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CLASSE   V   -   Sintesi di Storia (8)

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Terminologia storica

 

Il movimento operaio e il governo Giolitti

 

Il governo Giolitti

 

Nel complesso l'occupazione delle fabbriche si concluse con un generale riflusso, con un'accentuata frattura nel movimento socialista e con il più serio tentativo di restaurazione degli ordinamenti e dell'autorità dello Stato liberale, compiuto da Giovanni Giolitti.
Ritornato al governo nel giugno 1920, aveva contribuito allo sgombero delle fabbriche con un disegno di legge sul controllo della produzione da parte delle rappresentanze operaie. Egli, cioè, ritenne di poter rimediare alla situazione critica rispolverando molti degli ingredienti della sua politica d'anteguerra, ottenendo all'inizio buoni successi.
In occasione dell'occupazione delle fabbriche, infatti, si rifiutò di far sgomberare dalla forza pubblica le maestranze operaie, limitandosi a far presidiare dalle truppe i centri cruciali dell'amministrazione statale (prefetture, telegrafi, stazioni ferroviarie, Banca d'Italia, ecc.), con l'intenzione di intervenire poi in qualità di mediatore. In breve, il suo comportamento fu all'incirca quello tenuto in occasione dello sciopero generale del 1904.
Nello stesso tempo egli affrontò l'insostenibile situazione di Fiume, regolando direttamente con la Jugoslavia la questione mediante il trattato di Rapallo (novembre 1920): l'Italia rinunciò alla Dalmazia, eccetto Zara, e Fiume fu riconosciuta città libera. Lo sgombero della città da parte dei dannunziani avvenne poco dopo, in seguito a poche cannonate sparate dai reparti dell'esercito regolare.

 

Giolitti, forte del riacquistato prestigio, cercò allora di affrontare i problemi decisivi posti dalla situazione economica, finanziaria, politica e dell'ordine pubblico.

 

In campo economico e finanziario scelse una strada intermedia: da un lato abolì il prezzo politico del pane, che favoriva le classi meno abbienti ma aggravava il bilancio statale; dall'altro lato presentò una serie di provvedimenti che avevano il chiaro intento di colpire i redditi più alti e i profitti di guerra: imposta straordinaria sui patrimoni, imposta e commissione d'inchiesta sui sovrapprofitti, imposta sulle successioni e nominatività dei titoli (ciò significava che i possessori di azioni e di titoli di Stato dovevano render noto il loro nome a scopi fiscali).

 

Sul piano politico-sociale Giolitti si trovò di fatto ad affrontare la prima grave ondata di illegalità e violenze fasciste.
Il fascismo infatti, pur senza rinunciare alla propria ambiguità ideologica, aveva tratto grande profitto dalla reazione violenta all'occupazione delle fabbriche e dalle spinte diffuse per un ritorno all'ordine e alla tranquillità sociale.

 

Clima di violenza e debolezza dello Stato

 

Le squadre d'azione fasciste, agenti nell'illegalità, erano ormai al servizio dei proprietari terrieri che avevano dovuto sostenere nelle campagne padane, romagnole, toscane le rivendicazioni delle organizzazioni sindacali contadine, sia socialiste sia cattoliche.
Le scorribande fasciste si erano ben presto estese dalle campagne alle città, usufruendo del finanziamento di alcuni gruppi industriali (come i fratelli Perrone, proprietari dell'Ansaldo) e delle connivenze più o meno tacite degli organi dello Stato.
L'ondata fascista, manifestatasi in un clima di guerra civile, in cui diverse forze sociali, di fronte all'assenza dello Stato, si organizzavano in gruppi armati, colpì e sconvolse la fitta rete di organizzazioni sindacali, cooperative e mutualistiche (sia socialiste che cattoliche) dell'Italia settentrionale e centrale, senza rifuggire dall'assassinio politico, praticato del resto anche dai loro avversari.

 

Giolitti, come gran parte della classe politica liberale, sottovalutò il fascismo: pensò che potesse servire a tenere a freno i socialisti e si propose di incanalarlo nella lotta parlamentare, o, come si disse, di "normalizzarlo" e di "costituzionalizzarlo".
Anche in questo caso ritenne di poter agire come aveva fatto con i socialisti prima della guerra. Nello stesso tempo si ripromise di e ridurre la forza elettorale dei due partiti, socialista e popolare, refrattari a una collaborazione di governo con i liberali. Sciolse, pertatno, il Parlamento e indisse nuove elezioni (maggio 1921); queste però si risolsero con un nuovo successo dei socialisti e dei popolari, e ottennero solo di far entrare alla Camera i primi trentacinque deputati fascisti. I metodi giolittiani non avevano più funzionato di fronte alla forza organizzativa dei partiti di massa; né il fascismo, abilmente guidato dal suo capo Mussolini, pareva disposto a farsi ingabbiare nella logica giolittiana.
Forte ormai di solidi appoggi economici, il fascismo era in grado di presentarsi come "forza d'ordine" alla piccola e media borghesia, spaventata dalle cruente lotte sociali e disorientata dal non intervento dello Stato, e come "forza rivoluzionaria" a tutti i seguaci dei miti dannunziani e nazionalistici che invocavano il superamento e l'abbattimento dello Stato liberale.
Dopo le inevitabili dimissioni di Giolitti (giugno 1921), la crisi delle istituzioni precipitò rapidamente. I governi che si succedettero, presieduti da Bonomi e poi da Facta, erano troppo deboli per far fronte a una situazione di emergenza, nella quale dilagavano e si allargavano le violenze fasciste.
Mussolini rinunciò apertamente, in vista di una possibile presa del potere, alle sue pregiudiziali antimonarchiche e anticlericali, in occasione della trasformazione del movimento dei Fasci in Partito fascista (1921). Sempre alla ricerca di nuovi appoggi nei più disparati ambienti, egli intendeva così convalidare la sua nuova immagine di uomo capace di restaurare l'autorità dello Stato e di creare nello stesso tempo uno Stato nuovo.

 

 

 

La marcia su Roma

 

 

Falliti gli ultimi tentativi di Giolitti di ritornare al governo inserendo in posti di responsabilità esponenti fascisti, e caduti i progetti di una possibile alleanza tra popolari e socialisti riformisti, per l'opposizione della Chiesa e la renitenza di molti socialisti, Mussolini decise di tentare il colpo di Stato.
Il 28 ottobre 1922 bande fasciste marciarono su Roma con l'intenzione di imporre una soluzione di forza. Il re Vittorio Emanuele III si rifiutò di proclamare lo stato d'assedio e di concedere a Facta i pieni poteri per disperdere con l'esercito le bande fasciste, e chiamò Mussolini a presiedere un nuovo governo.
In quel momento decisivo l'illegalità fascista, manifestatasi nella marcia su Roma, trovò una suprema sanzione legale per opera della monarchia.

 

 

 

Espressioni di antifascismo

 

L'antifascismo di fronte al dilemma

 

Il fascismo era giunto al potere in modo molto semplice, con una parata pseudomilitare che, accanto agli elementi folcloristici da sagra paesana, nascondeva aspetti organizzativi non indifferenti (come la requisizione di camion e armi, il controllo dei nodi ferroviari), segno di connivenze negli organi amministrativi dello Stato.
Con ciò Mussolini era giunto a governare la nazione senza impegnarsi in programmi dichiarati.
La convinzione di molti, tra i liberali, i popolari e i socialisti, era che Mussolini avrebbe resistito per poco, una volta esaurito il compito di restaurare l'ordine e le istituzioni, offrendo al Paese un periodo di quiete, durante il quale le tradizionali forze politiche avrebbero potuto riassestarsi e riprendere a tessere la tela della vita pubblica italiana.
L'analisi di Piero Gobetti (Torino, 1901 - Parigi, 1926), editore di "Rivoluzione liberale", mise subito in luce la nascita di almeno due antifascismi;
 - il primo era la resistenza dei battuti dal colpo di Stato, cioè l'antifascismo dei vecchi democratici e liberali che erano stati ministri o ministeriali nel dopoguerra e dei filofascisti delusi, i quali si disponevano a un'opposizione squisitamente parlamentare, non provando avversione di sorta verso i fascisti, ma si sarebbero mostrati più che altro disorientati; incapaci di rendersi ragione della situazione storica che veniva a sfociare nel fascismo, si illudevano di trovarsi di fronte ad un fenomeno passeggero, che si poteva vincere con l'astuzia politica, con cui era opportuno trattare o collaborare mettendo però soltanto alcune pregiudiziali per negoziare;
 - il secondo antifascismo, quello degli intransigenti, che restava per ora minoritario, ma raccoglieva uomini di disparate tendenze, neoliberali (come lo stesso Gobetti), che vedevano nel fascismo l'espressione di tutti i mali antichi della società italiana (la corruzione, il trasformismo, la carenza di solida coscienza morale), comunisti come Gramsci, che individuava nel fascismo l'estrema reazione della borghesia di fronte alle lotte per l'instaurazione del potere del proletariato, popolari, come Sturzo, che denunciava nel fascismo l'assoluta incompatibilità con il cristianesimo, in quanto esaltazione pagana della violenza, dello Stato onnipotente, della nazione deificata.
Questi ultimi ed altri ancora (Gaetano Salvemini, i fratelli Rosselli) sarebbero diventati gli ispiratori dell'antifascismo successivamente costretto alla clandestinità e all'esilio. I primi, cioè quei politici che aspiravano in fondo a un ritorno al passato, non avevano intuito che il fascismo non era una forza politica vecchio stile.

 

 

 

Il governo Mussolini

 

 

Il primo governo Mussolini

 

Sul piano pratico il fascismo al potere si presentava come una garanzia di stabilità sociale, comunque ottenuta.
Sul piano ideologico, affermava la necessaria realizzazione della definitiva saldatura tra Stato e nazione, presupposto il superamento e lo scardinamento delle istituzioni sulle quali si era fondato lo Stato liberale.
Ne deriva l'idea di uno Stato monolitico, uniforme, onnipresente, in cui sarebbero scomparsi i conflitti, i dissensi e le contese (a partire da quelle elettorali), i partiti, le classi, le autonomie locali, uno stato basato sul rapporto diretto tra il Duce del fascismo e il popolo, in vista di un ruolo di grande potenza, capace di competere con i maggiori Stati del mondo.

 

La dottrina del fascismo si serviva degli apporti di culture e di ideologie diverse, come l'idealismo, il sindacalismo rivoluzionario, il nazionalismo, il futurismo. Di fatto, dopo la presa del potere, Mussolini ricorse largamente a un personale politico che non aveva origini fasciste.
Ricorse, ad esempio, al filosofo neo-idealista Giovanni Gentile, ministro dell'istruzione dal 1922 al 1924 e autore della riforma scolastica del 1923, distintosi nello sforzo di collegare il fascismo alle teorie dello Stato etico hegeliano e al pensiero risorgimentale; ricorse ancora al pensiero giuridico-politico di Alfredo Rocco, un nazionalista passato al fascismo con l'intera Associazione nazionalista nel 1923, teorizzatone di uno Stato gerarchico, imperialista e corporativo.
Mussolini non era all'inizio così forte da poter governare da solo, anche per l'esiguo numero dei deputati del suo partito, e proprio per questo formò un governo di coalizione abbastanza composito.

