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CLASSE   V   -   Sintesi di Storia (7)

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Terminologia storica

 

 

Il trattato di Saint Germain (10 settembre 1919), fra gli Alleati e la Repubblica austriaca, stabiliva che non sarebbe stata consentita l'unione fra l'Austria e la Germania e che l'esercito austriaco sarebbe stato ridotto a 30.000 uomini. L'Austria riconosceva la frontiera del Brennero con l'Italia (cedendo quindi a quest'ultima, oltre al Trentino, l'Alto Adige di lingua tedesca, Trieste e l'Istria) e l'indipendenza del Regno di Ungheria, della Repubblica Cecoslovacca, della Repubblica Polacca, del Regno di Jugoslavia, stati costituitisi in tutto o in parte da territori dell'ex Stato asburgico.

 

Il trattato di Neuilly (27 novembre 1919), fra gli Alleati e la Bulgaria, stabiliva che questa avrebbe ceduto alla Romania la Dobrugia, alla Jugoslavia buona parte della Macedonia, alla Grecia la Tracia occidentale.

 

Il trattato del Trianon (4 giugno 1920) fra gli Alleati e l'Ungheria, sanzionava la cessione da parte di questa (che le deteneva nell'ambito della Duplice Monarchia) delle provincie slovacche alla Cecoslovacchia, della Transilvania alla Romania, della Croazia alla Jugoslavia.

Il trattato di Sèvres (10 agosto 1920) fra gli Alleati e la Turchia, stabiliva la rinuncia di questa ai territori arabi dell'Hegiaz, della Mesopotamia e della Palestina, posti sotto il controllo della Gran Bretagna quali «mandati» della Società delle Nazioni; la Francia avrebbe avuto il «mandato» della Siria e una zona d'influenza economica in Cilicia; l'Italia avrebbe avuto la sfera d'influenza economica di Adalia, in Anatolia; la Grecia avrebbe avuto la Tracia con Adrianopoli, Gallipoli e le isole di Imbro e Tenedo, mentre i Dardanelli sarebbero stati posti sotto controllo internazionale.
Il sultano firmò il trattato, ma le forze rivoluzionarie nazionali, che guidate da Mustafà Kemal si impadronirono poco dopo del potere, lo respinsero.
Nel luglio 1923 dopo che i Turchi ebbero estromesso i Greci, gli Alleati riconobbero con il trattato di Losanna alla nuova Repubblica turca la sovranità su tutta l'Anatolia e, in Europa, su Gallipoli e la Tracia orientale.

L'Italia ottenne dall'assetto del 1919 gran parte degli intenti per i quali era intervenuta nella guerra.
A norma del Patto di Londra essa aveva avuto oltre al Trentino, a Trieste, alle parti dell'Istria e della Dalmazia la cui popolazione era in maggioranza di lingua e sentimenti italiani, anche l'Alto Adige (Tirolo meridionale) con una popolazione di circa 200.000 abitanti di lingua tedesca. Con ciò essa aveva portato il suo confine nordorientale al Brennero e come nel caso di altri confini fra potenze vincitrici e potenze vinte, al principio di nazionalità (malgrado la contrarietà del presidente Wilson, che già nei suoi Quattordici Punti del 9 gennaio 1918 aveva affermato i criteri cui si sarebbe attenuta l'America nella futura pace) vennero anteposte considerazioni strategiche e l'adempimento di precedenti accordi (in questo caso il Patto di Londra) fra gli Alleati. Il più importante degli obiettivi della politica italiana venne quindi completamente raggiunto: con il crollo dello Stato asburgico, infatti, l'Italia si era definitivamente sottratta alla pressione esercitata sulle sue frontiere nord-orientali dall'Austria-Ungheria, di cui per trentatre anni aveva accettato e subìto l'alleanza; essa inoltre aveva incorporato le terre irredente nel territorio nazionale e si era costituita un solido confine nord-orientale e orientale.

La politica interventista italiana aveva però perseguito due altri obiettivi importanti: assicurarsi la preminenza politico-strategica nell'Adriatico e un'influenza economica nel Mediterraneo orientale.
Per quanto riguarda l'Adriatico, la delegazione italiana alla Conferenza della Pace, diretta dal presidente del consiglio Orlando e dal ministro degli esteri Sidney Sonnino, rivendicò, oltre all'adempimento delle promesse degli Alleati nel Patto di Londra, anche il porto di Fiume, che aveva una popolazione in maggioranza italiana, ma incontrò l'opposizione, oltre che della delegazione jugoslava (che rilevò come i sobborghi della città fossero abitati da slavi e come Fiume rappresentasse un porto necessario per il retroterra jugoslavo) del presidente Wilson, che propose una soluzione di compromesso secondo la quale Fiume sarebbe divenuta, come Danzica, una «città libera».
L'opinione nazionalistica italiana si mostrò tuttavia estremamente sensibile: il 19 giugno 1919 la Camera rovesciò il ministero Orlando per non aver saputo difendere gli interessi dell'Italia nell'Adriatico; il 12 settembre un corpo di volontari al comando di Gabriele d'Annunzio si impadronì di Fiume e il governo di Roma, sotto la pressione nazionalistica, non accettò il compromesso proposto da Wilson.
Quando poi nel giugno 1920 il trattato del Trianon definì la situazione dei territori un tempo dipendenti dall'Ungheria nell'ambito della Duplice Monarchia, lasciò in sospeso la questione della Dalmazia, che venne risolta il 12 novembre dal trattato italo-iugoslavo di Rapallo: l'Italia rinunciava alla Dalmazia, salvo Zara, e annetteva tutta l'Istria; Fiume veniva riconosciuta quale città libera.

 

L'espansione italiana nel Mediterraneo orientale non ottenne invece i risultati sperati dal governo di Roma quando aveva stabilito il Patto di Londra (costituzione della zona d'influenza di Adalia) e, in seguito, quando nell'aprile 1917 aveva sottoscritto con Francia e Inghilterra gli accordi di San Giovanni di Moriana, che avevano promesso all'Italia anche la regione di Smirne. Ciò soprattutto a motivo della ripresa dello Stato nazionale turco dopo la deposizione del sultano: la nuova Repubblica turca sotto Mustafà Kemal, pur abbandonando le regioni del Vicino e Medio Oriente arabo, seppe eliminare qualsiasi ingerenza straniera dall'Anatolia, e ottenne il riconoscimento di tale situazione da parte francese e italiana nel trattato di Losanna del 1923.
Scarsi, e comunque inferiori alle aspettative, furono pure i vantaggi ottenuti dall'Italia in campo coloniale africano. Essi consistettero infatti nel territorio dell'Oltregiuba (ceduto dall'Inghilterra, che lo staccò dai suoi possedimenti dell'Africa orientale), che venne ad ampliare verso sud la Somalia italiana, e in una modifica, a vantaggio dell'Italia, della frontiera interna fra la Libia e l'Africa occidentale francese nel Sahara.

 

 

 

La Società delle Nazioni

 

La Società delle Nazioni

 

Il progetto, più o meno vagamente formulato nel corso degli ultimi secoli, di un'organizzazione internazionale che riunisse gli stati d'Europa e del mondo curando la soluzione pacifica dei conflitti e l'indipendenza politica e l'integrità territoriale dei singoli stati, fu per la prima volta concretato nel 1919 con la costituzione della Società delle Nazioni.
Durante la guerra il movimento per la «società delle nazioni» aveva assunto notevole importanza in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, e al principio del 1918 il presidente Wilson aveva posto la creazione di un'organizzazione di tale natura fra gli scopi di guerra degli Stati Uniti, facendone l'ultimo dei suoi Quattordici Punti. Così, ad ostilità terminate, gli Alleati ed Associati ne definirono gli scopi, le norme e gli organismi, e a ciascuno dei trattati con le potenze vinte fecero precedere i ventisei articoli del Patto della Società delle Nazioni.

