Lezioni



CLASSE   V   -   Verifiche di Storia

La rivoluzione Francese e la parabola napoleonica. Il Congresso di Vienna, la restaurazione e i movimenti degli anni Trenta

 

 

1. Lo "spirito" rivoluzionario del 1789 e la sua progressiva evoluzione (degenerazione) fino al 1796.

 

Nell'estate del 1789 l'Assemblea lavora all'abolizione del regime feudale (agosto 1789), finendo per discutere dei diritti naturali dell'uomo vivente in società, secondo lo spirito illuministico. La Dichiarazione dei Diritti (26 agosto) è la base di una nuova società fondata su principi di libertà e uguaglianza. Nel settembre 1791 la Costituzione proclama la “sovranità della nazione”, ma, dopo il tentativo di fuga del re e la dichiarazione di Pillnitz le contromisure del governo rivoluzionario, la dichiarazione di guerra all'Austria e il sequestro del re alle Tuileries ne dimostrano il fallimento; l'emergenza e l'avvento della Convenzione avviano una trasformazione che culmina nell'esecuzione del re (21 gennaio '93). La rottura con l'Europa, del resto, è già in atto da quando la Convenzione ha sanzionato la politica estera di propaganda rivoluzionaria giacobina. Seguono l'inasprimento delle repressioni interne, la sospensione dell'inviolabilità dei deputati, la restrizione della libertà di stampa e l'istituzione del Comitato di Salute Pubblica (aprile), che legittima il cosiddetto "dispotismo della libertà" contro i principi dell'Ottantanove. Il 2 giugno, poi, i Montagnardi stabiliscono la loro dittatura e la nuova costituzione (anno I) riconosce il diritto all'insurrezione come il più sacro e inviolabile dei doveri in caso di violazione del diritto del popolo; nel contempo i beni degli emigrati vengono suddivisi in piccoli lotti alla portata dei ceti rurali. Il controllo del Tribunale rivoluzionario di Parigi toglie al cittadino qualsiasi possibilità di difesa legale contro l'autorità; seguono un'ondata di esecuzioni eccellenti e indiscriminate (Terrore), l'introduzione di un nuovo calendario e di una nuova religione dell'Essere supremo. La dittatura di Robespierre, però, genera opposizione, che si manifesta improvvisa. Gli eventi del 27-28 luglio 1794 (arresto ed esecuzione di Robespierre) segnarono una svolta decisiva: la Convenzione riacquista potere sulle forze insurrezionali parigine e dà inizio a un'opera di conciliazione. La Costituzione dell'anno III (agosto '95) ribadisce l'unità e l'indivisibilità della Repubblica come nel '93, ma in uno spirito diverso: viene ridotto l'elettorato e ripristinata la divisione dei poteri. Il Direttorio deve però affrontare il problema finanziario e chiede l'appoggio ai generali, i quali si preparano a imporre la loro volontà al governo.

 

2. La parabola napoleonica da Austerlitz (1805) a Lipsia (1813).

 

Dopo Austerlitz il trionfo di Napoleone è completo: può ridisegnare l'Europa assegnando a parenti e collaboratori troni e territori e smantellando di fatto il Sacro Romano Impero; può creare stati federativi a protezione della Francia e ottiene utili rapporti di parentela tra la propria famiglia e le dinastie tedesche dei paesi della Confederazione del Reno. A fronte della Quarta coalizione, ottiene le vittorie di Jena e Auerstadt (1806) con l'occupazione militare della Prussia, impone il blocco continentale sulle merci inglesi e obbliga lo zar alla pace di Tilsitt (1807), inducendolo a trattare una sorta di alleanza in funzione anti-inglese. Occupato il Portogallo e imposto il fratello Giuseppe sul trono di Spagna (1808), però, il pronunciamento di Cadice, seguito da altre rivolte in territorio tedesco, e la formazione della Quinta coalizione (1809), lo inducono a una nuova impresa militare, culminata nella vittoria di Wagram e nell'imposizione di una pace umiliante all'Austria. Il dissenso, tuttavia, cominciava a serpeggiare tra i collaboratori e i familiari di Napoleone, mentre cresce l'ostilità delle nazioni nemiche nonché dello zar, che vede ostacolati i suoi interessi in Polonia. La campagna di Russia (1812) risulta fatale, non tanto per l'avanzata, quasi "favorita" dai russi, ma per la ritirata, dopo che l'enorme esercito napoleonico (in gran parte prussiani, polacchi e italiani) si trova senza supporto e rifornimenti. Le condizioni climatiche, i disagi della ritirata, il contrattacco dei russi e le defezioni contribuiscono al disastro; formatasi la Sesta coalizione, lo scontro decisivo è a Lipsia (16-19 ottobre 1813), dopo il quale Napoleone decide di abbandonare il trono.

 

3. La Santa Alleanza: ideali e realtà dal 1815 al 1833.

 

La Santa Alleanza (26 settembre 1815) fu un'iniziativa dello zar Alessandro I, un'intesa fra le nazioni cristiane atta a impegnarle ad una mutua collaborazione per il benessere e la felicità dei popoli e per l'eliminazione della guerra come mezzo per risolvere le vertenze internazionali. La Santa Alleanza rispondeva agli impulsi mistici e umanitari dell'animo dello zar, incline in quest'epoca a simpatie liberali; peraltro essa serviva gli scopi della politica russa, aperta com'era a tutti gli stati cristiani, in modo da procurare allo zar degli alleati negli stati marittimi dell'Europa occidentale per la sua politica di opposizione al predominio marittimo mondiale dell'Inghilterra, ma preclusa al Sultano, avversato così da tutte le potenze europee e isolato a fronte delle mire russe sui Balcani. Di fatto, negli anni, divenne strumento di conservazione secondo i criteri della restaurazione nelle abili mani del principe di Metternich. In quest'ultimo senso essa si rese efficace, a seguito delle conferenze di Troppau e di Lubiana (1820-1821) e della proclamazione del principio di intervento, nella repressione dei moti italiani, e con la conferenza di Verona (1822) nel decidere la repressione della sollevazione spagnola ad opera della Francia (1823). Manifestò, invece, segnali di crisi al tempo dell'insurrezione greca, quando nello stesso 1822 fu chiamata in causa dagli insorti contro il sovrano turco; in quel caso il compromesso ne mise profondamente in discussione i principi. La fine della Santa Alleanza fu invece segnata nel 1831 dalla crisi della rivoluzione belga, quando prevalse la linea inglese per la convocazione di una conferenza internazionale in luogo dell'intervento armato congiunto delle potenze conservatrici.

 

 

 

[facoltativo]

 

4.

 

a) La monarchia di Carlo X (1824-30) e la monarchia di Luigi Filippo d'Orléans.
 

