cebete. "E che ne
pensi di tutte le molteplici altre cose, come gli uomini, i cavalli, i vestiti e
cosi via, di tutte quelle cose, insomma, che sono eguali o belle, che hanno lo
stesso nome delle realtà in sé? Restano immutabili o, al contrario delle
suddette realtà, non sono mai identiche a se stesse o tra loro, mai, per cosi
dire, invariabili?" "È così," ammise Cebete, "esse non hanno mai il medesimo
aspetto." "Ebbene, tutte queste cose tu le puoi vedere, toccare, percepire con i
sensi, mentre quelle immutabili non puoi coglierle se non attraverso il pensiero
e la meditazione. Non si sottraggono, forse, alla nostra vista, non sono esse
invisibili?" "È verissimo quello che dici."
XXVI
"E allora, vuoi che ammettiamo
due realtà, una visibile e l'altra invisibile?" "Ammettiamolo, certo," disse. "E
che quella invisibile resta sempre immutabile, mentre la visibile mai?"
"Ammettiamo anche questo," confermò. "E dimmi," continuò Socrate, "noi non siam
fatti, per una parte, di corpo e per l'altra, di anima?" "Certo." "E a quale
delle due realtà credi che, per natura, il corpo sia più affine?" "È chiaro a
tutti," rispose, "che è più affine a quella visibile." "E l'anima? Alla visibile
o all'invisibile?" "A quest'ultima, Socrate, almeno per l'uomo." "Ma quando noi
parliamo di realtà visibile o meno, la diciamo tale rispetto alla natura umana
o, pensi, rispetto a qualche altra?" "A quella umana, certo." "E che diciamo
dell'anima che è visibile o che non è visibile?" "Che non è visibile." "Che è
dunque invisibile?" "Sì." "Quindi l'anima somiglia, più del corpo, alla realtà
invisibile e il corpo a quella visibile." "Necessariamente, Socrate."
XXVII
"E
non dicevamo poco fa anche questo che l'anima, quando si serve del corpo per
esaminare qualcosa, mediante la vista o l'udito o un altro organo di senso
(infatti, servirsi dell'aiuto del corpo vuol dire, appunto, esaminare mediante i
sensi), non dicevamo che l'anima è spinta dal corpo verso ciò che è mutabile e,
allora, essa stessa ondeggia incerta e perturbata, presa da vertigini, come
fosse ebbra, perché venuta a contatto con cose che così si comportano?"
"Certamente." "Invece, quando essa si volge in una sua ricerca, tutta raccolta
in sé, allora, si eleva a ciò che è puro, immortale, eterno e immutabile, si
sente di natura affine e gli dimora accanto, ogni qual volta le sia possibile.
Così cessa dal suo lungo errare e resta immutabile e identica a se stessa,
congiunta con quelle realtà che sono tali. E questa condizione dell'anima non si
chiama intelligenza?" "Dici bene, Socrate; è proprio vero." "A quale delle due
realtà, dunque, secondo te, dopo quello che s'è detto prima e dopo quanto
abbiamo ora concluso, assomiglia l'anima?" "Ma anche il più duro di mente,
Socrate, dopo un simile ragionamento, deve ammettere, in tutto e per tutto, che
l'anima è più affine a ciò che è immutabile, che a ciò che non lo è." "E il
corpo?" "È più affine all'altra realtà."
XXVIII
"Ma sta ancora a sentire: quando
l'anima e il corpo sono uniti, la natura, a quest'ultimo, impone di servire e
obbedire, a quella, invece, di comandare e di dominare. Anche da quest'altro
punto di vista, quale dei due ti sembra simile a ciò che è divino e quale a ciò
che è mortale? Non ti pare che il divino sia, per sua natura, atto a comandare e
a dirigere mentre ciò che è mortale, a farsi dominare e a servire?" "Ah,
sicuro." "E a quale dei due somiglia l'anima?" "È chiaro, Socrate, che l'anima
somiglia a ciò che è divino, il corpo, invece, a ciò che è mortale." "E allora,
Cebete, vedi un po' se da tutto questo che si è detto, possiamo concludere che
l'anima è simile a ciò che è divino, immortale, intelligibile, uniforme,
indissolubile, mentre il corpo è simile all'umano, al mortale,
all'inintelligibile, al multiforme, al dissolubile, insomma a ciò che non è mai
eguale a se stesso. Siamo in grado di opporre qualche altro argomento per
provare che non è così?" "Ah, proprio no."
XXIX
"E, allora, stando così le cose,
non è il corpo destinato a dissolversi e l'anima, invece, a restare
indissolubile o giù di lì?" "Certo, come no?" "Orbene, puoi comprendere ora che
quando l'uomo muore, la sua parte visibile, cioè il suo corpo, che giace in
luogo visibile, ciò che noi chiamiamo cadavere, che è destinato a corrompersi, a
dissolversi, a perdersi in fumo, non si altera subito, ma resta, così com'è, per
un periodo di tempo abbastanza lungo, specie quando è un corpo ancor florido e
giovane e se poi è disseccato come le mummie egiziane, allora si conserva quasi
intatto, addirittura indefinitamente; e poi, anche quando il corpo si corrompe,
vi sono delle parti, come ossa, tendini e organi simili che sono per così dire,
immortali. Non è così?" "Sì." "Ma l'anima, allora, ciò che di noi è invisibile,
che va in un luogo della stessa natura, nobile, puro, cioè nell'Ade, accanto a
un dio buono e saggio, là dove anche l'anima mia dovrà tra poco andare, se dio
vuole, questa nostra anima, dunque, dotata di tal natura, una volta separatasi
dal corpo, sarà destinata, come crede la maggior parte della gente, a
dissolversi, a svanire? Sì, ce ne vuole, miei cari Simmia e Cebete. Invece, è
proprio vero il contrario. Se essa si distacca pura dal corpo, senza tirarsene
dietro gli impacci, dato che durante la vita, nulla ha voluto avere in comune
con esso ma anzi lo ha fuggito ed è rimasta tutta raccolta in sé, come per un
esercizio - e questo significa niente altro che darsi alla filosofia, nel vero
senso della parola, un esercitarsi a morire senza rimpianti, e forse, non è
anche un prepararsi alla morte?..." "Oh, senza alcun dubbio." "... dunque, se
questa è la sua condizione, non se ne andrà verso quel luogo che le si addice,
verso l'invisibile, verso il divino, l'immortale, l'intelligibile, dove, una
volta giunta, sarà felice, libera dall'errore, dalla malvagità, dalla paura,
dalle selvagge passioni, da tutti gli altri mali dell'uomo e dove potrà
trascorrere tutto il tempo avvenire, come si dice a proposito degli iniziati,
veramente, in compagnia degli dei? È così o no, Cebete?"
XXX
"Ma certo, per
dio," fece Cebete. "Se, invece, l'anima si separa dal corpo contaminata e impura
perché è vissuta con esso in stretto rapporto, servendolo e amandolo e
condividendone le passioni e i desideri, ritenendo per vero solo ciò che era
corporeo, cioè quello che si può toccare, vedere, bere, mangiare e usare per i
piaceri d'amore e odiando, invece, e fuggendo impaurita ciò che ai nostri occhi
è oscuro e invisibile, ciò che si può percepire solo con il pensiero e
comprendere mediante la filosofia, un'anima così fatta, ripeto, credi tu che si
possa sciogliere dal corpo pura e tutta raccolta in sé?" "In nessun modo,"
ammise. "Non credi, invece, che sarà tutta pervasa da quell'elemento corporeo
che, per la familiarità con il corpo di cui ella ha condiviso l'esistenza, per
quel suo vivergli premurosamente insieme, le si è come connaturato?"
"Certamente." "E ciò che è corporeo, amico mio, pesa - credi pure -, è terragno,
visibile. E un'anima di tal fatta ne è come gravata, attirata nuovamente verso
la sfera del visibile, perché impaurita dall'invisibile, dal cosiddetto regno
dell'Ade e si aggira tra le tombe e i sepolcri, dove se ne vedono, appunto,
sotto forma di spettri, im-magini di anime staccatesi dal corpo, impure,
partecipi ancora della realtà visibile e, perciò, come tali, visibili
anch'esse." "È probabile, Socrate." "Altro che probabile, Cebete, come - del
resto - che queste non siano le anime dei buoni ma dei malvagi, costrette ad
errare per questi luoghi e pagare così il fio della loro precedente esistenza,
che fu malvagia. E vanno errando fin quando il desiderio di ciò che è corporeo,
che sempre le accompagna, non le spinge a unirsi nuovamente a un corpo.
XXXI
"E
si legano, com'è naturale, a quei corpi che hanno abitudini e sistemi di vita
che esse praticarono nella loro precedente esistenza." "E quali sarebbero,
Socrate?" "Che quelle anime, per esempio, che più di ogni cosa, si abbandonarono
ai piaceri del ventre, a quelli della carne o, del bere, senza alcuna misura, è
probabile che entrino in corpi d'asino o di animali del genere. Non credi?" "È
probabile ciò che dici." "E quelle che poi preferirono ingiustizie, tirannidi,
rapine, entreranno in corpi di lupi, di sparvieri, di nibbi. E dove potrebbero
andare tali anime?" "Ah, certo, in corpi simili," ammise Cebete. "Non è chiaro,
allora," continuò Socrate, "che anche per le altre anime, il loro destino sarà
corrispondente alle loro precedenti abitudini?" "Chiaro, non potrebbe essere
altrimenti." "E tra queste ultime, le più felici, quelle che andranno nella sede
migliore, non saranno quelle che praticarono le virtù sociali e civili, cioè
quelle virtù che vengon chiamate temperanza e giustizia, che nascono dalla
consuetudine e dalla pratica della vita, senza, però, il concorso della
filosofia e della riflessione?" "Ma com'è che saranno più felici?" "Perché è
probabile che ritornino in una specie di animali mansueti, che vivono associati,
come api, vespe, formiche o anche in forma umana, generando uomini buoni." "È
probabile."
XXXII
"E, invece, non è lecito giungere fino agli dei a chi non
abbia dedicato tutto se stesso alla filosofia e non si sia distaccato dalla
terra completamente puro, cioè solo a chi sia amante del sapere. Per questo,
Simmia e Cebete, i veri filosofi si tengon lontani da tutte le passioni terrene
e sanno opporvisi senza cedere minimamente, padroni come son di se stessi, né li
spaventa la perdita del patrimonio o la povertà (com'è della maggior parte degli
uomini e specie di quelli che sono attaccati al denaro), né un'esistenza senza
onori, (come gli ambiziosi e i vanitosi); per questo se ne tengono lontani."
"Ah, certo, Socrate, non sarebbe nemmeno conveniente," ammise Cebete. "Proprio
no, caspita," confermò Socrate. "Per questo, Cebete, quelli a cui sta a cuore la
propria anima e che non passano la vita a corteggiare il proprio corpo, danno un
bel saluto a tutti gli altri, che non sanno nemmeno dove andranno a finire, e
non si mettono sulla loro strada; ma, convinti come sono che non bisogna
comportarsi contrariamente a quanto suggerisce la filosofia e a ciò che essa fa
per renderci liberi e puri, si volgono ad essa, seguendola per quella via che
essa addita."
XXXIII
"In che modo, Socrate?" "Ora te lo dico:" fece, "quelli che
amano il sapere, sanno bene che la loro anima, appena la filosofia comincia a
guidarla, è come legata, anzi interamente avvinta al corpo, costretta a
rivolgere lo sguardo alla realtà non da sé sola, con i propri mezzi, ma come
attraverso un carcere, per cui essa è gravata da una profonda ignoranza,
riconoscendo benissimo che sono le passioni umane, questo terribile carcere e
che, chi vi si ritrova prigioniero, lo deve solo a se stesso. Quelli che amano
il sapere, ripeto, sanno che la filosofia quando prende a guidare la loro anima,
che è in simile stato, la conforta, cerca di liberarla, facendole vedere come
sia illusoria qualsiasi indagine svolta non solo per mezzo della vista, ma anche
attraverso l'udito o con l'ausilio degli altri sensi; la persuade, così, a farne
a meno, dei sensi, se non per quel tanto che le sia necessario servirsi di essi
e la esorta a comporsi, a raccogliersi in sé, a non fidarsi che di se stessa e
solo di quella realtà che ella indaga con le sue facoltà e a giudicare falsa,
invece, quell'altra, mutevole e contingente, che ella esamina con mezzi non
suoi; perché questa è sensibile e visibile, mentre quella è intelligibile e
invisibile. L'anima, dunque, del vero filosofo sa di non doversi opporre a
questa liberazione e, perciò, si tiene lontana, quanto più può, dai piaceri
terreni, dai desideri, dagli affanni e dai timori, ben sapendo che se uno si fa
vincere dalle passioni, dai timori, dai dolori e dai desideri, il male che ne
potrà ricevere, anche il più grande, come per esempio una malattia o la perdita
di tutti i suoi beni, sarebbe ben poca cosa di fronte al male estremo cui
andrebbe incontro e al quale, purtroppo, non ci si pensa." "E qual è questo
male, Socrate?" chiese Cebete. "Che cioè l'anima di ogni uomo quando prova un
dolore o un piacere intenso per qualche cosa, crede che ciò che le produce
questa intensa emozione, sia l'unica realtà, vera ed evidente, mentre non lo è
affatto. Si tratta, invece, solo della realtà visibile. Non è forse così?"
"Sicuro." "E non è forse in queste occasioni, soprattutto, che l'anima diventa
schiava del corpo?" "E come?" "Perché ogni piacere e ogni dolore, quasi fossero
chiodi, inchiodano l'anima al corpo, gliela saldano in modo che essa diventa
corporea, fino a ritener per vere le cose ritenute tali dal corpo. Infatti, se
l'anima ha le stesse inclinazioni del corpo, se ne condivide i piaceri, io credo
che essa ne ha dovuto assimilare un po' le tendenze e la natura e che, quindi,
mai potrà giungere all'Ade nella sua purezza, contaminata com'è dal corpo donde
è uscita; essa, presto, cadrà in un altro corpo, come un seme, e vi germoglierà.
