Lezioni



CLASSE   V   -   Testi di Storia (8)

 

LA SECONDA GUERRA MONDIALE

 

 

FONTI

 

 

Mussolini dichiara guerra alla Gran Bretagna e alla Francia

 

Il 10 giugno 1940 in occasione della dichiarazione di guerra alla Gran Bretagna e alla Francia, Mussolini pronunciò un discorso, pubblicato su tutti i giornali, che è un classico esempio di come la guerra venisse presentata come bellum iustum, cioè conflitto giusto e necessario. La vera motivazione era, in realtà, il timore di rimanere esclusi dalla organizzazione del nuovo ordine europeo che Hitler sembrava voler disegnare.
Mussolini fece leva su concetti ampiamente sfruttati dalla propaganda di regime, come l'ostilità dei paesi «plutocratici» (Gran Bretagna e Francia) e l'immagine di un'Italia «proletaria».

 

Combattenti di terra, di mare e dell'aria! Camicie nere della rivoluzione e delle legioni! Uomini e donne d'Italia, dell'impero e del regno d'Albania! Ascoltate! Un'ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L'ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata (Grida altissime di "Guerra! Guerra!") agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell'occidente che, in ogni tempo, hanno ostacolato la marcia, e spesso insidiato l'esistenza medesima del popolo italiano. Alcuni lustri della storia più recente si possono riassumere in queste frasi: promesse, minacce, ricatti e, alla fine, quale coronamento dell'edificio, l'ignobile assedio societario di cinquantadue stati. La nostra coscienza è assolutamente tranquilla. Con voi il mondo intero è testimone che l'Italia del littorio ha fatto quanto umanamente possibile per evitare la tormenta che sconvolge l'Europa; ma tutto fu vano. Bastava rivedere i trattati per adeguarli alle mutevoli esigenze della vita delle nazioni e non considerarli intangibili per l'eternità; bastava non iniziare la stolta politica delle garanzie, che si è palesata soprattutto micidiale per coloro che le hanno accettate; bastava non respingere la proposta che il Führer fece il 6 ottobre dell'anno scorso, dopo la finita campagna di Polonia. Oramai tutto ciò appartiene al passato. Se poi oggi siamo decisi ad affrontare i rischi e i sacrifici di una guerra, gli è che l'onore, gli interessi, l'avvenire ferreamente lo impongono, poiché un grande popolo è veramente tale se considera sacri i suoi impegni e se non evade dalle prove supreme che determinano il corso della storia. Noi impugniamo le armi per risolvere, dopo il problema risolto delle nostre frontiere continentali, il problema delle nostre frontiere marittime; noi vogliamo spezzare le catene di ordine territoriale che ci soffocano nel nostro mare, poiché un popolo di quarantacinque milioni di anime non è veramente libero se non ha libero accesso all'oceano. Questa lotta gigantesca non è che una fase dello sviluppo logico della nostra rivoluzione; è la lotta dei popoli poveri e numerosi di braccia contro gli affamatori che detengono ferocemente il monopolio di tutte le ricchezze e di tutto l'oro della terra; è la lotta dei popoli fecondi e giovani contro i popoli isteriliti e volgenti al tramonto; è la lotta tra due secoli e due idee. Ora che i dadi sono gettati e la nostra volontà ha bruciato alle nostre spalle i vascelli, io dichiaro solennemente che l'Italia non intende trascinare nel conflitto altri popoli con essa confinanti per mare o per terra. Svizzera, Jugoslavia, Grecia, Turchia, Egitto prendano atto di queste mie parole e dipende da loro, soltanto da loro, se esse saranno o no rigorosamente confermate. Italiani! In una memorabile adunata, quella di Berlino, io dissi che, secondo le leggi della morale fascista, quando si ha un amico si marcia con lui fino in fondo. ("Duce! Duce! Duce!") Questo abbiamo fatto con la Germania, col suo popolo, con le sue meravigliose forze armate. In questa vigilia di un evento di una portata secolare, rivolgiamo il nostro pensiero alla maestà del re imperatore che, come sempre, ha interpretato l'anima della patria. E salutiamo alla voce il Führer, il capo della grande Germania alleata (Il popolo acclama lungamente all'indirizzo di Hitler.) L'Italia proletaria e fascista, è per la terza volta in piedi, forte, fiera e compatta come non mai. (La folla grida: "Sì!") La parola d'ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola e accende i cuori dalle Alpi all'Oceano indiano: VINCERE! (il popolo prorompe in altissime acclamazioni.) E vinceremo, per dare finalmente un lungo periodo di pace con la giustizia all'Italia, all'Europa, al mondo. Popolo italiano! Corri alle armi, e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo valore!

 

B. Mussolini, Dichiarazione di guerra a Gran Bretagna e Francia, "Corriere della Sera", 11 giugno 1940.

 

La Carta Atlantica come difesa della libertà dei popoli

 

Il 14 agosto 1941 il presidente degli Stati Uniti Roosevelt e il primo ministro inglese Churchill si incontrarono su una nave da guerra ancorata in una baia dell'isola di Terranova, in Canada. Nell'incontro venne redatto un documento, inteso come una risposta al Patto Tripartito: il suo fondamento risiede nella volontà di garantire i principi della libertà nel mondo.
A tale dichiarazione aderirono in seguito tutti i governi alleati, anche quello sovietico; la Carta Atlantica diverrà uno dei documenti che ispireranno la Carta dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU).

 

Dichiarazione congiunta del Presidente degli Stati Uniti d'America e del Primo Ministro Signor Churchill, rappresentante del Governo di Sua Maestà del Regno Unito, i quali, in occasione del loro incontro, ritengono opportuno render noti taluni principii comuni alla politica nazionale dei rispettivi paesi, sui quali essi fondano le loro speranze di un avvenire migliore per il mondo.
I - I loro Paesi non aspirano a ingrandimenti territoriali o di altra natura;
II - Essi non desiderano consentire a mutamenti territoriali che non siano conformi ai voti liberamente espressi dai popoli interessati;
III - Essi rispettano il diritto di tutti i popoli a scegliersi la forma di governo sotto la quale vogliono vivere e desiderano vedere restaurati i diritti sovrani e l'autonomia di quei popoli che ne sono stati privati con la forza;
IV - Essi cercheranno di promuovere, col dovuto rispetto dei loro obblighi attuali, la partecipazione da parte di tutti gli Stati, grandi o piccoli, vincitori o vinti, in condizioni di parità, al commercio e l'accesso alle materie prime del mondo, che sono necessarie alla loro prosperità economica;
V - Essi desiderano attuare la più piena collaborazione, nel campo economico, fra tutte le nazioni al fine di assicurare a tutti migliori condizioni di lavoro, progresso economico e sicurezza sociale;
VI - Dopo la distruzione definitiva della tirannide nazista, essi sperano di veder stabilita una pace che consenta a tutte le nazioni di vivere sicure entro i propri confini, e dia la certezza che tutti gli uomini, in tutti i paesi, possano vivere la loro vita liberi dal timore e dal bisogno;
VII - Una pace del genere dovrebbe permettere a tutti gli uomini di attraversare senza ostacoli i mari e gli oceani;
VIII - Essi credono che tutte le nazioni del mondo, per ragioni sia materiali sia spirituali, debbano addivenire alla rinunzia dell'impiego della forza. Poiché non sarà possibile conservare in avvenire la pace, qualora armamenti terrestri, navali ed aerei continuino ad essere impiegati da nazioni che minaccino, o possano minacciare aggressioni fuori dei loro confini, essi ritengono che in attesa che sia stabilito un più vasto e permanente sistema di sicurezza generale, il disarmo di tali nazioni sia indispensabile. Essi inoltre appoggeranno ed incoraggeranno tutte le altre misure pratiche che possano alleviare ai popoli amanti della pace il peso schiacciante degli armamenti.
14 agosto 1941