 

La Società delle Nazioni fu costituita originariamente fra le potenze alleate e diversi stati neutrali espressamente invitati ad aderirvi. Nel 1920 gli stati membri erano quarantadue, nel 1931 sessantadue. Nell'ultimo decennio, fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, alcuni stati membri (fra cui il Giappone, membro originario, e la Germania, ammessa nel 1926) si ritirarono, altri (fra cui la Russia sovietica, che venne però successivamente espulsa quando attaccò la Finlandia) entrarono a far parte della Società. Due membri, l'Etiopia nel 1936 e l'Austria nel 1938, cessarono di farne parte perché assorbiti rispettivamente dall'Italia e dalla Germania.
Per un ventennio la Società delle Nazioni svolse fra alterni successi ed insuccessi la sua opera, che i suoi promotori volevano rivolta
 - a mantenere la pace promuovendo la soluzione delle contese internazionali attraverso metodi legalitari e rendendo possibile la riduzione degli armamenti;
 - a sviluppare una più intensa collaborazione internazionale in campo giuridico, economico, sociale, culturale.
L'aspetto di importanza più immediata era naturalmente quello della conservazione della pace, contenuto sopra tutto negli articoli 10 e 16 del Patto.
L'articolo 10 impegnava gli stati membri a rispettare e a difendere contro attacchi esterni l'integrità territoriale e l'indipendenza politica di ciascuno di essi, rinviando al Consiglio della Società delle Nazioni le decisioni circa i provvedimenti comuni da adottare in caso di crisi.
L'articolo 16 stabiliva che se un membro fosse ricorso alla guerra, violando gli impegni da esso assunti con l'aderire al Patto, sarebbe stato considerato responsabile di un atto di guerra verso tutti i membri, che avrebbero subito interrotto con esso ogni rapporto commerciale e finanziario, mentre il Consiglio avrebbe «raccomandato» ai singoli governi quali azioni militari si sarebbero dovute intraprendere contro di esso.
La Società delle Nazioni non aveva il potere di imporre automaticamente con la forza la pace internazionale: in ultima analisi ogni governo poteva accettare o meno le «raccomandazioni» del Consiglio di agire militarmente contro lo stato aggressore. Un'ulteriore debolezza venne a questo primo esperimento di organizzazione internazionale dall'assenza della Russia e — circostanza ancora più grave sia dal punto di vista materiale che da quello morale — degli Stati Uniti, il cui presidente ne era pur stato il più convinto e attivo artefice. Le elezioni congressuali americane del 1919 sanzionarono infatti la ripresa del partito d'opposizione, il Partito repubblicano; al Congresso oppositori incondizionati alla Società delle Nazioni, sostenuti da una opinione pubblica in cui le tendenze isolazioniste si erano riaffermate, e oppositori che intendevano proporre emendamenti al Patto, finirono con l'unirsi e con il decidere (come era potere del Congresso) la non adesione degli Stati Uniti.

 

Nel suo difficile compito di risolvere pacificamente le contese internazionali senza disporre dei poteri coercitivi necessari, la Società delle Nazioni ottenne risultati soddisfacenti in questioni di importanza secondaria, quale il contrasto sui confini albanesi fra Grecia, Italia e Jugoslavia (1921), o quello circa le isole Aland fra la Svezia e la Finlandia (1931); fallì, invece, nei casi più gravi, quali il conflitto cino-giapponese (1931 e 1937), il conflitto italo-etiopico che portò alla conquista italiana dell'Etiopia e all'applicazione delle sanzioni economiche contro l'Italia da parte della Società (1935-36), e, infine, le successive mosse aggressive della Germania contro l'Austria e la Cecoslovacchia che precedettero la seconda guerra mondiale.
In campi d'importanza meno immediata e vitale, benché profonda, quali quello sociale ed economico, la Società poté invece assolvere con successo diversi compiti, che difficilmente si sarebbero potuti adempire in assenza di essa:
 - l'assistenza economica all'Austria (1922) e all'Ungheria (1923) rovinate dalla guerra;
 - l'assistenza ai profughi greci dalla Turchia (1924) e dalla Bulgaria (1926).
Non vanno inoltre dimenticate le utilissime funzioni delle organizzazioni internazionali create dalla Società quali la Corte permanente di giustizia internazionale e l'Ufficio internazionale del lavoro.

 

Anche nel campo coloniale l'opera della Società non fu inutile.
Le colonie tedesche e i territori arabi dipendenti dall'Impero ottomano vennero divisi fra le potenze alleate. Le colonie tedesche andarono alla Gran Bretagna (o a stati membri del Commonwealth britannico, come l'Africa sud-occidentale tedesca che andò all'Unione sud-africana) o alla Francia. Le due potenze occidentali ottennero pure il controllo sui paesi arabi: la Siria alla Francia e il resto (Mesopotamia, Palestina) alla Gran Bretagna. In effetti, non si trattò soltanto di un trasferimento di sovranità: i nuovi territori vennero amministrati in nome e sotto il controllo della Società delle Nazioni come «mandati», con l'intesa, benché poi molto spesso elusa, che sarebbero stati preparati dalle potenze mandatarie all'indipendenza.

 

 

 

La situazione postbellica europea

 

 

Il clima socio-economico nel dopoguerra

 

La prima guerra mondiale aveva provocato, direttamente o indirettamente, un mutamento profondo di tutte le realtà politiche, sociali, economiche e culturali, in modi così rapidi e radicali che molti dei contemporanei tardarono a rendersene conto.
Sul piano internazionale, la guerra segnò la crisi del primato dell'Europa occidentale. Tre nuove potenze affacciatesi alla ribalta mondiale (Stati Uniti, Russia sovietica e Giappone) influirono da allora più decisamente sui destini dell'umanità intera, pur senza intervenire in modo diretto, per alcuni anni, nelle vicende europee.
Sul piano delle istituzioni politiche, la guerra mise in luce molti limiti dei sistemi di tipo liberale favorendo la diffusione di nuovi metodi di azione politica (extraparlamentari o antiparlamentari) e la nascita di nuove forme di organizzazione e di nuovi strumenti di lotta.
In certi casi (Inghilterra, Francia, Paesi scandinavi) si trattò di una trasformazione del sistema parlamentare e dei tradizionali partiti politici in senso più democratico; in altri casi (Italia, Germania, Austria) si assistette invece, in un quindicennio, al tracollo dei regimi liberal-democratici.
Le crisi politiche del dopoguerra furono la conseguenza di profondi sconvolgimenti sociali, prodotti, da un lato, dalla nuova forza organizzativa e politica assunta dalle classi popolari coinvolte massicciamente nel conflitto e, dall'altro lato, dalla modifica dei precedenti rapporti di potere e delle tradizionali gerarchie sociali.