Ecco perché non potrà mai partecipare del divino, del puro, e del semplice."
"Verissimo questo che dici, Socrate," ammise Cebete.
XXXIV
"Per questi motivi,
Cebete, sono temperanti e forti quelli che amano il sapere e non per quel che ne
dice la gente. O tu la pensi come gli altri?" "Oh, no, no, di certo." "No,
davvero, perché l'anima di un filosofo non penserà certo che, mentre la
filosofia sta per liberarla dal corpo, essa possa deliberatamente abbandonarsi
ai piaceri o agli affanni e tornare schiava, facendo un po', ma a rovescio, lo
stesso interminabile lavoro di Penelope che s'affaticava sulla sua tela ora in
un verso ora nell'altro. Essa, invece, placa le passioni al lume della ragione
che le è sempre di guida, contempla il vero, il divino, ciò che è al di là delle
opinioni e che è il suo cibo spirituale, convinta com'è che così essa deve
vivere la sua vita fino alla fine e che quando sarà giunta al termine, perverrà
là dove tutto le sarà congeniale e consimile, libera, ormai, da ogni umana
miseria. Così arricchita, Simmia e Cebete, ella non deve più temere d'essere
lacerata quando si staccherà dal corpo e, dispersa dai venti, di essere un nulla
nel nulla."
XXXV
Un lungo silenzio seguì a queste parole di Socrate che, a
guardarlo, sembrava tutto assorto a ripensare a quanto aveva detto, come, del
resto, un po' tutti noi. Soltanto Cebete e Simmia continuavano a discorrere tra
loro a bassa voce. "Dite un po', voi due," fece Socrate quando se ne accorse,
"forse che quanto s'è detto non vi ha soddisfatti? Certo che se si volesse
approfondire la questione, ci sarebbero ancora molti punti da chiarire e
parecchie obiezioni da fare. Se, però, voi state parlando di altro io ho finito,
ma se avete qualche incertezza in proposito, parlate pure, dite le vostre
ragioni, se vi pare di poter meglio precisare qualche punto e servitevi pure di
me se questo vi potrà giovare." "Ebbene, Socrate," ammise Simmia, "la verità è
che da un pezzo noi abbiamo qualche dubbio in proposito e ci stiamo esortando a
vicenda a farti delle domande, perché vorremmo sentire il tuo parere, ma abbiamo
paura di darti fastidio, di turbarti troppo nella presente sventura." Sorrise
Socrate placidamente a queste parole: "Purtroppo, Simmia, mi sarà difficile
persuadere gli altri del fatto che io non reputo una sventura la mia sorte
presente, dal momento che non riesco a convincere nemmeno voi che ve ne state lì
tutti preoccupati, credendo che io sia d'un umore più tetro che per il passato.
Si vede che in fatto di virtù profetiche voi mi giudicate assai meno dei cigni
che, pur avendo sempre cantato, quando sentono vicina la morte, levano più alto
e più bello il loro canto, lieti perché sanno di recarsi presso il dio di cui
sono i ministri. Gli uomini, invece, con tutta la loro paura della morte,
interpretano erroneamente questo canto e dicono che essi si lamentano così
perché stanno per morire e, quindi, cantano per il dolore, senza sapere che
nessun uccello canta se ha fame o ha freddo o sta male, nemmeno l'usignolo, la
rondine o l'upupa, anche se si dice che il loro canto sia un pianto di dolore;
nessun uccello, credo, canta per il dolore e tanto meno i cigni che son sacri ad
Apollo e che, perciò, dotati come sono di senso profetico, prevedono le delizie
dell'Ade e cantano felici, in quell'occasione, più di quanto non abbiano mai
fatto in tutta la loro vita. "Credo di essere anch'io simile ai cigni, nella mia
devozione al dio e sacro a lui e di aver avuto dal mio signore, non meno di
loro, il dono della profezia e di non staccarmi dalla vita meno lietamente. Per
questo voi dovete dirmi e chiedermi ciò che volete finché ce lo concedono gli
Undici di Atene." "Va bene, allora," disse Simmia. "Comincerò io a dirti i miei
dubbi e Cebete, poi, ti dirà quello che non approva di quanto è stato detto. Mi
sembra, Socrate, e forse sarai anche tu del mio parere, che essere così sicuri
su certe questioni, sia una cosa impossibile o, per lo meno, molto difficile,
almeno in questa vita; d'altronde, io penso che il non esaminare da un punto di
vista critico le cose che si son dette, il lasciar perdere il problema, prima di
averlo indagato sotto ogni aspetto, sia proprio dell'uomo dappoco; quindi, in
casi simili, non c'è altro da fare: o imparare da altri, come stanno le cose, o
trovare da sé, oppure, se questo è impossibile, accettare l'opinione degli
uomini, la migliore s'intende, e la meno confutabile e con essa, come su di una
zattera, varcare a proprio rischio il gran mare dell'esistenza, a meno che uno
non abbia la possibilità di far la traversata con più sicurezza e con minor
rischio su una barca più solida, cioè con l'aiuto di una rivelazione divina.
Ecco perché io, ora, non mi faccio scrupolo di interrogarti, dal momento che
anche tu insisti e d'altra parte non voglio che, un domani, io debba
rammaricarmi di non averti detto quello che oggi penso. Infatti, Socrate,
ripensando tra me e poi anche con Cebete, alle questioni discusse, non mi sembra
che siano molto chiare."
XXXVI
"Forse la tua impressione non è sbagliata,"
ammise Socrate; "ad ogni modo, amico mio, dimmi cos'è precisamente che non ti ha
soddisfatto." "Vedi, il tuo ragionamento, a mio avviso, potrebbe andar benissimo
anche per quel che riguarda un accordo musicale, poniamo, di una lira; la
melodia, infatti, che nasce dalle corde di una lira ben accordata è invisibile,
incorporea, stupendamente bella, addirittura divina, mentre la lira e le sue
corde sono cose materiali, corpi, di natura terrena e mortale. Ora, ammettiamo
che uno rompa la lira, spezzi e strappi via le corde, da quanto hai detto, si
potrebbe sostenere che la melodia, lungi dal dissolversi, continui a sussistere,
poiché sarebbe impossibile che la lira continui ad esistere anche con le corde
spezzate, che sono di natura mortale e che la melodia, invece, che partecipa del
divino e dell'immortale, si dissolva, consumandosi prima di ciò che è finito. E,
anzi, bisognerebbe affermare che è l'armonia che continuerà a sussistere in
qualche parte, mentre il legno e le corde imputridiranno assai prima che ad essa
capiti qualcosa. E io credo, Socrate, che anche tu abbia visto che noi,
sull'anima, pensiamo press'a poco qualcosa di questo genere: dato che il corpo è
armonicamente regolato e sorretto dal caldo e dal freddo, dal secco e dall'umido
e da altri fattori analoghi, anche la nostra anima è costituita dalla
combinazione e dall'armonia di questi stessi elementi convenientemente e
proporzionatamente fusi tra loro. Se, dunque, l'anima è armonia, è chiaro che
quando il nostro corpo, per una malattia o per altri malanni, subisce un
rilassamento o un'eccessiva tensione, anche l'anima, necessariamente, verrà
distrutta benché sia, in sommo grado, di natura divina, come del resto tutte le
altre forme di armonia, quelle cioè che sono nei suoni o in ogni altra
espressione d'arte, mentre i resti del corpo umano durano più a lungo e fino a
quando non vengono cremati o non si decompongono. Vedi un po' tu, ora, cosa c'è
da obbiettare se si sostiene che l'anima, dato che è formata da quegli stessi
elementi di cui è fatto il corpo, quando giunge la cosiddetta morte, sarà essa
la prima a morire."
XXXVII
"Non è mica tanto sbagliato quello che dice Simmia,"
e Socrate volse intorno quel suo sguardo penetrante che gli conoscevamo, poi
soggiunse sorridendo. "Se qualcuno di voi si sente meno incerto di me, risponda
pure; infatti, mi pare proprio che Simmia abbia mosso un attacco in piena regola
alla mia tesi. Sarebbe, però, opportuno che, prima di rispondere, sentissimo
cosa ne pensa Cebete, anche per prenderci tempo per la nostra risposta. Dopo che
li avremo ascoltati entrambi, o accetteremo le loro obiezioni, se ci sembreranno
intonate, o riprenderemo a difendere la nostra tesi tutta da capo. E, allora,
parla, Cebete, dì pure quello che ti rende perplesso." "Eccomi qua," rispose
Cebete: "mi pare che la discussione sia ferma allo stesso punto e che su quanto
abbiamo detto ora si possono fare le stesse obiezioni di prima. Che la nostra
anima esista anche prima di assumere la forma umana, io non lo nego: la cosa,
infatti, è stata dimostrata con molta finezza e, senza voler essere presuntuosi,
anche in modo del tutto soddisfacente; ma che l'anima, anche dopo la nostra
morte, continui a vivere, questo, poi, proprio non mi persuade. D'altro canto
non sono nemmeno d'accordo su quanto ha detto Simmia, che, cioè, l'anima non sia
affatto più forte e resistente del corpo. Son convinto, invece, che c'è una gran
bella differenza, sotto tutti i punti di vista. ‹Ma, allora,› tu potresti dirmi
nel tuo ragionamento, ‹perché hai ancora dei dubbi, quando vedi che dopo la
morte dell'uomo la sua parte più debole continua ad esistere? Non ti pare allora
che anche la parte più resistente e durevole, necessariamente, debba continuare
a vivere, almeno quanto l'altra?› Vedi un po', ora, se a questo proposito, dico
bene, perché anch'io, come Simmia, devo parlare per immagini. Io credo che lo
stesso discorso si potrebbe fare a proposito di un vecchio tessitore morto e
dire che il poveretto non è mica morto ma viva sano e vegeto in qualche parte e,
a prova di questo, si mostrasse il mantello che egli indossava e che si era
tessuto con le sue mani, ancora in buone condizioni e per niente rovinato. A chi
non volesse crederci, si potrebbe domandare se sia più lunga la vita di un uomo
o quella del mantello che indossa. Indubbiamente la risposta sarebbe che è più
lunga la vita di un uomo e con ciò, a più forte ragione, sarebbe dimostrato che
l'uomo è senz'altro vivo, dato che il mantello, che è cosa meno durevole, non è
ancora consumato. Ma io credo, Simmia, che le cose non stiano così; cerca,
perciò di seguirmi. Ognuno può rendersi conto che questa tesi è molto debole.
Infatti, questo tuo tessitore, che ha tessuto e consumato molti mantelli, se è
vero che è morto dopo averne usati molti, è anche vero che egli ha cessato di
vivere prima di aver consumato l'ultimo e questo non mi sembra affatto un motivo
valido per affermare che l'uomo sia da meno e più debole di un mantello. Lo
stesso esempio potrebbe farsi, penso, riguardo all'anima e ai suoi rapporti col
corpo e credo che andrebbe proprio bene, cioè che l'anima è di natura molto
resistente, il corpo, invece, più fragile e meno durevole. In realtà, si
potrebbe dire che ogni anima logora molti corpi, specialmente poi se vive per
molti anni (supponiamo, infatti, che mentre l'uomo vive se il corpo è come un
flusso che scorre e si esaurisce, l'anima, invece, rinnova via via ciò che si
consuma); ma è inevitabile che essa, quando giunge l'ora della morte, si troverà
ad avere la sua ultima veste e che muoia, quindi, prima di questa. Morta
l'anima, il corpo, allora, rivelerà tutta la sua fragilità e, corrompendosi
rapidamente, si dissolverà. Da questo discorso, ne viene, di conseguenza, che
noi non possiamo ancora credere che, dopo morti, la nostra anima continui a
vivere da qualche parte. Ma voglio anche concederti più di quanto affermi,
ammettere, cioè, che le nostre anime non solo siano esistite prima della nostra
nascita, ma che nulla impedisce che esistano anche dopo la nostra morte in altri
esseri che nasceranno e morranno (e l'anima è, per sua natura, così resistente
da poter sopportare tutte queste reincarnazioni); ammesso tutto ciò, non si
potrebbe mai concederti che l'anima non si indebolisca in queste continue
rinascite e che, alla fine, in una delle tante sue morti corporali, non muoia
anch'essa definitivamente, una buona volta. In verità, tu potresti affermare che
nessuno può saperne nulla di quest'ultima morte del corpo che segna anche la
rovina dell'anima - infatti è impossibile per qualsiasi di noi averne completa
consapevolezza -; in tal caso, nessuno può giustificare la sua tranquillità
dinanzi alla morte, se non è in grado di provare che l'anima è senz'altro
immortale e indistruttibile, almeno che non la giudichi egli stesso
un'insensatezza. Diversamente, chi sta per morire, deve per forza temere per la
propria anima, che, al momento della sua separazione dal corpo, noti si dissolva
anch'essa del tutto."
XXXVIII
Dopo averli ascoltati, tutti noi provammo una
penosa impressione, come più tardi ci confidammo l'un l'altro perché,
com'eravamo rimasti convinti del ragionamento precedente, così, ora, ci sembrava
che quei due ci avessero confuso le idee e rigettato nella sfiducia non solo
riguardo ai discorsi che si eran fatti finora ma anche su quelli che si
sarebbero tenuti in seguito, quasi come se noi fossimo incapaci di giudicare o
che la questione stessa fosse del tutto campata in aria.