La volontà di ristabilire la situazione interna, politica e sociale, dell'Antico Regime contraddistinse, con la morte di Luigi XVIII (1824), il regno di Carlo X, il conte di Artois capo degli Ultras, deciso a ridare al potere regio i caratteri e le forme della monarchia di diritto divino. Cresceva, intanto, nel distacco evidente tra regime e corpo della nazione, l'opposizione, soprattutto liberale, che si appoggiava alla media e alta borghesia. Nel 1829 il re affidò il potere al reazionario principe di Polignac; la Camera protestò, ma il re la sciolse, contando sul proseguimento e sull'intensificazione dell'ambiziosa politica estera, iniziata con l'impresa di Spagna del 1823, che avrebbe dovuto riconciliare con la Monarchia tutti i Francesi, vale  a dire l'attiva politica di conquiste coloniali nell'Africa settentrionale iniziata con l'occupazione dell'Algeria nella primavera del 1830. Carlo X era convinto che ciò, in concomitanza con le nuove elezioni seguite allo scioglimento della Camera, influisse sull'elettorato. Contro le sue previsioni, però, alla nuova Camera si venne costituendo un'opposizione più forte, ma il re, continuando ostinatamente a credere che la fortunata impresa africana avesse creato consenso, in concomitanza con l'annuncio della conquista di Algeri emanò le cosiddette Ordinanze del 26 luglio: la convocazione della nuova Camera era rinviata, il già esiguo corpo elettorale era ristretto ulteriormente, la stampa veniva sottoposta a severo controllo. Fuggito Carlo X, Luigi Filippo d'Orleans fu capace di impedire alla situazione di imboccare la strada radicalmente rivoluzionaria e nel contempo di garantire anche per i sentimenti dei democratici. Accettando dalla Camera la corona e una nuova costituzione, il sovrano assumeva il titolo di re dei Francesi, a ribadire il ripudio della mentalità patrimonialistica. Il regime assunse carattere prudentemente moderato, salutato con entusiasmo dai liberali europei, ma accolto con sospetto dalla Santa Alleanza, trattenuta dall'intervenire soprattutto dall'atteggiamento prudente, ma favorevole, dell'Inghilterra. La Francia del 1830, dal canto suo, non intraprese il cammino della Francia del 1793, pur fondando la propria politica internazionale sul principio del non intervento.

 

 

 

b) I caratteri del liberalismo e delle tendenze democratiche e radicali

 

L'aspetto più influente del liberalismo fu il costituzionalismo, che, da un lato, in polemica con i regimi legittimistici e assolutistici, dall'altro, con le tendenze democratico-repubblicane, si poneva come programma l'introduzione o la conservazione del regime monarchico costituzionale. Caratteristica concreta del liberalismo moderato (soprattutto italiano) era quella di voler attuare le necessarie trasformazioni politiche senza che ciò comportasse trasformazioni o anche soltanto turbamenti dell'ordine sociale. Il tentativo era quello, ove possibile, di trovare l'accordo con i sovrani legittimi e assoluti, così da ottenere una ragionevole e pacifica trasformazione delle istituzioni politiche, ma nello stesso tempo di controllare le tendenze estreme, democratiche e repubblicane. I liberali moderati, inoltre, erano favorevoli all'introduzione di un suffragio elettorale ristretto alle classi più elevate, per sfiducia nella classe popolare, ritenuta strumento cieco dei reazionari, e per resistenza a cedere alle classi inferiori le prerogative sottratte all'aristocrazia privilegiata e gelosamente fatte proprie. Il liberalismo moderato sovrapponeva ai principi dell'Ottantanove, vale a dire quelli della Dichiarazione dei diritti, un più accentuato individualismo e un riformismo ridimensionato in base all'esperienza della Rivoluzione; i democratici in genere, invece, tendevano a rimanere fedeli alla concezione giacobina della collettività egalitaria che deve imporre a tutti e a qualunque costo la propria volontà sovrana. I democratici europei, quindi, indicavano nella repubblica la forma ideale dello stato, in cui la sovranità popolare avrebbe potuto esprimersi totalmente, cioè in cui vigesse il suffragio elettorale universale. La composizione sociale dei movimenti democratici risultava soprattutto dall'apporto della borghesia media e piccola dei professionisti, dei pubblicisti e degli intellettuali. Solo molto grossolanamente si può collocare il radicalismo in posizione intermedia fra il liberalismo e la democrazia. In linea generale si può dire che i radicali partecipavano alla tendenza del liberalismo ad attuare il progresso attraverso riforme e avevano in comune con i liberali l'individualismo. La stessa ampiezza e profondità delle riforme auspicate dai radicale tendeva, tuttavia, ad avvicinarli ai democratici, con i quale avevano in comune la concezione razionalistica della vita e dell'umanità, di derivazione illuministica.

 

 

 

I programmi nazionali, la prima guerra di Indipendenza. La Questione d'Oriente e la guerra di Crimea

 

 

1. Il programma nazionale tedesco (fino al 1846).

 

Nato in ambiente essenzialmente intellettuale nell'epoca romantica, giunto a tradursi in azione politica e militare durante la campagna di liberazione dal dominio napoleonico, andò poi arricchendosi di altri elementi intellettuali (lo storico L. von Ranke e il filosofo G. W. F. Hegel), di elementi economici e politici che ne facilitarono l'accettazione e lo sviluppo in settori diversi dell'opinione tedesca. A partire dal 1818 si ebbe un progressivo sforzo di coordinamento delle attività economiche che si rivolgeva principalmente all'eliminazione delle barriere doganali che separavano i vari stati della Confederazione e che portò, nel 1834, alla formazione di una unione doganale (Zollverein). È l'epoca in cui soprattutto nella Germania occidentale e in Prussia nasce e si afferma l'industria, destinata ad avere nei decenni seguenti un notevole sviluppo. A rendere più stretti i vincoli spirituali e politici, contribuiscono gli stessi motivi economici; in particolare, nel quinto decennio del secolo, lo Zollverein adotta una politica rigidamente protezionistica che, mentre lega maggiormente l'uno all'altro i paesi tedeschi, rende più difficili i rapporti con i paesi esteri. I legami interni, poi, sono accresciuti dal rapido sviluppo delle ferrovie, che rendono più agevoli gli scambi, i viaggi e i contatti personali fra i tedeschi dei vari stati. I progressi del movimento intellettuale e del movimento economico portano nel 1846 a due iniziative di chiaro significato nazionale: la fondazione a Mannheim della Deutsche Zeitung, che si rivolge a tutta la nazione tedesca, e la riunione a Francoforte di un'assemblea di studiosi che, oltre la discussione culturale, affronta apertamente questioni di politica attuale.

 

 

 

2.

 

a) I motivi del fallimento della prima fase della I Guerra per l'indipendenza in Italia (marzo - agosto 1848).