 

Carta Atlantica

 

La Conferenza di Wannsee

 

Questo testo sconcertante, risalente al gennaio 1942, contiene la pianificazione del genocidio di undici milioni di Ebrei in Europa, voluto dalle autorità naziste.
Lo stile del testo è pacatamente burocratico.

 

[...]
II. In apertura di seduta il capo della polizia di sicurezza e del SD, il tenente generale delle SS Heydrich, riferisce di essere stato designato dal maresciallo del Reich, quale incaricato alla preparazione della Soluzione finale del problema ebraico in Europa, sottolineando che gli ufficiali sono stati invitati alla conferenza per chiarire i problemi fondamentali. [...] La responsabilità primaria della gestione amministrativa della Soluzione finale del problema ebraico sarà affidata essenzialmente al comandante delle SS del Reich e al capo della polizia tedesca (polizia di sicurezza e SD), indipendentemente dai confini geografici. [...]
III. Il programma di emigrazione è stato ora sostituito dall'evacuazione degli ebrei ad Est, come ulteriore possibilità di soluzione, conformemente alla previa autorizzazione da parte del Führer. Si tratta ovviamente di azioni da considerarsi esclusivamente temporanee; tuttavia, già qui la prossima Soluzione finale della questione ebraica è di importanza fondamentale. Secondo questa Soluzione finale, sono interessati circa 11 milioni di ebrei, distribuiti tra i singoli paesi nel seguente modo.
[... Segue un calcolo della presenza ebraica paese per paese]
Nella popolazione ebraica le cifre sono fornite per i vari Paesi esteri; tuttavia sono comprese solo quelle di fede ebraica, in quanto mancano ancora le condizioni essenziali per definire gli ebrei in base alla razza. Secondo la Soluzione finale, sotto la direzione di chi di dovere gli ebrei dovrebbero essere ora condotti all'Est per essere usati come manodopera. Riuniti in squadre di lavoro, con separazione dei sessi, gli ebrei in grado di lavorare vengono portati in quelle aree per essere impiegati nella costruzione di strade, in cui indubbiamente una gran parte subirà una naturale diminuzione. Chi riuscirà a sopravvivere a tutto questo — saranno certamente i più resistenti — deve essere trattato di conseguenza: queste persone, che rappresentano il frutto di selezione naturale, devono essere considerate la cellula germinale di un nuovo sviluppo ebreo (si veda l'esperienza della storia). Nel programma per l'esecuzione pratica della Soluzione finale, l'Europa sarà completamente rastrellata da Ovest verso Est. L'area del Reich, compreso il Protettorato di Boemia e Moravia, dovrà essere presa per prima, da sola, per il problema dell'alloggiamento e per altre necessità sociali e politiche. Gli ebrei evacuati vengono prima portati, gruppo per gruppo, nei cosiddetti ghetti di transito, per essere successivamente trasferiti all'Est. [...]
IV. Secondo i piani della Soluzione finale, le leggi di Norimberga costituiscono in un determinato grado la base, e di conseguenza l'impostazione globale del problema comporta che si includa anche la soluzione dei matrimoni misti e del problema dei Mischling ["mezzosangue", coloro che avevano un genitore ariano e uno ebreo]. [...] Il generale Hofmann è del parere che si debba fare un vasto uso della sterilizzazione, soprattutto perché i Mischling, dovendo scegliere tra l'evacuazione e la sterilizzazione, preferirebbero sottoporsi alla sterilizzazione. Il segretario di Stato Dr. Stuckart afferma che l'esecuzione pratica delle possibilità appena discusse per risolvere il problema dei matrimoni misti e dei Mischling, implicherebbe in questo modo un lavoro amministrativo infinito. D'altra parte, anche per tenere in considerazione in ogni caso le realtà biologiche il Dr. Stuckart ha proposto di rendere obbligatoria la sterilizzazione. Per semplificare il problema dei matrimoni misti, devono essere considerate ulteriori possibilità, per esempio che la legge possa dire: "Questi matrimoni dovranno essere considerati disciolti". Per quanto riguarda il problema dell'effetto che l'evacuazione degli ebrei avrà sulla vita economica, il segretario di Stato Neumann ha dichiarato che gli ebrei impiegati in importanti industrie belliche non potranno per il momento essere evacuati, fino a che non vi saranno nuovi rimpiazzi. Il generale di brigata delle SS Heydrich ha evidenziato che quegli ebrei, secondo le direttive da lui approvate per l'esecuzione delle attuali evacuazioni, non saranno evacuati. Il segretario di Stato Dr. Bühler afferma che il Governatorato generale accoglierebbe con favore l'avvio della Soluzione finale di questo problema nel suo territorio, in quanto qui una volta tanto il problema del trasporto non è da considerarsi preminente, e le considerazioni sugli impegni di lavoro non ostacolerebbero il corso delle operazioni. Gli ebrei dovrebbero essere trasferiti al più presto dal territorio del Governatorato generale perché proprio qui l'ebreo costituisce un pericolo immane come portatore di malattie e inoltre semina costantemente il disordine nella struttura economica del Paese con le sue attività di mercato nero. C'è da aggiungere, ancora, che dei quasi due milioni e mezzo di ebrei in questione, la maggior parte di essi è ritenuta non idonea al lavoro. Il segretario di Stato Bühler sostiene inoltre che la soluzione del problema ebraico nel Governatorato generale è sostanzialmente di responsabilità del capo della polizia di sicurezza e del SD ed il suo lavoro è appoggiato dalle agenzie del Governatorato generale. Ha una sola richiesta da fare, che il problema degli ebrei sia risolto nel territorio al più presto. Al termine sono state discusse le varie possibilità di soluzione, e a questo punto sia il Gauleiter [capo dell'amministrazione tedesca nei territori occupati] Dr. Meyer che il segretario di Stato Dr. Bühler hanno richiesto caldamente di effettuare immediatamente nei territori interessati alcune operazioni che, tuttavia, non devono arrecare disturbo alla popolazione. Con la richiesta da parte del capo della polizia di sicurezza e del SD ai partecipanti di dargli il massimo sostegno nell'esecuzione di tali operazioni collegate alla soluzione, la conferenza si è conclusa.