ECHECRATE - Per tutti gli
dei, Fedone, io vi comprendo benissimo. Anche a me che ti ho sentito parlare,
ora vien fatto di chiedermi: "Ma a quale tesi, d'ora in poi, dovremo credere,
dal momento che gli argomenti di Socrate, così persuasivi, si son rivelati
addirittura tanto poco credibili?" Mi ha sempre profondamente suggestionato la
tesi che la nostra anima fosse un'armonia; l'averla ora sentita, in certo qual
modo, ripetere, mi ha confermato quanto io la condividessi. Ecco, intanto, che
ora mi ci vuole una nuova dimostrazione, come se incominciassimo tutto da capo,
per convincermi che l'anima non muore con la morte del corpo. Dimmi un po',
insomma, come Socrate se l'è cavata, dopo tutto quel discorso. Apparve, come
voi, turbato o meno? O affrontò tranquillamente la cosa? Ha ribattuto
efficacemente, o no? Raccontami tutto, per filo e per segno, se è possibile.
FEDONE - Ah, Echecrate, tu sai quanta ammirazione abbia sempre avuto per Socrate,
eppure, mai come quest'ultima volta che gli fui vicino. Che un uomo come lui
avesse i suoi argomenti per replicare, niente di straordinario, ma quello che,
soprattutto, mi stupì, fu la dolcezza, la benevolenza, la serenità con cui
accolse le obiezioni di quei due giovani e l'intuito, poi, con cui si accorse
del turbamento che quei loro discorsi ci avevano procurato e come seppe
rimediare alla cosa, come ci richiamò e ci ridette fiducia a seguirlo e ad
esaminare con lui la questione, noi che eravamo già sbandati e sconfitti.
ECHECRATE - E come?
FEDONE - Te lo dico subito. Mi trovavo seduto, alla sua destra,
su uno sgabello, accanto al letto; lui, invece, stava più in alto di me.
Cominciò ad accarezzarmi il capo, lisciandomi i capelli che mi scendevano sul
collo (aveva l'abitudine di prendermi in giro, di tanto in tanto, per i miei
capelli): "Forse, domani, Fedone, ti taglierai questi bei capelli," mi disse.
"Oh, sì Socrate, è naturale," gli risposi. "E, invece, no, se mi ascolterai."
"Ma come?" esclamai. "Oggi i capelli ce li taglieremo tutti e due se lasceremo
lì la nostra questione, senza saperla portare in porto. Anzi, se fossi in te,
non riuscendo a sostenere la nostra tesi, giurerei, come gli Argivi, di non
farmeli più crescere prima d'aver demolito, con rinnovata energia, gli argomenti
di Simmia e di Cebete." "Ma contro due non ce la fa nemmeno Ercole, almeno così
dice il proverbio." "E allora chiama me in aiuto, come se fossi il tuo Iolao,
finché è ancora giorno." "Sì, ti chiamerò in aiuto, ma non come se fossi io
Ercole ma Iolao, che chiama Ercole in suo soccorso." "Ma andiamo, che è lo
stesso."
XXXIX
"Prima di tutto bisogna stare attenti che non ci succeda qualche
guaio." "E quale?" domandai. "Che non diventiamo dei misologi, come certi che
diventano misantropi. Non c'è male peggiore che questo di odiare ogni
discussione. Misologia e misantropia nascono nello stesso modo. La misantropia
nasce quando si è riposta eccessiva fiducia in qualcuno, senza conoscerlo bene,
ritenendolo amico leale, sincero, fedele mentre poi, a poco a poco, si scopre
che è malvagio e infido, un essere del tutto diverso. Quando questa esperienza
si ripete più volte, specie con quelli che stimavamo più fidati e più amici, si
finisce, dopo tante delusioni, con l'odiare tutti e col credere che in nessun
uomo vi sia qualcosa di buono. Non succede così?" "Proprio così," risposi. "E
non è ingiusto, questo? Non è forse vero che chi si comporta così, evidentemente
vive tra gli uomini senza averne nessuna esperienza? Se, infatti, li conoscesse
appena, saprebbe che son pochi quelli veramente buoni o completamente malvagi e
che per la maggior parte, invece, sono dei mediocri." "In che senso?" feci. "È
lo stesso delle cose molto piccole e molto grandi. Credi forse che sia tanto
facile trovare un uomo o un cane o un altro essere qualunque molto grande o
molto piccolo o, che so io, uno molto veloce o molto lento o molto brutto o
molto bello o tutto bianco o tutto nero? Non ti sei mai accorto che in tutte le
cose gli estremi sono rari mentre gli aspetti intermedi sono frequenti, anzi
numerosi?" "Ma certo," riconobbi io. "E non credi che se si facesse una gara di
malvagità, pochissimi arriverebbero tra i primi?" "È probabile," ammisi. "Altro
che," disse. "Ma su questo punto, non si può fare un parallelo tra le
discussioni e gli uomini. Il fatto è che tu hai continuato a discutere ed io ti
son venuto dietro. Si può vedervi una relazione, invece, in questo senso, quando
uno presta, cioè, troppa fede a una tesi e la ritiene buona senza conoscerla a
fondo e poi in un secondo momento, gli sembra falsa, a volte anche a ragione, ma
a volte a torto, e quando questo gli capita spesso... Tu sai bene che quelli che
si perdono in discussioni sul pro e sul contro, finiscono col credersi dei
sapientoni e di essere i soli ad avere intuito che niente a questo mondo, e
tanto meno le discussioni, è stabile e sicuro e credono che tutto, come
nell'Euripo, vada su e giù, senza sosta, senza un momento di tregua." "È proprio
vero, è così!" affermai. "Ebbene, Fedone," riprese, "sarebbe una cosa veramente
deplorevole se, con tutte le tesi vere e sicure che vi sono e vengono
riconosciute tali, soltanto per il fatto che ci si imbatte in altre che, pur
essendo sempre le stesse, ora ci sembrano vere ora false, si finisse col dare la
colpa non a se stessi e alla propria incapacità ma, per la stizza, agli
argomenti e si passasse tutta la vita a odiare e maledire ogni discussione
privandoci, così, della verità e della conoscenza della realtà." "Santo cielo,"
esclamai, "sarebbe veramente una brutta cosa."
XL
"Dunque, prima di tutto,"
disse, "stiamo attenti che in noi non si insinui la convinzione che ogni tesi
sia falsa, ma che, piuttosto, non ci sia proprio in noi qualcosa che non va.
Comportiamoci virilmente quindi e cerchiamo di vederci chiaro, tu e gli altri,
per tutti gli anni che vi restano da vivere, io, invece, per la morte che mi sta
sopra perché, proprio in una questione come questa, data la mia situazione,
corro il rischio di non comportarmi come un vero filosofo ma come quelli che non
capiscono niente e vogliono avere ragione a tutti i costi. Questa gente, quando
discute di qualche cosa, non si preoccupa affatto di stabilire la verità ma solo
di fare apparire come vero ai presenti, quello che sostiene. La differenza tra
me e loro è che io non cerco di far passare per vero, a voi qui presenti, quello
che dico (cosa questa del tutto secondaria) ma che appaia tale soprattutto a me
stesso. Io, infatti, la penso così, mio caro (guarda come faccio bene i miei
calcoli): se quello che affermo corrisponde a verità, è certamente un bene che
me ne sia persuaso; se, invece, dopo la morte non c'è che il nulla, allora,
almeno, in queste poche ore che mi restano prima di morire, non vi avrò annoiato
con i miei lamenti; del resto non durerà per molto questa mia ignoranza, il che
sarebbe veramente un grosso guaio, ma ancora un poco e poi sarà finita. Eccomi,
dunque, Simmia e Cebete, pronto a riprendere la questione e voi datemi ascolto,
non preoccupatevi tanto di Socrate ma soprattutto della verità e se vi sembra
che io dico il vero, datemi il vostro consenso, altrimenti contradditemi pure,
in tutti i modi, e state attenti che, per la troppa foga, io non inganni voi e
me stesso e non vi lasci, nel partirmene dalla terra, il pungiglione, come
un'ape."
XLI
"Suvvia allora," disse. "Prima di tutto ricordatemi quello che
stavate dicendo se, per caso, me ne dimenticassi. Se non sbaglio, Simmia dubita
e teme che l'anima, pur essendo di natura divina e più bella del corpo, muoia
prima di esso perché è una specie di armonia. Cebete, invece, mi pareva che
fosse d'accordo con me nel ritenere che l'anima è, per natura, più resistente
del corpo ma che nessuno, però, può sapere se, dopo aver consumato in molte vite
un certo numero di corpi, muoia anch'essa nel separarsi dall'ultimo e che la
morte sia, appunto, proprio questo dissolversi dell'anima dal moínento che il
corpo muore sempre un po', continuamente. Son queste le questioni che dobbiamo
affrontare, Simmia e Cebete, o ce ne sono altre?" Tutti e due dissero che erano
soltanto queste. "E le cose che si son discusse prima, le respingete tutte
oppure soltanto in parte?" "Alcune sì, altre no," affermarono insieme. "E che ne
pensate di quello che abbiamo detto, cioè che scienza è reminiscenza e quindi,
se questo è esatto, che l'anima nostra deve pur esistere in qualche parte prima
di entrare in un corpo?" "Per conto mio," ammise Cebete, "ne sono rimasto
straordinariamente persuaso e perciò niente potrebbe, ora, farmi cambiare idea."
"Sono d'accordo anch'io," aggiunse Simmia, "e molto mi meraviglierei se dovessi
cambiare opinione." "Eppure, tebano, non dovresti pensarla cosi, se insisti a
credere che l'anima sia una specie d'armonia e, come tale, composta da quegli
stessi elementi corporei sapientemente armonizzati tra loro. Infatti, non vorrai
mica ammettere che l'armonia, che è un composto, appunto, di elementi, esista
prima degli elementi che la compongono, o credi che sia così?" "Niente affatto,
Socrate." "Ma, intanto, non è questo che vieni a sostenere quando, per un verso,
dici che l'anima esiste prima di entrare in una forma umana e di legarsi a un
corpo e, per l'altro, che essa è composta di quegli elementi che non esistevano
prima di lei? L'armonia non è affatto quella cosa a cui vorresti paragonarla;
prima esistono, infatti, la lira, le corde e i suoni non ancora armonizzati e,
soltanto per ultima, si forma l'armonia che, del resto, è poi, la prima a
dissolversi. Come credi, quindi, di poter accordare questo tuo ragionamento con
l'altro?" "Ah, certo, non è possibile," fece Simmia. "E si che se c'è un
argomento sul quale è bene trovare un accordo," coinnìeiìtò Socrate, "è proprio
questo sull'armonia." "Ah, certo, sarebbe bene," ammise Simmia. "E, invece, il
tuo ragionamento non è affatto accordato. Vedi un po', allora, di scegliere
quale delle due ipotesi preferisci: che la scienza sia reminiscenza o che
l'anima sia un'armonia?" "Molto più volentieri il primo, Socrate; l'altro,
infatti, m'è venuto fuori così, senza che me ne rendessi veramente conto, ma
solo per una certa approssimazione, come del resto, in fondo, un po' tutte le
opinioni degli uomini; ed io, invece, so bene che i ragionamenti fondati su
analogie non sono che ciarle e se uno non fa attenzione può essere facilmente
tratto in errore, sia nella geometria che in tutte le altre discipline. Invece,
il ragionamento che si è fatto sulla reminiscenza e sulla scienza, è partito da
un'ipotesi degna di essere accettata. Infatti è stato detto che la nostra anima
esiste ancor prima di entrare in un corpo, così come esistono quelle essenze a
cui abbiamo dato il nome di realtà in sé e che sono un suo possesso. Orbene,
questa ipotesi, dato che ne sono pienamente convinto, io l'ho a buon diritto
accettata. Quindi, devo ammettere, logicamente, che non è più possibile
sostenere, né da parte mia, né da parte di altri, che l'anima è un'armonia."
XLII
"E di un po', allora, Simmia: secondo te l'armonia e ogni altra cosa
composta, può essere di natura diversa, di quella degli elementi che la
costituiscono?" "Assolutamente no." "E allora io credo che non sia nemmeno
possibile che faccia qualcosa, o la subisca, diversa da quella che possono fare
o subire quegli elementi stessi." Lo ammise. "Così che l'armonia non può guidare
gli elementi che la compongono ma solo seguirli." Ammise anche questo. "E, per
di più, non v'è alcuna possibilità che essa possa emettere suoni o vibrazioni
indipendentemente o, comunque, in maniera contraria, alle parti che la
compongono." "Ah, sicuramente no." "E dimmi ancora una cosa: l'armonia, per sua
natura, non è ciò che i singoli elementi, armonizzati tra loro, producono?" "Non
capisco," azzardò. "Cioè che se si potesse riuscire, ammesso che fosse
possibile, ad armonizzare in accordi più alti e perfetti questi elementi, si
potrebbe avere, forse, un'armonia più bella e più piena, mentre se gli accordi
fossero più deboli e più bassi, l'armonia sarebbe, anch'essa, debole e grave?"