 

Carlo Alberto, di cui non si erano dimenticati i trascorsi di reazionario, trovava a Milano un governo provvisorio già costituito sotto la presidenza di Gabrio Casati, e se da un lato l'aristocrazia si mostrava interessata ad annettere la Lombardia al Piemonte, i membri del partito regionalista con a capo Carlo Cattaneo si mostravano diffidenti; nel complesso, poi, nel Lombardo-veneto si stavano affermando forti tendenze autonomistiche ed antipiemontesi (Venezia, Parma-Piacenza, Modena-Reggio). Incerto si presentava anche lo scenario del resto della penisola: una volta introdotte le istituzioni costituzionali, che avevano portato alla formazione di governi liberali, il granduca di Toscana, il papa e il re delle Due Sicilie dovettero aderire alla guerra e inviarono propri contingenti nella pianura padana, ma prospettiva di ingrandimenti territoriali per il Regno sabaudo costituì un freno alla partecipazione. Così, il Granducato di Toscana, al confine della zona di eventuale espansione del Regno di Sardegna, reagì annettendo Carrara; Pio IX, imbarazzato dalla sua posizione di capo del cattolicesimo, ordinò il ritiro immediato delle truppe (allocuzione del 29 aprile); Ferdinando II, cogliendo l'opportunità di un moto rivoluzionario scoppiato in Sicilia, attuò una dura repressione militare e ripristinò l'assolutismo, ritirandosi. Con tali defezioni i liberali moderati si trovarono del tutto privi di un orientamento ed esautorati, con la conseguenza del rinforzarsi delle tendenze radicali e repubblicane che non potevano collaborare con la dinastia sabauda, intesa come conquistatrice. Il Piemonte si trovò di fatto solo a combattere, per giunta in zone in cui la mancata collaborazione delle autorità municipali lombarde ritardava le comunicazioni e gli approvvigionamenti. Il Radetzky, che nel frattempo aveva riorganizzato le sue forze riusciva quindi a infliggere ai piemontesi la sconfitta di Custoza, il 23 luglio.

 

b) La Germania tra il marzo 1849 e la conferenza di Olmütz (novembre 1850).

 

Nel marzo 1849 i Piccoli Tedeschi riuscirono a far prevalere la loro tesi al Parlamento di Francoforte, che offriva a Federico Guglielmo IV di Prussia la corona di “Imperatore dei Tedeschi”. Federico Guglielmo, però, troppo devoto alle concezioni legittimistiche per accettare una designazione imperiale di origine “popolare”, rifiutò la corona offertagli dal Parlamento di Francoforte, ma nello stesso tempo il suo governo, approfittando delle difficoltà dell'Austria, impegnata nella questione ungherese, si adoperò energicamente per riformare a vantaggio della Prussia l'assetto politico del Reich. Scioltosi, dopo il rifiuto del re di Prussia, il Parlamento di Francoforte, il governo di Berlino riprese il progetto di uno stato federale tedesco sotto direzione prussiana, creato però non dalla volontà popolare espressa attraverso il Parlamento, bensì dalla volontà e dalla collaborazione dei vari principi. A questo piano “prussiano” il principe di Schwarzenberg contrappose il piano “austriaco” di una Grande Germania di cui avrebbero fatto parte anche i territori dell'Impero d'Austria, e in cui gli affari comuni sarebbero stati affidati a un Direttorio formato dai rappresentanti degli stati medi tedeschi, quegli stessi che, per garantire la loro indipendenza, avevano interesse a mantenere il dualismo austro-prussiano. Il contrasto fra le tesi prussiana e austriaca si prolungò finché Nicola I assunse un atteggiamento sostanzialmente favorevole all'Austria, che poté quindi far prevalere una soluzione che serviva agli interessi di conservazione dello status quo dell'Impero asburgico. A fronte di ciò la Prussia aderì al piano austriaco nella conferenza di Olmütz (29 novembre 1850) e all'inizio dell'anno seguente una conferenza generale degli stati membri della Confederazione tedesca, riunita a Dresda, ristabilì l'assetto federale nella forma esistita fra il 1815 e il 1848.

 

 

 

3.

 

a) La crisi della "Seconda Repubblica" francese e la "carriera" di Luigi Napoleone Bonaparte fino al dicembre 1852

 

La “Seconda Repubblica” era stata caratterizzata dall'affermarsi dei socialisti; partecipando per la prima volta alla vita politica, essi avevano ottenuto l'adozione di provvedimenti favorevoli alle classi lavoratrici, in particolare l'istituzione degli ateliers nationaux, che avrebbero dovuto dare lavoro, per iniziativa statale, ai disoccupati. La maggioranza della nuova Assemblea nazionale assunse però un atteggiamento ostile verso le iniziative socialiste, inducendo manifestazioni di massa che avrebbero dovuto dare inizio a una fase più radicale della Rivoluzione. Il tentativo, tuttavia, fallì e fra il 23 e il 27 giugno '48 il ministro della guerra, generale Cavaignac, faceva reprimere le manifestazioni dalla guardia nazionale e dalle truppe. La “Seconda Repubblica” iniziava, pertanto, una fase contrassegnata dal potere preminente di una democrazia borghese sospinta su posizioni conservatrici per il timore di radicali sovvertimenti sociali. In tale situazione poté costituirsi un raggruppamento di forze monarchiche (legittimisti, orleanisti e bonapartisti) e cattoliche, cui si unirono anche forze socialiste, che portò all'elezione a Presidente, il 10 dicembre 1848, del principe Luigi Napoleone Bonaparte, figlio di Luigi re d'Olanda e di Ortensia Beauharnais. Coltivando la propria ambizione, pur avendo dietro di sé un passato di cospiratore carbonaro (Italia, 1831) e di bonapartista, Luigi Napoleone si appoggiò alle forze conservatrici, fino ad arrivare, il 2 dicembre 1851, con un colpo di stato, a prolungare il proprio mandato presidenziale, e ad essere poi proclamato, esattamente un anno dopo, Imperatore dei Francesi con il nome di Napoleone III.

 

b) Gli elementi costitutivi della "Questione d'Oriente" e la clausola fondamentale della "Convenzione degli stretti"

 

La Questione d'Oriente si presenta sotto tre aspetti congiunti: la decadenza del dominio turco e i movimenti nazionali nella penisola balcanica; l'assetto giuridico internazionale degli stretti dei Dardanelli e del Bosforo; la decadenza del dominio turco in tutta l'Africa settentrionale e nei paesi del Mediterraneo orientale dall'Egitto alla Siria. I fattori costanti della Questione d'Oriente durante il secolo XIX sono: la politica contraria all'Impero ottomano della Russia, che generalmente, sia dai movimenti nazionali slavi e cristiano-ortodossi della penisola balcanica sia per l'eventuale possibilità di accesso al Mediterraneo attraverso gli Stretti e di espansione nella Turchia asiatica dalla frontiera del Caucaso, ha tutto da guadagnare da un indebolimento e anche da un crollo dell'Impero ottomano; la politica favorevole all'Impero ottomano dell'Inghilterra (appoggiata spesso dall'Austria), la quale vede nella conservazione del pur decadente organismo statale turco il mezzo per contenere l'espansione russa nei Balcani, nel Mediterraneo orientale e nel Medio Oriente. Per più di un decennio, fino al 1841, la Questione d'Oriente subisce l'influenza delle iniziative di Mehemet Alì, pascià d'Egitto. Il 13 luglio di quell'anno, con la cosiddetta "Convenzione degli stretti", si stabilì il principio fondamentale della chiusura dei due Stretti alle navi da guerra di qualsiasi potenza (salvo naturalmente la Turchia) in tempo di pace; la Turchia, se si fosse trovata in stato di guerra, avrebbe avuto il diritto di lasciar varcare gli Stretti alle navi delle potenze con essa alleate.