 

Testo della Conferenza Wannsee, in Trials of War Criminale before the Nuremberg Milítary Tribunals under Control Council Law,
in E. Collotti Pischel, La storia contemporanea attraverso i documenti, Zanichelli, Bologna 1974, pp. 143-145.

 

 

 

INTERPRETAZIONI STORIOGRAFICHE

 

 

 

La responsabilità della guerra

 

Lo storico tedesco Friedrich Meinecke, nell'intento di scagionare da ogni responsabilità il popolo tedesco, fa di Hitler il vero protagonista non soltanto del nazismo ma anche della guerra; il Führer sarebbe stato completamente estraneo all'autentica anima della storia tedesca, anzi non sarebbe stato neanche tedesco:

 

C'era in lui qualcosa di assai strano, estraneo e difficilmente concepibile a noi tedeschi, qualche cosa di assolutamente egocentrico, tale da valersi con estrema energia delle storiche doti e delle aspirazioni dei tedeschi suoi contemporanei, senza tuttavia essere compiutamente, intimamente e profondamente dei loro. Tra il suo demoniaco io e il popolo tedesco, da lui dominato e violentato, c'era un grande distacco. Egli poté guadagnarsi il consenso di un gruppo di sfrenati avventurieri, privi di scrupoli, che speravano con lui di far carriera, di essi si servì per esasperare le correnti di furore, di disperazione e di malcontento, create dalla Repubblica di Weimar, dalle crisi economica e sociale per portare la temperatura all'ebollizione fino alla guerra.

 

F. Meinecke, La catastrofe della Germania, La Nuova Italia, Firenze 1948.

 

Della sciagurata politica di Hitler alcuni scrittori tedeschi arrivano a dare la colpa alle stesse potenze occidentali, che non hanno voluto o saputo fermare a tempo debito la pericolosa marcia.
Secondo Thomas Mann, Gran Bretagna e Francia, preoccupate dell'avanzata del bolscevismo, pur di salvare il regime capitalistico, incoraggiarono e favorirono il fascismo di Mussolini e il nazismo di Hitler, ne sopportarono i metodi e i delitti, ne subirono le prepotenze e i ricatti. Le potenze occidentali, pur conoscendo l'immoralità e la delinquenza politica del nazismo, mantennero relazioni con esso, accolsero con «riconoscente sollievo» le manifestazioni e i discorsi di pace dei due capi, finsero d'ignorare i nessi necessari tra la politica interna ed estera, e non protestarono minimamente contro gli orrori dei campi di concentramento, le torture, le persecuzioni degli ebrei e dei cristiani, il terrorismo e la rovina della civiltà. Particolarmente grave fu la condiscendenza inglese, che permise a Hitler di annettersi la Saar, la Renania e l'Austria, e a Mussolini l'Abissinia:

 

Nessun dubbio era più possibile; l'Inghilterra desiderava e sosteneva il mantenimento e il rafforzamento del dominio nazista: con l'annessione dell'Austria gli permise un ampliamento territoriale che per chiunque avesse gli occhi aperti era il primo passo di ulteriori passi. Che la Francia fosse paralizzata non solo dalla sua forzata dipendenza dall'alleanza inglese, fu dimostrato poco tempo dopo da un'intervista del Presidente del consiglio francese Flandin nella quale egli giudicava l'espansione tedesca verso Oriente una necessità naturale, e l'intesa, la fratellanza della Francia col Terzo Reich un dovere. Il Times, organo del governo inglese, in quel tempo arrivò a proporre con candore la semplice cessione dei territori sudetici alla Germania, adducendo il guadagno eccellente che la piccola repubblica cecoslovacca avrebbe tratto da questa rettifica dei suoi confini.

 

Th. Mann, L'altezza dell'ora, in Moniti all'Europa, Mondadori, Milano 1947.

 

Igovernanti delle potenze capitaliste, afferma Thomas Mann, non fecero la guerra perché non volevano la vittoria comune con la Russia bolscevica, una guerra che sarebbe finita prima di cominciare; in nome di siffatta pace fecero rinunzie più vergognose, incoraggianti alla prepotenza, come avvenne nella Conferenza di Monaco, dove a Hitler fu dato e permesso tutto, anche l'egemonia continentale; per la pace falsa e artificiale che non poteva durare perché fondata sulla tirannide e sull'ignominia.
Coloro che non vollero la guerra quando difficilmente avrebbe potuto essere fatta, furono costretti a farla in circostanze ben più difficili, ed essa costò all'umanità le sciagure e le distruzioni più spaventose della sua esistenza.
Alcuni storici francesi hanno giudicato le argomentazioni di Meinecke e di Mann abili ma illogiche. Fra gli altri Edmond Vermeil pensa che non si possono considerare «accidenti» o «opera di uomini isolati e malati» le tre invasioni germaniche del territorio francese nello spazio di settant'anni; esse, piuttosto, presentano tutti i caratteri dell'opera di una volontà ben precisa, organica e costante, non di un «anormale», ma di tutta una nazione:

 

Dal 1870 al 1915 nella storia tedesca c'è una costante d'idee e di fatti così insistente che non si può nutrire alcun dubbio sulla volontà dominatrice della Germania. Le due guerre mondiali non sono state determinate da motivi contingenti o da questioni economiche, sociali e politiche, ma da una mentalità di dominio profondamente radicata, sentita e testimoniata da tutta la cultura, filosofia, arte, letteratura e religione del popolo tedesco. Non si possono considerare «accidenti» il costante e sempre vivo credo pangermanista, l'inesorabile militarismo prussiano e la tenacissima presunzione di superiorità di razza, il culto della forza, l'autocrazia e la ragion di Stato che sono note sostanziali e permanenti da Bismarck a Hitler. Il nazismo è il momento culminante di una volontà bellicistica costante che nella vita dell'Europa di questo secolo ha provocato una guerra di trent'anni, comprendente due fasi, ciascuna di cinque, separate da una pace precaria di vent'anni, con le quali la Germania ha devastato il continente europeo, pretendendo di sottometterlo al suo dominio. Dagli insegnamenti suggeriti da questo mezzo secolo di storia tedesca dipende l'interpretazione obiettiva del fenomeno hitleriano, per cui il Terzo Reich, nonostante il carattere anormale delle circostanze che l'hanno preceduto, non è un episodio puramente accidentale da collocare in margine alle tradizioni tedesche, ma è legittimo temere che le sue manifestazioni potranno ancor riapparire. Hitler fu condotto alla guerra dal pangermanesimo, dal militarismo, e dall'antisemitismo, che sono anteriori al 1939; nell'ultima guerra la Germania manifestò al mondo il suo modo di pensare di prima, ma con molta più brutalità di prima e senza l'abile preparazione precedente.