 

L'aspetto più clamoroso di questa trasformazione, che toccò la struttura stessa della società europea, fu la crisi dei ceti medi (impiegati, piccoli proprietari, artigiani, piccoli commercianti), schiacciati tra la forza organizzativa del proletariato operaio e la potenza economica della grande borghesia capitalistica.
Mentre una parte del proletariato industriale dell'Europa continentale assumeva la Rivoluzione bolscevica come modello, i ceti medi, impauriti e delusi, diventavano spesso preda del nazionalismo, che usciva ovunque rafforzato dalla guerra, o di nuovi movimenti antidemocratici e antiparlamentari, come il fascismo.
Nel complesso, le vicende della guerra e gli avvenimenti russi, accelerando e aggravando tutti i conflitti sociali, ridussero in molti Paesi lo spazio di azione dei tradizionali movimenti riformisti. Le diffuse e deluse aspirazioni verso un "ordine nuovo" si trasformarono in tensione rivoluzionaria dai contorni spesso imprecisi e ambigui

 

Nello stesso tempo una generale crisi economica, protrattasi fino al 1921, colpì tutti i Paesi europei ed ebbe due conseguenze di rilievo. In primo luogo dimostrò l'impossibilità di riprendere nel dopoguerra la via dello sviluppo senza allargare ulteriormente gli interventi degli Stati in materia economica e senza rinsaldare i collegamenti, già imposti dalle necessità belliche, tra gruppi capitalistici e poteri pubblici. In secondo luogo la crisi economica accelerò inizialmente il processo di impoverimento e di declassamento degli strati sociali intermedi, gravemente colpiti nei loro redditi dall'inflazione galoppante.
Sia i gruppi capitalistici, sia i ceti medi, per motivi diversi ma collimanti, espressero allora una comune e crescente aspirazione verso regimi politici forti e autoritari, anche di tipo dittatoriale, che tenessero a freno i movimenti operai e contadini, stabilizzassero la situazione economica, garantissero la restaurazione dell'ordine sociale.
Così, mentre i movimenti operai europei si trovarono dovunque indeboliti (tranne che in Inghilterra e nei Paesi scandinavi) dalla frattura avvenuta tra le tendenze riformistiche del socialismo e le nuove organizzazioni rivoluzionarie d'ispirazione comunista, si verificò una temporanea saldatura tra gli interessi dei gruppi economici più forti e le speranze e i timori della piccola e media borghesia.

 

Il quadro internazionale

 

Subito dopo il conflitto fu chiaro per tutti che la concezione democratica della guerra e della pace, riassunta nei 14 punti del presidente americano Wilson, aveva in pratica scarsi sostenitori.
I grandi principi della libertà dei popoli e dell'autodeterminazione furono in larga misura disattesi. I nuovi confini degli Stati europei vennero tracciati senza grande rispetto delle individualità nazionali e senza quasi mai attivare il principio di autodecisione. Il vecchio criterio dell'equilibrio, negato a parole, dominò invece nella pratica.
Gli egoismi nazionali, esaltati lungo tutto il conflitto, perdurarono nel dopoguerra, alimentando nuovi immediati contrasti.

 

 

 

Il quadro socio-economico

 

 

Il modo in cui si era svolta la conferenza di pace di Parigi aveva dimostrato che le nazioni vincitrici non erano affatto disposte a rinunciare a tutti i frutti della vittoria e che, per di più, non erano d'accordo tra loro. La pace punitiva, riservata specialmente alla Germania (condannata a riconoscersi responsabile del conflitto, a perdere territori di lingua e ceppo tedesco, al pagamento di colossali riparazioni di guerra, a cedere in garanzia di tale pagamento zone di vitale interesse economico come la Saar) non tardò ad alimentare i sogni di rivincita.

 

Tra le nazioni vincitrici l'Italia vide frustrate le sue aspirazioni alla Dalmazia e all'espansione coloniale, anche per lo scarso realismo e gli errori dei suoi rappresentanti alla conferenza di pace. I trattati di pace erano appena stati firmati che già nell'opinione pubblica tedesca e italiana correvano slogan preoccupanti (quali "revisione dei trattati", "vittoria mutilata"), abilmente sfruttati dai nazionalisti.
La Società delle Nazioni dimostrò rapidamente la debolezza degli ideali pacifisti che l'avevano fatta nascere. Il suo vizio d'origine più grave fu quello di essere un organo di controllo privo di reali strumenti d'intervento, il che favoriva il ritorno alla vecchia politica fondata sui rapporti di potenza. La Società, inoltre, subì l'influenza preponderante della Francia, che vi perseguì per qualche tempo i propri disegni di umiliazione della Germania e di egemonia europea, e dell'Inghilterra, che, più realisticamente, vide in essa uno strumento per garantire la sopravvivenza della propria funzione di grande potenza internazionale, affidandosi alla proverbiale abilità della sua diplomazia.

 

L'atteggiamento dell'Inghilterra, che guardava ora con maggior interesse all'Europa parallelamente al manifestarsi delle prime difficoltà nel suo impero coloniale, rispondeva alla percezione che erano mutati i rapporti di forza sulla scena mondiale, a vantaggio soprattutto di due Stati non europei, gli Stati Uniti e il Giappone. Tale mutamento aveva il suo fattore determinante nella situazione economica.
Mentre, infatti, le nazioni europee faticavano a risollevarsi dalla guerra, gli Stati Uniti e il Giappone avevano sostenuto uno sforzo militare ridotto ed erano in grado di approfittare largamente delle circostanze. La Repubblica americana, da nazione debitrice si trasformò nel maggior centro di finanziamenti e di crediti per le economie europee, mentre sempre nuovi mercati si aprivano ai suoi capitali.

 

Tutti i Paesi europei dovettero invece affrontare due gravissimi problemi che travagliarono a lungo la loro vita economica: quello della ricostruzione, e quello ancor più grave della riconversione di una economia di guerra in una economia di pace.

 

 

 

L'economia nel 1920

 

 

Difficoltà economiche e fermenti sociali

 

La guerra era stata uno stimolo potente allo sviluppo industriale, protetto e sollecitato dagli Stati.
Le commesse statali avevano provocato un'artificiosa dilatazione di certi settori (metallurgico, meccanico, chimico, tessile) e favorito enormi profitti, resi possibili dalle eccezionali condizioni in cui gli imprenditori agivano (scarso controllo sui costi di produzione, bassi salari, assorbimento di manodopera femminile e minorile). Tutte le norme della libera concorrenza e del libero mercato erano state travolte. Erano fiorite le grandi concentrazioni.
Alla fine del conflitto, in fase di relativa normalizzazione economica, gli apparati produttivi presentavano paurosi squilibri, dominati come erano dai gruppi monopolistici dell'industria pesante con impianti da riconvertire a nuove produzioni.
I licenziamenti, dovuti al blocco della produzione bellica, e la smobilitazione degli eserciti riempirono poi le città di disoccupati. Al ristagno produttivo si accompagnò una generale inflazione, già iniziata durante il conflitto. La lira italiana, ad esempio, aveva perso nel 1920 circa i tre quarti del suo valore d'anteguerra.
Accanto ai pochi che si erano arricchiti con i profitti di guerra stavano le masse dei reduci, che, dopo aver pagato duramente per il conflitto, pagavano ora per la pace. Le speranze di una distribuzione delle terre, alimentate durante la guerra, vennero deluse dai governi. L'esasperazione dei conflitti sociali, quindi,  favoriva la ricerca di soluzioni estreme.

 

Il vecchio ordine era stato inghiottito dal conflitto, ma del nuovo ordine non si scorgevano ancora i lineamenti.
La guerra era, stata ovunque un'esperienza che aveva coinvolto tutti gli strati sociali, un'esperienza nazionale e popolare. Classi sociali rimaste finora ai margini, che conoscevano dello Stato solo gli aspetti più vessatori, le tasse e la leva obbligatoria, avevano acquisito la coscienza del loro ruolo nella compagine sociale. La disciplina militare e i sacrifici della guerra avevano fatto maturare uno spirito di solidarietà che si tradusse immediatamente in un rafforzamento delle organizzazioni di classe o di gruppo sociale: i partiti operai e popolari, e, più ancora, i sindacati registrarono ovunque nel dopoguerra un imponente incremento di iscrizioni.
Accanto alle organizzazioni di massa sorsero gruppi armati, pronti a far valere nella lotta sociale le tattiche e i metodi appresi durante la guerra. I reduci e gli ex combattenti dettero vita ad associazioni pronte a intervenire sul terreno politico. Si diffusero metodi d'azione usati in precedenza solo sporadicamente, come le occupazioni delle terre o delle fabbriche. La Rivoluzione bolscevica, d'altronde, offriva modelli di lotta anche per coloro che non accettavano il bolscevismo.