 

 

 

 

Dalla Conferenza di Parigi (1856) alla presa di Roma (1870)

 

 

1. La liquidazione del '48 in Piemonte e la politica dell'Azeglio fino al "connubio" cavouriano.

 

Meno di due mesi dopo la firma dell'armistizio di Vignale (24 marzo 1849), Vittorio Emanuele ricostituì  (21 maggio) il governo sotto la presidenza di Massimo D'Azeglio, fedele a un moderato costituzionalismo. Il primo atto importante di questo governo fu la “liquidazione” dell'agitata situazione politica degli ultimi mesi del 1848 e dei primi mesi del 1849 attuata mediante il Proclama di Moncalieri (20 novembre) con cui il Re, di fronte all'impossibilità del governo di ottenere dalla maggioranza democratica del Parlamento la ratifica del trattato di pace con l'Austria, sciolta la Camera, si appellò direttamente agli elettori esortandoli a designare nuovi deputati più sensibili alle attuali difficoltà interne e internazionali del paese. Ottenuto il risultato desiderato, la ratifica del trattato di pace da parte della nuova Camera (9 gennaio 1850) conferì la necessaria indipendenza alla posizione internazionale dello stato subalpino. Nel quadro, poi, di una complessiva revisione dell'intera legislazione il ministero d'Azeglio procedette all'abolizione dei privilegi ecclesiastici che contraddicevano lo Statuto. A fronte dell'intransigenza di Pio IX, il ministro guardasigilli Siccardi presentò un progetto di legge in Parlamento con il quale si eliminava il cosiddetto foro ecclesiastico; la polemica politico-religiosa si fece aspra, con la defezione dei conservatori, ma la legge venne approvata dal Parlamento per l'appoggio dell'opposizione democratica. La politica del governo venne in seguito a dipendere sempre più dagli intenti innovatori del Cavour, il ministro dell'Agricoltura, al punto che, dopo il colpo di stato conservatore del 2 dicembre 1851 in Francia, mentre l'Azeglio assumeva un atteggiamento di estrema prudenza e i conservatori diventavano intransigenti, ostacolando l'opera innovatrice del Cavour, egli diede seguito nel febbraio del 1852 al cosiddetto “Connubio” con la sinistra moderata del Rattazzi, costituendo un centro liberale progressivo e provocando, di conseguenza, le dimissioni dell'Azeglio.

 

 

 

2. Il Congresso di Parigi del 1856.

 

Un mese dopo l'ultimtum austriaco (16 dic. 1855), lo zar Alessandro II si rassegnava a chiedere la pace sulla base dei “quattro punti di Vienna”. Il congresso di Parigi (inizio 1856) sanzionò nel trattato di pace del 30 marzo le condizioni imposte alla Russia, annullando i risultati da essa ottenuti dal trattato di Kainargi del 1774. Essa rinunciava ad esercitare un'influenza preminente sui Principati danubiani (che ottenevano “un'amministrazione nazionale” rumena nell'ambito dell'Impero ottomano) e al protettorato religioso sulle popolazioni ortodosse dell'Impero ottomano, accettando una garanzia collettiva delle potenze europee; riconosceva uno statuto internazionale di regolamentazione della navigazione sul Danubio e rinunciava a tenere navi da guerra e arsenali nel Mar Nero, perdendo il mezzo più diretto per esercitare una pressione sulla Turchia. Il congresso di Parigi costituì un significativo successo per Napoleone, che restituiva alla Francia una posizione di preminenza e di prestigio internazionale, e per l'Inghilterra, che otteneva i maggiori vantaggi concreti per la sua politica nella Questione d'Oriente e nel Mediterraneo. L'Impero ottomano, dal canto suo, otteneva a sua volta la garanzia dell'Europa alla sua esistenza e integrità territoriale. Con il suo atteggiamento l'Austria si era alienata l'amicizia della Russia spezzando la solidarietà delle potenze conservatrici; lo zar di Russia, invece, risentendo della sconfitta, si sarebbe apprestato ad affrontare i più urgenti problemi interni, trascurando di necessità, soprattutto per ragioni finanziarie, le sue forze militari.

 

 

 

3.

 

a) L'armistizio di Villafranca.

 

La vittoria di Solferino e San Martino (24 giu. 1859) era importante, ma non decisiva, perché le forze austriache erano comunque arroccate nelle fortezze del Quadrilatero; peraltro, nella situazione politica italiana e nella situazione internazionale europea si erano verificati eventi che indussero Napoleone III alla decisione di cessare le ostilità e di accordarsi con l'imperatore Francesco Giuseppe. Con l'armistizio di Villafranca (11 lug.) l'Austria cedeva alla Francia la Lombardia, che sarebbe stata ulteriormente ceduta al Regno di Sardegna; i principi dell'Italia centrale che erano stati costretti alla fuga dall'insurrezione generale, sarebbero stati restaurati sui loro troni; si sarebbe costituita una Lega Italiana sotto la presidenza del Pontefice, cui avrebbe partecipato anche il Veneto, costituito in territorio autonomo dell'Impero asburgico. Nei due ultimi mesi la situazione italiana si era sviluppata contro gli interessi francesi, in quanto preannunciava soltanto l'ampliamento dello stato sabaudo nell'Italia centrale, anche ai danni del potere temporale del papa; la Prussia, inoltre, pur essendosi astenuta dal conflitto, aveva deciso nel giugno di mobilitare alcuni corpi d'armata inviando nel contempo al governo francese l'ammonimento a non oltrepassare la linea del Mincio sul confine italiano. In tal modo non si risolveva la questione nazionale italiana né si costituiva un nuovo assetto italiano aperto all'influenza francese; tantomeno la Francia usciva rafforzata territorialmente dal conflitto. La decisione di Napoleone III provocò una violenta reazione in Cavour, culminata nelle dimissioni, che fecero posto a un governo Lamarmora-Rattazzi per il disbrigo della difficile situazione profilatasi nell'Italia centrale.

 

b) La Questione Romana fino al settembre 1864.