"Certamente." "E può succedere questo per l'anima, che cioè essa sia, anche se
in parte minima, più o meno anima di un'altra, per intensità ed estensione e
restare sempre quello che è, cioè anima?" "Niente affatto," ammise. "Andiamo
avanti, allora," disse: "Non si dice che un'anima è buona quando ha senno e
virtù e che, invece, è malvagia quando in sé ha cattiveria e stoltezza? giusto
dire così?" "È giusto, certo." "E allora, quelli che sostengono che l'anima sia
un'armonia, cosa diranno della virtù e del vizio, cioè di queste qualità che si
trovano nelle anime? Che l'una è un'altra specie di armonia e l'altra una
disarmonia? Dirà che l'anima buona, perfettamente armonizzata, essendo già
un'armonia ne possiede un'altra e che quella cattiva, invece, essendo
disarmonica, non ne ha alcuna?" "Ah, io non so che dirti," ammise Simmia, "ma è
chiaro che chi la pensa così direbbe qualcosa di simile." "Ma poco prima,"
Socrate riprese, "abbiamo ammesso che non esiste un'anima che sia più o meno
anima di un'altra e questo significa che non esiste un'armonia che sia più o
meno tale rispetto a un'altra. Non è così?" "Certo." "E un'armonia che non può
essere più o meno tale, non sarà, quindi, neanche più o meno armonizzata. Ti
pare?" "È così." "E un'armonia che non può essere più o meno armonizzata, può
partecipare, invece, in misura maggiore o minore, all'armonia o deve essere
perfettamente corrispondente?" "Deve essere corrispondente." "E, quindi,
un'anima, per il fatto che non è più o meno tale rispetto a un'altra e che è,
appunto soltanto anima, non può neanche essere più o meno armonizzata." "Ma
certo." "Ed essendo questa la sua condizione, potrà avere più armonia o
disarmonia di un'altra?" "Indubbiamente no." "E se è vero che il vizio è
disarmonia e la virtù armonia, potrà un'anima essere, più di un'altra, virtuosa
o malvagia?" "In alcun modo." "Anzi, a voler esser precisi, Simmia, senza dubbio
dobbiamo dire che nessuna anima può essere rnalvagia se è un'armonia. L'armonia,
infatti, per il fatto di essere decisamente tale, cioè armonia, non può essere
disarmonia." "Certamente no." "E quindi neanche l'anima che è decisamente anima,
può essere malvagia." "E come potrebbe, dopo quel che s'è detto?" "Dunque, da
questo ragionamento, consegue, secondo noi, che tutte le anime, di tutti gli
esseri viventi, sono egualmente buone se, per loro natura, sono tali, cioè
anime." "Certo, Socrate, anch'io la penso così." "E ti pare che sia giusto tutto
questo," aggiunse Socrate, "e che il nostro discorso sarebbe giunto a queste
conclusioni se fosse esatta l'ipotesi che l'anima è un'armonia?" "Ah, no, di
certo," ammise.
XLIII
"E ora," riprese Socrate, "puoi dirmi se di tutte le
facoltà possedute dall'uomo ve ne sia qualcuna che abbia una sua superiorità
sulle altre, all'infuori dell'anima che, per di più, è razionale?" "Ah, io no."
"Ed è superiore perché cede alle passioni del corpo o perché vi si oppone? Mi
spiego meglio: bruciamo per l'arsura, per esempio, e abbiamo sete, l'anima
spinge il nostro corpo in senso contrario, cioè, a non bere e se siamo affamati
a non mangiare; e infiniti altri sarebbero gli esempi, a confermarci che l'anima
si oppone agli istinti del corpo. Non è forse vero?" "Sì, è proprio così." "Ma
noi non abbiamo concluso che se l'anima fosse un'armonia non potrebbe mai dar
suoni contrari a quelli degli elementi che la compongono, ora tesi, ora
allentati, ora più vibranti, ma dovrebbe seguirli e non già guidarli?" "E come
no? Così, infatti, concludemmo," disse. "E allora? Non è evidente che l'anima si
comporta tutto il contrario, che cioè guida tutti quegli elementi di cui si dice
che è composta, che, anzi, si oppone ad essi durante tutta la vita, esercitando
il suo dominio in tutti i modi, tenendoli a freno, ora con maggiore durezza e
con sistemi anche dolorosi, come per esempio esercizi ginnici o cure mediche,
ora con minore intransigenza, con minacce o consigli, volgendosi agli istinti,
alle ire, ai timori, come se fosse estranea ad essi ed essi del tutto diversi da
lei. Qualcosa di simile volle dire Omero nell'Odissea quando così fa parlare
Ulisse: battendosi il petto così apostrofava il suo cuore: sopporta o mio cuore,
altre volte soffristi già un male più acuto. Credi che egli avrebbe scritto così
se avesse pensato che l'anima è un'armonia e tale da essere succube delle
passioni del corpo e non, invece, capace di guidarle e di dominarle e, quindi,
cosa troppo divina per esser messa al livello di un'armonia?" "Per Giove,
Socrate, pare anche a me che è così." "Dunque, mio caro amico, non è proprio più
il caso di affermare che l'anima è un'armonia perché, a quanto pare, non ci
troveremmo d'accordo né con Omero, quel divino poeta, né con noi stessi." "È
proprio così," disse.
XLIV
"Bene, allora," riprese Socrate, "per quel che
riguarda Armonia, quella tebana, in un certo qual modo ce la siam fatta amica;
ma, Cebete, come la mettiamo con Cadmo, in che modo e con quale ragionamento
possiamo tirarcelo dalla nostra parte?" E Cebete: "Il modo lo saprai trovare tu.
Il ragionamento che ora hai fatto contro la tesi dell'armonia è stato
addirittura straordinario da superare ogni mia aspettativa. Infatti, mentre
Simmia parlava esponendo i suoi dubbi in proposito, io mi chiedevo tutto stupito
se vi potesse essere qualcuno capace di spuntarla contro le sue obiezioni e,
così, mi parve addirittura incredibile come esse crollassero di fronte al primo
assalto delle tue parole. Non mi meraviglierei, quindi, affatto che capitasse lo
stesso alla tesi di Cadmo." "Mio buon amico," disse Socrate, "non vantiamoci
troppo, può essere di cattivo augurio e rovinarci tutto il ragionamento che ci
accingiamo a fare. Dopo tutto, anche in questo caso, siamo nelle mani di dio; da
parte nostra facciamoci sotto, come i guerrieri di Omero, e vediamo, un po' se
in quello che hai detto c'è qualcosa di buono. In poche parole tu chiedi che ti
si mostri che la nostra anima è immortale e incorruttibile, se si vuole che la
speranza di un filosofo, in punto di morire, che crede di essere felice dopo
morto, in un'altra vita, assai più che se fosse vissuto in modo del tutto
diverso, non sia una vana e sciocca speranza. Dire, poi, che l'anima è qualcosa
di resistente e di divino e che esisteva già prima che noi divenissimo creature
umane, questo - seconto te - non prova che essa sia immortale ma solo, tutt'al
più, che è più durevole e che è vissuta precedentemente in qualche luogo, per
lunghissimo tempo e che sapeva e faceva molte cose; il fatto stesso, poi, che la
sua discesa in un corpo umano segni il principio della sua fine e sia come
l'inizio di una malattia, è un altro motivo per non credere nella sua
immortalità, per cui essa vive tutta questa nostra vita fra mille tribolazioni
fino a quando, al sopraggiungere della cosiddetta morte, non si dissolve del
tutto. Infine dicevi che non c'è differenza, per quel che riguarda il nostro
timore della morte, se l'anima entri una sola volta in un corpo o se le sue
reincarnazioni siano numerose; perché chi non sa e non può dimostrare che essa è
immortale, ha sempre mille ragioni di temere, almeno che non sia fuor di senno.
Questo, Cebete, presso a poco, è quello che tu hai affermato; io l'ho riassunto
a bella posta perché niente possa sfuggirci e perché tu possa, se credi,
aggiungervi o togliervi qualcosa." E Cebete: "No, non devo togliere né
aggiungere altro: questo è ciò che sostengo."
XLV
Socrate rimase a lungo in
silenzio, tutto assorto in un suo pensiero, poi disse: "Non è una questione da
nulla questa che proponi, perché si tratta di indagare sulle cause della vita e
della morte. E io voglio incominciare col narrarti, se lo desideri, quello che è
capitato a me, in proposito; e se ciò che dico ti sembrerà utile, giovatene pure
per rendere convincente la tua tesi." "Ma certo," assicurò Cebete, "è proprio
questo che voglio." "Sta attento, allora, a quel che sto per dirti. Quando ero
giovane, Cebete, avevo una gran passione per quella scienza che vien detta
storia naturale; mi sembrava, infatti, che fosse una disciplina meravigliosa
quella che insegnava a conoscere le cause delle singole cose, della loro nascita
e della loro morte, nonché il mistero della loro vita. E spesso gravi dubbi
sorgevano in me quando meditavo su questi problemi: ‹Che forse quando il caldo e
il freddo producono una specie di putrefazione, come dicono alcuni, si ha allora
la vita?› - ‹O è forse il sangue che dà origine, in noi, al pensiero, o l'aria,
o il fuoco?› - ‹O nulla di tutto questo, ma è il cervello, invece, che ci dà le
sensazioni dell'udito, della vista, dell'olfatto, dalle quali poi nascerebbero
la memoria e le opinioni che una volta stabilizzatesi in noi, ci darebbero, poi,
la conoscenza?› E andavo studiando anche i processi opposti, il morir delle cose
e le vicende del cielo e della terra, ma, alla fine, dovetti persuadermi di non
essere assolutamente portato per studi di questo genere. E te ne darò una prova
sufficiente: infatti, quello che sapevo prima, in modo abbastanza chiaro, o
almeno, così sembrava e non solo a me ma anche agli altri, dopo quelle mie
ricerche, mi divenne così oscuro che disimparai letteralmente tutto ciò che
prima credevo di sapere, una tra le tante, per esempio, come fa l'uomo a
crescere. Prima d'allora credevo che fosse una cosa evidente che l'uomo cresce
perché si ciba e si disseta. Infatti, quando col cibo si aggiungono carne alla
carne e ossa alle ossa e, così, per la stessa legge, ogni elemento specifico
alle altre parti, credevo, allora, che, in tal modo, il volume del corpo, da
piccolo che era, divenisse più grande. Così io pensavo e non ti pare che avessi
ragione?" "Secondo me, sì," rispose Cebete. "Continua a seguirmi. Io credevo che
fosse giusto pensare che un uomo alto posto accanto a uno piccolo sembrasse più
grande, appunto, per il capo e, così, un cavallo, rispetto a un altro; e posso
farti altri esempi anche più lampanti: dieci, mi pareva che fosse più di otto
per il fatto che ha due unità in più e che la misura di due cubiti fosse più
grande di quella di un cubito perché superiore della metà." "Ma qual è, ora, la
tua opinione in proposito?" intervenne Cebete. "Ah, io ora," esclamò, "sono ben
lontano dal credere di conoscere la causa di questi fatti, io che non mi azzardo
più ad ammettere che un'unità cui si aggiunga un'altra unità, diventa due o che,
per questa aggiunta, risultino tali sia la prima che la seconda unità. Non so
proprio rendermi conto come, finché ciascuna di queste unità era separata
dall'altra, fosse una e non due mentre, poi, una volta congiunte insieme, ecco
che son diventate due e la causa di questo sia stata proprio l'averle collocate
l'una accanto all'altra. Del resto non riesco più nemmeno a capacitarmi come,
dividendo per metà un'unità, essa diventi due, per il fatto stesso della
divisione, cioè per una causa contraria alla precedente per la quale l'uno era
ugualmente diventato due. Prima, infatti, l'uno è diventato due perché un'unità
era stata aggiunta a un'altra e ora, invece, perché l'una viene allontanata e
separata dall'altra. Non mi faccio più alcuna illusione di sapere com'è che si
forma quest'unità né, in una parola, come nasce, vive e muore ogni altra cosa
con questo sistema che non mi fa approdare più a nulla. Ecco, perciò, la
necessità di trovare un nuovo metodo, ma così, a caso magari perché questo non
va assolutamente.
XLVI
"Ma ecco che un giorno io sentii un tizio che leggeva un
libro di Anassagora, almeno così mi diceva, dove c'era scritto che esiste una
Mente ordinatrice, causa di tutte le cose. Io mi rallegrai al pensiero che ci
fosse una Mente, causa di tutto e lo trovai giusto: se è così, pensai, questa
Mente ordinatrice, deve effettivamente presiedere all'ordine universale e
disporre nel modo migliore possibile ogni cosa. Se uno, dunque, volesse trovare
la causa di ciascuna cosa, come essa, cioè, nasca, perisca o esista, costui deve
scoprire, di ciascuna cosa, il suo modo migliore di essere, di subire o di fare
alcunché. "Partendo da questa premessa, io ritenni che un uomo, se avesse voluto
indagare su se stesso o sulle altre cose, non avrebbe dovuto far altro che
scoprire ciò che è perfetto ed eccellente; questo lo avrebbe necessariamente
portato a conoscere anche il pessimo, perché unica è la scienza in proposito. E,
così ragionando, io mi rallegravo di aver trovato chi avrebbe potuto insegnarmi,
nel modo a me più confacente, le cause di ciò che è, Anassagora, che mi avrebbe
detto se la terra è piatta o è rotonda e poi me ne avrebbe spiegato la causa e
la necessità, persuadendomi del perché è meglio che sia così; e se avesse
affermato che la terra è il centro dell'universo, mi avrebbe certamente anche
spiegato perché è meglio che essa stia al centro. Oh, se mi avesse spiegato
tutto questo io ero pronto ad abbandonare ogni altra ricerca sulla causalità
delle cose. Naturalmente ero disposto a ricevere un simile insegnamento, anche
per ciò che riguarda il sole, la luna e gli altri astri, la loro reciproca
velocità, le loro orbite, le altre loro vicende e sentirmi dire perché è meglio
che ciascuno di essi produca o subisca simili fenomeni. In effetti io non avrei
mai pensato che egli, dichiarando che tiitte queste cose erano state ordinate da
una Mente, poi attribuisse loro una causa diversa da questa, che cioè il meglio
per esse è di essere come sono; quindi, ritenevo che egli, dopo aver attribuito
a ciascuna di esse e a tutte insieme questa causa, avrebbe chiarito quale fosse
il meglio per ciascuna e il bene comune a tutte. Ah, a nessun costo avrei ceduto
queste speranze e così, con grande entusiasmo, mi gettai sui suoi libri e li
lessi di furia per sapere, il più presto possibile, il meglio o il peggio delle
cose.