 

Più in generale, le istituzioni parlamentari e rappresentative vennero intaccate da una crisi di sfiducia. Gli strati sociali esclusi dal potere ritennero di aver definitivamente conquistato il diritto di agire direttamente in campo politico e di essere ormai padroni dei propri destini.
Fiorirono gli istituti e le organizzazioni di base: consigli operai, autonomie locali, cooperative, organismi sindacali e associazioni di ogni genere. Queste esperienze potevano prefigurare assetti politici e sociali del tutto nuovi.

 

 

 

Il regime comunista in Russia

 

 

Il regime comunista in Russia

 

Il gruppo bolscevico stava ormai concentrando nelle sue mani tutto il potere, anche mediante l'eliminazione fisica dei membri degli altri partiti ancora presenti sulla scena, come i menscevichi e i socialisti rivoluzionari. Tre gravissime questioni, però, rendevano precario il suo potere: l'esplosione della guerra civile, le rivolte contadine e il totale collasso dell'economia.

 

Di fatto l'area geografica su cui il governo rivoluzionario esercitava la propria autorità era e restava limitata.
Anche dopo il ritiro dell'esercito tedesco e la conclusione della prima guerra mondiale con la sconfitta degli Imperi centrali (che consentì al governo di Mosca di denunciare come non valido il trattato di Brest Litovsk), vastissimi territori già appartenenti all'Impero russo sfuggivano al controllo del governo comunista: oltre ai Paesi baltici, alla Finlandia e ai territori polacchi, anche l'Ucraina, gli Stati del Caucaso (Georgia, Armenia, Azerbaigian) e la maggior parte della Russia asiatica. Per di più, alcune di queste aree territoriali costituivano la base di vari eserciti in guerra aperta con il governo comunista, le cosiddette armate bianche comandate da generali zaristi o comunque contrari alla Rivoluzione sovietica (Denikin, Kolèak, Judenié, Wrangel), sostenute dagli Stati vincitori della guerra mondiale mediante lo sbarco di contingenti di proprie truppe in vari punti del territorio russo, e talora appoggiate da insurrezioni contadine.
Una terribile guerra civile venne così ad aggiungersi ai massacri provocati dalla guerra mondiale e allo stato di disfacimento in cui la Russia era precipitata.
La guerra civile si protrasse per tutto l'anno 1919 (con alcuni prolungamenti nel 1920), e si concluse con la vittoria dell'Armata rossa, cioè dell'esercito del governo rivoluzionario, ricostituito e organizzato in particolare da Trotzkij.
Battute le armate bianche, fu la volta della Polonia, dov'era salito al potere nel 1919 il maresciallo Josef Pilsudski, che mirava al controllo dell'Ucraina. Dopo varie vicende, che videro l'Armata rossa avanzare fino alle porte di Varsavia e poi ritirarsi di fronte alla controffensiva polacca, la pace di Riga (1920) delimitò le frontiere tra i due Stati e segnò nel contempo la rinuncia dei governi occidentali a rovesciare il governo comunista russo. Questo riconobbe l'indipendenza degli Stati baltici (Lituania, Estonia e Lettonia) e della Finlandia, mentre riconquistò l'Ucraina, abbatté con la forza delle armi e riannetté le repubbliche caucasiche, riunificò i territori asiatici, anche a costo di spostamenti forzati di interi gruppi etnici.
All'inizio del 1921 il governo sovietico aveva dunque esteso e consolidato il suo potere sulla maggior parte del territorio del vecchio Impero, ora delimitato da una catena di Stati tendenzialmente ostili, che vennero a costituire una specie di "cordone sanitario" (come fu chiamato) nei riguardi di potenziali minacce rivoluzionarie. Tale situazione di isolamento ebbe notevoli conseguenze sull'evoluzione del regime comunista, sui suoi orientamenti in politica estera e sui suoi rapporti con i partiti comunisti di altri Paesi.

 

 

 

Il comunismo di guerra

 

 

La questione dei contadini e il comunismo di guerra

 

La situazione interna continuava a rimanere precaria, in particolare per le perduranti resistenze delle classi contadine e per le difficoltà a rimettere in moto la macchina produttiva.
La distribuzione delle terre dei grandi proprietari ai contadini poveri, se permetteva alla rivoluzione di legare a sé le campagne e di usufruire degli approvvigionamenti per le città e per l'Armata rossa impegnata nella guerra civile, non rispondeva ai progetti di Lenin, che aveva proclamato: «La coltivazione su piccola scala non riuscirà a liberare l'umanità dalla miseria di massa... È indispensabile passare alla coltivazione collettiva di grandi aziende modello».
Le esigenze politiche (alleanza delle forze rivoluzionarie con i contadini) entrarono quindi in conflitto con i principi del comunismo. Il disegno di creare grandi unità produttive agricole sotto direzione e controllo statale non raccolse il consenso dei contadini, divenuti in buona percentuale (circa il 60%) possidenti, grazie alla distribuzione o alla occupazione di terre. Di qui il sorgere di forti resistenze alle requisizioni di viveri e un generale malcontento nelle campagne.

 

Il prezzo pagato alla guerra civile era stato in generale molto alto e, per l'industria russa, quasi rovinoso. Pertanto, il progetto della sua rapida riconversione all'economia di pace dovette essere abbandonato. La guerra civile accrebbe invece la necessità di una centralizzazione e di un controllo rigoroso da parte del partito per ottenere la massima efficienza. Ciò, però, poneva fatalmente in secondo piano il problema della riorganizzazione del lavoro secondo il modello dei soviet e i principi socialisti.
Anche in questo campo, quindi, l'alternativa tra le necessità immediate e i programmi ideali e teorici suscitò vaste discussioni nel partito.
La base operaia non condivideva l'utilizzazione dei vecchi quadri dirigenti e dei tecnici ai posti di comando, ma Lenin, dopo un breve tentativo fatto nel 1918, dovette constatare che senza la loro esperienza non si poteva per il momento procedere.

 

Uno scontro ancora più forte si ebbe a proposito dei sistemi di conduzione aziendale. I bolscevichi avevano sempre sostenuto il principio della direzione collegiale e i sindacati al riguardo si mostravano inflessibili, ma la direzione collegiale finiva spesso per essere in contrasto con le direttive del governo e scarsamente efficiente. In teoria Lenin riteneva «indispensabile la direzione collegiale», ma ammoniva sulla necessità che essa non diventasse «un ostacolo all'efficienza».

 

I dilemmi fondamentali della rivoluzione vennero quindi risolti con compromessi, rispondenti alle enormi difficoltà incontrate in questa prima fase del regime bolscevico, poi definita del comunismo di guerra. Si trattava, in realtà, di fare i conti con uno Stato e un apparato economico da ricostruire interamente, su basi nuove, nel bel mezzo di una guerra condotta senza esclusione di colpi.