 

Il Cavour, appena compiuta l'unificazione, dedicò particolare attenzione alla Questione Romana, facendo dichiarare Roma capitale d'Italia con atto formale non privo di risonanza politica (27 marzo) ed esponendo in Parlamento, all'opinione europea e allo stesso Pontefice, oltre che ai parlamentari presenti, la famosa tesi “libera Chiesa in libero Stato”, che avrebbe tolto alla Chiesa cattolica il potere temporale, ma le avrebbe conferito piena libertà d'azione, in Italia, nell'ambito del diritto comune; d'altro lato, il Cavour iniziò trattative con Napoleone III per ottenere il ritiro da Roma delle truppe francesi, che sarebbero state sostituite da soldati italiani. Morto però improvvisamente il Cavour (6 giu.), Napoleone III non volle continuare le trattative con il nuovo presidente del Consiglio, Bettino Ricasoli. Dimessosi il Ricasoli (mar. 1862), a motivo della sua intransigenza, Urbano Rattazzi riprese, riguardo alla Questione Romana, l'audace politica del 1860, ignorare cioè ufficialmente le iniziative garibaldine finché fosse giunto il momento di far intervenire lo Stato, ponendo l'Europa di fronte al fatto compiuto. Napoleone III, tuttavia, reso accorto, quando Garibaldi (giu. 1862) radunò dei volontari in Sicilia, inviò un perentorio avvertimento al governo italiano, e questo, intempestivamente, inviò delle truppe a fermare Garibaldi che, passato lo stretto di Messina, avanzava in Calabria sull'Aspromonte (fine agosto 1862). Il Rattazzi dovette dimettersi (dicembre). La politica dei successivi governi Farini e Minghetti non valse a far uscire il paese dall'incertezza e dal disagio. Il 15 settembre 1864 il Minghetti giunse ad una soluzione di compromesso nella Questione Romana, concludendo con la Francia la Convenzione di Settembre, che impegnava Napoleone III a ritirare entro due anni le sue truppe da Roma, contro la promessa del governo italiano di impedire qualsiasi attacco contro il territorio pontificio e di trasferire la capitale da Torino a Firenze. Con ciò, la Questione Romana era ben lontana da una soddisfacente soluzione.

 

 

 

4.

 

La questione dei ducati dello Schleswig e dello Holstein

 

I due Ducati, abitati da popolazioni in parte di lingua danese, in parte di lingua tedesca, erano stati al centro del problema nazionale tedesco nel 1848. In seguito all'intervento diplomatico dell'Inghilterra e della Russia, che aveva posto fine nello stesso '48 alla relativa guerra prusso-danese, era stata confermata la posizione dei Ducati quali territori autonomi dipendenti direttamente dalla Corona danese (Trattato di Londra, 1852). Tuttavia, Cristiano IX, salendo al trono danese nel 1863, emanò una costituzione che toglieva ai Ducati l'autonomia e li rendeva parte integrante del Regno. Insorto il sentimento nazionale tedesco, per iniziativa del Bismarck all'Austria non rimase che prendere posizione a fianco della Prussia, nell'intento di mantenere la sua posizione di grande potenza tedesca. La guerra con la Danimarca ebbe quindi inizio al principio del 1864 e terminò in primavera per l'intervento diplomatico delle grandi potenze non tedesche. Con il trattato di Vienna (30 ott.) la Danimarca rinunciò ai Ducati, e Austria e Prussia si assunsero il compito di definirne l'assetto. Poi, con la convenzione di Gastein (14 ago. 1865) Bismarck aderì alla soluzione che poneva lo Schleswig e il porto di Kiel sotto amministrazione prussiana, lo Holstein sotto amministrazione austriaca. In seguito egli riuscì a provocare la rottura con l'Austria a partire dal disagio e dalla tensione provocata dalla questione dei Ducati per affermare che la Confederazione tedesca era impossibilitata ad agire e che quindi il suo statuto andava riformato. La riforma da lui proposta, che comprendeva l'istituzione di una assemblea nazionale a suffragio universale, era inaccettabile per l'Austria, appoggiata a sua volta dagli stati tedeschi medi. Il contrasto portò alla metà di giugno 1866 alla guerra.

 

 

 

L'età bismarckiana e i movimenti ideologici

 

1.

 

L'operato del Partito d'Azione dall'estate 1859 alla proclamazione del Regno d'Italia.

 

Alla temporanea crisi della politica cavouriana dovuta alla firma dell'armistizio di Villafranca corrispose la ripresa dell'altra corrente del movimento unitario, ora Partito d'Azione, guidato nell'azione politica e nell'azione militare da Giuseppe Garibaldi e Francesco Crispi. Nel 1859 questi era ritornato segretamente nell'isola per prepararvi l'insurrezione; seppe agire con meticolosità e precisione sia in Sicilia sia nel Regno di Sardegna superando anche l'ostilità del Cavour, che voleva impedire la leadership del Partito d'Azione. Il 4 aprile si ebbe a Palermo un movimento insurrezionale; l'11 maggio Garibaldi sbarcò a Marsala, portando poi a termine l'occupazione dell'isola entro la fine di luglio. Vittorio Emanuele, mantenutosi segretamente in contatto con Garibaldi al fine di neutralizzare le aspirazioni repubblicane del Partito d'Azione, espresse la propria posizione quando Garibaldi si accinse ad attraversare lo stretto di Messina, inviandogli l'ordine ufficiale di non procedere, ma segretamente assicurandogli il proprio consenso. Il Cavour, dal canto suo, aveva cercato di indirizzare gli sviluppi politici dell'impresa a favore dello stato sabaudo. Attraversato lo Stretto, i garibaldini giunsero ai primi di settembre alle porte di Napoli. Cavour seppe allora riprendere il controllo del movimento italiano decidendo un intervento militare piemontese che portasse le truppe regie a ricongiungersi con le forze garibaldine. Mentre Vittorio Emanuele giungeva ad assumere il comando della spedizione Garibaldi concludeva la sua campagna vincendo la battaglia del Volturno (1-2 ottobre). Subito dopo, il 22 ottobre, avevano luogo i plebisciti per l'annessione dell'ex Regno delle Due Sicilie il 4 e 5 novembre quelli delle Marche e dell'Umbria; il 26 ottobre, infine, Garibaldi a Teano rendeva omaggio a Vittorio Emanuele salutandolo re d'Italia. Mentre, quindi, i collaboratori di Cavour si adoperavano per stabilire nelle regioni liberate il controllo dello stato sabaudo, manifestando un'ingrata diffidenza verso gli elementi garibaldini, Garibaldi, cui era stata rifiutata la luogotenenza dell'Italia meridionale, si ritirava nell'isola di Caprera.

 

 

 

2. La III repubblica francese: profilo istituzionale e politico.

 

La Terza Repubblica, di cui Adolfo Thiers fu il primo presidente, era divisa dai partiti che si agitavano in seno all'Assemblea nazionale, composta da circa cinquecento monarchici e duecento repubblicani. I monarchici — bonapartisti, legittimisti (per la Casa di Borbone) e orleanisti (per la Casa d'Orleans) — differivano fra loro riguardo alla scelta e alla forma della monarchia. I legittimisti, infatti, ancora ligi al diritto divino, non volevano accettare la monarchia costituzionale sostenuta dai liberali orleanisti, pur disposti a cedere per quanto riguardava la scelta della dinastia. Il presidente succeduto al Thiers, il monarchico maresciallo Mac Mahon, eletto nel 1872, si adoperò per rendere possibile una restaurazione monarchica nella persona del candidato legittimista, il conte di Chambord; questi, però, non volle assolutamente rinunciare alle prerogative della monarchia legittima e in particolare alla bandiera bianca con i gigli d'oro dell'Antico Regime e della Restaurazione. Di fronte a tale resistenza i liberali orleanisti finirono con lo schierarsi con i repubblicani moderati e le possibilità di restaurazione monarchica svanirono. Le elezioni del 1875 diedero ai repubblicani la maggioranza in una delle due camere; quelle del 1877 accentuarono il progresso dei repubblicani, che ottennero la maggioranza in entrambe le camere. Il Mac Mahon si dimise e un repubblicano moderato, Jules Grévy, fu eletto presidente. Intanto, fin dal 1875 la Repubblica francese aveva definito la sua costituzione: il presidente, eletto dall'assemblea, durava in carica 7 anni; il potere legislativo era esercitato da una Camera di deputati (eletta a suffragio universale maschile per 4 anni) e da un Senato (scelto con elezioni indirette per 9 anni); il potere esecutivo era esercitato da un governo, il cui capo, o presidente del Consiglio dei ministri, veniva designato dal presidente della Repubblica in considerazione della situazione parlamentare e politica; il governo era responsabile verso il Parlamento. Caratteri fondamentali della storia della Terza Repubblica furono la posizione preminente della borghesia, il contrasto fra Stato e Chiesa, il movimento nazionalistico-patriottico e il sentimento della revanche contro la Germania.