 

E. Vermeil, La Germania contemporanea, Laterza, Bari 1956.

 

Si allontana nettamente da quest'ordine d'idee lo storico inglese Alan John Percivale Taylor, il quale afferma che la seconda guerra mondiale, lungi dall'essere premeditata da Hitler, fu il risultato di errori diplomatici. Le argomentazioni di Taylor si possono ridurre principalmente alle seguenti:
 - sebbene la storia europea dal 1933 al 1939 per le conquiste di Hitler (reintroduzione dell'esercito di leva, occupazione della Renania, annessioni dell'Austria, della Cecoslovacchia, della Boemia-Moravia e di Danzica) a prima vista dia l'impressione dell'esecuzione di un piano prestabilito e ben definito, tuttavia la guerra è da attribuirsi a un concatenarsi di circostanze per niente previsto né tanto meno preordinato e coordinato;
 - la tesi della responsabilità di Hitler è dovuta alla reazione antinazista e alla furberia dei Tedeschi di scaricare tutto il peso della guerra su un morto, ritenuto per altro malato e pazzo, per presentarsi al mondo innocenti, anzi vittime essi stessi;
 - le fonti diplomatiche testimoniano che le condizioni della guerra esistevano prima dell'avvento di Hitler, nel Trattato di Versailles.

 

Nella situazione immediata del 1919 il trattato di pace parve schiacciante e vendicativo: un diktat o un trattato schiavistico, come lo definirono i tedeschi; ma in una prospettiva più lunga, la cosa più importante del trattato era questa, che era stato concluso con una Germania unita. Bastava che la Germania ne ottenesse una modifica o se lo scrollasse di dosso, e sarebbe riemersa in tutta la forza, o quasi, del 1914. Fu questo il risultato, decisivo e fatale, del trattato di pace. La prima guerra mondiale lasciò il problema tedesco irrisolto, anzi, in ultima analisi, lo rese ancor più acuto. Tale problema non consisteva nell'aggressività o nel militarismo della Germania o nella malvagità dei suoi governanti; questi fattori, seppure esistevano non facevano che aggravare il problema, o forse in realtà lo rendevano meno minaccioso per la resistenza morale che suscitavano negli altri paesi. Il problema essenziale era politico, non morale. Per quanto democratica e pacifica potesse diventare, la Germania rimaneva la potenza di gran lunga maggiore sul continente europeo; e con la scomparsa della Russia, lo era più di prima. Era la più grande per popolazione, più preponderante per le risorse di carbone e di acciaio, che nell'epoca moderna hanno costituito insieme la potenza di un paese. Per il momento, nel 1919 la Germania era a terra. Il problema immediato era quello della debolezza tedesca; ma trascorso qualche anno di vita normale, esso sarebbe ridiventato il problema della forza tedesca. Di più: il vecchio equilibrio delle forze, che prima aveva contribuito in qualche modo a contenere la Germania, si era infranto. La Russia era fuori del giuoco, l'Austria-Ungheria era scomparsa; restavano solo la Francia e l'Italia, entrambe inferiori per popolazione e più ancora per risorse economiche, entrambe esaurite dalla guerra. Se gli eventi avessero seguito il loro corso alla maniera libera, nulla poteva impedire che i tedeschi incombessero minacciosamente sull'Europa, anche senza proporselo deliberatamente.

 

A. J. P. Taylor, Le origini della seconda guerra mondiale, Laterza, Bari 1961.

 

Per lo storico inglese l'errore fondamentale delle potenze vincitrici nel 1919 fu la convinzione che la Germania, dopo la sconfitta, non sarebbe stata più un pericolo.
Gli Inglesi, scomparsa la flotta tedesca e cessata la sfida coloniale, stimarono preferibile rimettere in piedi la Germania che mantenerla a terra, e convinti che un'altra guerra non ci sarebbe stata, malgrado le preoccupazioni francesi, sostanzialmente non si opposero a una ripresa tedesca.
I Francesi, non potendo più contare su un'alleanza con la Russia, non sostenuti dagli Inglesi, poco fiduciosi nella Società delle Nazioni, s'allearono con i Polacchi e i Cechi.
Della situazione approfittò la Germania per riprendersi. Alla Francia e all'Inghilterra rimase il compito di conciliarsene il favore. Era la logica conseguenza di un trattato di pace che non aveva visto bene, e perciò non aveva risolto, il problema tedesco.
Gli Alleati, continua Taylor, commisero il primo sbaglio a proposito delle riparazioni: stabilirono in un primo tempo che la Germania, riconosciuta responsabile della guerra, avrebbe dovuto pagare pesantissimi risarcimenti, ma ben presto non furono tutti d'accordo nell'esigerli:

 

Gli inglesi, dopo essersi presi la flotta mercantile tedesca, convinti della necessità di stabilire la vita economica europea, per potere riattivare le loro industrie d'esportazione, si misero a denunziare la pazzia delle riparazioni, e, una volta condannate le riparazioni, subito condannarono le altre clausole del trattato di pace. Le riparazioni erano inique: iniquo era, perciò, anche il disarmo della Germania, iniqua la frontiera con la Polonia, iniqui i nuovi stati nazionali! E non solo iniqui: essi costituivano un giustificato motivo di scontento dei tedeschi talché la Germania non sarebbe stata né soddisfatta né prospera fino a quando non si fossero disfatte quelle clausole. Gli inglesi si sdegnavano dinanzi alla logica francese, dinanzi alla preoccupazione francese per la rinascita della Germania; e soprattutto si sdegnavano dinanzi all'insistenza francese che i trattati, una volta firmati, andassero rispettati. Secondo gli inglesi quel pretendere le riparazioni, da parte della Francia, era un pernicioso e pericoloso assurdo [...]. I contrasti sulle riparazioni tra inglesi e francesi resero loro impossibile di accordarsi sulla sicurezza negli anni precedenti la seconda guerra mondiale ma soprattutto incoraggiarono la campagna tedesca di spezzare il trattato schiavistico e i ceppi di Versailles. In Germania si formò il mito che tutti i suoi guai derivassero dal trattato di pace ed esso fu condiviso dai liberali inglesi illuminati, da quasi tutti i dirigenti del partito laburista, da quasi tutti gli americani pensosi dei problemi europei. I maggiori statisti inglesi si adoperarono di pacificare Germania e Francia, e con la formula di persuadere i tedeschi a chiedere poco e i francesi a concedere molto, arrivarono al compromesso di Locarno, dal quale la Germania logicamente dedusse che, dato che essa era stata trattata da uguale, libera di negoziare un trattato concordato, non doveva osservare né le riparazioni né il disarmo.