 

Alcuni avvenimenti precedenti la marcia su Roma peraltro avevano creato condizioni favorevoli al suo affermarsi:
 - l'ascesa al soglio pontificio di Pio XI (1922-1939), meno favorevole del predecessore Benedetto XV al Partito popolare, di cui riprovava il disinteresse per la questione romana e le caute aperture verso i socialisti riformisti;
 - la frattura del movimento socialista, spezzato in tre tronconi: i comunisti, i massimalisti di Serrati, e l'ala riformista guidata allora da Giacomo Matteotti, staccatasi nel 1922, cui si era aggiunta la rottura dell'unità d'azione tra Partito socialista e Confederazione generale del lavoro (CGL) con la proclamata indipendenza di quest'ultima da ogni partito.

 

In tale transizione, a Mussolini non fu difficile raggiungere in Parlamento una larga maggioranza per il proprio governo, favorita dall'assenza al momento del voto di numerosi deputati che preferirono non prender posizione.

 

 

 

La politica di Mussolini fino al 1925

 

 

Così, egli si mise subito all'opera per rassicurare tutti i gruppi conservatori, ma senza privarsi del suo principale strumento di pressione politica, le squadre d'azione. A questo scopo agì in diverse direzioni:
 - a fronte dei disordini di metà dicembre 1922, quando una spedizione punitiva compì a Torino un eccidio perpetrato contro rappresentanti sindacali e operai, costato una ventina di morti, visto che in generale le squadre fasciste, ribelli a ogni legge, potevano a quel punto costituire un effettivo ostacolo alla normalizzazione promessa e rappresentare una pericolosa forza centrifuga, nelle mani dei cosiddetti ras (i capi fascisti locali), nel 1923 attuò il loro inquadramento nella Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, iniziando il processo di assimilazione degli organi dello Stato al fascismo, in modo da garantirsi il controllo effettivo dei ras periferici e, dall'altra parte, di mantenere in vita, almeno fino alla definitiva vittoria del fascismo, un'organizzazione armata di partito, che poteva sostituirsi all'esercito, giudicato ancora troppo legato alla monarchia
 - in campo economico e sociale, smantellò la legislazione precedente, che risaliva per lo più al periodo dei governi giolittiani secondo due criteri, un indirizzo liberista nei confronti degli imprenditori agricoli, industriali e finanziari (indirizzo in seguito abbandonato per la necessità dell'industria pesante e dell'alta finanza di continuare a ricevere dallo Stato commesse, dazi protettivi e finanziamenti di favore) e un indirizzo corporativo nei rapporti tra lavoratori e datori di lavoro, tendente a eliminare le libertà sindacali e a controllare le rivendicazioni operaie (indirizzo poi continuato ed aggravato, con l'instaurazione dello Stato corporativo). Mentre, infatti, il liberismo economico era favorito dalla generale ripresa dell'economia mondiale, manifestatasi dalla fine del 1922 e trainata dall'economia americana, la produzione industriale entrava in fase di rapida espansione per opera dei trust siderurgici, meccanici, chimici, elettrici e delle fibre sintetiche, ma una pesante contropartita era pagata, dopo la distruzione delle organizzazioni sindacali democratiche, dalla depressione dei salari operai. Il primo passo verso lo smantellamento del sindacalismo libero di tendenza socialista o cattolica si ebbe con il patto di palazzo Chigi (dicembre 1923) con il quale si rinsaldarono i rapporti tra Confindustria e sindacati fascisti, ancora nettamente minoritari, allo scopo «di stringere sempre più cordiali rapporti fra i singoli datori di lavoro e i lavoratori»;
 - verso la Chiesa cattolica si produsse in una serie di gesti significativi di benevolenza, talora più formali che sostanziali, ma non per questo meno graditi alle gerarchie ecclesiastiche: ricollocò il crocefisso nelle scuole e negli ospedali, stabilì con la riforma Gentile l'obbligo dell'insegnamento religioso nelle scuole elementari e introdusse l'esame di Stato (che era gradito alle scuole private), sottopose a pressioni le minoranze religiose non cattoliche, abolì la nominatività dei titoli, salvò dal fallimento alcune banche cattoliche, fece intendere a chiari segni l'intenzione di dar soluzione alla questione romana e di voler riformare la legislazione ecclesiastica; in generale, assunse un atteggiamento ufficiale di rispetto e deferenza verso la Chiesa, proprio mentre più violente si facevano le persecuzioni contro le organizzazioni del movimento cattolico e i sacerdoti antifascisti. Lo scopo immediato di Mussolini era quello di dimostrare l'inutilità del Partito popolare, e, per altro verso, di valersi del ricatto della violenza per vincere eventuali opposizioni della Chiesa e del Vaticano.

 

Legge Acerbo e delitto Matteotti

 

Il problema principale, per Mussolini, era a questo punto la conquista completa e definitiva del potere.
Il congresso di Torino del Partito popolare (aprile 1923), che pure aveva alcuni suoi membri nel governo Mussolini, ebbe un'impronta prevalentemente antifascista, secondo gli intendimenti di Sturzo. La cosa creò per Mussolini l'occasione per licenziare i ministri del Partito popolare, per esercitare pressioni sulla Santa Sede perché lo liberasse dalla presenza di Sturzo (che "si dimise" da segretario del Partito popolare) e per agganciare alcuni settori e uomini rappresentanti del mondo cattolico conservatore usciti dal Partito popolare, chiamati clerico-fascisti.

 

Con la legge elettorale Acerbo (1923), che assegnava i due terzi dei seggi alla lista di maggioranza relativa (approvata da un Parlamento sempre più incerto e impaurito), Mussolini creò le premesse per la definitiva liquidazione della democrazia.
Immediatamente prima delle elezioni del 1924 si intensificò l'azione squadrista contro singoli uomini politici e della cultura e contro le diverse associazioni antifasciste.
Nel contempo, per raccogliere in un'unica lista elettorale i rappresentanti delle più diverse correnti politiche, Mussolini promise formalmente, in occasione della prima delle "adunate oceaniche", la normalizzazione della vita civile, chiedendo l'appoggio di chiunque fosse disponibile per una «attiva e disinteressata collaborazione» che si rendesse operativa «al di fuori e al di sopra e contro i partiti». Nasceva il cosiddetto "listone", una specie di alleanza nazionale, che affermava di porsi sopra i partiti; vi aderirono molti liberali, con in testa Salandra, nazionalisti, ex combattenti, monarchici, ex popolari, agrari.
In questo modo il fascismo ottenne circa il 65 per cento dei voti, a scapito delle opposizioni (liberali antifascisti, popolari, socialisti e comunisti), tra le quali soltanto il Partito popolare dimostrò una significativa tenuta elettorale.

 

 

 

Politica del Fascismo

 

 

Peraltro, proprio le elezioni del 1924 furono il periodo di maggior crisi  per il fascismo, nel senso che, poco dopo la riapertura della Camera, il socialista riformista Giacomo Matteotti tenne un documentato discorso sulle illegalità e violenze fasciste perpetrate nel periodo pre-elettorale.
Subito dopo, il 10 giugno, Matteotti fu prelevato a Roma e fatto sparire da una squadra fascista. Il suo cadavere sarebbe poi stato ritrovato, dopo circa due mesi, nella campagna romana.
In quell'occasione, l'opinione pubblica, scossa dall'eliminazione fisica di un rappresentante del popolo, reagì contro la continuazione dei soprusi e degli assassini, mentre da più parti (specialmente per iniziativa del popolare Donati) si additavano le responsabilità del governo.

 

L'opposizione parlamentare, guidata dal liberale Amendola, i socialisti Turati e Treves e il popolare De Gasperi, succeduto a Sturzo, decise di non prendere più parte ai lavori parlamentari dando vita alla cosiddetta "secessione dell'Avenlino" (giugno 1924) con l'obiettivo di isolare il fascismo e di costringere il re a risolvere la crisi per le vie legali liquidando Mussolini.
Questi, benché inizialmente disorientato, ebbe però tempo per riprendersi e per capire che gli "aventiniani" non avevano la forza per rovesciarlo, che il re non sarebbe intervenuto, che lo sdegno del popolo sarebbe rapidamente cessato.
Il 3 gennaio 1925 il "duce" del fascismo tenne alla Camera, dove erano rientrati alcuni degli aventiniani, tra cui il gruppo comunista, un celebre discorso, con il quale si è soliti far iniziare la dittatura del fascismo in Italia.

 

La dittatura del totalitarismo

 

Nel discorso del 3 gennaio Mussolini disse:

 

Qui al cospetto di questa assemblea ed al cospetto di tutto il popolo italiano... assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto.

 

Si sentiva infatti ormai in grado di procedere rapidamente allo smantellamento della legislazione liberale, assumendo la dittatura e trasformando il governo fascista in regime.

 

In meno di due anni (1925-1926), mediante l'approvazione delle "leggi fascistissime",
 - fu cancellata ogni libertà di stampa e di associazione,
 - furono sciolti tutti i partiti ad eccezione di quello fascista,
 - fu completamente esautorato il Parlamento a vantaggio del governo e soprattutto del primo ministro,
 - furono abolite tutte le autonomie locali con la nomina dei sindaci (chiamati podestà) affidata al governo,
 - furono dichiarati decaduti i deputati dell'opposizione.
Lo Statuto Albertino, tenuto formalmente in vita, veniva pertanto svuotato dei contenuti liberali a vantaggio dell'instaurazione di uno Stato totalitario che tendeva al controllo e all'assorbimento di qualsiasi forma di vita civile e associata, mirava alla repressione del dissenso e puntava all'uniformità in tutti i campi (oppressione delle minoranze linguistiche francesi, tedesche e slave, opposizione all'uso di parole e denominazioni straniere, ecc.).

 

La repressione del dissenso politico culminò nel novembre 1926 con l'istituzione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, per la persecuzione degli antifascisti mentre si compiva anche il processo di asservimento allo Stato delle organizzazioni sindacali dei lavoratori.

 

Con il patto di Palazzo Vidoni (2 ottobre 1925) erano infatti già state riconosciute come controparti esclusive nei conflitti di lavoro la Confederazione delle corporazioni fasciste e la Confederazione dell'industria, il che significava togliere ogni potere contrattuale alla Confederazione generale del lavoro (CGL, di ispirazione socialista) e alla Confederazione italiana dei lavoratori (CIL, di ispirazione cattolica), già duramente provate dalle violenze fasciste e rapidamente giunte all'estinzione (molti organismi della seconda furono incorporati dall'Azione cattolica); nell'aprile 1926, quindi, si stabilirono per legge il riconoscimento legale controllato delle associazioni sindacali e i contratti collettivi obbligatori, mentre si demandava alla magistratura del lavoro la soluzione delle controversie sindacali.
Erano in tal modo poste le premesse per esautorare gli stessi sindacati fascisti e il corporativismo, contrapposto al libero sindacalismo e propagandato come soluzione dei conflitti di classe, finiva per ridursi a uno strumento di assoggettamento del movimento sindacale a interessi più forti. Il suggello di tutta questa azione politica, svolta soprattutto dal ministro Giuseppe Bottai, fu la Carta del lavoro (1927, che riprendeva le linee della legge del 1926 ponendosi come obiettivo «il benessere dei produttori e lo sviluppo della potenza nazionale», un esplicito riferimento all'ormai chiara matrice imperialistica dello Stato fascista).