 

 

 

3. Il sistema delle alleanze del Bismarck dopo il 1880.

 

Dopo l'alleanza austro-tedesca del 7 ottobre 1879 di carattere difensivo, ma diretta contro la Russia, Bismarck pare deciso ad assumere un orientamento antirusso (sebbene l'alleanza rimanesse segreta). In realtà, ritiene che l'intimità dei rapporti austro-tedeschi possa indurre la Russia a riflettere sul proprio isolamento e a preferire ancora un'intesa con gli Imperi centrali, che non con la Repubblica francese. Giunge perciò a ottenere, il 18 giugno 1881, un rinnovamento dell'Intesa dei tre Imperatori, senza promesse di aiuto armato, ma soltanto per una «neutralità benevola», nel caso in cui una di esse si trovasse in guerra. Neutralizzata quindi la Russia in caso di guerra franco-tedesca e impegnata ad un'intesa nei Balcani l'Austria-Ungheria e la Russia, il Bismarck aggiunge al suo sistema la Triplice Alleanza (20 maggio 1882) che gli procura l'alleanza dell'Italia nel caso di guerra franco-tedesca; soprattutto, però, Bismarck si preoccupa di rafforzare l'alleata Austria-Ungheria, che teme di essere attaccata alle spalle dall'Italia nel caso di un conflitto con la Russia (non impossibile). Nell'inverno del 1886-87 si ha una crisi dei rapporti franco-tedeschi (sviluppo del movimento boulangista in Francia) e una crisi dei rapporti austro-russi (questione bulgara). Bismarck teme l'avvento di un regime conservatore in Francia e per far fronte a un'eventuale alleanza franco-russa, accetta, con il rinnovamento della Triplice Alleanza (primavera 1887), di assumere nuovi impegni verso l'Italia. Nel contempo, tuttavia, dietro sua esortazione il governo inglese stipula con l'Italia gli Accordi mediterranei del 12 febbraio 1887 (l'Austria-Ungheria aderisce circa un mese dopo) per una collaborazione anglo-italo-austriaca in caso di mutamento dello status quo nel Mediterraneo neutralizzando eventuali iniziative francesi in Tripolitania. Il «sistema» viene completato in questo settore dall'Accordo italo-spagnolo del 4 maggio 1887 per cui la Spagna si impegna per la conservazione dello status quo e a non fornire aiuto alla Francia contro Italia, Austria-Ungheria o Germania. Nel 1887, infine, con la nuova crisi dei rapporti austro-russi (questione bulgara), non essendo più possibile il rinnovo dell'Intesa dei tre Imperatori, matura un'intesa a due fra la Germania e la Russia che porta al trattato segreto detto di Controassicurazione (18 giugno 1887).

 

 

 

4. Il socialismo delle internazionali

 

La prima organizzazione internazionale del movimento socialista, dovuta a Carlo Marx consistette nella "Associazione internazionale dei lavoratori", fondata a Londra nel 1864, che cercò attraverso congressi in cui convenivano rappresentanti dei gruppi socialisti di vari paesi europei e degli Stati Uniti, di coordinare e di potenziare l'azione politica del socialismo. L'Internazionale, come venne poi comunemente chiamata, non resistette a lungo; la scarsità di fondi, il sorgere dei movimenti nazionalistici nei vari paesi, il colpo ricevuto dal socialismo con la repressione della Comune di Parigi e l'esecuzione o la deportazione dei suoi capi, il dissidio interno fra socialisti marxisti e gli anarchici, facenti capo al russo Michele Bakunin, ne determinarono presto lo scioglimento (1876). Nel 1889 venne costituita una seconda Internazionale; la sua esistenza fu tuttavia ancora più precaria, a motivo del sorgere dei sentimenti nazionalistici nella coscienza politica dei popoli europei. La dottrina socialista vedeva nei conflitti fra nazioni la conseguenza delle competizioni economiche generate dal sistema capitalista e proclamava per gli operai di tutti i paesi i medesimi interessi. La seconda Internazionale cercò quindi di stabilire un comune piano di lotta contro il militarismo e l'imperialismo, soprattutto a partire dal 1904, in concomitanza con la corsa agli armamenti. All'unanime presa di posizione contro i metodi dell'imperialismo e il ricorso alla guerra come mezzo per regolare le divergenze internazionali, tuttavia, non corrispose alcun risultato concreto: al congresso di Stoccarda del 1907 una parte notevole dei delegati si oppose alla proposta di ricorrere allo sciopero generale per impedire o ostacolare un eventuale mobilitazione militare nei vari stati, mentre il problema viene eluso negli anni seguenti con dichiarazioni generiche e non compromettenti, rivelatrici dell'incapacità dell'Internazionale socialista di imporsi ai sentimenti nazionalistici.

 

 

 

18 aprile 2009

 

1.

 

a) La trasformazione del liberalismo a fine ottocento

 

Fra la metà del secolo XIX e la prima guerra mondiale, il liberalismo, senza mutarne i principi originari, arricchisce gli elementi dottrinari sotto l'influenza della nuova realtà sociale ed economica creata dalla Rivoluzione industriale. Supera i limiti del costituzionalismo per trasformarsi in liberalismo democratico o democrazia con il sorgere della Terza Repubblica francese; il corpo elettorale viene esteso fino a corrispondere al suffragio universale maschile (Francia già 1848; Gran Bretagna 1884; Germania 1871; Italia 1912; Stati Uniti 1830-40). La trasformazione ha un fondamentale aspetto economico, con importanti conseguenze sociali: al liberismo fa seguito una politica di protezionismo doganale e il progresso della democrazia in genere impone una nuova politica di intervento dello stato nelle iniziative economiche individuali. L'evoluzione del liberalismo in senso democratico culmina infatti nelle varie legislazioni sociali e progressive del decennio che precede la prima guerra mondiale, accompagnandosi all'introduzione del regime costituzionale in paesi rimasti soggetti per gran parte del secolo XIX a regimi autocratici: nell'Impero tedesco, pur non potendo considerarsi liberale per l'ampiezza dei poteri riservati all'imperatore e al cancelliere, il regime costituiva in ogni caso un riconoscimento dell'attualità del sistema rappresentativo, mentre regimi e metodi liberali si diffondevano all'interno dei vari stati tedeschi, specie di quelli sud-occidentali; nell'Impero asburgico una forma limitata di regime rappresentativo era stata introdotta già alcuni anni prima della costituzione della Duplice Monarchia del 1867; nell'Impero russo venne istituita, nel 1906, una Assemblea rappresentativa, la Duma, i cui poteri erano per altro assai limitati.