 

A. J. P. Taylor, Le origini della seconda guerra mondiale, Laterza, Bari 1961, pp. 77-78.

 

Agl'indomani di esso, il francese Briand dichiarò che il compromesso di Locarno era una sistemazione definitiva che sbarrava la strada a ulteriori concessioni; il tedesco Stresemann invece assicurò i suoi connazionali che il trattato permetteva alla Germania di sperare in ulteriori concessioni a ritmo anche più accelerato. Ma il fatto che l'esercito francese fu organizzato in funzione di difendere il territorio nazionale, che ai soldati fu dato un equipaggiamento soltanto difensivo e che si costruì a oriente la linea Maginot, tutto questo autorizzò i Tedeschi a pensare che la Francia, non nelle parole ma nei fatti, aveva ormai abbandonato il sistema di Versailles. Questi fatti e la politica inglese di cedere sempre più alle continue e sempre maggiori richieste tedesche, incoraggiarono l'ulteriore atteggiamento "revanchista" della Germania.
Hitler, nota Taylor, mutò moltissime cose all'interno della Germania: distrusse la libertà politica e la legalità, trasformò l'economia e la finanza, entrò in dissidio con la Chiesa, abolì gli Stati separati, ma non cambiò nulla in politica estera, nella quale seguì i suoi predecessori continuando a richiedere la liberazione della Germania dalle restrizioni del trattato di pace. Agli storici che hanno visto in Hitler «il costruttore di un sistema consapevolmente teso fin dal primo giorno a preparare una grande guerra che distruggesse la civiltà contemporanea e gli desse il dominio del mondo», Taylor oppone che «i sistemi li creano solo gli storici» mentre «gli statisti muovono un passo e da questo consegue il successivo»; l'unico motivo sistematico della politica estera tedesca era che Hitler non si proponeva di distruggere l'Impero britannico, né di togliere alla Francia l'Alsazia e la Lorena, bensì voleva che gli Alleati riconoscessero alla Germania di aver vinto nel 1917 all'Est e accettassero lo spirito della Pace di Brest-Litovsk anche in funzione di difendere la civiltà europea dal bolscevismo. L'espansione verso est era lo scopo primario se non l'unico della sua politica, ma contro ogni aspettativa egli si trovò in guerra con le potenze occidentali.
Hitler, che a tanti altri storici è apparso un anormale, un pazzo, per Taylor «non fu più perverso e privo di scrupoli di molti altri statisti suoi contemporanei» e «se la morale degli occidentali pareva superiore, ciò derivava in buona parte dal fatto che si trattava della moralità dello status quo, mentre quella di Hitler era l'immoralità della revisione».
In definitiva tutta la diabolicità del dittatore tedesco si ridusse a sapere sfruttare la debolezza francese e la condiscendenza inglese, ma, senza dubbio, grave rimane la responsabilità degli Inglesi, che dopo avere sistematicamente ceduto in molte questioni gravissime, e dopo aver gioito per l'umiliante resa di Monaco, improvvisamente si mostrarono intransigenti per la questione di Danzica, «la più giustificata delle rivendicazioni tedesche», e ne fecero il simbolo non solo dell'indipendenza polacca, ma anche britannica ed europea, e fu la guerra. Taylor è d'accordo che Hitler facilmente minacciava e difficilmente si conciliava, ma nega che egli avesse progettato deliberatamente il dominio europeo, come pure reputa falso l'argomento della sovrapproduzione tedesca, risultando chiaro dai documenti ufficiali che il problema della Germania era l'inflazione del credito e non la sovrapproduzione; c'erano troppe obbligazioni di Stato in giro e scarsa capacità produttiva per assorbirle. Alla fine della guerra, infatti, ogni Paese satellite aveva una bilancia largamente attiva nei confronti della Germania: cioè i Tedeschi avevano comprato molto ed esportato poco.
A fronte della tesi secondo lo quale la Germania si armava continuamente e in modo spaventoso, i documenti, oppone Taylor, dicono che i generali tedeschi più qualificati spesse volte si dichiararono contrari alla guerra per «motivi tecnici», e che Hitler escluse deliberatamente il riarmo in profondità, che gli veniva sollecitato dai suoi consiglieri tecnici, perché si proponeva di «trionfare senza guerra o al massimo con una guerra così nominale da potersi appena distinguere dalla diplomazia [ ... ]; la Germania fu attrezzata per vincere la guerra dei nervi, l'unica che Hitler comprendesse e amasse».

 

La ragione più logica e più fondata che poteva seriamente preoccupare Hitler e spingerlo alla guerra era lo spostamento dell'equilibrio mondiale a sfavore della Germania sul piano delle riserve economiche, determinato dal progresso economico della Russia sovietica, aumentato in dieci anni del 40% in rapporto al 27% della Germania; perciò Hitler capì che era un vero grande rischio entrare in guerra con i sovietici e preferì fare il tanto discusso patto di non aggressione russo-tedesco. Se dunque Hitler non aveva un piano di guerra contro l'occidente e neanche contro l'oriente, la guerra, lungi dall'essere da lui premeditata, fu il risultato di errori diplomatici dall'una e dall'altra parte.

 

A. J. P. Taylor, Le origini della seconda guerra mondiale, Laterza, Bari 1961, pp. 77-78.

 

Italia nella seconda guerra mondiale

 

Per l'ideologia mussoliniana la politica legittima di espansione dell'Italia era un misto di nazionalismo, di darwinismo sociale e di dinamismo di «nazioni proletarie» in contrapposizione alle «demoplutocrazia» decadenti e invecchiate, cioè le tradizionali potenze coloniali come Francia e Gran Bretagna. Pur non escludendo la guerra, Mussolini non ne faceva l'asse della propria politica, se non in forma limitata e controllabile. Cosciente dell'impreparazione militare del Paese, tentò di esercitare prima la funzione di salvatore della pace, poi, quando si aggregò al carro di Hitler che sembrava vincente, contò sulla guerra-lampo teorizzata dai Tedeschi, nella speranza che la retorica nazionalistica non avesse modo di rivelarsi per quello che era: l'illusione di un Paese attivo e dinamico, pronto a conquistarsi «il suo posto al sole».
A questo proposito Corni scrive:

 