 

Alfredo Rocco portò a compimento l'opera di riorganizzazione legislativa dello Stato fascista con la riforma del codice penale a lui stesso intitolato (1930), ma l'aspetto probabilmente più tipico del totalitarismo fu la cura con cui lo Stato fascista si preoccupò, da un lato, di condizionare, servendosi delle moderne tecniche (radio, film propagandistici, manifestazioni e parate), il pensiero e l'azione delle masse, dall'altro, di inquadrare rigidamente gli strati popolari in associazioni di ogni genere, ma ufficialmente riconosciute (giovanili, come l'Opera Nazionale Balilla, sportive, paramilitari, dopolavoristiche), senza permettere alcuna iniziativa autonoma esterna al rigido contesto burocratico e gerarchico.
Tra l'altro, il fascismo entrò in conflitto a diverse riprese (1925, 1931) con le associazioni dell'Azione cattolica, che avevano potuto godere eccezionalmente di una certa autonomia, offendo rifugio talvolta agli ex popolari e alimentando in certi casi uno spirito di critica al regime.

 

Il consenso

 

La costituzione per opera del regime di organizzazioni, che inquadravano i giovani di ogni età, le donne, i contadini, gli impiegati dello Stato, i lavoratori dell'industria, furono un'applicazione della concezione totalitaria del fascismo.
Il fascismo, a differenza dello Stato liberale, prestava la massima attenzione all'integrazione delle masse popolari nello Stato, e la realizzava mediante le strutture di massa.
La cornice in cui tali strutture s'inserivano era costituita in prevalenza dal Partito Nazionale Fascista, considerato ormai alla stregua di un organismo statale, tanto che l'iscrizione al Partito fu resa ben presto obbligatoria per gli impiegati pubblici e poi estesa in pratica a tutta la cittadinanza.
Per essere veramente italiani occorreva aderire al partito e alle sue istituzioni. I responsabili locali del partito (i federali) venivano ad esercitare un'autorità simile o superiore a quella dei prefetti, il che provocava in molti casi un dualismo di poteri, analogo a quello che vigeva tra i comandi militari e i comandi della Milizia fascista.
Le funzioni delle organizzazioni di massa erano diverse:
 - formazione di una coscienza e di una cultura fascista (che divenne anche materia d'insegnamento scolastico);
 - assistenza sanitaria e profilattica estesa (in cui rientrava l'istituzione di colonie marine e montane per le classi in età scolastica);
 - promozione di attività sportive e di socializzazione fuori dai luoghi di lavoro;
 - partecipazione a manifestazioni e spettacoli di propaganda per il regime (in questo senso il fascismo fu tra i primi sistemi politici a comprendere le enormi potenzialità della radio e del cinematografo);
 - controllo sociale sui comportamenti e sulle idee.
In linea generale, il regime fascista utilizzò tecniche moderne per la raccolta e l'organizzazione del consenso, affiancandole a un'efficiente e capillare rete poliziesca, basata su fiduciari del partito infiltrati praticamente in ogni ambiente.
Anche le campagne di opere pubbliche – prime fra tutte le grandi bonifiche, come nel delta del Po o nelle Paludi Pontine, dove sor nuovi centri dotati di una struttura urbanistica romano-fascista – oltre a rispondere ai disegni economici e sociali del regime, di cui parleremo, ebbero un ruolo notevole come fonte di consenso presso larghi strati popolari.
Si trattava di un consenso pilotato e guidato dall'alto, fondato sulla mobilitazione e l'indottrinamento di massa, non certo sulla libera critica e sul dibattito aperto: un consenso, insomma, adeguato a un regime dittatoriale, che tendeva a consolidare efficacemente il regime, a renderlo accetto a molti (e tra questi non mancavano gli antichi oppositori), e a renderlo molto più stabile e penetrante di quanto non pensassero gli antifascisti.

 

Fascismo e mondo della cultura

 

Tra gli uomini di cultura il fascismo ottenne diffusi consensi.
Va ricordato, peraltro, che molti degli intellettuali di formazione nazionalista e futurista avevano aderito precocemente al fascismo. Altri, come il filosofo Giovanni Gentile, avevano approvato il fascismo come realizzatore dei principi dello Stato etico. Altri ancora, soprattutto scienziati, anche senza aderire direttamente al fascismo, avevano continuato a prestare la loro opera nelle istituzioni pubbliche, poco occupandosi della vita politica e contribuendo al prestigio del regime (molto sensibile a questi aspetti). Per alcuni scienziati e artisti solo la successiva legislazione razziale del fascismo sarebbe suonata come un campanello d'allarme, inducendoli a rifugiarsi all'estero, se avessero potuto (tale fu il caso del fisico Enrico Fermi, emigrato negli Stati Uniti nel 1938).
Molti intellettuali cattolici, come quelli raccolti nell'Università Cattolica di Milano, videro nel fascismo il superamento del liberalismo, verso il quale erano animati da antico spirito polemico.
Quando, dunque, nel 1932 il governo fascista impose ai professori universitari l'obbligo del giuramento di fedeltà al regime, solo un minuscolo drappello di 12 docenti universitari in tutta Italia si rifiutò di giurare e fu costretto a lasciare l'insegnamento.

 

Vi fu peraltro anche chi, dopo aver condiviso la diffusa opinione che il fascismo fosse un fenomeno passeggero e necessario per riportare l'ordine, assunse poi un atteggiamento di recisa opposizione.
Tra questi il più illustre fu il filosofo e storico Benedetto Croce, che nel 1925 redasse un Manifesto degli intellettuali antifascisti, in risposta a un Manifesto degli intellettuali fascisti, costituendo un nucleo d'opposizione culturale al fascismo.
Il regime, però, mostrò di non preoccuparsi molto di questo genere di oppositori, una volta che si era liberato dei suoi oppositori politici.
Tra questi ultimi alcuni furono eliminati fisicamente (come Giovanni Amendola e Piero Gobetti, morti in seguito alle bastonate fasciste), altri furono costretti all'esilio (come Sturzo, Nenni, Togliatti, Terracina, Salvemini e Turati, liberato con un colpo di mano dal confino dove era relegato), altri ancora furono mandati al confino o incarcerati (come Lussu, Pertini e Gramsci, che avrebbe dedicato i lunghi anni della prigionia, fino alla morte, alla stesura dei suoi Quaderni dal carcere, dedicati a una reinterpretazione della storia italiana alla luce del materialismo storico).
L'eliminazione di questi leaders politici aveva di fatto privato di capi ogni forma di resistenza organizzata e attiva al fascismo, contro il quale gli oppositori interni erano ormai costretti per lo più a una resistenza passiva e comunque poco efficace. Nondimeno, con il passare del tempo, si accrebbe lo scollamento tra la vita culturale ufficiale, divenuta via via più provinciale, dominata dalle formule retoriche, imbevuta dagli slogan propagandistici del regime e dalla fasulla riesumazione di simboli imperiali (fasci littori, aquile imperiali), e la cultura non ufficiale di gruppi o cenacoli rimasti in contatto con l'Europa.
Con il volgere degli anni, tuttavia, dall'interno stesso del mondo culturale fascista affiorarono critiche agli aspetti più deteriori del regime, alla rozzezza di molti dei suoi capi, all'involuzione della vita intellettuale del Paese.

 

Politica economica, monetaria e demografica del regime

 

In campo economico e finanziario, dopo gli indirizzi liberisti dei primi anni, il prestigio del regime fu tutto impegnato nella difesa del valore della lira, con una svolta in senso nuovamente protezionista, a iniziare dal 1925.
Nel 1927 si ebbe addirittura la rivalutazione della lira (fissata a quota 90 sulla sterlina), accompagnata da una generale pressione sui salari e specialmente sulle paghe degli operai. La battaglia per la stabilizzazione della lira produsse un rallentamento della produzione industriale, una riduzione delle esportazioni, uno sviluppo del processo di concentrazione e di accordi tra le imprese che il governo tendeva ora a incoraggiare, un accrescimento della disoccupazione, che da tempo non trovava più sfogo negli Stati Uniti.
La deflazione (cioè la riduzione della circolazione di moneta) colpì anche l'agricoltura, dove un reale processo di ammodernamento e di sviluppo già era stato frenato dalle "battaglie del grano", lanciate a partire dal 1925 per ridurre il deficit derivante dalle importazioni di frumento. Le produzioni cerealicole furono protette e incoraggiate con grande impegno propagandistico a scapito di altre colture più redditizie e tipiche.

 

Alla stessa logica di potenza e di autosufficienza, che doveva culminare dopo la grande crisi del 1929, rispondevano la politica demografica del fascismo, con notevoli incoraggiamenti alle famiglie numerose e il divieto del controllo delle nascite, e la politica dell'occupazione, imperniata sul forte impulso dato ai lavori pubblici, nel tentativo di assorbire la disoccupazione (i piani di bonifica intrapresi con largo impegno di mezzi soprattutto nelle paludi pontine incontrarono però la dura resistenza dei grandi proprietari latifondisti).

 

 

 

I Patti lateranensi. Gli anni '30; Stalin

 

 

Politica estera e Patti Lateranensi

 

Al consolidamento del regime fascista contribuirono in misura notevole la politica estera e la politica ecclesiastica di Mussolini, in qualche misura connesse tra loro.

 

Presentandosi come colui che aveva salvato l'Italia dalla rivoluzione, Mussolini godette all'inizio della fiducia e dell'appoggio dei governanti conservatori inglesi (Chamberlain e Churchill) e francesi, nonché di vasti settori finanziari americani, che gli concessero anche cospicui prestiti. Mussolini stesso s'inserì nell'atmosfera di distensione internazionale seguita al trattato di Locarno (1925), partecipando in modo attivo e in posizione di prestigio alle diverse conferenze internazionali e liquidando definitivamente, con l'accordo diretto con la Jugoslavia, la questione di Fiume, annessa all'Italia (1924).
Accanto a questo volto distensivo, però, non tardò a manifestarsi l'altro volto, quello imperialistico del fascismo, che era nato sull'onda della protesta contro i trattati di pace e la "vittoria mutilata". La temporanea occupazione di Corfù (1923) e l'intervento in Albania a favore di re Zogu (1926) ne furono i primi segni.

 

3

 

L'imperialismo fascista

 

Quanto alla Chiesa cattolica, il lungo, ma non rettilineo processo di avvicinamento iniziato da Mussolini fin dal 1922, si concluse, dopo diversi anni di trattative segrete, con la firma dei Patti Lateranensi il giorno 11 febbraio 1929 (la Conciliazione).
I Patti comprendevano tre documenti:
 - un trattato, con cui veniva risolta la questione romana, mediante il riconoscimento della sovranità e dell'indipendenza del papa in un suo proprio Stato, la Città del Vaticano;
 - un concordato, comprendente le clausole del riconoscimento civile del matrimonio religioso, l'obbligo dell'insegnamento della dottrina cattolica nelle scuole medie in quanto «fondamento e coronamento dell'istruzione pubblica», il divieto fatto ai sacerdoti apostati di insegnare nelle scuole pubbliche, il riconoscimento da parte statale delle organizzazioni dell'Azione cattolica, «in quanto esse svolgono la loro attività al di fuori di ogni partito politico», la con cessione di esenzioni tributarie agli organismi ecclesiastici;
 - una convenzione finanziaria che stabiliva il risarcimento dovuto dall'Italia alla Santa Sede per la perdita dello Stato della Chiesa.
Nel complesso i Patti Lateranensi, salutati trionfalmente come la restituzione «di Dio all'Italia e dell'Italia a Dio», attuavano con il Trattato una soluzione della questione romana già matura da tempo, mentre con il Concordato rappresentavano un'effettiva rottura rispetto alla tradizione anticlericale di stampo liberale.
Per il fascismo la Conciliazione fu un grande successo di prestigio, anche in ambito internazionale, ottenuto mediante una trattativa al massimo livello condotta secondo i canoni della diplomazia segreta.
Per la Chiesa la Conciliazione significò la garanzia di un proprio spazio d'azione nell'uniforme e oppressiva realtà dello Stato fascista.
Si trattava di un compromesso tra il totalitarismo, il quale non poteva ammettere, teoricamente, che alcuna zona della società italiana sfuggisse al suo controllo, e l'aspirazione della Chiesa a garantirsi in Italia, nazione a larga maggioranza cattolica e sede del papato, un posto di preminenza, riconosciuto dello Stato.