 

Stato e partito

 

A questo punto i capi rivoluzionari si confrontarono con due questioni fondamentali, che implicavano precise scelte strategiche, vale a dire:
 - quale fosse la vera funzione del Partito comunista e quali rapporti dovevano esserci tra il partito, i soviet e l'apparato statale;
 - quali rapporti dovessero intercorrere tra il Partito comunista russo e i Partiti comunisti e i movimenti rivoluzionari stranieri.
Sul primo punto, la linea di Lenin ebbe ragione delle opposizioni interne, da lui definite «anarchiche e sindacaliste». La lotta, culminata nel 1920-1921, aveva accentuato il processo di accentramento del potere al vertice del partito (Comitato centrale), ma nello stesso tempo era iniziato un processo di compenetrazione tra organismi di partito e strutture statali che caratterizzò il successivo sviluppo delle istituzioni sovietiche.
In un primo momento Lenin si mostrò perplesso sull'opportunità di una così stretta fusione, e ancora nel 1922 deplorò la tendenza degli organismi statali e dei soviet a scaricare sul partito una quantità enorme di incombenze,  ma nel 1923 si arrese alla realtà dei fatti. Si verificavano così, parallelamente, due fenomeni densi di future conseguenze: il monolitismo del Partito comunista, con il divieto delle correnti al suo interno, da un lato, e, dall'altro, la formazione di un apparato burocratico di partito, distinto e separato dalle masse.
Questi fattori influirono anche sui rapporti tra il Partito comunista russo e i movimenti comunisti sorti in quell'epoca in molti Paesi, per distacco dal movimento socialista. L'organo di coordinamento tra i diversi movimenti comunisti, creato a Mosca nel 1919 con il nome di Comintern (Internazionale comunista o Terza Internazionale), era stato concepito come un unico partito internazionale e formato sulla ipotesi di un'imminente rivoluzione mondiale, alla quale i movimenti comunisti avrebbero dovuto fornire la guida. Tuttavia, il rapido allontanarsi delle prospettive rivoluzionarie in Europa, già constatato nel terzo congresso del Comintern (1921), e la relativa ristrettezza della base dei partiti comunisti occidentali (oltre ai loro insuccessi) accrebbero enormemente nel Comintern il peso del Partito comunista russo, che incominciò a influire pesantemente nella vita degli altri partiti comunisti.

 

Il bilancio dei primi quattro anni della rivoluzione si presentava dunque contraddittorio.
Era stata varata una costituzione (1918) fondata, almeno formalmente, sul potere dei soviet, ed era stata istituita la Repubblica socialista federativa sovietica (RSFSR), divenuta nel 1922 Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche (URSS), con il riconoscimento delle varie Repubbliche «storicamente distinte e diverse».
Il partito si assumeva però il compito dì assicurare l'unità dell'intero sistema sovietico.
La rivoluzione si era affermata all'interno, e la normalizzazione dei rapporti con l'estero era vicina, ma l'organizzazione degli apparati statali, dell'esercito e della polizia era avvenuta nel senso di una stretta dipendenza dall'apparato del partito, il quale rivendicava a sé una delega permanente della classe operaia, come sua avanguardia rivoluzionaria.
Il Partito comunista si era enormemente rafforzato, acquistando anche con la forza un effettivo predominio su ogni altro gruppo organizzato, ma si era imposto, di fronte alle gravi urgenze del Paese, come struttura monolitica e centralistica. Il regime comunista si era così trasformato in una stabile dittatura di partito.
L'economia, infine, tardava a riaversi dal collasso della guerra e si avvertivano nuovi segni di scontento e di rivolta.

 

 

 

La nuova politica economica. Stalin

 

 

La Nuova Politica Economica

 

Nel 1921 i marinai della base navale di Kronstadt, "onore e gloria" della rivoluzione, si ribellarono.
Nelle loro rivendicazioni politiche essi lamentavano la carenza di vita democratica: i soviet erano stati traditi e boicottati, i sindacati soffocati, repressa la sollevazione degli operai di Pietroburgo, spente le voci dell'opposizione operaia. Era urgente, insomma il ritorno alla formula (peraltro leninista): «tutto il potere ai soviet».
Facendo seguito a ben 118 rivolte contadine nei mesi precedenti, la rivolta di Kronstadt apparve al governo comunista come un attentato alle conquiste della rivoluzione. Si denunciò la controrivoluzione, puntando il dito sugli aiuti forniti dall'esterno alla rivolta dei marinai. Lenin e Trotzkij presentarono l'intervento dell'Armata rossa come una "tragica necessità" e la ribellione fu domata nel sangue.
L'episodio di Kronstadt accelerò tuttavia il processo di revisione della politica del partito. Nello stesso mese fu varata la Nuova Politica Economica (NEP) e con essa
 - le requisizioni obbligatorie di viveri furono sostituite con una tassa in natura e ai contadini fu concesso il diritto di vendere le loro eccedenze sul mercato libero;
 - fu ripristinato il commercio libero tra città e campagna e poste le basi per la riattivazione dei negozi privati al minuto;
 - In campo sindacale si garantì alle organizzazioni dei lavoratori il diritto di eleggere i loro capi e di sottoporre a dibattito tutte le questioni del lavoro;
 - la mobilitazione obbligatoria della manodopera venne abolita.
Siccome la reintroduzione di forme dell'economia di mercato, sia pure sotto controllo statale, parve ad alcuni negativa, visto che i kulaki, cioè i contadini proprietari, tornavano a crescere, mentre ricompariva il fenomeno dell'affittanza e del salariato contadino, Lenin ricorse ancora all'argomento della necessità, non essendosi verificate le due condizioni indispensabili per la vittoria del socialismo, cioè la definitiva alleanza operai-contadini e l'allargamento del fronte rivoluzionario in Europa.
Anche la classe operaia accolse dapprima con diffidenza la NEP, benché questa influisse meno decisamente sull'industria che nel settore agricolo; essa , infatti, rispondeva alla stessa logica, dando fiato alla piccola industria mediante un sistema misto, pubblico e privato, dal momento che, per costruire la grande industria, occorreva uno sforzo di capitali e di uomini impossibile in un'economia così debole. Per questo, mentre a tempi lunghi si pianificava lo sviluppo della grande industria, si tentava nell'immediato uno sviluppo «della piccola industria che non ha bisogno di macchine, non ha bisogno di riserve di materie prime, di combustibile, di vettovaglie e che può subito dare un certo aiuto all'economia contadina e aumentarne le forze produttive».
Tutto ciò fu perseguito con provvedimenti che prevedevano da un lato l'abolizione di impacci burocratici e dall'altro il ritorno alla direzione e al controllo individuali mediante la concessione agli ex proprietari delle loro aziende. Nello stesso tempo anche la grande industria usufruì di provvedimenti liberalizzanti: non fu più controllata direttamente dallo Stato, le fu garantito funzionamento autonomo su base commerciale, nel senso che lo Stato non si ritenne più responsabile diretto dell'andamento delle aziende che rientravano in concorrenza sul mercato libero. Fu così che, nonostante le opposizioni, sollevate all'interno del partito da una minoranza di sinistra capeggiata da Molotov, la NEP ottenne un sensibile miglioramento della produzione a partire dal 1922, la scomparsa delle insurrezioni contadine e il miglioramento dell'industria leggera.