[...] egli ragionava sempre in termini di guerre limitate, poiché nel corso degli anni era divenuto consapevole del fatto che gli italiani non fossero ancora «maturi» per assumere il posto che la storia attribuiva loro. Solo le generazioni future, allevate secondo lo spirito fascista e temprate nel carattere, avrebbero potuto battersi per conseguire l'equiparazione dell'Italia alle altre grandi potenze. Il calcolo di Mussolini, di imporre alle potenze rivali delle concessioni in cambio della promessa di pace, era però errato. Ogni passo in più nella direzione del revisionismo e dell'espansionismo si rivelava infatti foriero di nuove tensioni con la Francia e la Gran Bretagna. Per il presente, Mussolini riservò alla sua politica estera piuttosto le funzioni di «ago della bilancia» nel concerto europeo, giocando prima sui dissidi franco-inglesi e poi aggregandosi al carro nazionalsocialista, che appariva vincente. Peraltro, nelle ambizioni dei responsabili fascisti, il regime avrebbe potuto far da solo, fino a divenire il «peso determinante» della politica europea. Così si esprimeva Grandi in una lettera a Mussolini, dell'agosto 1930: «Noi saremo un giorno gli arbitri della guerra sul Reno. Nel frattempo dobbiamo prendere la più alta quota possibile nella politica continentale europea. Fare della diplomazia e dell'intrigo... Armarci e isolarci sempre di più, per venderci a caro prezzo nelle ore della grande crisi futura». Anche Hitler aveva previsto che la battaglia finale — per così dire — fra le grandi potenze continentali si sarebbe combattuta in un futuro non troppo vicino. Nel frattempo, però, egli preparò il paese, le forze armate e l'economia, per una guerra di conquista di dimensioni continentali. Mussolini, invece, non fece corrispondere alla retorica propagandistica un'adeguata preparazione militare — come avrebbe tragicamente dimostrato l'andamento della guerra. Questo per i limiti strutturali, dai quali la dittatura mussoliniana non riuscì a districarsi, o meglio non poté districarsi, dato il blocco sociale arretrato e conservatore su cui si fondava il suo consenso. D'altro canto, la propaganda del regime non poteva neppure esplicitare la tattica attendistica e utilitaristica enunciata da Grandi nella citazione precedente. Occorreva invece dare al paese un'immagine brillante e dinamica, sottolineando il ruolo del Duce come arbitro della pace, si pensi all'ondata di consenso e di fiducia suscitata a conclusione della conferenza di Monaco, dalla quale Mussolini era uscito con l'aureola del pacificatore, ma nello stesso tempo valorizzando anche lo slancio inesauribile della politica estera fascista verso nuove mete, possibilmente esotiche.

 

G. Corni, Il nuovo ordine, "Storia e Dossier", ottobre 1989, p. 26.

 

Dopo l'armistizio stipulato dal governo Badoglio, il fascismo, con l'aiuto della Germania hitleriana, tentò di ricostituire un governo che, da un lato, stabilisse una continuità con lo Stato fascista, mantenendo l'alleanza con i Tedeschi, dall'altro ricuperasse alcuni temi della propaganda fascista delle origini. Era infatti necessario rivitalizzare il programma fascista con lo scopo di ridare slancio e fiducia a un disperato tentativo di sopravvivenza.
Gli studi sulla Repubblica Sociale Italiana hanno risentito a lungo di una impostazione chiaramente ideologica: da parte fascista si è pensato soprattutto a legittimare la Repubblica Sociale attribuendole il merito di salvaguardare gli Italiani dalla volontà punitiva dei Tedeschi e mettendo in rilievo il contenuto sociale del suo programma; da parte antifascista si è sottolineato invece il suo rapporto di dipendenza dalla Germania di Hitler e il carattere puramente strumentale del programma mussoliniano.
Claudio Della Valle illustra il programma sociale del fascismo mussoliniano in questa fase e, nello stesso tempo, il rapporto con i Tedeschi:

 

La politica sociale della Repubblica sociale italiana [...] non è stata esaminata in un discorso organico, soprattutto non ne è stato approfondito il significato centrale: ossia il tentativo di ribaltare le alleanze sociali su cui si era retto il fascismo del ventennio. Ben 9 dei 18 punti del Manifesto di Verona sviluppano una linea che vuole essere di apertura verso il popolo lavoratore e un metodo che dal vecchio «andare verso il popolo» si trasforma nel ben più impegnativo «stare con il popolo». Dunque sotto accusa, accanto ai fascisti traditori, a Badoglio e al re, è anche la grande borghesia che dopo aver usato il fascismo per arricchirsi e ricavarne favori, lo ha abbandonato o meglio tradito. Il Pfr e il governo della Repubblica sociale italiana si autopropongono quindi come portatori degli interessi delle classi lavoratrici e in particolare della classe operaia del Nord. Gli scioperi scoppiati dalla metà di novembre nelle grandi fabbriche di Torino e Milano spingono la Repubblica sociale italiana a concentrare i suoi sforzi in questa direzione per ottenere dagli operai un riconoscimento attraverso le concessioni salariali e la proposta di un sindacato costruito dal basso attraverso il riconoscimento delle commissioni interne. Fallito questo primo tentativo per l'intervento nella trattativa dei rappresentanti tedeschi che scavalcano i sindacalisti e il governo fascista, la Repubblica sociale italiana prepara un'iniziativa clamorosa: il consiglio dei ministri il 13 gennaio 1944 approva la Premessa fondamentale perla creazione della nuova struttura dell'economia italiana, di cui è principale fautore Angelo Tarchi, nominato nel dicembre 1943 ministro dell'economia corporativa. La premessa viene tradotta nel decreto legge del 12 febbraio 1944, che stabilisce la socializzazione delle imprese, ossia il passaggio della gestione (non della proprietà) delle imprese a un consiglio di gestione in cui i rappresentanti del lavoro sarebbero stati immessi in numero pari ai rappresentanti del capitale. La risposta operaia a queste iniziative fu lo sciopero generale del 1° marzo 1944, che inutilmente la Repubblica sociale italiana cercò di impedire prima e di soffocare poi, con un'opera pesante di repressione (arresti e deportazione di operai) in collaborazione con i tedeschi. Lo sciopero servì a fare chiarezza su un punto fondamentale: il fascismo, sia pure nella sua versione sociale e repubblicana, non poteva riconoscere la lotta di classe senza negare la sostanza stessa del fascismo. L'apertura alla classe operaia era in funzione della continuazione della guerra, cioè di un obiettivo che era fascista e che gli operai non potevano fare proprio dal momento che era la guerra fascista a costringerli a condizioni di vita e di lavoro insopportabili.

 

C. Della Valle, Repubblica sociale italiana, in Il mondo contemporaneo, Storia d'Italia, vol. 3, La Nuova Italia, Firenze 1978, p. 1069.

 

Uno dei punti chiave della politica della Repubblica di Salò fu la ricostituzione di un esercito italiano da affiancare ai Tedeschi nella guerra. Questa impresa tuttavia non fu facile anche per l'opposizione tedesca; i Tedeschi, infatti, finirono per affidare ai reparti italiani, addestrati in Germania, un compito di polizia contro l'attività dei partigiani anziché vere azioni di guerra.