 

 

 

GLI ANNI TRENTA

 

 

 

Le radici di nuovi conflitti

 

Agli sconvolgimenti della prima guerra mondiale e del dopoguerra aveva fatto seguito un periodo di stabilizzazione, all'interno dei singoli Paesi e quindi sul piano internazionale, culminato nel biennio 1925-1926.
I conflitti ideologici, che avevano accompagnato le virulente lotte sociali e politiche del primo dopoguerra, parevano attutirsi e le ferite della guerra lentamente rimarginarsi. Questo era il frutto di diverse circostanze:
- la Russia sovietica, cui guardavano i movimenti comunisti europei, scelse la via dell'edificazione del "socialismo in un solo Paese", tutta presa dai suoi enormi problemi interni, costretta con la Nuova Politica Economica a rallentare la marcia verso l'instaurazione di un sistema integralmente comunista, e ritornata nelle assise internazionali con atteggiamenti distensivi;
 - nei maggiori Stati dell'Occidente, compresa la Germania, i sistemi democratico-parlamentari apparivano in grado di assecondare uno sviluppo economico rapido, anche se tumultuoso, affidato alle forze del capitalismo, e nello stesso tempo di fronteggiare, grazie appunto a quello sviluppo, le più impellenti richieste salariali e sociali delle classi lavoratrici, isolando o reprimendo le forze eversive ancora presenti e attive;
 - gli Stati Uniti erano entrati in un periodo di vero e proprio boom, che si rifletteva ormai su tutta l'economia mondiale, che a quella americana era fortemente collegata dopo la. prima guerra mondiale.
Restava il caso anomalo e inquietante del fascismo in Italia (e degli altri regimi dittatoriali o autoritari che si erano impiantati in altri Paesi, specie dell'Europa orientale); ma anche il fascismo era stato visto dalle classi politiche dei Paesi occidentali come fattore di stabilizzazione interna e internazionale e considerato alla stregua di una soluzione, accettabile e per molti aspetti vantaggiosa, dei problemi di un Paese giudicato "immaturo" per la democrazia. Più che un esempio pericoloso, dunque, un'eccezione non priva di meriti e di vantaggi. Anche da parte della Russia sovietica si intrecciavano rapporti amichevoli, specie sul piano economico, con l'Italia di Mussolini.

 

Questo quadro di relativa distensione mutava di colpo se lo sguardo si spostava dall'Europa e dagli USA verso il continente asiatico e il mondo coloniale, che aveva fino ad allora costituito il grande serbatoio dal quale le potenze colonizzatrici avevano attinto in certa misura le risorse per riprendere il cammino dello sviluppo nel dopoguerra. Qui si stavano ponendo le premesse di mutamenti radicali, destinati a cambiare il corso della storia futura. Si trattava, peraltro, di un mondo ancora lontano per la maggior parte degli europei, che conservava un sapore di falso esotismo, oggetto spesso di superficiale curiosità e di mode ricorrenti. Occorre tuttavia aggiungere che il neoimperialismo giapponese non mancava di suscitare preoccupazioni, specialmente negli americani, e che lo stesso Lenin aveva pronosticato che il futuro del socialismo era legato alla rinascita dei popoli coloniali sottosviluppati, cioè a uno scontro immane tra Oriente e Occidente.
Quando dunque i foschi anni della guerra e del dopoguerra sembravano dimenticati, i conflitti sociali e internazionali attutiti, tanto da far prevalere nei Paesi più prosperi, come gli Stati Uniti, un clima di ottimismo esteriore che fece meritare a quel periodo il nome di "anni ruggenti", sopravvenne nel giro di sei anni cruciali (1928-1933) una serie di eventi rapidi e inattesi, ma non per questo casuali.
Furono gli anni durante i quali lo stalinismo si affermò nell'Unione Sovietica, la grande crisi colpì il sistema capitalistico occidentale, il nazismo trionfò in Germania.
Fu una serie di mutamenti che non solo sconvolse le strutture economiche e politiche di società e nazioni appena riassestate, ma travolse ideali, abbatté speranze e illusioni, riaccese conflitti, preparò il terreno alla successiva conflagrazione mondiale.

 

La dittatura di Stalin

 

Una volta eliminata l'opposizione di sinistra, Stalin aveva compiuto, a iniziare dal 1928, una svolta improvvisa, adottando nei confronti della politica agraria e di quella industriale una serie di misure straordinarie, che andavano al di là delle più radicali proposte di Zinoviev e Trotzkij.
I primi atti conseguenti alla svolta staliniana furono l'eliminazione dei kulaki e un processo di collettivizzazione forzata della terra. Bucharin (1888-1938), «figlio prediletto del partito», già noto per le sue tendenze moderate, prese allora la testa dell'opposizione a Stalin, nel nome del leninismo.
Il contrasto esplose al VI congresso del Comintern (1928); mentre Bucharin, rivedendo le tesi del V congresso, si pronunciò per un'alleanza dei comunisti europei con le componenti di sinistra della socialdemocrazia; Stalin lo bollò come deviazionista di destra, e propose, invece, di accentuare la lotta contro i socialdemocratici. A nulla valse un discorso dell'italiano Togliatti in difesa di Bucharin e contro l'identificazione tra fascismo e socialdemocrazia.

 

Si iniziava un periodo di rivolgimenti, che diede l'avvio a una vera e propria seconda rivoluzione, quella staliniana.
Essa s'imperniò sulla collettivizzazione delle campagne e sull'accelerato ritmo di incremento della produzione industriale stabilito dal primo piano quinquennale di sviluppo economico (1928-1932).
Il primo obiettivo fu raggiunto mediante l'eliminazione anche fisica di circa un milione e mezzo di kulaki, deportati in campi di lavoro o fucilati; l'agricoltura fu per la maggior parte affidata ad aziende collettive (kolchoz e sovchoz), che non dettero però i frutti sperati dal punto di vista produttivo.
La produzione industriale, invece, raddoppiò in poco tempo, anche perché il maggiore sforzo fu concentrato sull'industria pesante (metallurgia, miniere ed elettricità), mentre restò inadeguata la produzione di beni di consumo. La compressione dei consumi delle masse rappresentò il metodo seguito da Stalin e dai governanti sovietici per fare dell'URSS, nei tempi più rapidi, un Paese industriale.
Di fatto la base industriale dell'economia sovietica risultò negli anni Trenta notevolmente potenziata, mentre il settore agricolo continuò nel suo insieme a perdere colpi.
Alla drastica limitazione dei consumi si affiancò la diffusione dei metodi polizieschi, tesi all'eliminazione di qualsiasi dissenso, come pure l'annientamento dell'autonomia delle nazionalità comprese nell'URSS e riconosciute dalla costituzione del 1924.
In questo quadro ripresero poi forza anche le antiche radici dell'antisemitismo, che colpì nuovamente le minoranze ebraiche russe.

 

A prezzo di uno spietato sistema dittatoriale e totalitario, che non esitava a servirsi del lavoro forzato, specie nelle inospitali regioni siberiane, il volto della Russia mutò in un decennio.
Essa divenne un Paese altamente industrializzato (almeno in certi settori strategici), dotato di una scolarizzazione di massa e con una diffusa popolazione operaia. La via staliniana all'industrializzazione mostrò un primo modello di sviluppo industriale non affidato alle forze del capitalismo privato, bensì imposto con ogni mezzo da un partito a ideologia comunista. Tale modello parve adattarsi alle caratteristiche di altri Paesi economicamente arretrati del mondo.
Di fronte ai primi segni di un nuovo dissenso interno Stalin reagì con la consueta brutalità, servendosi dell'onnipotente polizia segreta.
Il suo collaboratore, Kirov, fu trovato assassinato in circostanze oscure (1934); la sua morte servì peraltro a Stalin per iniziare una politica del terrore. Zinoviev, Kamenev e altri esponenti dell'opposizione furono imprigionati e più tardi fucilati (1936), la stessa sorte toccò a Bucharin.
Una vasta campagna fu scatenata contro i "nemici" del partito, che venivano costretti all'autocritica e a confessare vaste congiure contro lo Stato, di solito inesistenti.
Quattro ondate di purghe epurarono il partito tra il 1935 e il 1939; centinaia di migliaia di militanti, molti dei quali protagonisti della rivoluzione d'ottobre, furono messi sotto accusa, incarcerati, deportati o eliminati, spesso dopo aver ripetuto ai tribunali autoaccuse prefabbricate ed estorte.

 

Tutta la situazione era del resto cambiata in breve volger di tempo: il capitalismo, dopo la crisi del 1929, si mostrava di nuovo in espansione, mentre in Germania il nazismo era salito al potere indicando nel comunismo il suo primo avversario e stringendo rapporti con il fascismo.
L'URSS si sentì nuovamente isolata e minacciata da un possibile attacco diretto. Per farvi fronte scelse due vie parallele: il rafforzamento industriale-militare all'interno e la revisione della politica dei partiti comunisti verso le altre forze politiche antifasciste. Gli effetti si sentirono al VII congresso del Comintern (1935), quando il fascismo venne definito una forma di «dittatura terroristica aperta della borghesia», e si rinunciò quindi a identificarlo con la socialdemocrazia.
Parallelamente, finiva l'isolamento dei partiti comunisti occidentali e prendeva inizio la politica dei fronti uniti delle forze della sinistra, o "Fronti popolari".