 

La successione di Lenin e il socialismo in un solo Paese

 

Una delle ultime dichiarazioni pubbliche di Lenin, alla fine del 1922, riguardava la necessità di impegnarsi totalmente nei settori chiave dell'industrializzazione, come i trasporti, le miniere, la metallurgia, le centrali elettriche: «L'industria pesante ha bisogno di sussidi statali. Se non troveremo questi sussidi, saremo perduti, non dico come Stato socialista, ma come Paese civile».
Oramai gravemente ammalato, fu costretto a ritirarsi progressivamente dal governo. La sua azione politica si era svolta tra la necessità di creare a ogni costo un'economia efficiente, mediante l'accordo con i contadini, e il desiderio di effettuare il passaggio al sistema socialista, che avrebbe dovuto realizzarsi attraverso la radicale trasformazione della stessa economia contadina. Anche nei rapporti con il resto del mondo la politica leninista si era sviluppata su due piani diversi e spesso poco conciliabili: da una parte il Comintern, cioè la solidarietà, il coordinamento (e poi il controllo) di tutti i movimenti comunisti, con il proposito, almeno dichiarato, di promuovere il rovesciamento dei regimi borghesi-capitalistici; dall'altra parte l'apertura di relazioni diplomatiche volte a normalizzare i rapporti con quegli stessi regimi, soprattutto ai fini degli scambi economici e commerciali necessari al rilancio dell'economia russa.
Il mancato scoppio della "rivoluzione mondiale" aveva dunque avuto due conseguenze: all'interno della Russia, il rafforzarsi della prospettiva del socialismo in un solo Paese; all'esterno, la tendenza a normalizzare i rapporti diplomatici con l'Occidente, a partire dal trattato di Rapallo del 1922, con cui URSS e Germania ristabilivano normali relazioni diplomatiche.
Le speranze rivoluzionarie di Lenin non si erano tuttavia dissolte; si erano proiettate in un futuro più lontano e, soprattutto, si erano concentrate sopra un futuro conflitto armato tra l'Occidente controrivoluzionario imperialista e l'Oriente rivoluzionario e nazionalista, cioè tra gli Stati più avanzati del mondo e gli Stati più arretrati, come quelli dell'Oriente.
Veniva così aperto il problema dei rapporti tra rivoluzione sovietica e popoli coloniali.

 

Alla morte di Lenin (gennaio 1924) venne in primo piano il problema della sua successione, lasciato fino ad allora in sospeso.
I più titolati aspiranti alla guida del partito e quindi dello Stato, Trotzkij, Stalin, Zinoviev, Kamenev, dovevano misurare la loro forza su questioni cruciali di sviluppo economico e politico e sul potere da loro conquistato nel Partito comunista.
A due anni di distanza dalla NEP (Nuova Politica Economica) la situazione della società sovietica presentava non poche contraddizioni. Gli iniziali programmi della rivoluzione erano stati sacrificati alla necessità di rimettere in moto l'economia, che aveva costretto il governo ai compromessi della NEP.
Un certo ripiegamento riguardava, però, anche altri campi. Dopo aver duramente perseguitato i gruppi religiosi, infatti, il governo sovietico scarcerò il patriarca ortodosso Tichon e tollerò per qualche tempo una certa pratica religiosa nella Chiesa russa. Questo non significava che lo Stato sovietico rinunciasse alla sua natura antireligiosa. Il pensiero di Lenin a proposito della funzione alienante della religione nella società era troppo chiaro per non vedere nell'esperienza sovietica uno sforzo cosciente di camminare verso una società senza religione. La religione continuava a essere considerata da Lenin «una specie di acquavite nella quale gli schiavi del capitalismo affogano la loro personalità umana e le loro rivendicazioni». Comunque, anche ammesso che la religione potesse continuare a essere un affare privato del cittadino nei confronti dello Stato, non altrettanto poteva essere ritenuta nei confronti del partito, in quanto «avanguardia di militanti per la liberazione della classe lavoratrice». E in uno Stato come quello sovietico, in cui erano fortissimi i poteri del partito, i poteri pubblici si assumevano in ogni caso, come compito primario, quello di "liberare" i cittadini da ogni "ignoranza", "oscurantismo" e "pregiudizio" religioso, svolgendo attiva propaganda e inculcando come obbligatori i principi dell'ateismo scientifico sulla base delle dottrine marxiste-leniniste.

 

Il processo di trasformazione rivoluzionaria della società russa risultava di fatto più lento del previsto e in questa situazione solo la forza dinamica del partito avrebbe potuto trarre la rivoluzione dalle secche, secondo le prospettive di Lenin.
Il primato del politico sull'economico si doveva esprimere nel rafforzamento e nell'egemonia incontrastata del Partito comunista, poiché con la rivoluzione era stata realizzata «la metà politica del socialismo», mentre restava da realizzare «la metà economica». Il progresso futuro, secondo Lenin, non poteva però essere affidato alla forza di una classe minoritaria e debole come il proletariato operaio russo, ma a un organismo politico che, impadronitosi del potere statale, se ne servisse ai fini rivoluzionari, trainando tutta la società sovietica. Ciò spiega l'enorme importanza della lunga lotta per la successione di Lenin, che si combatté all'interno del Partito comunista dell'Unione Sovietica (PCUS).
L'uomo di maggior prestigio era allora Trotzkij e lo stesso Lenin l'aveva riconosciuto tale in un suo "testamento", da cui emergeva invece un giudizio negativo su Stalin. Quest'ultimo era però il capo della segreteria del partito, il che gli dava un potere rilevante.
Alla morte di Lenin, Trotzkij si trovava già isolato e in minoranza, ma la sua sconfitta si delineò chiaramente nel corso della disputa sul "socialismo in un solo Paese", tesi che fu formulata da Stalin per la prima volta verso la fine del 1924 e poi definita all'inizio del 1926.
Trotzkij, pur avendo affermato tra i primi che la rivoluzione socialista avrebbe preso le mosse dall'arretrata Russia, aveva sempre posto come condizione della sua riuscita che essa valicasse le frontiere nazionali, investendo i Paesi progrediti dell'Occidente e manifestandosi come "rivoluzione permanente". Per Trotzkij la Rivoluzione d'ottobre aveva senso come prima tappa della rivoluzione mondiale; egli negava, in termini marxisti, la possibilità stessa di costruire, in modo autosufficiente, una società socialista nazionale.
Stalin, al contrario, prendendo atto della mutata situazione internazionale e puntando la sua attenzione sui problemi interni dell'URSS, aveva affermato la necessità di edificare una "società socialista integrale" in Russia. Egli poneva tale obiettivo come prioritario non per il solo Partito comunista russo, ma per tutto il movimento comunista internazionale, e ammetteva, di conseguenza, che un regime socialista "nazionale" potesse convivere anche per lunghi periodi (e intrecciare rapporti di collaborazione) con Paesi capitalistici.
Il "socialismo in un solo Paese" costituiva un'applicazione delle dottrine leniniste inconciliabile con il trotzkismo, ma dotata di una maggior capacità di adeguamento alla situazione reale. Si trattava di una scelta di tale portata da influire su tutta la successiva storia del comunismo.

 

Dopo il progressivo esautoramento di Trotzkij, Stalín si liberò anche di Kamenev e Zinoviev, i quali nel XIV congresso del PCUS (dicembre 1925) avevano attaccato la segrete- ria del partito, sostenendo la necessità di «buttare a mare la NEP» e opponendosi allo strapotere di un solo capo.
Battuti al congresso, Zinoviev e Kamenev furono privati delle loro cariche e quindi, riavvicinatisi a Trotzkíj, furono espulsi dall'Ufficio politico (1926) e messi in minoranza nel Comintern. Trotzkíj, espulso a sua volta dal partito e mandato al confino (1927), riuscì a stento a fuggire in Turchia e poi in Messico (dove fu ucciso nel 1940 da un sicario di Stalin).
L'opposizione di sinistra a Stalin poteva così dirsi battuta: essa venne rapidamente isolata anche nel comunismo internazionale.