 

b) La Chiesa cattolica tra Gregorio XVI e Leone XIII.

 

Ligia ad una rigida politica di appoggio reciproco tra «trono» e «altare» sotto Gregorio XVI, con l'elezione di Pio IX (1846-78) la Chiesa cattolica aveva attraversato un breve periodo di equivoca accettazione del liberalismo, terminato peraltro nel novembre 1848. Da allora Pio IX assunse un atteggiamento di ostilità al liberalismo, inteso come minaccia al potere temporale, che venne espresso nel 1864 dalla enciclica Quanta Cura, in cui veniva affermata la necessità del potere temporale, e dal Syllabus, in cui venivano elencati principi e forme della società politica moderna liberale e democratica che la Chiesa condannava. Inflitto un colpo fatale al cattolicesimo liberale, l'anticlericalismo divenne anzi uno dei tratti caratteristici dei movimenti liberali dei paesi cattolici (Francia, Italia, Belgio, Spagna ecc.). L'atteggiamento intransigente del Papato venne accentuato dal Concilio vaticano del 1869-70, che malgrado l'opposizione interna proclamò il dogma dell'infallibilità papale, dando alla Chiesa una struttura più rigidamente gerarchica; ciò portò pure il pontefice a urtarsi con le potenze conservatrici, la Germania bismarckiana (Kulturkampf) e la stessa Austria-Ungheria, potenza cattolica per eccellenza (annullamento del concordato del 1855). Leone XIII (1878-1903), aperto e politicamente avveduto, pur senza abbandonare alcuno dei dogmi cattolici, si adoperò per conciliare la tradizione religiosa con la scienza, cercando anche di neutralizzare l'opposizione politica alla Chiesa. Con l'enciclica Rerum novarum (1891), che affermava l'opportunità di una collaborazione fra capitale e lavoro, portò la Chiesa su posizioni sociali più avanzate di quelle del liberalismo.

 

 

 

2.

 

a) L'occupazione inglese dell'Egitto.

 

Nel 1875 il Disraeli aveva acquistato in nome del governo britannico le azioni della Compagnia del canale di Suez, di proprietà del Khedivé d'Egitto, soprattutto nell'intento di affermare la posizione dell'Inghilterra accanto a quella della Francia nell'amministrazione del Canale, vitale via di comunicazione per l'India. Peraltro, la critica situazione finanziaria non  migliorò e il governo egiziano si indebitò in modo sempre più oneroso con banche francesi e inglesi. Queste ultime, quindi, sostenute dai creditori privati, fecero pressione sui rispettivi governi finché ottennero che venisse imposta all'Egitto un'amministrazione controllata anglo-francese. Ciò però suscitò una reazione xenofoba e nazionalistica sopra tutto fra gli ufficiali dell'esercito, e così, nel luglio 1882 il malcontento si trasformò in rivoluzione ai danni della popolazione europea di Alessandria. Il Gladstone si decise a intervenire, mentre il governo francese si asteneva dal partecipare all'iniziativa e l'Italia, espressamente invitata dal governo britannico, declinava l'offerta. Un piccolo corpo di spedizione inglese procedette allora all'occupazione, dopo aver annientato (settembre 1882) le forze egiziane. L'occupazione, intesa all'inizio come temporanea, venne poi protratta anno per anno, e gli Inglesi, attraverso una serie di consiglieri e di esperti, assunsero sempre più il controllo del paese.

 

b) L'imperialismo crispino.

 

Nel decennio seguito alla morte del Depretis (1887), la situazione economica del paese non era tale da incoraggiare il governo a stanziare fondi per un'espansione coloniale, né esisteva nel paese una tradizione di iniziative coloniali private. L'impulso sentimentale-nazionalistico fu quindi preminente, ciò soprattutto nel pensiero e nell'azione di Francesco Crispi, presidente del consiglio, dopo Depretis, fino al gennaio 1891, e poi ancora dalla fine del '93 al '96. Il Crispi. La prima presa di possesso dello stato italiano in Africa data dal 1882, quando esso acquistò dalla società Rubattino la base di Assab. Tre anni dopo, incoraggiata dall'Inghilterra, l'Italia aveva occupato Massaua. Da tali basi partì, negli anni seguenti, il movimento di penetrazione verso l'interno che culminò nella costituzione della Colonia Eritrea, secondo i confini stabiliti dal Trattato di Uccialli fra il governo Crispi e il negus Menelik (1889). Costituita la Colonia Eritrea e imposto il protettorato italiano sulla Somalia italiana (1890), nel 1893, tornato alla presidenza del Consiglio, fece precipitare l'attrito italo-etiopico, sorto dalla controversa interpretazione del trattato di Uccialli, in guerra aperta (1894). Dopo parziali successi italiani, nel 1895 il negus, incoraggiato dalla Francia, che temeva per il suo possedimento di Gibuti, abbatté le posizioni avanzate italiane dell'Amba Alagi e di Makallè e inflisse una sanguinosa sconfitta al corpo di spedizione italiano comandato dal generale Baratieri ad Adua (10 marzo 1896). La sconfitta costituì il pretesto adatto per i molti anticolonialisti e i molti avversari del Crispi per provocarne la caduta.

 

 

 

3. La politica di Giovanni Giolitti.

 

L'aspetto più significativo della sua opera politica consistette nel nuovo atteggiamento verso il problema sociale, basato sulla realistica constatazione che il socialismo fosse una forza politica che sarebbe stato urgente «assorbire», facendola partecipare alle responsabilità di governo. Ciò consentì agli operai di riorganizzarsi in sindacati per la conquista di un maggiore benessere economico e stabilì la neutralità governativa nei conflitti fra capitale e lavoro, limitando l'opera dello stato alla tutela dell'ordine pubblico; inoltre permise che si compissero i primi passi verso l'introduzione di una legislazione sociale. Giolitti contribuì a dividere le due principali tendenze del socialismo italiano, la riformistica e la rivoluzionaria (Turati e Labriola). L'epoca giolittiana coincise poi con le prime affermazioni della grande forza cattolica: il non expedit, imposto da Pio IX e sostanzialmente mantenuto da Leone XIII, venne gradualmente a diminuire sotto di Pio X, quando i cattolici parteciparono per la prima volta alle elezioni nel 1904 e quando, con le elezioni del 1909, venne a costituirsi alla Camera un gruppo di «cattolici deputati» che, senza formare un partito, rappresentavano una corrente distinta nella vita pubblica italiana. Era anche la conseguenza della cauta politica del Giolitti verso la Chiesa, sviluppo e semplificazione della concezione cavouriana. Avvalendosi dei mezzi già sperimentati con successo dal Depretis all'epoca del Trasformismo, il suo sistema di legami politici, pur contribuendo alla decadenza dell'istituto parlamentare, ebbe però l'effetto di assicurare al paese l'equilibrio e la relativa conciliazione delle varie tendenze in un clima di pacifica attività che favorì lo sviluppo economico, sociale e intellettuale. A fronte del consolidarsi delle tendenze nazionalistiche (Corradini, l'Idea nazionale), dopo aver cautamente preparata l'impresa sul piano internazionale, dal punto di vista finanziario e presso l'opinione pubblica, l'Italia procedette nel 1911-12 all'occupazione della Libia. La politica estera, infine, subì un'evoluzione significativa dalla posizione, tenuta sotto il Crispi, di incondizionata partecipazione alla Triplice Alleanza ad una posizione di partecipazione sempre più condizionata alla Triplice e di liquidazione dei contrasti con la Francia. Sviluppo economico-sociale, progresso intellettuale (sia nel campo dell'istruzione popolare sia in quello della ricerca scientifica) ed equilibrio politico restituirono agli Italiani la fiducia nei «destini» nazionali che gli eventi dell'ultimo decennio del secolo XIX avevano gravemente scosso. A sanzionare questo relativo progresso generale venne introdotto nel 1912 il suffragio universale maschile.