 

 

 

Dalla crisi del 1929 ... ai giorni nostri

 

La crisi americana del 1929

 

Quando, nel marzo 1929, il repubblicano Hoover assunse la presidenza degli USA, il Paese aveva apparentemente raggiunto il culmine della ricchezza e della potenza.
In un'atmosfera di generale ottimismo, i corsi della borsa di Wall Street, la maggiore del mondo, salivano rapidamente; tutti si buttavano negli affari o nelle speculazioni; grazie alle vendite a rate, si diffondevano i consumi di massa. L'economia statunitense operava ormai non soltanto a livello continentale, subordinando a sé, con l'esportazione di capitali e con lo sfruttamento delle risorse locali, gran parte dell'America latina, ma trascinava, direttamente o indirettamente, tutto il sistema economico occidentale.
All'improvviso, in ottobre, come un fulmine a ciel sereno, scoppiò la crisi che doveva manifestarsi come la più grave della storia americana, e tale da riflettersi pesantemente su tutto il mondo occidentale con conseguenze incalcolabili.
Essa assunse all'inizio l'aspetto di un generale crollo delle azioni di borsa: il crack di Wall Street, ma non si trattava soltanto, come molti sperarono, di una semplice crisi di borsa, per quanto tragica. Essa si allargò in alcuni mesi a tutta l'economia, con il crollo delle attività produttive, il blocco dei commerci, i milioni di disoccupati, l'annientamento della capacità d'acquisto delle masse.
Dopo il grande crollo di Wall Street venne dunque la lunga depressione. Essa durò in tutto quasi un decennio e costrinse a rivedere, sia in pratica sia in teoria, i fondamenti stessi che reggevano un sistema economico entrato in così grave difficoltà.
A iniziare dal 1930 la disoccupazione dilagò negli USA e nei maggiori Paesi industriali (Gran Bretagna e Germania in testa), per raggiungere nel 1932 la cifra di 12 milioni di senza lavoro nei soli Stati Uniti: qui più di 5000 banche avevano chiuso gli sportelli, i fallimenti di industrie ammontavano a 32 000, i prezzi agricoli erano crollati ai livelli più bassi del secolo, il reddito nazionale si era dimezzato, come la produzione globale.
Nel 1933 la disoccupazione salì ancora, fino a colpire un terzo della forza lavoro.

 

Il New Deal

 

Il presidente Hoover, che cercò di affrontare la crisi con i tradizionali strumenti di politica economica, ne fu travolto. Nelle elezioni del 1932 risultò eletto a grande maggioranza il democratico Franklin Delano Roosevelt (19331945).
Ancor prima di insediarsi alla Casa Bianca egli si era formalmente impegnato a seguire un nuovo metodo e a stringere un "nuovo patto" (New Deal) con il popolo americano. Si trattava a suo avviso di rifondare su nuove basi la società americana, di rinunciare ad alcuni dogmi che l'avevano retta fino ad allora, di sostituire un'economia orientata allo sfrenato individualismo, una società di massa organizzata all'anarchia economica, uno Stato del benessere (Welfare State) a uno Stato indifferente di fronte agli squilibri sociali e alla povertà.

 

Roosevelt procedette per tentativi, in modo assai più empirico che sistematico.
I metodi che seguì furono una costante azione di convincimento sull'opinione pubblica, sull'uomo della strada, grazie a una straordinaria comunicativa e a un atteggiamento quasi dittatoriale negli affari di governo, affidati di solito a uomini di fiducia, a organismi appositamente creati anziché ai ministri ufficiali.
I risultati furono un'applicazione solo parziale e saltuaria dei principi enunciati, ma, in compenso, un effettivo rilancio su nuove fondamenta del sistema economico capitalista.

 

Politica economica e sociale del New Deal

 

Quando iniziò la presidenza di Roosevelt, la crisi toccava il suo punto più grave. Egli inaugurò la sua opera di risanamento con una serie di misure monetarie (abbandono della parità aurea e svalutazione del dollaro, immissione di moneta nel sistema finanziario) allo scopo di ristabilire una certa circolazione monetaria.
Nello stesso tempo egli vide la necessità di ricreare anche artificialmente la capacità d'acquisto della popolazione, adottando una politica di premi, sovvenzioni, lavori pubblici, sussidi di disoccupazione, creazione di nuovi impieghi. Tutto ciò significava accrescere e rendere permanente il deficit statale allo scopo di evitare una ulteriore riduzione dei consumi (era la tecnica del deficit-spending, detta anche keynesiana, dal nome dell'economista inglese J.M. Keynes, che la giustificò sul piano teorico).
Le pratiche di Roosevelt, affidate dunque a un'inflazione controllata e all'aumento del deficit statale, dettero risultati assai più soddisfacenti delle politiche tradizionali di tipo deflazionistico (basate cioè sulla difesa del valore della moneta a scapito dei salari e dell'occupazione), che in quegli stessi anni venivano applicate in Inghilterra, Francia e Germania.
Più in generale, il New Deal cercò anche di affrontare i gravi problemi sociali connessi con la crisi economica, e in specie quello della disoccupazione, ricorrendo a un energico intervento statale sull'economia, attuato mediante una serie di enti pubblici, come la National Recovery Administration (NRA), ente per la ricostruzione nazionale, che prevedeva una ristrutturazione industriale operata con l'aiuto statale a quelle industrie che si fossero impegnate a osservare un "codice", concordato tra operai e padroni (riguardante i minimi salariali, i contratti di lavoro, la concorrenza, la produzione).
Sempre nel campo del lavoro, fu enormemente incrementato l'intervento assistenziale dello Stato a favore di disoccupati, inabili e vecchi, mediante un sistema di previdenza. La disoccupazione fu a poco a poco riassorbita anche con l'ausilio di un decisivo impegno statale nelle opere pubbliche, quale il risanamento idrico e ambientale di intere regioni (come la valle del Tennessee).
In campo agricolo furono scoraggiate certe produzioni eccedenti, sostenuti i prezzi e agevolati i pagamenti di ipoteche.
Venne altresì riorganizzato il sistema bancario e posto sotto rigidi controlli il mercato borsistico.

 

Da un punto di vista strettamente economico, l'obiettivo di Roosevelt fu quello di mantenere un equilibrio tra risparmio, investimenti e consumi, evitando le riduzioni di investimenti e allargando invece i consumi; da un punto di vista sociale egli si preoccupò di accrescere il tenore di vita dei lavoratori, anche rafforzando le organizzazioni sindacali.
L'opposizione dell'alta finanza e dei ceti più conservatori alla politica rooseveltiana fu tuttavia molto violenta e trovò una certa eco nella Corte Suprema, impressionata dal modo di procedere spregiudicato del presidente. Già nel 1935 essa giudicò incostituzionale la NRA e altre disposizioni; quindi, con una serie mai vista di decisioni, annullò alcune principali riforme del New Deal. Un lungo braccio di ferro tra il presidente e la Corte si risolse con vari compromessi che però affossavano le leggi rooseveltiane più innovatrici.

 

Gli effetti della grande depressione

 

A differenza degli Stati Uniti i regimi europei di tipo liberal-democratico affrontarono la crisi con metodi e mentalità vecchi, dimostrando di essere impreparati a far fronte alla nuova situazione determinata dalle trasformazioni economiche e sociali degli ultimi decenni.
A parte un isolato tentativo del ministro francese Briand di lanciare una unione europea nell'ambito della Società delle Nazioni (1929), i Paesi dell'Europa si trovarono colti dalla crisi economica in ordine sparso. Essi non seppero far altro che ricorrere, all'interno, alle tradizionali misure monetarie di tipo deflazionistico, destinate ad aggravare e prolungare la recessione; e, verso l'esterno, alle drastiche misure protezionistiche destinate a riacutizzare i contrasti, a fomentare i nazionalismi, a far risorgere i "sacri egoismi" dei singoli popoli.
Significativo il caso dell'Inghilterra, dove i laburisti, saliti nuovamente al potere nel 1929 con il premier Mac Donald, formarono nel 1931 un "governo di unione nazionale" con il compito apposito di fronteggiare la situazione economica. Abbandonando il precedente interesse per l'Europa, il governo inglese cercò la salvezza nel Commonwealth. Alla conferenza di Ottawa (1932), i Paesi del Commonwealth decisero di accantonare il libero scambio e di adottare una tariffa preferenziale, che per la prima volta creava una barriera protezionistica tra l'Impero britannico e il resto del mondo.

 

In sintesi, i più gravi effetti della recessione economica, giunta in Europa in ritardo di circa un anno rispetto al suo epicentro americano, furono:
 - l'improvviso peggioramento delle condizioni di vita dei proletari e dei ceti medi, appena riavutisi dalle crisi belliche, e l'aggravarsi delle lotte sociali e dei contrasti interni, resi aspri, incerti e confusi dalla situazione disperata di milioni di disoccupati che non lottavano più per la difesa dei loro diritti, ma semplicemente per la sopravvivenza;
 - la diffusione di tentazioni autoritarie, cioè della fiducia nei cosiddetti "governi forti", divenuta, in breve, fenomeno di massa;
 - la vanificazione del clima di distensione e di collaborazione economica internazionale instauratosi verso la fine degli anni Venti.
Quest'ultimo aspetto segnò il rapido declino della Società delle Nazioni, incapace di offrire valide soluzioni ai problemi che più direttamente la riguardavano, come i debiti di guerra, il cui pagamento fu sospeso a causa della crisi, e l'annosa questione del disarmo.
Il ritiro del Giappone dalla Società (1933) in conseguenza delle reazioni suscitate dall'occupazione nipponica della Manciuria, e il successivo ritiro della Germania nazista indicarono come i rapporti internazionali stessero precipitosamente ritornando alla logica dei puri rapporti di forza e ai blocchi di potenze contrapposti.

 

La fine della Repubblica di Weimar

 

Tra le nazioni europee, la crisi colpì con particolare durezza la Germania, la cui economia si era ripresa anche grazie agli aiuti finanziari e ai cospicui impieghi di capitali americani, da un lato, e, dall'altro lato, grazie all'accelerato processo di concentrazione industriale e finanziaria in forme monopolistiche.
Tanto più violento fu quindi il contraccolpo della crisi americana, con conseguente crollo di banche, fallimenti a catena, chiusura di fabbriche e disoccupazione. Quest'ultimo fenomeno assunse forme catastrofiche: 5 milioni di disoccupati nel 1931, 6 milioni nel 1932. Non furono solo i lavoratori dell'industria a far le spese della crisi, ma anche i ceti medi (impiegati e professionisti) e gli agricoltori, gli uni e gli altri rimasti ai margini della ripresa economica, colpiti gravemente nei loro redditi e ora più disponibili ad appoggiare le forze politiche della destra nazionalista.
Di fronte alla crisi i due partiti più forti della Repubblica di Weimar (il Centro cattolico e il Partito socialdemocratico), pur collegati dal 1928 in una coalizione di governo, non si dimostrarono in grado di resistere al rapido rafforzamento delle opposizioni di destra e di sinistra, anche perché divisi al loro interno da profondi contrasti.
A sinistra riprese slancio il Partito comunista, che faceva accanita concorrenza ai socialdemocratici tra gli operai; a destra, accanto al Partito tedesco-nazionale, espressione delle gerarchie militari e burocratiche e dei grandi gruppi industriali, e al Partito tedesco-popolare, sorretto dalla borghesia nazionalista e dai commercianti, s'impose improvvisamente il Partito nazional-socialista di Adolf Hitler, che aveva fatto la sua prima sortita nel putsch di Monaco del 1923.
Le elezioni del 1930, indette dal cancelliere Brüning, appartenente al Centro cattolico, sulla base di un programma di emergenza assai impopolare ma inadeguato a fronteggiare la crisi, si svolsero in un clima di violenza e di demagogica propaganda hitleriana. Esse videro il clamoroso successo dei nazional-socialisti (o nazisti) passati da meno di un milione a più di 6 milioni di voti, e da 12 a 107 seggi al Reichstag. Anche i comunisti si rafforzarono, superando i 4 milioni di voti.
Nel complesso i "partiti di Weimar" risultarono notevolmente indeboliti. Brüning, rimasto al potere, non fu più in grado di opporsi efficacemente alla radicalizzazione della lotta politica e sociale, acuita dagli scontri aperti tra i gruppi paramilitari delle opposte fazioni, che già avevano fatto le loro prove nell'immediato dopoguerra: da un lato la Lega rossa dei comunisti e il Fronte di ferro dei socialdemocratici, dall'altro le formazioni naziste, più forti, violente, meglio armate e finanziate, le SA (Sturmabtei1ungen, sezioni d'assalto) e le SS (Schutzstaffeln, squadre di difesa), le quali avevano appreso anche troppo bene l'insegnamento delle squadre d'azione fasciste.