 

La ricostituzione di un esercito da affiancare agli alleati tedeschi nel sostenere la guerra, è un punto fondamentale del programma della Repubblica sociale italiana per il significato politico che esso assume sia sul piano interno (legittimazione della Repubblica sociale italiana) sia su quello esterno (autonomia dai tedeschi). Lo scontro che si verifica fin dalle prime battute (Deakin) tra i responsabili militari della Repubblica sociale e che vide da un lato il ministro della difesa, il generale Rodolfo Graziani (costituzione di un esercito tradizionale) e dall'altro Ricci, Pavolini e una parte del Pfr (esercito volontario con netta qualificazione politica), condurrà ad una soluzione di compromesso, il cui risultato sarà la confusione, l'inefficienza e l'apertura di spazi a iniziative sfuggenti ad ogni controllo. Accanto all'esercito di leva, formato dalle tre armi tradizionali, verrà messa in piedi la Guardia nazionale repubblicana (Gnr) formata con i resti della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, dell'Arma dei carabinieri e di varie altre polizie fasciste; avrà compiti di polizia, ma anche di combattimento, in parte dipendente dal ministero degli interni e in parte dal Pfr (Pansa, Deakin). A rendere più complessa la situazione concorre in modo determinante la linea seguita dai tedeschi, che non desiderano la ricostituzione di un esercito italiano e che pur sottoscrivendo a più riprese accordi con la Repubblica sociale italiana per la rinascita dell'esercito, di fatto ne boicotteranno la costituzione sia opponendosi all'impiego dei soldati prigionieri in Germania, sia muovendosi in modo concorrenziale alla Repubblica sociale nel reclutamento, sia limitando al massimo l'attribuzione di materiali e armi ai reparti costituiti da quest'ultima. L'unico risultato per l'esercito di Graziani è la costituzione di quattro divisioni (circa sessantamila uomini) da addestrare in Germania e il cui impiego, quando nell'estate del 1944 rientreranno in Italia, non sarà il fronte, ma l'attività antipartigiana o il presidio territoriale. Per i tedeschi l'unico uso possibile di una forza armata italiana è quello di polizia soprattutto contro l'attività dei partigiani e anche questo sotto lo stretto controllo operativo dei tedeschi, che anzi preferiscono spesso reclutare direttamente e istruire gli uomini da destinare a questi reparti (vedi, ad esempio, i reparti di SS italiane).

 

C. Della Valle, Repubblica sociale italiana, in Il mondo contemporaneo, Storia d'Italia, vol. 3, La Nuova Italia, Firenze 1978, pp. 1071-1072.

 

Una delle questioni più dibattute sul crollo dell'Italia nel 1943 è il ruolo giocato dalle istituzioni, soprattutto dalla monarchia sabauda.
Lo sbarco in Sicilia aveva confermato la debolezza dell'esercito italiano e dimostrato che il regime fascista era ormai compromesso agli occhi dell'opinione pubblica. Lo storico inglese Paul Ginsborg descrive quelle cruciali settimane:

 

Fu a questo punto che il re, sollecitato dai generali, decise che la monarchia e lo Stato italiano potevano essere salvati solo recidendo ogni legame col fascismo. Il vecchio Vittorio Emanuele era stato un sovrano mediocre. Nei primi anni '20 aveva di buon grado appoggiato il fascismo, ma non nutrì mai simpatia per Mussolini, che lo aveva costantemente tenuto in ombra nei successivi vent'anni. Il re sapeva di dover agire per impedire che la dinastia fosse esautorata dagli Alleati e spazzata via dalle pressioni popolari. Fu così che complottò per ottenere le dimissioni del Duce, fiducioso di poter contare sull'esercito e su settori della polizia e della burocrazia. L'occasione per la rivolta di palazzo venne offerta dalla riunione del Gran Consiglio, il massimo organismo del partito fascista, che doveva avere luogo a Roma il 24 luglio 1943. Dirigenti fascisti come Grandi e Farinacci erano diventati sempre più critici del modo in cui Mussolini conduceva la guerra, e chiedevano che egli dividesse il potere con loro e con il re. [...] Dopo nove ore di discussione una mozione critica nei confronti del Duce fu approvata per diciannove voti a sette. Mussolini decise di minimizzare la cosa, e fece intendere ai suoi amici che considerava quel voto privo di significato. Ma aveva fatto i conti senza il re. Mentre i gerarchi fascisti non avevano abbastanza potere effettivo per estrometterlo, il re lo aveva. Il 25 luglio il Duce si recò fiducioso all'udienza settimanale con Vittorio Emanuele. Un po' titubante il sovrano chiese a Mussolini le dimissioni e gli disse che aveva già fatto dei passi per sostituirlo con il maresciallo Badoglio. Non appena uscì, ancora scosso dagli esiti del colloquio, sugli scalini di Villa Savoia, Mussolini fu rinchiuso in un'ambulanza e in seguito arrestato. [...] Ventun anni dopo la marcia su Roma, Mussolini, che nei tardi anni '30 era sembrato incrollabile, veniva cacciato dallo stesso re che lo aveva inizialmente chiamato al potere.

 

P. Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino 1989, pp. 7-8.

 

Legata agli avvenimenti dell'8 settembre 1943 vi è l'annosa questione della "fuga" di Vittorio Emanuele III da Roma a Brindisi all'avvicinarsi delle truppe tedesche alla capitale. L'episodio è stato fatto oggetto di lunghe discussioni e interpretato in vari modi: alcuni storici vedono in esso la vergognosa fuga di un sovrano impaurito, che abbandona la sua capitale lasciando l'esercito privo di ordini, e come tale indegno di governare lo Stato; altri invece, mettendo in risalto come durante la prima guerra mondiale il re si fosse comportato con coraggio in situazioni pericolose, negano che ciò sia stato dovuto a vigliaccheria e affermano che in questo modo Vittorio Emanuele III intendeva mostrare che lo Stato legittimo, rappresentato dal re, continuava la lotta al fianco degli Alleati.

 

L'8 settembre Badoglio fu costretto ad annunciare, in un famoso comunicato alla radio, la firma dell'armistizio. Ordinò alle forze armate italiane di cessare le ostilità contro gli Alleati, ma non impartì ordini precisi, salvo quello di «respingere eventuali attacchi di qualsiasi provenienza». La famiglia reale abbandonò in gran fretta la capitale e si rifugiò a Pescara. Lì salpò su una corvetta che giunse a Brindisi nel primo pomeriggio del 10 settembre. Il re non aveva idea se la città fosse ancora in mani tedesche. Fortunatamente per lui le truppe naziste si erano già ritirate ed egli poté mettersi in salvo e sbarcare. [...] Anche se è arduo considerare la fuga a Brindisi come un atto onorevole e coraggioso, essa tuttavia assolse all'importantissimo scopo di mantenere intatta l'integrità e l'autorità della figura reale, aprendo la strada alla creazione del «Regno del Sud».

 

P. Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino 1989, p. 10.