XLVII
"Ah, ma a questa meravigliosa speranza, amico mio, subentrò la
delusione, perché, via via che procedevo nella lettura, mi vedevo davanti un
uomo che non si serviva affatto della Mente e che ad essa non assegnava alcuna
causalità nell'ordine delle cose ma indicava come causa, l'aria, l'etere,
l'acqua e altri assurdi principi del genere. Mi pareva che egli facesse
precisamente come uno che, mentre dice, per esempio, che Socrate, tutto quel che
fa, lo fa con la mente, quando poi si tratta di spiegare le cause di ogni mio
gesto, se ne esce col dire che io sto seduto perché il mio corpo è fatto di ossa
e di muscoli e che le ossa son rigide e hanno le articolazioni che le separano
le une dalle altre, mentre i muscoli son fatti in modo che si possono tendere e
allentare, che essi circondano le ossa insieme alla carne e alla pelle che tutto
racchiude e che, quindi, grazie alle ossa che fanno leva sulle loro giunture e
ai muscoli che si tendono e si allentano, io ho la possibilità di piegare le
membra e che, quindi, per questo motivo, ora sto qui seduto con le gambe
piegate. E del fatto che io ora sto parlando con voi, potrebbe tirare in ballo
un sacco di cause simili, la voce, per esempio, l'aria, l'udito e altre del
genere, ma non quelle che sono le vere ragioni, cioè che, siccome gli ateniesi
han pensato bene di condannarmi, io, a mia volta, ho ritenuto che fosse più
opportuno restarmene seduto qui e più giusto subire la pena che essi hanno
decretato. Ah, vi assicuro, perdinci, che queste ossa e questi muscoli
sarebbero, a quest'ora, già a Megara o in Beozia, sicure che lì sarebbero state
certo assai meglio, se io non avessi, invece, ritenuto più giusto e più bello,
anziché tagliare la corda e fuggire, pagare alla patria qualunque pena essa mi
avesse inflitto. Chiamare cause tutte queste cose, mi sembra proprìo
un'assurdità: al massimo uno può dire che, senza ossa, senza muscoli e tutto il
resto, io non potrei fare ciò che voglio, ed avrebbe ragione, ma affermare che
di tutto ciò che faccio - che è pure il frutto di un mio pensiero -, la causa
sono i muscoli e le ossa e non la conseguenza di una scelta del meglio, è
proprio un voler deformare il senso delle parole. Perché questo, infatti,
significa non capire che una cosa è la causa vera e propria e un'altra è la
condizione senza la quale la causa non potrà mai essere tale. E io credo proprio
che per quest'ultima, molta gente, andando a tentoni, come nel buio, usi un
termine che non le spetta, definendola impropriamente come se fosse la vera
causa. Ne viene di conseguenza che c'è chi dice che attorno alla terra v'è, come
un vortice d'aria e che, per questo essa si mantiene sospesa e ferma nello
spazio e chi ancora la immagina come una larga madia e, sotto, l'aria che la
sostiene. Ma quel potere in virtù del quale e terra e aria e cielo sono ora
disposti nel miglior modo possibile, costoro non lo ricercano affatto, né
pensano che esso abbia una forza divina, ma credono di poter trovare, un giorno,
un Atlante più robusto e più longevo dell'antico, capace di sostenere l'universo
intero e non si accorgono che, invece, è proprio il Bene e ciò che si conviene a
realizzare e a tenere unite le cose. E io, invece, quanto volentieri sarei
diventato discepolo di chiunque mi avesse insegnato a far luce su questa vera
causa. Ma siccome essa mi sfuggiva, né io ero in grado di scoprirla da me, né di
apprenderla da altri, allora, decisi di cambiar rotta e tu, Cebete, vuoi, forse,
che ti racconti come mi sono adoperato in questa mia nuova ricerca?" "Certo, con
quale piacere lo voglio."
XLVIII
"Stanco di simili indagini," riprese Socrate,
"pensai dopo tutto di dover stare attento che non mi succedesse ciò che capita a
quelli che guardano un'eclissi di sole che, se non osservano l'immagine
dell'astro riflessa nell'acqua o attraverso qualche altro schermo, talvolta
finiscono coi rovinarsi gli occhi. Anch'io pensai a una cosa di questo genere e
temetti di restare con l'anima completamente cieca se avessi volto alle cose
soltanto gli occhi e cercato di coglierle solo con i sensi. Ritenni, perciò,
necessario ricorrere ai concetti e cercare in essi la verità delle cose. Ma
forse il paragone non è del tutto esatto perché io contesto fermamente che chi
considera le cose nei loro concetti le veda in immagine, anziché nella loro
realtà. Comunque, questa fu la strada che seguii e prendendo, di volta in volta,
come premessa, quel concetto che, a mio avviso, era più sicuro, tutto ciò che mi
pareva concordare con esso lo ritenevo vero, sia che si trattasse del principio
di causa, sia di altre questioni; quello che non concordava, invece, lo
giudicavo falso. Voglio, però, spiegarti meglio quello che intendo dire perché
mi pare che tu non abbia ben capito." "Non troppo bene, infatti," ammise Cebete.
XLIX
"Tuttavia non c'è niente di nuovo in quello che sto dicendo, niente che non
abbia già detto altre volte e anche nella discussione di prima. Voglio, quindi,
ora, mostrarti qual è il tipo di causa per cui mi son tanto dato da fare ed ecco
che torno da capo su quanto s'è già tante volte discusso, ammettendo, come
ipotesi, l'esistenza di un Bello, di un Buono, di un Grande in sé e così via. Se
tu mi concedi che queste cose esistono, se lo ammetti, io spero poterti svelare
e dimostrare, prendendo le mosse da qui, che l'anima è immortale." "Ma certo, fa
conto di si," assicurò Cebete; "basta che cominci subito." "Vedi un po', dunque,
che cosa ne consegue dall'esistenza di questi enti e se sei d'accordo con me. A
me pare, infatti, che se c'è qualche cosa bella all'infuori del Bello in sé è
tale solo perché partecipa di questo Bello e così per tutte le altre cose. Sei
d'accordo che sia questa la causa?" "Sì, sono d'accordo." "Stando così le cose,"
continuò Socrate, "io non riesco più a capirle, non riesco più a spiegarmele
tutte le altre cause, quelle tirate in ballo dai sapienti che mi vogliono far
credere che una cosa è bella perché ha un bel colore o una bella forma o altra
roba del genere, tutte cause che io te le saluto e che mi lasciano assai
perplesso; mentre, invece, con tutta semplicità e forse anche ingenuamente, io
me ne resto nella mia convinzione che una cosa è, bella soltanto perché in essa
vi è o la presenza del Bello in sé o una sua partecipazione o un qualche altro
rapporto qualsiasi, perché io non faccio tanto questione di questo ma solo del
fatto che è per il Bello che tutte le cose belle sono tali. Questa è, infatti,
la spiegazione più convincente che io posso dare a me stesso e agli altri.
Fedele a questo principio, son certo di non cadere mai in fallo e che tanto per
me, quanto per gli altri, la risposta sicura è che le cose belle sono tali per
il Bello. Non credi?" "Lo credo." "E che le cose grandi sono così per la
Grandezza e quelle più grandi sono più grandi per la stessa ragione, come è per
la Piccolezza che son piccole le cose piccole?" "Sì." "Quindi, tu non saresti
mica d'accordo se uno ti venisse a dire che Tizio è più alto di Caio per la
testa e che Caio è più piccolo per lo stesso motivo, ma affermeresti, invece,
che, a tuo avviso, una cosa è grande per nessun'altra ragione che per la
Grandezza e che quindi solo questa è la causa per cui essa è grande; così come
una cosa è piccola per nessun'altra ragione che per la Piccolezza e che, quindi,
solo la Piccolezza è la causa per cui essa è tale; tu risponderesti fermamente
questo perché se dicessi che Tizio è più alto di Caio e Caio più piccolo di
Tizio per la testa dovresti proprio aspettarti, credo, una duplice obiezione,
che cioè, il più grande è più grande e il più piccolo è più piccolo per un
identico motivo e poi che il più grande è tale per una cosa che è piccola. Ed è
molto strano che una cosa sia grande per una cosa piccola. Non te la devi
aspettare un'obiezione simile?" Cebete, ridendo: "Oh, sì, certo." "E avresti il
coraggio di affermare," riprese Socrate, "che il dieci supera l'otto per due
unità e che per questo motivo esso è maggiore e non, invece, che è per la
Quantità e che questa ne è la causa? E così pure, per una lunghezza di due
cubiti, diresti che è più grande del cubito per la metà e non, invece, per la
Grandezza? La paura di cadere nel medesimo errore è sempre la stessa." "Ah,
certamente." "Ancora: se aggiungessimo un'unità a un'altra unità, non ti
guarderesti, forse, dal dire che è stata questa aggiunta a produrre il due, così
come, se l'unità sì dividesse in due, che è stata la divisione? Tu, invece,
diresti a gran voce che non sai in che altro modo si generi ogni singola cosa se
non partecipando dell'essenza propria di quella data realtà di cui partecipa e
che, nei nostri due casi, non v'è altra causa che l'unità divenga due se non
quella della sua partecipazione alla Dualità e che ciò che sta per diventare
due, necessariamente, deve partecipare di questa Dualità, come quello che sta
per diventare uno deve partecipare dell'Unità; e manderesti al diavolo tutte le
divisioni, le addizioni e le altre finezze del genere, lasciandole ai più
sapienti di te; tu, invece, timoroso, come suol dirsi, della tua stessa ombra,
intimidito della tua inesperienza e, d'altro canto, fermo nella tua tesi,
risponderesti così. Se poi qualcuno s'opponesse all'ipotesi in sé, tu lascialo
perdere e non rispondere fino a quando non avrai esaminato che tutte le
conseguenze che ne derivano, concordino o meno, secondo te, tra loro, e quando
tu dovrai render conto di essa, presa in se stessa, usa lo stesso metodo, poni,
cioè, a tua volta, un'altra ipotesi, quella che ti sembrerà la migliore fra
quante hanno carattere universale, finché non giungerai al risultato che più ti
soddisfi. In tal modo non farai confusione come quelli che ti sciorinano in una
stessa tesi il pro e il contro, discutendo, nel medesimo tempo, del principio e
delle conseguenze, e solo così potrai giungere a qualche verità. Quei tipi,
infatti, della verità non ne parlano e non se ne danno proprio alcun pensiero,
ma, nella loro sapienza, mescolano e confondono ogni cosa, solo per piacere a se
stessi. Ma tu, invece, se sei veramente un filosofo, farai, credo, come dico
io." "Dici cose verissime," approvarono, insieme, Simmia e Cebete.
ECHECRATE -
Santo cielo, Fedone, hanno proprio avuto ragione; mi sembra, infatti, che
Socrate sia stato d'una chiarezza fantastica, anche per chi ha la testa dura.
FEDONE - Proprio così, Echecrate, lo stesso parve anche a tutti i presenti.
ECHECRATE - Anche a noi che non c'eravamo e che ora soltanto ne sentiamo parlare.
E che vi diceste, dopo?
L
FEDONE - Se ben ricordo, dopo che fummo d'accordo con
lui e ammettemmo che ogni Idea ha una sua esistenza reale e che tutte le cose
sensibili, partecipando di queste Idee, ne prendono il nome, egli riprese,
ponendo questa domanda: "Se tu condividi tutto questo," disse, "quando affermi
che Simmia è più grande di Socrate ma più piccolo di Fedone, non vieni a dire
che in Simmia vi sono, nello stesso tempo, l'una e l'altra cosa, cioè la
Grandezza e la Piccolezza?" "Sicuro." "Ma, in realtà sei d'accordo che quando
dici che Simmia è più grande di Socrate, le parole non corrispondono alla verità
dei fatti? E che, in effetti, non è della natura di Simmia l'essere più grande
per questo, cioè, per il fatto che è Simmia, ma perché ha in sé, per caso, la
Grandezza e che, d'altronde, supera Socrate non in quanto Socrate è Socrate ma
perché questi ha la Piccolezza in confronto alla Grandezza di lui?" "È vero." "E
che se a sua volta è più basso di Fedone, questo non dipende dal fatto che
Fedone è Fedone ma perché Fedone ha in sé la Grandezza rispetto alla Piccolezza
di Simmia? Così che, possiamo dire che Simmia è grande e piccolo nello stesso
tempo essendo la sua statura intermedia, perché con la sua grandezza supera la
piccolezza dell'uno e lascia insieme superare la sua piccolezza dalla grandezza
dell'altro. Mi pare di parlare," soggiunse con un sorriso, "come un notaio, ma
le cose stanno proprio così come dico." E Cebete assentì. "E se dico questo è
perchè voglio che anche tu la pensi come me. A me, tuttavia, sembra chiara una
cosa, che cioè non solo la Grandezza in sé non può mai essere grande e piccola
nello stesso tempo, ma anche la grandezza che è in noi, non può accogliere la
Piccolezza e lasciarsi superare. Quindi, una delle due: o la Grandezza cede e
fugge quando le si avvicina il suo contrario, cioè la Piccolezza o, quando
questa subentra, scompare, ma mai che possa restarsene lì, accogliere in sé la
Piccolezza ed essere diversa da quello che era. Io, per esempio, accogliendo in
me la Piccolezza, resto sempre quello che sono, cioè un uomo piccolo, ma la
Grandezza, invece, essendo tale, non può accogliere la Piccolezza. E lo stesso
discorso vale per la piccolezza che è in noi, che non può assolutamente diventar
grande e restare quello che era e, così, ogni contrario, che non tollera di
diventare o di essere, nello stesso tempo, il suo contrario e se ciò dovesse
accadere o cessa di essere o scompare." "Sembra anche a me chiarissimo,"
confermò Cebete.