 

Di fronte all'ascesa di Hitler, i partiti di Weimar non trovarono di meglio che proporre, alle elezioni presidenziali del 1932, la rielezione del maresciallo Hindenburg, fidando nel suo prestigio e nei consensi che otteneva negli ambienti militari-industriali per salvare la repubblica. Egli riuscì a prevalere di misura sullo stesso Hitler, ma non poté impedire nuovi successi nazisti nelle elezioni in Prussia e Baviera. Quindi, cedendo alle pressioni dei settori più conservatori, licenziò Brüning, sostituendolo con il più rappresentativo esponente dell'ala destra del Partito cattolico, Franz von Papen, molto legato agli ambienti della grande proprietà agraria e ai gruppi industriali, e non pregiudizialmente avverso a Hitler.
Von Papen mise in piedi un governo detto dei baroni (giugno 1932), perseguendo il disegno di "normalizzare" il nazismo, alla stregua di un qualsiasi partito costituzionale.
Dopo due altre elezioni del Parlamento, svoltesi nel giro di pochi mesi (luglio e novembre 1932), von Papen perorò di persona presso il riluttante Hindenburg l'idea di affidare il governo a Hitler, con l'intento di controllarlo con una maggioranza di ministri conservatori.
Il 30 gennaio 1933 Hitler diventava cancelliere, avendo al suo fianco come vicecancelliere lo stesso von Papen.

 

Caratteri ideologici del nazismo

 

Hitler si era esplicitamente rifatto all'esempio di Mussolini nella tecnica seguita per la presa del potere:
 - insistenza sulla necessità storica di una svolta che abbattesse gli "inetti governi democratici" facendo uso della violenza affidata a gruppi armati illegali, e insieme garanzie offerte ai conservatori di un pronto ristabilimento dell'ordine e della tranquillità sociale;
 - uso di formule demagogiche anticapitalistiche, incentrate sull'ambiguo richiamo a un "socialismo nazionale" (il nazional-socialismo, appunto) e insieme lotta all'ultimo sangue contro la democrazia parlamentare e tutte le forme del socialismo storico (socialdemocrazia e comunismo);
 - esaltazione nazionalistica della missione imperiale germanica e insieme insistenza sulla funzione antisovietica (e antirussa) dell'imperialismo tedesco.
Il nazismo, però, si nutriva di una completa ed esclusiva concezione totalitaria dello Stato-nazione, incentrata sul mito pagano della pura razza ariana, che lo rendeva più pericoloso, sistematico e aggressivo del fascismo. Ciò, naturalmente, anche in conseguenza della ben diversa potenzialità insita nella collocazione geografica, nella tradizione militarista, nella forza economica dello Stato tedesco.
Hitler, già nel libro Mein Kampf, aveva mostrato d'intuire che la volontà di rivincita della Germania, sollecitata dalle umiliazioni di Versailles, poteva trovare nuovi sbocchi se le si fossero offerti nuovi obiettivi e nuove formule ideologiche; tali erano appunto il socialismo nazionale, la Germania eretta a baluardo della civiltà contro i "barbari popoli orientali", la lotta condotta in nome della razza dominatrice (Herrenvolk = popolo signore) contro tutte le minoranze etniche, soprattutto quelle ebraiche.
Con l'antisemitismo, che fu componente essenziale del nazismo destinata a produrre spaventose conseguenze, Hitler otteneva un duplice fine:
 - deviare, all'interno della Germania, il rancore e le frustrazioni provocate dalla grande crisi economica verso un odio di razza;
 - il fine di caratterizzare il nazismo come alternativa tedesca e nazionale alla democrazia, al capitalismo, al socialismo, al bolscevismo, tutti fenomeni internazionali, e, secondo Hitler, tutti dominati da uomini e da idee di origine ebraica (e in tal senso anche il cristianesimo doveva render conto di avere alla sua origine un ebreo, Gesù Cristo).
All'esaltazione della stirpe eletta (il popolo di Israele) faceva preciso riscontro, nel nazismo, l'esaltazione dell'uomo eletto, del capo, del Führer (= duce, condottiero, colui che guida), destinato a condurla ai suoi destini, e capace di trasformare un insieme di individui in un unico corpo compatto, dotato di una sola mente e di una sola volontà; un uomo chiamato a riassumere in sé l'idea stessa dello Stato, dotato di tutti i poteri e di tutti i diritti.

 

Il Terzo Reich

 

Meno di un anno fu sufficiente a Hitler per organizzare le strutture portanti del nuovo Stato totalitario tedesco, al quale fu anche dato il nome di Terzo Reich.
Sciolto il Parlamento, Hitler approfittò dell'intervallo elettorale per stroncare l'opposizione comunista attribuendo a essa l'incendio del palazzo del Reichstag (febbraio 1933) e sfruttando il panico delle forze moderate per far approvare un decreto eccezionale che sospendeva tutti i principali diritti sanciti dalla costituzione di Weimar.
Le nuove elezioni dettero la maggioranza assoluta alla coalizione elettorale dei gruppi di destra, dominata dai nazisti.
Nel marzo, un nuovo decreto approvato da tutti i partiti con l'eccezione dei socialdemocratici e dei comunisti, ormai fuori legge, riconobbe a Hitler pieni poteri, sottraendolo a qualsiasi controllo parlamentare per quattro anni.
Il regime nazista trionfò rapidamente:
- l'autonomia delle regioni storiche (Länder) venne eliminata con l'insediamento di luogotenenti del Reich;
- tutti i sindacati furono sciolti e sostituiti dal Fronte del lavoro, il sindacato nazista di tipo corporativo, mentre nelle fabbriche si esercitò uno spietato controllo sugli oppositori mediante le cellule naziste;
- gli agricoltori vennero inquadrati in corporazioni, mentre una legge dichiarò "bene ereditario e inalienabile" la piccola proprietà contadina;
- tutti i partiti, a eccezione del nazional-socialista, vennero posti fuori legge (giugno-luglio 1933).

 

La definitiva vittoria del nazismo in Germania, tuttavia, resterebbe probabilmente inspiegabile se non si tenessero in conto i successi ottenuti dal governo di Hitler in campo economico. Il popolo tedesco, infatti, era stato colpito da tre catastrofi nel giro di quindici anni: prima la sconfitta bellica, poi l'inflazione selvaggia del 1922-1923 e la distruzione del valore della moneta e infine la grande crisi. Pertanto, la sicurezza e il benessere economico erano diventati il fattore decisivo di un duraturo dominio politico.
Il successo di Hitler in campo economico fu il prodotto di vari elementi tra loro intrecciati:
- l'instaurazione di un rigido controllo sociale e politico sul mondo del lavoro, che vietava ogni conflitto e inquadrava gli operai in una specie di militarizzazione forzata;
- la rapida adesione al nazismo di tutti i maggiori potentati economici, che fino al 1933 non si erano trovati uniti nell'appoggio a Hitler;
- le capacità del ministro dell'economia Schacht, il quale, traendo anche vantaggio dai prezzi internazionali delle materie prime (eccezionalmente bassi per via della crisi), riuscì a riattivare il ciclo di investimenti, profitti e risparmio;
- l'adozione di una politica di intervento massiccio dello Stato nelle opere pubbliche e negli armamenti.
Quest'ultimo settore divenne preponderante a iniziare dal 1936, quando la guida dell'economia tedesca passò dalle mani del liberale Schacht a quella del nazista Göring, ideatore del secondo piano quadriennale incentrato sulle spese militari e sull'autarchia (economia chiusa e autosufficiente).

 

Una nuova legge sulla salvaguardia dell'unità del partito e dello Stato (dicembre 1933) stabilì poi il dominio nazista anche nel campo della cultura e della religione. L'Istituto della cultura del Reich e il Ministero della propaganda, tenuto da Göbbels (1897-1945), divennero gli strumenti per la diffusione dell'ideologia nazista, utilizzando tutti i moderni strumenti propagandistici (radio, cinema, adunate oceaniche, parate militari, organizzazioni giovanili, come la Gioventù hitleriana) per fare del nazismo l'unica dottrina vigente.

 

Anche le Chiese cristiane furono investite dalla bufera.
La Chiesa cattolica, con il Concordato del 1933, accettò il sacrificio delle forti organizzazioni sindacali cattoliche e del partito del Centro per salvaguardare l'autonomia delle proprie istituzioni educative e di culto, mentre vi furono vescovi tedeschi che sottovalutarono le componenti pagane e anticristiane del nazismo e si illusero di poter stabilire un modus vivendi con il regime simile a quello instaurato in Italia con il fascismo. Peraltro, altri membri del clero e gruppi di laici tentarono invano di organizzare nuclei di opposizione, che furono presto stroncati insieme con tutti gli altri.
Tra i protestanti prese piede per qualche tempo un movimento filonazista detto cristiano-tedesco; ma il più grande e famoso teologo luterano, Karl Barth, non esitò a denunciare l'inconciliabilità del nazismo con il cristianesimo e ad abbandonare la Germania, pur continuando a ispirare una Chiesa evangelica di opposizione, detta Chiesa confessante, che ebbe i suoi martiri.

 

Del resto, tutta una generazione di intellettuali, di scienziati e di artisti preferì emigrare, consapevole della fine di ogni libertà della cultura.
La sistematica eliminazione degli avversari del regime – attuata attraverso i primi campi di concentramento (Lager = "magazzini"), le denunce della polizia politica la Geheimstadtpolizei (Gestapo) e l'assassinio per opera delle SS – si estese a un certo punto ai gruppi nazisti delle SA, che vennero massacrate nella cosiddetta "notte dei lunghi coltelli" (30 giugno 1934), da cui uscirono rafforzate le SS di Himmler.
Con l'assunzione della presidenza del Reich da parte di Hitler alla morte di Hindenburg, la concentrazione delle cariche e dei poteri nelle mani del Führer era ormai compiuta, così come la compenetrazione tra gli organi e le organizzazioni del Partito nazista e gli organismi statali. La magistratura, la burocrazia, i quadri dell'esercito furono sottoposti ai severi controlli del partito e persero ogni autonomia.
L'accoglimento della dottrina della superiorità e della purezza della razza ariana come dottrina ufficiale del Reich segnò, infine, l'inizio delle persecuzioni antiebraiche. Dapprima si trattava di boicottaggio economico e dell'esclusione degli ebrei dalle cariche pubbliche, poi si passò alla segregazione (leggi di Norimberga, 1935) e alle violenze (incendi delle sinagoghe, distruzioni delle proprietà, violenze personali), infine alla deportazione sistematica nei campi di concentramento, che si trasformarono poi in campi di sterminio.