 

La Resistenza in Italia

 

Gli storici ritengono che la Resistenza debba comprendere non solo il movimento dei partigiani ma anche tutta l'opposizione antifascista anteriore all'8 settembre del 1943, e l'azione antitedesca svolta dall'esercito regolare italiano, affiancato alle truppe alleate, dopo l'armistizio, essendo tutti e tre i movimenti accomunati dalla volontà di resistere alla dittatura fascista, neofascista e nazista e di restituire l'Italia alla libertà e all'indipendenza.
La Resistenza, quindi, comincia con il delitto Matteotti (12 giugno 1924), quando i partiti antifascisti con il ritiro sull'Aventino denunziarono alla nazione l'impossibilità di riconoscere un governo che si serviva di delitti per soffocare la voce accusatrice dell'opposizione, e finisce nel 1945 con l'annientamento dei nazifascisti.
Luigi Salvatorelli scrive:

 

Nell'arco di tempo 1924-43 fu resistenza l'azione dell'associazione clandestina Italia Libera di Carlo Rosselli e di Ernesto Rossi che si proponeva di spingere gli italiani a rivendicare la dignità di cittadini liberi ma anche di raccogliere e tenere nascoste armi che avrebbero potuto servire in caso di rivoluzione; fu resistenza l'atteggiamento della gran parte degli italiani dopo l'abolizione dell'opposizione parlamentare (1928), che si espresse in una disposizione di spirito, in una attitudine pratica, non organizzata, ma diffusa e radicata nei singoli individui, spontaneamente generante incontri e ritrovi che davano al fenomeno una certa consistenza collettiva e finivano per formare attraverso il paese una specie di rete, anche se estremamente lenta e ondeggiante, con grandi lacune, strappi ed eclissi improvvise e irreparabili. Era la rete di coloro che seguitavano a professare, senza ostentarle ma senza nasconderle, idee liberali e democratiche, e pur non facendo professione di antifascismo — ciò che avrebbe significato porsi candidati per lo meno al confino — non mancavano l'occasione di criticare e talora volgere in caricatura questa o quell'opinione, questo o quell'atteggiamento fascista; che rifiutavano di prendere la tessera o, quando si trovavano costretti a prenderla, la tenevano semplicemente come carta di sicurezza e tessera del pane, partecipando il meno possibile, o anche non partecipando affatto, alle manifestazioni fasciste; e, più in generale, che si astenevano al possibile di dire e fare tutto quanto implicasse adesione personale al fascismo; che, ad ogni occasione, rievocavano i principi politici e gli ideali del Risorgimento, e altresì confutavano le denigrazioni e contraffazioni dell'Italia prefascista; o, anche professavano, con fiamma interiore, i principi cristiani di carità, di giustizia e di aborrimento della violenza, di pace fra gli individui e i popoli, principi che urtavano con i sentimenti, le idee e i precetti del fascismo. Un posto d'onore tennero in ciò valorosi insegnanti pubblici, secondari e universitarii (Borgese, Bonaiuti, Carraro, De Sanctis, Martinetti, Ruffini, Venturi ecc. ecc.). Gente di questo tipo in Italia ce n'è stata nei vent'anni di dittatura fascista assai più che non si creda. Una riprova è fornita dalla lunghissima lista dei condannati, confinati, ammoniti, rimossi dai loro posti. Furono costoro che mantennero il fuoco sotto la cenere in un certo grado, non elevato ma neanche infimo, di spirito liberale e democratico. E si deve, in parte non trascurabile, ad essi, se, caduto di colpo il fascismo, il popolo italiano non si trovò in stato di smarrimento spirituale e politico completo, e poté con rapidità procedere alla ricostruzione democratica.

 

L. Salvatorelli, L'opposizione democratica durante il fascismo, in Il secondo Risorgimento, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1955, p. 152.

 

Fu resistenza morale e culturale l'opera dispiegata da Benedetto Croce con "La Critica", da Cesare de Lollis con "La Cultura" e da altri scrittori ed editori coraggiosi che tennero acceso il fuoco della libertà di pensiero.
Fu resistenza la coraggiosa e inflessibile opera svolta dai fuoriusciti che con conferenze, giornali e libri tennero vivo all'estero il problema italiano e all'interno agirono come pungolo di ribellione alla dittatura. Grande rilievo hanno personalità di primo piano, come Nitti, Sturzo, Salvemini, Sforza, Ferrero, Donati e Gobetti, rappresentanti della "Concentrazione antifascista", fondata a Parigi, con lo scopo di aiutare le vittime del fascismo, di diffondere la stampa clandestina e di favorire gli espatri; il movimento "Giustizia e Libertà" di Carlo Rosselli, Lussu, Cianca ed Ernesto Rossi, che si proponeva di non dare tregua al fascismo, di «non mollare», e che in Italia operò tanti colpi di mano, puniti dal Tribunale Speciale fascista con la galera e il confino di polizia; l'"Alleanza Nazionale" di Mario Vinciguerra, diretta a sollevare contro il regime fascista la monarchia, le forze moderate e cattoliche; i gruppi o individui isolati che si dedicarono alla pubblicazione di scritti antifascisti, o illustri professori che non vollero giurare e che dalle cattedre universitarie straniere e in pubbliche conferenze e con articoli di giornali richiamarono l'attenzione del mondo libero sul pericolo del fascismo; tutta questa è, sotto ogni riguardo, resistenza, e ha tutti i meriti dell'ulteriore lotta dei partigiani.
Resistenza fu pure l'opera svolta dai fuoriusciti per impedire che l'Italia entrasse in guerra accanto a Hitler; fra l'altro è da ricordare l'appello rivolto al re dal conte Sforza il 30 maggio 1940, che dava per certa, dopo la caduta della Francia, la continuazione della guerra da parte dell'Inghilterra e dell'America, e ammoniva che l'Italia avrebbe subito la più terribile delle rovine.
Né si può certamente negare il diritto di appartenenza alla resistenza, afferma il generale Raffaele Cadorna, a quei reparti dell'esercito regolare che, dopo l'8 settembre, o si rifiutarono di combattere a fianco dei Tedeschi, accettando la tremenda sorte dei campi di deportazione in cui perdettero la vita, o si volsero contro i Tedeschi stessi, andando incontro alle loro spietate repressioni, come le mostruose stragi di Cefalonia, di Spalato e di Lero. Titoli di uguale merito, aggiunge il generale Clemente Primieri, hanno i gruppi di combattimento italiani inquadrati nelle unità alleate.
Dal settembre 1943 all'aprile 1945 la Resistenza divenne armata: nelle città, nelle campagne e sulle montagne comparvero i partigiani con lo scopo di combattere apertamente e militarmente Tedeschi e neofascisti.

 

La Resistenza presentò caratteristiche che ne fecero un momento particolarmente importante e significativo della storia nazionale. Ernesto Ragionieri ha scritto:

 

L'originalità della Resistenza italiana va individuata nel fatto che l'unità politica raggiunta ai fini della lotta armata fini col sovrastare ogni altro obiettivo, ma al tempo stesso si giovò di una pluralità di articolazioni nella partecipazione sociale che fece della lotta armata solo un elemento, seppure il più importante, della sua attività. Ed è sotto questo profilo che il contributo delle classi popolari si rivela come il dato nuovo nella storia del movimento di liberazione nazionale in Italia; è appunto con la Resistenza che interviene un mutamento qualitativo nel rapporto tra classe operaia e nazione, tra storia del movimento operaio e storia d'Italia.

 

E. Ragionieri, La storia sociale e politica, in Storia d'Italia, vol. IV, tomo III, Einaudi, Torino 1976, p. 2378.