 

Nel Comintern la lotta per la successione a Lenin era stata vissuta con diretta partecipazione: essa non poteva non riflettersi all'interno dei partiti comunisti occidentali e sui loro atteggiamenti più generali.
Il Comintern si trovava fin dal suo V congresso (1924) in una situazione abbastanza paradossale. Mentre l'URSS, riconosciuta ormai da alcune delle maggiori potenze, si preparava a una politica di ulteriori intese e accordi anche con governi apertamente ostili al socialismo, dalle tribune del Comintern echeggiavano le più accese esortazioni alla distruzione finale del capitalismo, e una ventata di radicale intransigenza ideologica si scatenava contro le tendenze socialdemocratiche occidentali, accostate al fascismo: «I fascisti – disse Zinoviev nella relazione introduttiva al V congresso del Comintern – sono la mano destra e i socialdemocratici la mano sinistra della borghesia. Ecco il fatto nuovo... Il fatto essenziale è che la socialdemocrazia è divenuta un'ala del fascismo».
Questa dottrina sfociò nella formula, che ebbe largo corso per un decennio, del "socialfascismo" (socialdemocrazia = fascismo); a essa non si opposero i rappresentanti dei movimenti comunisti occidentali, neppure gli italiani Gramsci, Togliatti e Bordiga, presenti al V congresso, che pure avevano appena vissuto l'episodio dell'assassinio del socialista Matteotti per mano dei fascisti. Semmai qualche elemento di dissenso incominciava a manifestarsi sul ruolo dominante del PCUS nel Comintern e sulla tendenza dei dirigenti sovietici a servirsi del Comintern come strumento delle loro lotte intestine. Ciò apparve evidente in occasione del conflitto che oppose Stalin a Bucharin.

 

 

 

La Repubblica di Weimar

 

 

Movimenti rivoluzionari in Germania

 

L'Impero tedesco, prima ancora di essere sconfitto militarmente, era stato travolto da un'ondata rivoluzionaria, dagli scioperi politici nelle industrie belliche, dalle rivolte esplose nell'esercito e dalla ribellione della flotta di Kiel, che il 5 novembre 1918 aveva alzato la bandiera rossa.
Dal Baltico l'ondata aveva investito Berlino, il Reno, Monaco di Baviera. Si erano formati consigli operai sul modello dei soviet, che chiedevano la fine della guerra e l'instaurazione di una Repubblica socialista. La rivoluzione era dunque nel cuore dell'Europa.
L'abdicazione dell'imperatore e la formazione del governo del principe Max del Baden, nel quale erano entrati i socialdemocratici, non aveva potuto impedire che molte città cadessero sotto il controllo dei soviet. D'altro canto, negli stessi soviet, i gruppi propriamente rivoluzionari, comunisti e socialisti indipendenti (USPD), erano di solito in minoranza e osteggiati dai gruppi collegati alle forze politiche tradizionali, come la socialdemocrazia.

 

Tra i gruppi appartenenti alla sinistra rivoluzionaria la maggior popolarità era stata raggiunta dalla Lega di Spartaco (Spartakusbund), che aveva assunto una posizione intransigente verso la guerra. I suoi leader si erano sempre più differenziati dai socialdemocratici per la polemica sul dilemma "Riforma sociale o rivoluzione?", come suonava il titolo di un'opera di Rosa Luxemburg (1870-1919), una socialista polacca emigrata in Germania e divenuta la maggior teorica del comunismo tedesco. Sviluppando una teoria marxista in molti punti originale, la Luxemburg aveva sostenuto la necessità di fare la rivoluzione con il consenso delle masse e aveva messo in guardia dal rischio che la concezione leninista del partito, come avanguardia della classe operaia, generasse un apparato burocratico di partito, chiuso, centralistico e scarsamente democratico.
Dittatura del proletariato doveva dunque significare «applicazione e non abolizione della democrazia», e solo la costante presenza politica delle masse avrebbe permesso di realizzare una «democrazia illimitata».
Il marxismo libertario degli spartachisti non era però riuscito a soppiantare, sul piano dell'organizzazione politica e sindacale, la forza della socialdemocrazia riformista, che era contraria alla soluzione rivoluzionaria di tipo sovietico e si era schierata a difesa del sistema parlamentare: da qui una frattura nel movimento operaio tedesco non più colmata, destinata anzi ad aggravarsi in seguito.

 

La Repubblica di Weimar

 

Il nuovo cancelliere, il socialdemocratico Ebert, anche in seguito alle pressioni delle potenze occidentali, si prefisse di mettere termine alla rivoluzione.
Ebert concluse un accordo segreto con il feldmaresciallo Hindenburg, stringendo legami con i gruppi conservatori della burocrazia statale e dell'esercito. Il ministro della guerra Noske, avuti ampi poteri, consenti la formazione di gruppi armati, detti "corpi franchi", dediti al terrorismo e all'assassinio politico; inoltre ottenne di riarmare 400 000 uomini, con funzioni di polizia interna.
Trucidati dai corpi franchi la Luxemburg e Liebknecht, capi della Lega di Spartaco (trasformatasi in Partito comunista), la repressione si abbatté sulla Repubblica sovietica proclamata a Monaco (marzo-maggio 1919) e sulla insurrezione di Berlino. Nel giro di pochi mesi la rivoluzione era soffocata quasi dovunque: gli ultimi sussulti si ebbero con le insurrezioni comuniste di Plauen e della Ruhr (maggio 1920).
Le conseguenze di quelle tragiche vicende furono durature: i centri tradizionali di potere dello Stato germanico, l'esercito, la burocrazia, i grandi gruppi economici, ne uscirono rafforzati, tanto quanto si erano trovati divisi i partiti operai, nonostante il clamoroso successo elettorale della socialdemocrazia nelle prime elezioni del dopoguerra.
Nell'Assemblea nazionale tedesca, eletta a suffragio universale e apertasi nella città di Weimar (in Turingia) nel febbraio 1919, il Partito socialdemocratico aveva la maggioranza relativa e deteneva con Ebert, divenuto presidente della Repubblica, e con Scheidemann, nuovo cancelliere, le maggiori cariche dello Stato, pur formando coalizioni di governo con altre formazioni politiche, come il Partito cattolico del Centro e il Partito democratico.
Nell'agosto 1919 fu approvata dall'Assemblea nazionale la nuova costituzione della Repubblica. Essa era il frutto dell'apporto teorico di famosi costituzionalisti, ma risultava piuttosto macchinosa. Il potere risultava suddiviso tra l'Assemblea nazionale (Reichstag) e il presidente della Repubblica, eletto a suffragio universale diretto, mentre il governo godeva di scarsa autonomia politica. Mentre l'attività del Parlamento risultava inceppata dal gran numero di partiti (si giunse a contarne ben venticinque), il presidente della Repubblica poteva nominare e revocare i ministri, sciogliere il Parlamento, sospendere le garanzie costituzionali in casi eccezionali, sottoporre a referendum popolare le leggi approvate dal Reichstag.
Tutto ciò non toglie che per la prima volta nella sua storia di Stato nazionale la Germania perveniva, con la Repubblica di Weimar, a un sistema democratico-parlamentare. Per di più l'estensione del diritto di voto alle donne poneva lo Stato tedesco all'avanguardia nell'Europa continentale in fatto di applicazione effettiva del suffragio universale. Inoltre la struttura federale del vecchio Impero risultava ampiamente riformata ma sostanzialmente mantenuta, e resa anch'essa più democratica. Sparivano gli Stati che, sotto l'egemonia prussiana, avevano concorso alla formazione dell'Impero, anche in conseguenza dell'avvenuta abdicazione dei loro sovrani (là dove ancora esistevano nel 1918 dinastie regnanti, come in Sassonia, Baviera, ecc.), ma prendevano il loro posto, nell'ambito della Repubblica, diciotto regioni storiche, chiamate Länder, dotate di organismi politico-amministrativi con notevole autonomia, e rappresentate in un Consiglio del Reich.