 

La politica estera di Hitler fino al 1936

 

La macchina nazista era per sua natura aggressiva e imperialista.
Hitler, del resto, era stato chiaro. I suoi fini immediati prevedevano l'abolizione dei vincoli imposti alla Germania dal trattato di pace (e già largamente violati con il potenziamento dell'esercito) e il ricupero dei territori perduti. I suoi fini ultimi erano l'imposizione al mondo del dominio della razza superiore e la costruzione di una più grande Germania (Grande Reich) a partire dai territori dell'Europa orientale dominati un tempo da popoli germanici.
I programmi del Führer vennero tuttavia sottovalutati o minimizzati da molti governi europei, sia perché Hitler riuscì ad attirarsi le simpatie di taluni ambienti conservatori occidentali, presentandosi come campione dell'antibolscevismo e del riassetto della Germania, sia perché si tentò di sfruttare la pedina del pericolo nazista nel complesso gioco delle rivalità internazionali. Hitler, del resto, giocò spregiudicatamente anche la carta della moderazione internazionale, in attesa di consolidare definitivamente la macchina bellica che aveva in allestimento.

 

Prima di far uscire la Germania dalla Società delle Nazioni, stipulò con la Gran Bretagna, la Francia e l'Italia il Patto a quattro (1933), che impegnava i firmatari al mantenimento della pace; quindi, respinto tale patto dai Parlamenti francese e inglese, ne firmò un secondo, di amicizia e di non aggressione, con la Polonia (1934), in funzione antirussa. Infine, preferì temporaneamente rinunciare alle proprie mire sull'Austria di fronte all'opposizione italiana.
L'equilibrio politico dello Stato austriaco, affidato ai due maggiori partiti, il socialista, a base operaia e cittadina, e il cristiano-sociale, a base contadina e conservatrice, era stato infranto dall'avvento del fascismo in Italia. Il governo cristiano-sociale del cancelliere Dollfuss, dopo un colpo di Stato nel 1933 e una sanguinosa repressione contro i socialisti, aveva dato al Paese un ordinamento autoritario e corporativo simile a quello mussoliniano. Una nuova minaccia, tuttavia, si era subito profilata per il rafforzamento delle correnti di estrema destra filonazista, le quali predicavano la necessità per l'Austria dell'unione (Anschluss) con il Reich tedesco. A questo scopo i nazisti, aiutati e fomentati da Hitler, tentarono con un colpo di mano di impadronirsi del potere, assassinando Dollfuss (luglio 1934), ma la reazione di Mussolini (che vedeva con preoccupazione l'intraprendenza di Hitler e seguiva a quell'epoca una politica di amicizia con la Francia e l'Inghilterra), che si concretizzò con l'invio di due divisioni al Brennero, fece decidere Hitler a rinviare l'Anschluss a tempi più propizi.
Nel frattempo il Führer badò soprattutto a rafforzare le sue posizioni, ottenendo una serie di successi:
 - denuncia delle limitazioni imposte alla Germania dal trattato di Versailles e introduzione della coscrizione obbligatoria (1935);
 - convenzione navale anglo-tedesca che autorizzava la Germania alla costruzione di una potente flotta da guerra (1935);
 - indizione del plebiscito nella Saar (1935) e trionfale ritorno di quella importante regione nel seno del Reich, in un clima di esasperato nazionalismo e di esaltazione nazista;
 - denuncia del patto di Locarno (1936) e ritorno delle forze militari tedesche nella Renania;
 - accordo con l'Austria (1936), preludio alla prossima unificazione.

 

Ma nel frattempo tutta la situazione internazionale era profondamente mutata.

 

Fascismo e crisi economica; l'imperialismo

 

La grande crisi del '29 ebbe effetti gravissimi e sia sulle strutture economiche e sociali del Paese sia sui successivi indirizzi politici assunti dal fascismo.
Tra il 1929 e il 1933 i disoccupati salirono a più di un milione di unità; crollarono i prezzi dei prodotti agricoli con grave danno delle già povere popolazioni contadine; l'indice della produzione delle industrie manifatturiere si ridusse notevolmente, così come il reddito pro capite.
Nello stesso tempo, la crisi sollecitò gli accordi e le concentrazioni tra le imprese, favoriti dagli organi governativi e sotto il patrocinio della Confederazione generale dell'industria. Tali accordi coprivano gran parte del mercato ed eliminando gli effetti della concorrenza, costituirono a vantaggio dei produttori una serie di posizioni monopolistiche che aggravavano i difetti tradizionali della industria italiana. Tutto ciò, tuttavia, non servi affatto a evitare che i principali settori economici venissero colpiti dalla crisi.
Il primo a cedere fu il settore bancario, che si salvò solo grazie all'intervento dello Stato. Il passaggio a enti statali sia delle attività creditizie rivolte al finanziamento delle industrie, sia della gestione diretta di attività industriali, culminò nel triennio 1931-1933 con la costituzione dell'Istituto mobiliare italiano (IMI) e con l'Istituto per la ricostruzione industriale (IRI). Il primo era chiamato a svolgere l'attività di credito industriale che le banche non erano più in grado di sostenere; al secondo vennero cedute le partecipazioni azionarie fino ad allora tenute dalle banche (di fatto, quindi, il possesso di società industriali collocate in settori chiave), con l'intento di risanarle e di rivenderle ai privati.
Nel 1937, però, l'IRI, sorto come ente provvisorio, fu dichiarato permanente, potendo così controllare molte aziende finanziarie, elettriche, telefoniche, armatoriali, metalmeccaniche, minerarie e chimiche. Nasceva in Italia l'industria di Stato.
Le principali conseguenze di questa politica furono essenzialmente due:
 - l'acquisizione da parte dello Stato di un peso preponderante nel sistema creditizio, a spese delle banche private (alcune delle quali, e tra le maggiori, furono a loro volta "irizzate", cioè acquisite dall'IRI);
 - il notevole accrescimento del controllo statale sulle attività industriali, o in forma diretta o attraverso enti pubblici come l'IRI.
Nel 1936 lo Stato italiano controllava di fatto una parte dell'industria nazionale proporzionalmente più ampia di qualsiasi altro Stato europeo, a eccezione dell'Unione Sovietica. Tale massiccia statalizzazione delle attività economiche, tuttavia, non significò di per sé una netta subordinazione degli interessi del capitalismo privato agli interessi generali della collettività. Infatti, accanto all'industria dello Stato, chiamato a salvare i settori più pericolanti, si venivano ulteriormente rafforzando i gruppi monopolistici del capitalismo privato, quelli almeno che erano sopravvissuti alla crisi e che dalla crisi avevano tratto lo stimolo e l'occasione per la creazione di più ampi potentati industriali-finanziari (settore automobilistico, della gomma, delle fibre sintetiche, dell'elettricità, ecc.).
Nel complesso, dunque, la crisi economica provocò in Italia la formazione di un sistema originale di economia mista, (cioè statale e privata), destinata a protrarsi nel tempo, ma tale da concentrare nelle mani di ristretti gruppi un grande potere economico.

 

Un'altra indiretta conseguenza della grande crisi fu la spinta che essa fornì alle mire imperiali del fascismo, indotto a ricercare nelle conquiste coloniali un rimedio alla depressione e alla stagnazione economica e un motivo di prestigio e di consolidamento sul piano interno e internazionale.
L'interesse suscitato nei Paesi occidentali dalle trasformazioni economiche introdotte dal fascismo per far fronte alla crisi non ebbe piccola parte nel rafforzare per qualche tempo i rapporti amichevoli dell'Italia con la Francia e l'Inghilterra, Paesi in cui le forze conservatrici avevano riconquistato la pienezza dei poteri di governo (ministero Baldwin in Inghilterra, dal 1935, e ministero Laval in Francia, dal 1931). D'altro canto i timori suscitati dal riarmo tedesco fecero convergere la politica estera anglo-franco-italiana, come si vide in occasione della crisi austriaca e della successiva conferenza di Stresa (1935); in essa venne approvata una dichiarazione contro il riarmo tedesco.
I buoni rapporti con le potenze occidentali, tuttavia, fecero supporre a Mussolini di poter tentare un'azione in Africa senza incorrere in rappresaglie. L'imperialismo fascista, parte essenziale della dottrina del regime, aveva infatti momentaneamente accantonato la via della penetrazione nei Balcani (che suscitava i sospetti francesi) e si era indirizzato verso la creazione di colonie di popolamento, seguendo la direttrice Mediterraneo-Africa Orientale. Una guerra coloniale, perciò, era vista, come per la Libia, come un possibile sfogo all'eccedenza di manodopera agricola, le cui condizioni continuavano ad aggravarsi anche in conseguenza dell'errata politica granaria.
Le commesse belliche (armi, trasporti, navi, divise per le truppe) potevano offrire occasioni insperate per la produzione industriale ancora stagnante. Un successo coloniale poteva far dimenticare i non risolti problemi sociali e la perdita delle libertà civili. Infine, la spedizione africana poteva essere presentata come una vittoria della civiltà romana e insieme un'espansione del cattolicesimo, e rinsaldare i rapporti tra il regime e la Chiesa, che dopo i Patti Lateranensi avevano conosciuto un periodo di contrasti a riguardo del ruolo dell'Azione cattolica nell'educazione della gioventù. Il clero italiano si mostrò sensibile, con poche eccezioni, a questi aspetti.
L'Etiopia costituì, pertanto, l'oggetto quasi obbligato delle mire fasciste, sia perché era uno dei tre Stati africani ancora indipendenti (insieme con l'Egitto e la Liberia), sia perché vi si erano appuntate fin dall'epoca di Crispi le aspirazioni coloniali italiane.
Il negus Hailé Selassié, però, seppe difendere abilmente la propria causa alla Società delle Nazioni, presentando le mire italiane come un attentato alla pace internazionale e appellandosi agli interessi britannici per il mantenimento dell'equilibrio di potenza in Africa. Il quadro internazionale, che Mussolini aveva giudicato favorevole, cambiò in senso contrario, anche per la vittoria elettorale della coalizione delle sinistre in Francia (1936). Ciò fu posto in evidenza non tanto dalle sanzioni economiche (rimaste inefficaci), adottate dalla Società delle Nazioni verso l'Italia su proposta del ministro inglese Eden, quanto dal mutamento dell'opinione pubblica dei Paesi occidentali verso l'Italia fascista.
L'Italia si accinse dunque a combattere la sua ultima guerra coloniale, proprio mentre alle maggiori potenze europee già si ponevano i problemi e i drammi della decolonizzazione. La guerra etiopica fu breve (ottobre 1935-maggio 1936), ma sanguinosa e crudele; com'era accaduto in Libia, più della conquista fu difficile mantenere la colonia conquistata e sedare frequenti ribellioni. In ogni caso, dopo la vittoria italiana del lago Ascianghi e l'occupazione di Addis Abeba, il re Vittorio Emanuele III poté fregiarsi del titolo d'imperatore d'Etiopia (maggio 1936).

 

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La campagna di Etiopia

 

Le conseguenze della guerra furono molteplici. I contrasti tra l'Italia e le potenze occidentali influirono sul piano economico e su quello politico. Per il primo aspetto, il fascismo accentuò decisamente l'indirizzo autarchico mirante, come disse Mussolini, «a realizzare nel più breve tempo possibile il massimo possibile di autonomia nella vita economica della nazione, soprattutto nel settore della difesa». Per il secondo aspetto, la guerra spostò l'asse della politica estera fascista verso la Germania nazista, divenuta ben presto l'alleata privilegiata dell'Italia: la guerra di Spagna sarebbe stata il secondo passo di questa spirale.
Peraltro, l'aggressività internazionale dell'Italia fascista e il suo progressivo avvicinamento alla Germania nazista si collocano e si spiegano in un quadro generale in cui i regimi dittatoriali parevano irresistibilmente diffondersi a macchia d'olio e il fascismo diventava veramente fenomeno europeo.