 

 

 

4.

 

a) Le guerre balcaniche del 1912-13.

 

Una crisi balcanica si era avuta nel 1908-9 quando l'Austria-Ungheria, appoggiata dalla Germania, aveva annesso la Bosnia-Erzegovina suscitando violente manifestazioni nazionalistiche in Serbia, mentre la Russia non si mostrava in grado di assumere un atteggiamento minaccioso per la disorganizzazione delle sue forze armate. Pochi anni dopo, nel 1912, la Bulgaria, la Serbia, il Montenegro e la Grecia, per iniziativa russa, si allearono contro la Turchia per strapparle i possedimenti che ancora le rimanevano in Europa, ossia nei Balcani: la Turchia, vinta, conservò soltanto una piccola parte della Tracia intorno a Costantinopoli e cedette anche l'isola di Creta alla Grecia (accordi di Londra, 30 maggio 1913). Gli alleati balcanici, tuttavia, non riuscirono ad accordarsi circa la spartizione dei territori conquistati e contro la Bulgaria, che pretendeva i vantaggi più cospicui, si formò un'alleanza serbo-greca, mentre la Romania attaccava a sua volta la Bulgaria da nord, e la Turchia, ansiosa di rifarsi, l'attaccava da sud. La Bulgaria fu costretta alla pace: il trattato di Bucarest (10 agosto 1913) assegnò la Dobrugia meridionale alla Romania, restituì Adrianopoli alla Turchia e diede Salonicco alla Grecia, mentre la Serbia si ingrandiva con l'annessione di Monastir. La situazione balcanica rimase tuttavia instabile.

 

b) Il meccanismo degli interventi dopo l'ultimatum alla Serbia.

 

Il 25 luglio la Serbia respingeva l'ultimatum, allegando che alcune delle dieci richieste fatte dall'Austria (come l'impiego di funzionari austro-ungarici per sopprimere l'agitazione nazionalistica e per condurre un'inchiesta sull'attentato) ledevano la sovranità serba. L'Austria rispose rompendo le relazioni diplomatiche e preparandosi alla guerra. Nell'ultima settimana di luglio la diplomazia europea fu più o meno seriamente impegnata a impedire un conflitto generale: gli sforzi maggiori in tal senso vennero compiuti dal ministro degli esteri inglese, sir Edward Grey, e dallo stesso cancelliere tedesco, Bethmann Hollweg, resosi infine conto che il conflitto non era “localizzabile”. Il governo zarista (sebbene il ministro degli interni fosse assai preoccupato delle ripercussioni sociali interne di una eventuale guerra) decise dal canto suo di impedire ad ogni costo una vittoria diplomatica o militare austro-ungarica sulla Serbia, che avrebbe compromesso gravemente il prestigio della Russia presso gli Slavi dei Balcani, e contava sull'appoggio francese per affrontare ogni eventualità. La Francia, dal canto suo, pur avendo promesso il 23 luglio di venire in aiuto della Russia in caso di intervento tedesco, cercò di evitare che l'alleata provocasse tale intervento, esortandola ad una mobilitazione parziale diretta soltanto contro l'Austria. In tale situazione la dichiarazione di guerra austro-ungarica alla Serbia (28 luglio) mise in azione il giuoco degli interventi e contro-interventi. Il 29 la Russia decise la mobilitazione parziale, che per ragioni tecniche fu mutata in totale (quindi diretta anche contro la Germania) il giorno dopo. La mobilitazione russa provocò un ultimatum tedesco sia alla Russia che alla Francia (31 luglio), seguito (1 agosto) dalla mobilitazione generale. La Francia rispose mobilitando a sua volta. L'Inghilterra entrò in guerra il 4 agosto, dopo l'invasione del Belgio.

 

c) L'intervento italiano nel 1915.

 

Per trarre dalla situazione creatasi con la guerra i migliori vantaggi per la politica nazionale, il governo Salandra, nel quale le tendenze nazionali-espansionistiche prevalevano, intraprese conversazioni diplomatiche sia con l'una che con l'altra coalizione, traendo da esse la conclusione che soltanto l'intervento dalla parte dell'Intesa (contando naturalmente sul fatto che la guerra terminasse con la vittoria) avrebbe potuto soddisfare completamente le aspirazioni nazionali dell'Italia, garantendole in particolare il controllo dell'Adriatico cui una parte attiva e intraprendente dell'opinione pubblica aspirava. Il 26 aprile 1915, pertanto, esso firmò con le potenze dell'Intesa il patto di Londra, che prometteva all'Italia i compensi stabiliti in cambio dell'impegno italiano ad intervenire contro l'Austria-Ungheria entro un mese. Il Patto era segreto; non solo il Parlamento e l'opinione pubblica furono tenuti all'oscuro di tutto, ma pure gli altri membri del governo non conobbero che a grandi linee il contenuto dell'accordo. Il 3-4 maggio il governo italiano denunciò il trattato della Triplice Alleanza e la maggioranza neutralista del Parlamento, che aveva il suo più autorevole esponente nel Giolitti, riuscì a provocarne la caduta. Peraltro, l'opinione interventista extraparlamentare, in cui figuravano i nazionalisti, l'ala destra del partito liberale, i democratici cristiani di Romolo Murri, i socialisti riformisti del Bissolati e un gruppo di socialisti rivoluzionari guidati da Benito Mussolini, all'oscuro degli impegni presi dal governo con i paesi dell'Intesa, reagì con violenza, invocando la guerra nella stampa e in manifestazioni tumultuose e entusiastiche. Vittorio Emanuele III, personalmente incline all'intervento, invocò tale movimento di opinione pubblica per respingere le dimissioni del ministero Salandra. Allora il Parlamento si rassegnò e il 20 maggio votò i crediti per la mobilitazione. Il 24 l'esercito italiano, al comando del generale Luigi Cadorna, iniziava le operazioni contro l'Austria-Ungheria.