LI
Allora, uno che era lì presente, non ricordo bene chi,
osservò: "Ma nel discorso di prima non s'era affermato proprio il contrario di
quello che ora si va dicendo, che cioè, dal più piccolo si genera il più grande
e viceversa e che i contrari hanno la loro origine, esclusivamente, dai loro
contrari? Da quel che sento, ora mi pare proprio che non sia più così." E
Socrate che lo aveva ascoltato, volse verso di lui il capo e: "Bravo che te ne
sei ricordato; tuttavia non hai pensato alla differenza che c'è tra quello che
abbiamo detto ora e il discorso di prima. Allora si parlava che da una cosa
contraria nasce cosa contraria, ora, invece, s'è detto che il contrario in sé
non può mai diventare contrario a se stesso, né quello che è in noi, né quello
che è in natura. Insomma, mio caro, prima si parlava di cose che hanno i
contrari in sé e che noi chiamavamo col nome di questi contrari; ora, invece,
stiamo parlando dei contrari in sé i quali, per il fatto che sono nelle cose,
danno a queste il loro nome ed è appunto di questi contrari che noi diciamo che
non si possono generare gli uni dagli altri." Poi Socrate si volse verso Cebete
e: "Ti sei forse turbato, Cebete, all'obiezione dell'amico?" "Oh, per niente.
Non posso dire però, di non avere ancora molte incertezze." "Comunque, su una
cosa siamo d'accordo che il contrario non sarà mai contrario a se stesso." "Ah,
indubbiamente," confermò l'altro.
LII
"E vedi un po'," proseguì Socrate, "se ti
trovi d'accordo anche su questo: c'è qualcosa che tu chiami caldo e qualche
altra che chiami freddo?" "Io sì." "Cioè, precisamente, quello che tu chiami
neve e fuoco?" "Oh, no." "Allora il caldo e il freddo son qualcosa di diverso
dal fuoco e dalla neve?" "Sicuro." "Perciò io credo che tu sia persuaso che la
neve se riceve il caldo, come dicevamo prima, non potrà assolutamente continuare
ad essere ciò che era prima, e cioè neve e caldo insieme ma, al contrario,
avvicinandosi il caldo o gli cederà il posto o scomparirà." "Certamente." "E lo
stesso è per il fuoco, quando gli si avvicinerà il freddo o si ritirerà o
cesserà di essere fuoco, ma non potrà mai restare quel che era e accogliere il
freddo, cioè esser fuoco e freddo nello stesso tempo." "È proprio vero," ammise.
"Può, quindi, capitare in casi del genere," continuò Socrate, "che a mantenere
il proprio nome in perpetuo non sia soltanto l'Idea in sé ma anche qualche cosa
che da essa si distingue pur mantenendone i caratteri per tutto il tempo della
sua esistenza. Ma eccoti un esempio che potrà meglio chiarirti quello che voglio
dire. Il Dispari deve avere, sempre, in ogni caso, il nome di dispari, che noi
ora gli diamo. Non ti pare?" "Certo." "E fra tutte le cose solo esso - perché
questo è il punto - deve essere chiamato così o anche qualche altra cosa che pur
non essendo propriamente il Dispari può esser chiamato con questo nome oltre che
col suo proprio, dato che ha tale natura che non può mai allontanarsi dal
Dispari? Intendo dire che questo è il caso del tre, per esempio, e di molti
altri numeri. Pensa bene a questo tre: non ti pare che debba essere sempre
chiamato non solo con il suo nome ma anche con quello di dispari sebbene
quest'ultimo non sia la stessa cosa del tre? Eppure è tale la natura del tre e
del cinque e di tutta una metà della serie numerica, che essi pur non essendo la
stessa cosa del Dispari sono, tuttavia, sempre dispari. E, d'altra parte, il
due, il quattro e tutta l'altra metà della serie dei numeri, pur non essendo la
stessa cosa del Pari, sono tuttavia sempre pari. Sei d'accordo o no?" "E come
non esserlo?" disse. "Ora sta attento a un altro fatto: è evidente che non
soltanto i contrari in sé non si accolgono a vicenda ma che anche quelle cose
che, pur non essendo fra loro contrarie, hanno in sé i contrari, non possono
ricevere una proprietà contraria a quella che le caratterizza e quando questo
avviene o si ritirano o scompaiono. E non diremo che il tre, piuttosto che
diventare pari, scomparirà o subirà qualsiasi altra sorte, essendo ancora tre?"
"Di sicuro," confermò Cebete. "Eppure," replicò Socrate, "il due e il tre non
sono contrari." "No di certo." "Quindi, non solo le Idee contrarie non possono
accostarsi tra loro ma vi sono anche altre cose che non tollerano questo
accostamento di contrari." "È verissimo quello che dici," confermò.
LIII
"E
allora," riprese Socrate, "vuoi che proviamo un po' - se ci riusciamo - a
chiarire di qual natura siano queste cose?" "Va bene." "Non saranno forse,
Cebete, quelle che se qualche cosa s'impossessa di loro, son costrette non solo
ad accogliere l'Idea che è propria di quest'ultima ma anche l'Idea di una
qualche proprietà contraria a quella che in essa, per esempio, è costante?"
"Come dici?" "Quello che dicevamo poco fa. Infatti, indubbiamente, ora tu sai
che tutto ciò che è dominato dall'Idea del Tre, non è soltanto tre ma anche
dispari." "Ah, di sicuro." "E, naturalmente, aggiungiamo, in una cosa di questo
genere non vi sarà mai l'Idea contraria a quella che possa produrre il Tre." "No
di certo." "E non era l'Idea del Dispari che produceva il Tre?" "Sì." "E a
questa non è contraria l'Idea del Pari?" "Sì." "E, allora, nel Tre non vi sarà
mai l'Idea del Pari." "No, mai." "E quindi il Pari non avrà mai nulla a che fare
con il tre." "Niente proprio." "Quindi si conclude che il tre è dispari." "Sì."
"Ecco, dunque, quello che volevo precisare, cioè, quali sono le cose che, pur
non essendo contrarie ad altre, le respingono, com'è, per esempio, il caso del
tre che, pur non essendo contrario al Pari, lo esclude, perché ha in sé il
contrario del Pari e così anche il due, che ha in sé, sempre, il contrario del
Dispari e il fuoco, il contrario del Freddo e così via. Vedi, allora un po' se
ti va questa conclusione che cioè, non solo il contrario non ammette in sé il
suo contrario, ma che anche quella cosa che porti con sé un contrario, in
qualunque altra cosa essa vada, non può mai accogliere il contrario del
contrario che da essa è portato. Cerca di ricordarti (non è male, infatti,
sentire due volte le stesse cose): il cinque, non avrà mai in sé l'Idea del Pari
né il dieci che è il doppio del cinque, l'Idea del Dispari; e questo doppio,
che, del resto, è contrario a qualche altra cosa, non avrà mai in sé l'Idea del
Dispari, come pure la frazione 3/2, o, che so io, altre dello stesso tipo, che
hanno per denominatore il due, non avranno mai in loro l'Idea dell'Intero; così
le frazioni che sottintendono il tre e tutte le altre della stessa natura, se mi
stai seguendo e se sei d'accordo con me." "Ti seguo benissimo e condivido la tua
opinione," disse.
LIV
"E, allora, cerca di rifarti al principio, ma non
rispondermi ripetendo la mia domanda; cerca, invece, di far come faccio io.
Voglio dire che, oltre alla risposta che abbiamo data prima e che era in ogni
caso sicura, dopo quanto s'è ora detto, possiamo darne un'altra altrettanto
certa. Se, tu, infatti, ti chiedessi che cosa ci dev'essere in un corpo perché
sia caldo, io non ti risponderei, come avrei fatto prima, in modo sicuro ma un
po' banale che, cioè, occorre il calore, ma, dopo quel che s'è detto, in modo
più pertinente, cioè che è necessario il fuoco. E se mi domandi che ci vuole
perché un corpo si ammali, non ti risponderà più la malattia, ma la febbre. E,
ancora, che cosa occorre perché un numero diventi dispari, io non dirò più che
occorre il dispari, ma l'unità e così via. Vedi un po' se hai capito quello che
voglio dire." "Benissimo," assicurò Cebete. "E allora rispondi a questo: che
cosa occorre perché un corpo sia vivo?" "L'anima penso," rispose. "Ed è sempre
così, per caso?" "Ma certo." "L'anima allora, in qualunque cosa entri, porta
sempre la vita?" "Sì, certamente." "E c'è il contrario della vita o no?" "Sicuro
che c'è," disse. "E cos'è?" "La morte." "Non è forse vero, allora, che l'anima,
stando a quel che abbiamo ammesso prima, non può mai contenere il contrario di
ciò che reca con sé?" "Senza alcun dubbio," riconobbe Cebete.
LV
"Ancora? Ciò
che non riceve l'Idea del Pari, com'è che lo abbiamo chiamato poco fa?"
"Dispari," ammise. "E ciò che non accoglie l'Idea del Giusto o quella della
Cultura?" "Ingiusto il primo e Incolto il secondo," rispose. "E ciò che non può
avere in sé l'Idea della Morte, come dobbiamo chiamarlo?" "Immortale," disse. "E
l'anima, forse, non ha in sé la Morte?" "No." "Ma, allora, l'anima è immortale."
"Sì, immortale." "E, allora, proseguiamo, perché su questo ci siamo, non ti
pare?" "Ah, sì, sì, Socrate, in tutto e per tutto." "E allora, Cebete," riprese
Socrate, "se il Dispari fosse indistruttibile, non sarebbe, di conseguenza
indistruttibile anche il tre?" "E come no?" "E se anche il Freddo fosse
indistruttibile, se alla neve si accostasse il Caldo, questa non si ritirerebbe
intatta senza sciogliersi? Infatti, essa non potrebbe distruggersi né, d'altra
parte, star lì ferma a ricevere il calore." "È vero." "E così pure se fosse il
Caldo ad essere incorruttibile e al fuoco si avvicinasse il Freddo, certo esso
non potrebbe estinguersi o morire, ma se ne andrebbe via intatto." "Per forza."
"E, così, non è lo stesso per ciò che è immortale? Se l'immortale è
indistruttibile, non è possibile che l'anima muoia, quand'anche le si
avvicinasse la Morte; infatti, per quanto s'è detto, essa non accoglierà la
Morte, né sarà un'anima destinata a morire, così come il tre, dicevamo, non sarà
mai pari e tanto meno il fuoco può essere freddo e il calore che è nel fuoco. Ma
che cosa impedisce, potrebbe chieder qualcuno, che il Dispari, all'avvicinarsi
del Pari, anche se non diventa tale, cessi di esistere e, al suo posto, si
generi il Pari? A questa domanda, non potremmo sostenere che il Dispari, non
perisce. Infatti, esso non è indistruttibile; solo se noi avessimo convenuto
questo potremmo affermare facilmente che, quando sopravviene il Pari, il
Dispari, come del resto il tre, se ne vanno lontani; e così potremmo dire del
Fuoco e del Caldo e di ogni altra cosa. Non è così?" "Certamente." "Ma, ora,
tornando all'immortale, se siamo d'accordo che esso è indistruttibile, l'anima
oltre ad essere immortale sarà anche indistruttibile. Se, invece, non ne sei
persuaso, dovremo riprendere la questione tutta da capo." "Niente affatto,"
esclamò, "almeno su questo punto. Infatti, se l'immortale che è eterno, fosse
corruttibile, difficilmente si troverebbe qualcosa che non fosse anch'essa
tale."
LVI
"Io credo," proseguì Socrate, "che nessuno voglia ammettere che la
divinità, l'Idea stessa della vita o quanto d'immortale vi sia, possa morire."
"Ah, certo, nessuno," riconobbe Cebete, "né da parte nostra e tanto meno da
parte degli dei." "E dal momento che l'immortale è anche incorruttibile,
l'anima, se è immortale, non sarà incorruttibile anch'essa?" "Per forza." "E,
quindi, quando nell'uomo sopraggiunge la morte, la parte di lui che è mortale,
muore, ma ciò che è immortale se ne fugge intatto e si sottrae alla morte." "È
chiaro." "Tanto più, dunque," disse, "l'anima che è immortale e incorruttibile,
Cebete, e quindi, sicuramente, le nostre vivranno nell'Ade." "Per conto mio non
ho nulla da ridire, Socrate, né ho motivo di dubitare delle tue parole. Se,
però, Simmia o qualcun altro hanno da dire qualcosa, ebbene, che lo facciano e
che non se ne stiano lì, tutti zitti. Non so a quale altra occasione più
opportuna potrebbero rimandare la discussione su quest'argomento." "Sì,
anch'io," assicurò Simmia, "posso dire di non aver dubbi, dopo quanto s'è detto.
Certo è che l'ampiezza del problema e la poca fiducia che ho nella fragilità
dell'umana natura, mi fanno avere qualche riserva su quel che s'è concluso." E
Socrate: "Dici bene, Simmia, specie per quel che riguarda le nostre premesse
che, sebbene voi le abbiate accettate, devono comunque essere meglio
riesaminate. Quando voi le avrete analizzate a fondo, solo allora, credo,
potrete cogliere il problema nei suoi sviluppi, per quanto sia possibile a un
uomo; e quando ve ne sareste resi ben conto, non proseguirete più oltre nella
vostra ricerca." "È vero ciò che dici," concluse.