 

Le dittature di destra in Europa

 

Si può dire che tutta l'Europa orientale, a eccezione della Cecoslovacchia, fosse ormai dominata da dittature, alcune delle quali di marca fascista.
I piccoli Paesi baltici, Lituania, Lettonia ed Estonia, erano caduti tra il 1926 e il 1934 sotto dittature di tipo militare.
In Polonia il regime di "democrazia protetta", di fatto una dittatura militare, instaurato nel 1926 da Pilsudski, aveva accentuato i propri aspetti autoritari con il suo successore, il generale Rydz-Smigly, anche in seguito all'avvicinamento alla Germania nazista (1935) e al temporaneo abbandono dell'alleanza francese.
In Jugoslavia il re Alessandro I aveva tratto spunto dalle sanguinose lotte tra la maggioranza serba, di religione ortodossa, e le minoranze croate e slovene, cattoliche, per attuare un colpo di Stato (1929), eliminare le garanzie costituzionali e opprimere le minoranze. In seguito a ciò si sviluppò ulteriormente il movimento croato terroristico e filofascista degli ustascia, i quali eliminarono il monarca con un attentato, preparato in Italia (1934) e fecero ripiombare il Paese nel caos della lotta civile.
L'Ungheria, sotto la dittatura dell'ammiraglio Horthy, aveva mostrato aperte simpatie per il fascismo (trattato di amicizia del 1927) e poi, insieme con la Bulgaria di re Boris, si era affiancata alla politica hitleriana accettando anche l'antisemitismo nazista.
In Romania i movimenti filonazisti e filofascista, come le Guardie di ferro, furono dapprima repressi da re Carlo II, che regnava con metodi dittatoriali; egli fu poi a sua volta rovesciato da un movimento di estrema destra capeggiato dal maresciallo Antonescu (1940).
In Grecia, dopo un periodo repubblicano e democratico (1923-1935) dominato dalla figura del liberale Venizelos, si ebbe la restaurazione della monarchia di re Giorgio II, seguita dall'instaurazione della dittatura del generale Metaxas.
In Austria la situazione era matura per l'Anschluss con la Germania hitleriana.
Anche Paesi di antiche tradizioni liberai-democratiche, come la Francia e il Belgio, avevano visto proliferare gruppi e movimenti di ispirazione fascista.
In Portogallo, infine, lo scontro tra le forze conservatrici e i socialisti, acuitosi nel dopoguerra, aveva portato nel 1926 alla dittatura del generale Carmona, ma l'impronta al nuovo regime portoghese fu dato dal primo ministro, poi presidente, Salazar (1930-1972), che intese instaurare uno Stato "corporativo nazional-cristiano", autoritario all'interno e oppressivo nei riguardi delle colonie.
In Spagna, invece, il regime parafascista del generale Franco trionfò dopo la sanguinosa guerra civile.

 

La Repubblica spagnola

 

Il regime monarchico-parlamentare, istituito in Spagna verso la metà dell'Ottocento, aveva sempre avuto vita precaria, intervallata da frequenti dittature militari. Ancora una volta, nel 1923, il generale Primo de Rivera, con la complicità del re Alfonso XIII, aveva sciolto il Parlamento e imposto un regime autoritario.
Anche la struttura economico-sociale della Spagna era rimasta ancorata, a eccezione di alcune zone a forte concentrazione industriale (Catalogna, regioni minerarie delle Asturie), a una fase precapitalistica, con un enorme divario tra una minoranza di grandi proprietari terrieri, appartenenti alla nobiltà e al clero, e la massa di braccianti agricoli, di operai e minatori, percorsa da frequenti rivolte a sfondo anarchico.
I movimenti anarchici avevano trovato altresì fertile terreno nelle forti tradizioni autonomistiche di alcune regioni, ribelli da se coli al centralismo oppressivo del governo di Madrid. Nello stesso tempo si erano diffusi movimenti democratico-repubblicani, a sfondo anticlericale e massonico, e movimenti socialisti: i primi tra i ceti medi delle città, i secondi tra gli operai organizzati di Madrid e dei centri metallurgici e minerari del Nord.
Repubblicani e socialisti, alleatisi, riuscirono a vincere le elezioni del 1931, abbattendo non soltanto la dittatura di Primo de Rivera, ma lo stesso monarca Alfonso XIII, che lasciò la Spagna.
Il programma di riforme della nuova repubblica, però, non era facile da realizzare, in quanto esso urtava contro gli interessi dell'esercito, abituato da sempre a intervenire nelle vicende politiche, dei ceti conservatori agrari e delle influenti strutture ecclesiastiche, schierate in prevalenza su posizioni conservatrici. Divenne addirittura impossibile realizzarlo nel momento in cui il presidente del consiglio Azafia si trovò a far fronte allo scoppio di moti anarchici contadini e al rafforzarsi del fascismo sul piano internazionale.
Le nuove elezioni del 1933 diedero allora la vittoria della CEDA, confederazione delle destre autonome, che raccoglieva gran parte delle forze cattoliche.
Il nuovo governo, presieduto dal cattolico conservatore Gil Robles, si diede allo smantellamento della riforma dell'esercito e della legislazione anticlericale, ma dovette affrontare, nel 1934, una serie di moti autonomistici e sociali, il cosiddetto "ottobre spagnolo".
Per reprimere il moto dei minatori asturiani si fece intervenire la legione straniera al comando del generale Francisco Franco, che impiegò gli stessi metodi già adottati nei territori coloniali. Le vicende dell'ottobre spagnolo ebbero come conseguenza di eliminare ogni possibilità di compromesso tra le destre, sostenute dall'esercito e pronte a una restaurazione monarchica, e le sinistre, tra le quali guadagnavano terreno i gruppi rivoluzionari, al cui interno i comunisti costituivano ancora una minoranza.
Le sinistre dettero così vita al primo esperimento di Fronte popolare, cui aderirono repubblicani moderati, socialisti, comunisti "ufficiali", comunisti trotzkisti e cattolici baschi autonomisti.
Il Fronte popolare vinse le elezioni del 1936, riportò al governo il repubblicano Azafia, ma non riuscì a impedire il diffondersi del terrorismo di destra, a tenere a freno le forze estreme, abbandonatesi a diffusi atti di violenza contro enti e persone ecclesiastiche, e neppure a imbrigliare le organizzazioni anarchiche, rimaste fuori dal Fronte.
Nel luglio 1936 le guarnigioni militari incominciarono a sollevarsi contro il governo repubblicano, con l'appoggio delle destre e delle formazioni di tipo fascista e paramilitare della Falange, mentre il generale Franco sbarcava dal Marocco con al seguito le proprie truppe coloniali e assumeva la guida del pronunciamiento (proclama di rivolta).
Il governo repubblicano, colpevole di imprevidenza e di debolezza, cercò di far rientrare la rivolta; quindi fece appello al popolo, distribuendo armi e sciogliendo l'esercito. Aveva così inizio una sanguinosa e crudelissima guerra civile.

 

Il quadro internazionale e la guerra civile spagnola

 

Mussolini e Hitler videro subito l'importanza della posta in gioco: essi agivano ormai di conserva e nei colloqui di Berchtesgaden riconobbero la convergenza dei loro interessi, proclamando l'asse Roma-Berlino (ottobre 1936), allargato poi al Giappone nel patto Anticomintern in funzione antibolscevica.
Germania e Italia inviarono notevoli rinforzi all'esercito di Franco, sotto forma di materiale bellico e di truppe (e gli aerei tedeschi fecero in Spagna le prime prove di bombardamenti a tappeto).
L'Inghilterra, governata dai conservatori, perseguiva una politica di pace (appeasement) nei riguardi della Germania e di non intervento nelle vicende spagnole, per timore di rafforzare i movimenti rivoluzionari e il comunismo.
In Francia, dove sembravano esserci le condizioni per una più efficace azione a favore dei repubblicani spagnoli, in quanto dalla primavera del 1936 governava il Fronte popolare, formato da radicali, socialisti e comunisti, l'esecutivo presieduto dal socialista Léon Blum si dibatteva in notevoli difficoltà di fronte a un'ondata di scioperi, accompagnati da occupazioni di fabbriche. L'economia francese, per giunta, anche per le reazioni negative degli industriali e per la fuga di capitali all'estero, dovette sopportare una duplice svalutazione della moneta, mentre gravi contrasti insorgevano tra radicali e comunisti. Tali fatti portarono alla fine dell'esperienza del Fronte popolare nella primavera del 1938, ma in complesso l'atmosfera di quegli anni fu favorevole all'attività dei gruppi antifascisti italiani in esilio, tra i quali occorre segnalare quello di "Giustizia e Libertà", animato da Carlo Rosselli (che vide la necessità di un intervento di volontari antifascisti in Spagna, incontrando inizialmente l'ostilità di altri gruppi, ma riuscendo a organizzare una colonna italiana che dall'estate 1936 si batté in Catalogna a fianco dei repubblicani). Il Rosselli fu però poi assassinato con il fratello da un sicario francese, per conto del governo italiano (1937).

 

Un cospicuo aiuto di uomini e di mezzi alla causa repubblicana fu portato dalle Brigate Internazionali, formazioni di volontari comprendenti diverse tendenze politiche e uomini di varia nazionalità, e organizzate per prevalente iniziativa comunista.
Lo speciale rilievo assunto dai comunisti, almeno in campo organizzativo, nel sostenere la lotta dei repubblicani spagnoli, non fu senza conseguenze. In primo luogo, il Partito comunista spagnolo, fino ad allora in posizione subordinata, assunse un posto predominante nel governo del Fronte popolare; in secondo luogo, i comunisti si batterono perché venisse ricostruito al più presto in Spagna un apparato statale, dopo il collasso seguito all'appello al popolo e allo scioglimento dell'esercito, suscitando le reazioni negative di molte di quelle forze rivoluzionarie spontanee sorte soprattutto in Catalogna, dove più forti erano le tradizioni anarchiche e autonomistiche e dove si era proceduto a una radicale rivoluzione sociale (collettivizzazione delle industrie e delle terre); infine una più forte presenza dell'apparato comunista, di obbedienza staliniana, si risolse in sanguinosi contrasti e in rappresaglie verso altri gruppi dell'estrema sinistra, considerati dai comunisti "ortodossi" filosovietici alla stregua di pericolosi concorrenti, in particolare gli anarchici e i trotzkisti, ragione per cui la guerra fu funestata anche da tragici episodi di guerra intestina tra le forze repubblicane.

 

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La guerra civile spagnola

 

Tutti questi motivi (mancato appoggio militare delle grandi potenze ai repubblicani; timori suscitati dal rafforzamento del Partito comunista; carenza di direzione unitaria della guerra per il collasso del potere statale; contrasti interni al fronte repubblicano) spiegano a sufficienza perché le sorti della guerra pendessero a favore di Franco. Quest'ultimo aveva potuto godere anche del sostegno dell'episcopato spagnolo, che aveva denunciato le violenze contro il clero e indicato nella guerra una "crociata" contro il bolscevismo (suscitando peraltro le reazioni negative di intellettuali cattolici, come il letterato francese Bernanos e l'italiano don Sturzo).
Dopo tre anni di lotte, segnati da battaglie, rappresaglie e massacri, Franco riuscì a imporre la propria dittatura (1939).