LVII
"È bene, però, amici,"
riprese Socrate, "che ora si consideri un'altra cosa, che cioè, se l'anima è
immortale, essa richiede delle cure e non solo per il tempo che chiamiamo vita
ma per l'eternità; non preoccuparsene sarebbe un grosso rischio. Se, infatti, la
morte fosse separazione da tutto, sarebbe una bella fortuna per i malvagi che,
una volta morti, verrebbero a trovarsi liberi del corpo e dell'anima e, quindi,
da tutte le loro iniquità. Dato che è chiaro, invece, che l'anima è immortale,
essa potrà avere nessun altro scampo dai mali, né salvezza se non col diventare,
quanto più è possibile, saggia e virtuosa, poiché l'anima quando giunge nell'al
di là, non ha null'altro che la sua formazione morale e il suo costume di vita,
cioè - a quanto si dice - soltanto quello che giova o nuoce moltissimo al
defunto, giunto alle soglie dell'eternità. A questo proposito si racconta che
quando uno è morto il suo demone che l'ha avuto in custodia durante la vita, ha
l'incarico di condurre la sua anima in un luogo prestabilito, dove si raccolgono
tutte le altre anime per essere giudicate. Da qui, spinte da colui che ha il
compito di accompagnarle, esse vanno verso le dimore dell'Ade. Qui, una volta
subita la sorte loro assegnata e trascorso un periodo di tempo stabilito,
un'altra guida le conduce nuovamente verso la terra ma questo attraverso un
vastissimo arco di tempo. È chiaro che il cammino non è come dice Telefo in
Eschilo, il quale assicura che una strada diritta conduce all'Ade; e, invece,
per me, essa non è né semplice, né una sola, perché, in tal caso, non ci sarebbe
bisogno di guida e nessuno sbaglierebbe direzione, se così fosse. Pare, invece,
che essa abbia molte diramazioni e biforcazioni; dico questo da quel che posso
arguire dai sacrifici e dai riti che si fari qui sulla terra. Dunque, l'anima
prudente e saggia segue la sua guida e non ignora il suo destino; quella che,
invece, è legata bramosamente al corpo, come dissi prima, per lungo tempo, resta
attratta violentemente al mondo sensibile e solo dopo molta resistenza e gran
patimenti se ne distacca, trascinata a forza e a fatica dal demone che le è
stato assegnato. Giunta, infine, dove sono le altre, impura com'è per le cattive
azioni commesse, per nefande uccisioni o altri delitti del genere che fanno il
paio con queste e son degni di anime simili, a quest'anima che tutti fuggono e
scansano, nessuno vuol far da guida e da compagno di viaggio ed essa se ne va,
così, errando disorientata, penosamente sola, fin quando non si sia maturato il
prescritto ordine d'anni e, fatalmente, allora, non sia condotta nel luogo che
le spetta. L'anima, invece, che ha trascorso una vita pura e sobria, trova gli
dei a guida e compagni di viaggio e pone la sua dimora nel luogo che le si
addice. Vi sono, poi, molti luoghi meravigliosi sulla terra che, peraltro, per
natura e dimensione non è affatto come la credono quelli che son soliti
parlarne: un tale, almeno, di questo m'ha convinto."
LVIII
"Che vuoi dire,
Socrate?" interruppe Simmia. "Anch'io ne ho sentito molte sulla terra ma la
teoria che t'ha convinto non la conosco e quindi ti ascolterei volentieri." "Ah,
non ci vuol mica l'arte di un Glauco per spiegartela; che risponda però, a
verità è un'altra questione e mi sembra molto difficile potertela dimostrare
anche se possedessi l'arte di un Glauco. E, poi, credo, che non ne sarei nemmeno
capace o, ammesso che lo fossi, il poco tempo che mi resta da vivere, Simmia,
non credo sarebbe sufficiente per l'ampiezza della questione. Tuttavia posso,
però, benissimo parlarti dell'aspetto esteriore della terra e delle sue regioni,
almeno per quel che ne so." "Ma sì," fece Simmia, "sarà più che sufficiente."
"Io, prima di tutto, son convinto di una cosa," riprese Socrate, "che se la
terra è al centro dell'universo ed è rotonda, essa, per non cadere, non ha
bisogno né dell'aria, né di alcun altro sostegno del genere; ma ciò che basta a
reggerla è l'omogeneità costante dell'universo e il perfetto equilibrio della
terra stessa. Infatti, una cosa equilibrata, posta al centro di una sostanza
omogenea, non potrà mai inclinarsi da nessuna parte, né poco né tanto ma,
risultando essa stessa omogenea, resterà immobile. Prima di tutto io di questo
sono convinto." "E giustamente," riconobbe Simmia. "Poi," riprese, "ritengo che
la terra sia grandissima e che noi, dal Fasi alle colonne d'Ercole, non ne
abitiamo che una ben piccola parte, solo quella in prossimità del mare, come
formiche o rane intorno a uno stagno; e molti altri popoli vivono anch'essi in
regioni un po' simili alle nostre. Infatti, sparse su tutta la superficie
terrestre vi sono cavità di ogni specie, per forma e per grandezza, nelle quali
si raccolgono l'acqua, la nebbia e l'aria. Ma la terra vera e propria, la terra
pura si libra nel cielo limpido, dove son gli astri, in quella parte chiamata
etere da coloro che sogliono discutere di queste questioni; ciò che confluisce
continuamente nelle cavità terrestri non è che un suo sedimento. Noi che viviamo
in queste fosse non ce ne accorgiamo e crediamo di essere alti sulla terra, come
uno che stando in fondo al mare credesse di essere alla superficie e vedendo il
sole e le altre stelle attraverso l'acqua, scambiasse il mare per il cielo;
costui non è mai riuscito, per inerzia o debolezza, a salire alla superficie del
mare e non ha mai, così, potuto osservare, emergendo dalle onde e sollevando il
capo verso la nostra dimora, quanto essa fosse più pura e più bella della sua,
né ha sentito mai parlarne da qualcuno che l'abbia vista. È quello che capita
anche a noi: relegati in qualche cavità della terra, crediamo di abitare in
alto, sulla sua sommità e chiamiamo cielo, l'aria, convinti come siamo che esso
sia lo spazio dove si volgono gli astri; il caso è identico e anche noi, per
debolezza e inerzia, siamo incapaci di attraversare gli strati dell'aria, fino
ai più eccelsi; se potessimo giungere fin lassù o aver l'ali per volare in alto,
noi vedremmo, levando il capo, le cose di lassù, come i pesci che, emergendo
dalle onde, vedono quanto accade quaggiù; e se le nostre facoltà fossero in
grado di sostenerne la vista, noi riconosceremmo che il vero cielo è quello,
quella la vera luce e la vera terra. Perché questa nostra terra, le sue pietre e
tutta quanta la regione che abitiamo, sono guaste e corrose come, dalla
salsedine, quelle sommerse nel mare; nulla nasce nel mare di cui valga la pena
parlare, nulla che sia, per così dire, perfetto, ma dirupi e sabbie e distese di
fango e pantani ovunque, anche dove c'è terra, insomma, cose che non si possono
per nulla paragonare alle bellezze che abbiamo noi; quelle di lassù, poi, sono
di gran lunga superiori alle nostre. E sarà bello come ascoltare una favola,
Simmia, sentir parlare di queste terre vicine al cielo." "Oh, sì, Socrate,"
esclamò Simmia, "e noi ascolteremo volentieri questa favola."
LIX
"Ecco, amico
mio, quel che si dice, che per prima cosa questa vera terra, a chi la guardi
dall'alto, appare come una di quelle variopinte sfere di cuoio, divise in dodici
spicchi, dai colori diversi, simili questi, appena, a quelli che di solito usano
quaggiù i pittori. E quella terra lassù, tutta di questi colori è dipinta, ma
molto più luminosi e più puri dei nostri: ora, infatti, è purpurea, di una
meravigliosa bellezza, ora è color dell'oro o tutta bianca, più bianca del gesso
e della neve, e gli altri colori, poi, di cui è composta, assai più numerosi e
più belli di quanti noi mai ne abbiamo visti. E le stesse cavità della terra,
colme corsie son d'acqua e d'aria, assumono una colorazione particolare nella
gamma variopinta degli altri colori, così che la terra appare in una sua
tonalità cangiante e uniforme insieme. E, in modo analogo, crescono i prodotti
che le si addicono, alberi, fiori, frutti; e le montagne, poi e le pietre, nella
stessa proporzione, sono come di smalto, trasparenti, dai vividi colori, di una
bellezza estrema; le nostre pietruzze di quaggiù, quelle che teniamo in gran
conto, sardonici, diaspri e simili, ne sono i frammenti. Lassù, insomma, non v'è
nulla che non sia come queste nostre gemme, anzi tutto è ancora più bello. E la
ragione è che lì le pietre sono pure, non corrose, né guaste, come le nostre,
dalla putredine e dalla salsedine che son prodotte da tutto ciò che quaggiù
confluisce e che apportano deformazioni e malattie alle rocce, alla terra, agli
animali e così pure alle piante. E quella terra non è soltanto ornata di tutte
queste bellezze ma anche d'oro e d'argento e d'altri metalli del genere. Essi si
trovano alla superficie, in gran quantità, dovunque, ed è una visione
meravigliosa concessa a spettatori beati. E vi sono anche molti animali diversi
da quelli di qui e uomini, poi, che abitano all'interno, altri sulle rive
dell'aria, come noi, qui, su quelle del mare e altri ancora in isole avvolte
d'aria, non lungi dal continente. In una parola, quello che per noi, per i
nostri bisogni, è l'acqua e il mare, per loro è, l'aria e ciò che è l'aria per
noi, per loro è l'etere. E le stagioni son così temperate che quella gente non
conosce malattie e vive una vita assai più lunga della nostra. Ed è così
superiore a noi per la vista, per l'udito, per l'intelligenza, per ogni altra
facoltà, come l'aria lo è per purezza rispetto all'acqua e l'etere all'aria. Lì
vi sono anche boschi sacri e templi, dove realmente abitano gli dei e si
avverano oracoli e profezie, per cui, veramente, quegli uomini hanno contatti
visibili e rapporti concreti con le divinità. E il sole, la luna e le stelle
essi li vedono come sono in realtà e v'è ogni altra beatitudine che s'accompagna
a queste cose.
LX
"Così appare, dunque, la terra nel suo insieme e negli aspetti
particolari della sua superficie. Nelle zone interne e disposte tutt'intorno, in
corrispondenza delle cavità terrestri, vi sono molte regioni, alcune più
profonde e più vaste di quella che abitiamo noi, altre ancora di profondità
minore ma più estese. Tutte queste regioni sono, in molti luoghi, comunicanti
tra loro attraverso gallerie più o meno larghe. Vi sono cunicoli profondi per
dove molta acqua passa da una regione all'altra come in grandi bacini e fiumi
perenni, sotterranei, di enorme grandezza, che portano acque calde e fredde; e
molto fuoco, fiumi di fuoco e, molti, anche di fango, ora più liquido, ora più
denso, come in Sicilia quelli che scorrono davanti alla lava, simili alla lava
stessa. E tutti sboccano, questi fiumi, in quelle regioni e le colmano dove, di
volta in volta, la corrente li riversa; e la causa di questo, di tutti questi
fiumi che vanno su e giù, è data da un movimento pendolare sotterraneo dovuto al
fatto che fra le tante voragini della terra, ce n'è una, la più vasta, che la
perfora da parte a parte, quella di cui parla Omero53 quando dice: ‹molto
lontano, dove sotterra c'è un baratro immenso› quella, insomma, che non solo
lui, in altri passi, ma anche altri poeti, chiamano Tartaro. In questo baratro
confluiscono tutti i fiumi per poi, nuovamente, defluire e ciascuno di essi
assume un proprio aspetto a seconda la natura del terreno che attraversa. Il
motivo per cui tutte queste acque correnti piombano in questo baratro e né
tornano a sgorgare è che questa gran massa d'acqua non ha né un fondo né una
base ma resta come sospesa e ondeggia, quindi, su e giù. Lo stesso è per l'aria
e il vapore che la circonda: esso segue, infatti, il corso delle acque, sia
quando precipitano verso la parte opposta della terra che quando ritornano in su
verso la nostra: un po' come quando noi respiriamo, che provochiamo un continuo
flusso e deflusso d'aria, così anche laggiù, il vapore, seguendo il moto delle
acque, dà origine, quando entra e quando esce, a terribili venti vorticosi.
Orbene, quando l'acqua si ritira verso l'emisfero comunemente detto meridionale,
affluisce, attraverso la terra, nei ghiareti di laggiù e li riempie come se
fossero canali d'irrigazione; quando, invece, defluisce da lì e irrompe nel
nostro emisfero, allora, colma i greti che son qui e, gonfia, scorre nei canali
attraverso la terra giungendo fin dove riesce a scavarsi una strada e forma
mari, laghi, fiumi e sorgenti. Da qui, nuovamente, tutte quelle acque si
inabissano nella terra e, dopo aver percorso giri ora più brevi ora più lunghi e
numerosi, si riversano ancora nel Tartaro; alcune molto più in giù del punto da
cui erano sgorgate, altre meno, ma sempre tutte si gettano in un punto più basso
di quello da cui, prima, scaturirono. Talvolta irrompono dalla parte opposta,
altre volte dalla medesima. Ve ne sono, poi, alcune che, dopo aver circondato la
terra con uno o più giri, a spirale, come serpenti penetrano così in profondità
da sfociare, poi, nel punto più basso del Tartaro. È possibile, ora, per queste
acque, da una parte e dall'altra dei due emisferi, scendere verso il centro ma
non andar oltre perché, dal centro, le correnti, se volessero proseguire verso
la parte opposta, troverebbero una salita.
LXI
"In conclusione ve ne sono tanti
di fiumi d'ogni specie e molto grandi e tra questi, soprattutto quattro, di cui
il più grande e quello che scorre più esternamente, e quindi più lontano dal
centro, vien chiamato Oceano. Dalla parte opposta, e con un corso contrario, c'è
l'Acheronte che attraversa regioni desertiche e poi prosegue sotto terra per
giungere alla palude acherusiade dove si raccolgono le infinite anime dei morti
che dopo quel certo tempo a loro destinato, più o meno lungo, vengono restituite
alla luce per incarnarsi in esseri viventi. Il terzo fiume sgorga tra questi due
e, dopo un breve percorso, si riversa in una grande pianura arsa tutta da un
fuoco violento e forma una palude più grande del nostro mare, tutta ribollente
d'acqua e di fango; da qui scorre circolarmente, torbido e fangoso e, sempre
sotto terra, volge a spirale il suo corso e giunge, dopo aver attraversato
diverse zone, alle estreme rive della palude acherusiade ma senza mescolarsi
alle sue acque; e dopo molti altri giri sotterranei, si getta in un punto del
Tartaro che è più in basso. Questo è il fiume che chiamano Periflegetonte e che
riversa sulla terra torrenti di lava dovunque trovi uno sbocco. Di fronte gli
scaturisce il quarto fiume che dilaga, a quanto si dice, in una regione
spaventosa e selvaggia, dal colore blu cupo, che chiamano Stigia e Stige la
palude che esso forma con le sue acque. Qui riversandosi, da quelle acque
acquista terribile violenza, poi s'inabissa e scorre a spirale, in senso
contrario al Periflegetonte, fino a toccare, dalla parte opposta, le sponde
della palude acherusiade; ma nemmeno que-sto fiume vi mescola le sue correnti e,
dopo aver compiuto un largo giro, si getta nel Tartaro dalla parte opposta al
Periflegetonte. Il suo nome, così almeno lo chiamano i poeti, è Cocito.
LXII
"Questa è, dunque, la disposizione dei fiumi e quando i morti giungono,
ciascuno, in quel luogo dove il demone li ha guidati, prima di tutto vengono
giudicati e distinti secondo che vissero o meno onestamente e santamente. Quelli
che nella vita tennero, invece, una condotta mediocre, giunti all'Acheronte,
salgono su delle barche già pronte per loro e arrivano alla palude acherusiade e
lì si fermano per purificarsi e scontare le loro pene e liberarsi delle colpe se
mai ne hanno commesse, dove però ricevono anche il premio delle buone azioni
compiute, ciascuno secondo il suo merito. Ma quelli che sono stati riconosciuti
peccatori senza rimedio, per la gravità dei loro delitti, per numerosi sacrilegi
, per ingiuste e crudeli uccisioni o altri misfatti del genere, un giusto
destino li precipita nel Tartaro, da dove non escono mai più. Quelli poi i cui
peccati, sebbene gravi, son giudicati espiabili, per esempio chi nell'impeto
dell'ira è stato violento contro il padre e la madre, ma poi ha trascorso in
pentimento il resto della sua vita o chi ha commesso qualche omicidio sotto lo
stesso impulso, costoro precipitano anch'essi nel Tartaro ma vi restano soltanto
un anno, perché l'onda li ricaccia fuori, gli omicidi, nella corrente del
Cocito, i violenti contro il padre e la madre, in quella del Periflegetonte;
così sospinti, giungono alla palude acherusiade e qui chiamano con alte grida e
invocano coloro che uccisero e che oltraggiarono, pregandoli di lasciarli
passare nella palude e di accoglierli con loro; se riescono a persuaderli,
passano al di là e le loro pene finiscono, altrimenti sono risospinti nuovamente
nel Tartaro e ancora nei fiumi a patire il loro destino fino a quando non siano
riusciti a piegare quelli che hanno offeso: è questa, infatti, la pena che per
costoro han voluto i giudici. Quelli, invece, che si son distinti per santità di
vita, e che son poi coloro che si son liberati da questa terra e se ne sono
allontanati come da un carcere, giungono in alto, in una pura dimora e abitano
la vera terra. E specialmente quelli che si son purificati attraverso la
filosofia, vivono sciolti da ogni legame corporeo, per l'eternità, anzi giungono
in sedi ancor più belle di queste che non è facile descrivere e del resto ne
mancherebbe, ora, anche il tempo. "Quindi, Simmia, dopo questo che ti ho detto,
bisogna far di tutto per acquistare nella vita virtù e sapienza: perché il
premio è bello e la speranza è grande.
LXIII
"Certamente, affannarsi a
dimostrare che le cose stanno proprio così come io le ho esposte, non mi pare
troppo assennato; ma che sia questa la sorte delle nostre anime, questa la loro
dimora o presso a poco, dal momento che s'è indiscutibilmente dimostrato la loro
immortalità, mi sembra che valga proprio il rischio di crederlo. Bello, infatti,
è questo rischio e, in simili argomenti v'è, per così dire, come un incantesimo
che bisogna fare a se stessi, ecco perché, da un pezzo mi sto indugiando nel mio
racconto. Ma ecco anche perché deve aver fede nella sorte della sua anima chi
nella vita ha allontanato i piaceri del corpo e i suoi vezzi, considerandoli del
tutto estranei, anzi più dannosi che altro; chi ha goduto, invece, dei piaceri
che dà la sapienza, chi ha abbellito la sua anima non di ornamenti esteriori ma
di quelli che le si addicono, temperanza, giustizia, fortezza, libertà, verità,
costui sì che attende il momento di mettersi in viaggio verso l'Ade, quando lo
chiami il destino." E così concluse: "Anche voi, Simmia e Cebete e tutti gli
altri, ve ne partirete, uno alla volta, quando verrà la vostra ora; quanto a me,
invece, il destino già mi chiama, direbbe qui un eroe tragico, e quindi, quasi
quasi è il momento che io faccia un bagno: è più giusto, infatti, che mi lavi da
me, prima di bere il veleno e non dar così il fastidio alle donne di dover
lavare un cadavere."
LXIV
Ebbe appena finito che Critone gli chiese: "Hai da
darci qualche disposizione, Socrate, sui tuoi ragazzi o cosa possiamo fare per
te, che ti sia maggiormente gradita?" "Non ho nulla di nuovo da dirvi," rispose,
"se non quello che vi ho sempre detto: abbiate cura di voi stessi e così farete
cosa gradita a me e a voi, anche se ora non mi dovete promettere nulla; se,
invece, vi lascerete andare, se non sarete disposti a seguire, per così dire, le
tracce di quanto s'è detto, non solo ora ma anche per il passato, se pure adesso
venite a farmi molte e solenni promesse, non concluderete un bel niente." "Ce la
metteremo tutta a far come tu dici," assicurò. "Ma per i tuoi funerali, che
dobbiam fare?" "Ma fate come volete, sempre che riusciate ad afferrarmi e che io
non vi sfugga." Sorrise serenamente e volgendo gli occhi verso di noi,
soggiunse: "Non mi riesce, amici, di persuadere Critone che il vero Socrate sono
proprio io, questo che, ora, vi sta parlando, che sta mettendo in buon ordine,
per benino, i suoi pensieri; invece, egli crede che io sia già un altro, quello
che tra poco vedrà cadavere e perciò mi chiede cosa fare per i miei funerali. E
tutto il lungo discorso che vi ho fatto, che cioè, dopo che ho bevuto il veleno,
io non me ne starò più con voi ma me ne andrò, via di qui, verso la felicità dei
beati, mi pare proprio che per lui sia stato inutile, fatto solo per consolare
voi e, a un tempo, un po' anche me stesso. Fatevi voi, ora, garanti di me verso
Critone, ma del contrario di ciò che in mio nome egli garantì ai giudici, che
cioè non sarei fuggito; voi, invece, assicurategli che io non rimarrò qui dopo
morto ma che me ne partirò, così che Critone potrà sopportare più facilmente la
cosa e non dolersi troppo per me vedendo bruciare o seppellire il mio corpo,
come se stessi soffrendo chissà quali atroci tormenti e non dire, magari,
durante i funerali che è il suo Socrate che egli espone, che sta portando via e
che va a seppellire. "Devi, infatti, sapere, mio caro Critone, che parlare in
modo scorretto, non solo è brutto di per sé ma danneggia anche le anime. Suvvia,
non avere, di queste preoccupazioni, quindi e di', piuttosto, che è solo il mio
corpo che seppellisci e perciò fa come credi, come meglio vuole l'usanza."
LXV
Detto questo si alzò e andò in un'altra stanza per lavarsi e Critone che gli
andò dietro ci disse di aspettare. Così noi rimanemmo e ci mettemmo a discutere
e a ripensare su quel che s'era detto e, inoltre, sulla grande disgrazia che
c'era capitata, sentendoci, veramente, come se avessimo perduto un padre e
dovuto trascorrere, ormai, da orfani, tutta la vita. Quand'ebbe finito il bagno,
gli condussero i figliuoletti (ne aveva due ancora piccoli e uno più
grandicello) e vennero anche le donne di casa; egli si intrattenne un po' con
loro, alla presenza di Critone, fece qualche raccomandazione, poi le pregò di
allontanarsi con i bambini e tornò da noi. Era stato parecchio di là e, perciò,
il sole stava ormai tramontando. Tornò, dunque, dopo il bagno e si venne a
sedere, ma da quel momento scambiò soltanto qualche parola. Poi entrò il
funzionario degli Undici che gli andò vicino e gli disse: "Socrate, con te, non
mi toccherà quello che spesso mi capita con gli altri, che se la prendono con me
e mi maledicono, quando porto loro il veleno per ordine dei magistrati. In tutti
questi giorni, invece, io ho capito che tu sei l'uomo più nobile, più mite, più
buono di quanti sono entrati finora qua dentro; io so benissimo, ora, che tu non
ce l'hai con me ma con i responsabili e tu li conosci bene. E, ora, addio,
perché sai quel che son venuto ad annunziarti e cerca di sopportare come meglio
puoi la tua sorte." Non finì di parlare che gli venne da piangere, si voltò
dall'altra parte e se ne andò. Socrate lo seguì con lo sguardo: "Addio anche a
te," disse. "faremo come tu dici." E rivolto a noi, "che brav'uomo che è; in
tutti questi giorni è venuto a trovarmi e, spesso, s'è messo anche a parlare con
me, proprio una degna persona e ora, che caro, con quel suo pianto. Ma via,
Critone, obbediamogli, che portino il veleno, se è già stato preparato;
altrimenti che facciano presto." E Critone: "Ma Socrate, se non mi sbaglio, il
sole non è mica tramontato, è ancora sui monti, e io so di gente che ha
aspettato un bel pezzo prima di bere il veleno, anzi dopo aver mangiato e bevuto
e, alcuni, magari, dopo esser rimasti con chi volevano. Quindi, non aver fretta,
c'è ancora tempo." E Socrate: "Ma è naturale, Critone, che questi tali di cui
parli, facciano così, perché credono di guadagnarci qualcosa. Ma è anche
naturale che io mi comporti diversamente perché so che non ci guadagno nulla a
bere un po' più tardi se non di rendermi ridicolo a me stesso mostrandomi cosi
attaccato alla vita, cercando di risparmiarla, proprio quando non resta più
nulla. Va, dunque," concluse, "e fa come ti dico."
LXVI
E Critone, allora, fece
cenno a un suo servo che se ne stava in disparte. Questi uscì e dopo un po'
tornò con l'uomo che, in una ciotola, portava già tritato il veleno che doveva
somministrargli. "Tu, brav'uomo, che sei pratico di queste cose," disse Socrate
vedendolo, "cos'è, allora, che bisogna fare?" "Nient'altro che bere e poi
passeggiare un po' per la stanza finché non ti senti le gambe pesanti; poi ti
metti disteso e così farà il suo effetto." Così dicendo porse la ciotola a
Socrate. La prese, Echecrate, con tutta la sua serenità, senza alcun tremito,
senza minimamente alterare colore o espressione del volto, ma guardando
quell'uomo, di sotto in sù, con quei suoi occhi grandi di toro. "Che ne dici di
questa bevanda, se ne può fare o no libagione a qualcuno? È permesso?" "Socrate,
noi ne tritiamo giusta la quantità che serve." "Capisco, ma pregare gli dei che
il trapasso da qui all'al di là, avvenga felicemente, questo mi pare sia lecito;
questo io voglio fare e così sia." Così dicendo, tutto d'un fiato, vuotò
tranquillamente la ciotola. Molti di noi che fino allora, alla meglio, erano
riusciti a trattenere le lacrime, quando lo videro bere, quando videro che egli
aveva bevuto, non ce la fecero più; anche a me le lacrime, malgrado mi
sforzassi, sgorgarono copiose e nascosi il volto nel mantello e piansi me
stesso, oh, piansi non per lui ma per me, per la mia sventura, di tanto amico
sarei rimasto privo. Critone, poi, ancora prima di me, non riusciva a dominarsi
e s'era alzato per uscire. Apollodoro, poi, che fin dal principio non aveva
fatto che piangere, scoppiò in tali singhiozzi e in tali lamenti che tutti noi
presenti ci sentimmo spezzare il cuore, tranne uno solo, Socrate, anzi: "Ma che
state facendo?" esclamò. "Siete straordinari. E io che ho mandato via le donne
perché non mi facessero scene simili; a quanto ho sentito dire, bisognerebbe
morire tra parole di buon augurio. State calmi, via, e siate forti." E noi,
provammo un senso di vergogna a sentirlo parlare così e trattenemmo il pianto.
Egli, allora, andò un po' su e giù per la stanza, poi disse che si sentiva le
gambe farsi pesanti e cosi si stese supino come gli aveva detto l'uomo del
veleno il quale, intanto, toccandolo dì quando in quando, gli esaminava le gambe
e i piedi'e a un tratto, premette forte un piede chiedendogli se gli facesse
male. Rispose di no. Dopo un po' gli toccò le gambe, giù in basso e poi,
risalendo man mano, sempre più in su, facendoci vedere come si raffreddasse e si
andasse irrigidendo. Poi, continuando a toccarlo: "Quando gli giungerà al
cuore," disse, "allora, sarà finita." Egli era già freddo, fino all'addome,
quando si sco-. prì (s'era, infatti, coperto) e queste furono le sue ultime
parole: "Critone, dobbiamo un gallo ad Asclepio, dateglielo, non ve ne
dimenticate." "Certo," assicurò Critone, "ma vedi se hai qualche altra cosa da
dire." Ma lui non rispose. Dopo un po' ebbe un sussulto. L'uomo lo scoprì: aveva
gli occhi fissi. Vedendolo, Critone gli chiuse le labbra e gli occhi. Questa,
Echecrate, la fine del nostro amico, un uomo che fu il migliore, possiamo ben
dirlo, fra quanti, del suo tempo, abbiamo conosciuto e, senza paragone, il più
saggio e il più giusto.