 

Le umiliazioni della sconfitta unite ai timori suscitati dall'ascesa politica delle masse popolari resero critica una situazione nella quale già dominava la violenza come metodo di lotta politica. Lo stesso ordine costituzionale fu minacciato da tentativi di colpi di Stato della destra, come quello di Kapp (marzo 1920), fallito per l'intervento dell'esercito, e lo sciopero delle maestranze operaie.
I gruppi armati e terroristici di cui l'estrema destra poteva disporre, tuttavia, continuarono a perpetrare una serie di assassinii politici di cui restarono vittime esponenti della sinistra rivoluzionaria, dirigenti socialdemocratici o cattolici, come il ministro Erzberger, e infine il ministro degli esteri Rathenau (1922), un grande industriale che aveva assunto una posizione conciliante sul problema delle riparazioni di guerra.
Quest'ultimo restava uno dei principali nodi della politica tedesca di quegli anni. Il disegno della Francia era quello di far pagare alla Germania i propri debiti contratti con gli USA, di annientare la potenza industriale tedesca, eliminando un temibile concorrente sui mercati mondiali, e di servirsi delle riparazioni per ricostruire la propria economia.
Questi progetti erano tuttavia contraddittori con la politica di isolamento della Rivoluzione russa e con la volontà di creare intorno all'URSS un solido baluardo, di cui la Germania diventava necessariamente il principale punto di forza. Del conflitto tra chi aspirava all'annientamento tedesco, come il presidente francese Poincaré, e chi aspirava a una rapida ricostruzione tedesca, come i governanti americani e inglesi, cercarono di approfittare i ministri di Weimar, rifiutandosi di pagare le riparazioni o chiedendone continue dilazioni.
Da ciò la Francia e il Belgio trassero l'occasione per occupare militarmente la regione mineraria e industriale della Ruhr (1923) incontrando però la resistenza passiva dei tedeschi. Per reazione crebbe in Germania l'ondata nazionalistica, parallela al precipitare della crisi economica (inflazione, blocco delle materie prime, disoccupazione). Ne approfittarono ancora una volta i gruppi di destra, tra cui faceva la sua apparizione il nuovo Partito nazional-socialista di Adolf Hitler, autore nel 1923 di un tentativo di colpo di Stato a Monaco, con l'appoggio di un gruppo di generali capeggiati da Ludendorff.
Sin dagli anni Venti, l'acutizzarsi delle difficoltà economiche su scala di massa generava consenso nei confronti dei movimenti che operavano in senso eversivo nei riguardi delle istituzioni repubblicane, e più in particolare verso le tendenze, come quella rappresentata dal partito di Hitler, in cui si mescolavano la polemica contro i gruppi capitalistici e "plutocratici", indicati come i responsabili della crisi, la lotta contro il "socialismo internazionale", di matrice socialdemocratica o comunista, e infine il rifiuto del sistema parlamentare e in genere della democrazia rappresentativa.
Il fallimento del putsch di Monaco, i cui autori furono condannati a miti pene (Hitler se la cavò con un anno di carcere, speso nella preparazione del suo libro-manifesto Mein Kampf), segnò una svolta positiva per la situazione tedesca, grazie all'abilità del nuovo cancelliere Stresemann, appartenente al Partito liberalnazionale, e al prevalere nell'ambito internazionale della linea anglo-americana su quella francese.
Con l'aiuto di massicci prestiti americani, e con la riduzione delle riparazioni sanzionata dal piano Dawes (1924), Stresemann fu in grado di ristabilire il valore della moneta, divenuto pressoché nullo in seguito all'inflazione del 1922-1923, con gravissime conseguenze sui salariati e sui ceti a reddito fisso. In breve tempo si verificarono tutte le condizioni per una rapidissima ripresa del capitalismo e dell'industria tedesca. L'inflazione, tenendo bassi i salari e rendendo più competitivi i prodotti industriali tedeschi, già aveva costituito una prima molla al rilancio produttivo.
Vi si aggiunse una valanga di capitali stranieri, soprattutto americani, riversatisi di colpo in Germania alla ricerca di buoni impieghi; le nuove concentrazioni industriali vennero a consolidare le posizioni dei grandi gruppi della siderurgia, della metallurgia, della chimica, che tornarono a guidare la rinascita tedesca.
Sul piano internazionale, dopo i favorevoli trattati con gli USA e con l'URSS (1921-1922), anche i nuovi governanti radicali francesi mutarono atteggiamento verso la Germania. I buoni rapporti tra Stresemann e il ministro francese Briand, ambedue convinti pacifisti, resero possibili la fine dei disordini nella Ruhr e la firma del trattato di Locarno (1925): esso garantiva l'integrità territoriale tedesca, il rispetto delle frontiere, il disarmo della frontiera renana, poneva le premesse per lo sgombero delle truppe straniere e apriva alla Germania le porte della Società delle Nazioni (1926).
Quello che fu definito "lo spirito di Locarno" parve aprire per l'Europa un periodo di distensione e chiudere definitivamente il dopoguerra.

 

Il riassetto delle democrazie occidentali (Inghilterra, Francia, Stati Uniti)

 

La crisi del dopoguerra non fu meno grave per le nazioni europee uscite vincitrici dal conflitto, ma dove più radicate erano le tradizioni liberali e da più lungo tempo vigevano gli ordinamenti parlamentari, le violente trasformazioni economiche e sociali prodotte dalla guerra non provocarono il crollo dei precedenti regimi politici. Essi si mostrarono in grado di incanalare e assorbire le nuove aspirazioni politiche delle classi popolari, sia per la maggior flessibilità delle istituzioni di quei Paesi (rafforzamento dei partiti della sinistra non rivoluzionaria, riforme sociali e così via), sia in ragione della grande riserva di ricchezza e di potenza economica che continuavano a costituire per quegli Stati gli imperi coloniali.

 

In Inghilterra il riassetto del proprio impero coloniale e commerciale, e l'apertura delle istituzioni di governo alle forze politiche della classe lavoratrice, come il Partito laburista, furono i due problemi dominanti del dopoguerra.
Il tradizionale controllo inglese dei mercati mondiali aveva subito un duro colpo da parte degli Stati Uniti e del Giappone, proprio mentre le trasformazioni delle tecniche produttive e la sostituzione dell'energia elettrica e del petrolio al carbone avevano messo in crisi il settore minerario, una delle maggiori fonti di esportazione inglesi.
I mutati rapporti di equilibrio tra le grandi potenze marittime furono sanzionati con la conferenza di Washington (1921-1922), che segnò la fine della supremazia inglese negli oceani. Gli USA ottennero in quell'occasione la parità navale con la Gran Bretagna, mentre il Giappone raggiunse un potenziale navale pari ai tre quinti di quello delle altre due nazioni.
Anche la questione, sollevata a Washington, della penetrazione giapponese in Cina, fu risolta con un compromesso.
Quasi tutte le principali colonie inglesi, divenute durante la guerra il retroterra decisivo per la sopravvivenza stessa della madrepatria, risultavano ormai percorse da movimenti per l'autogoverno o per la completa indipendenza e attendevano l'attuazione delle promesse fatte nel periodo bellico. La Gran Bretagna, pur tra molte contraddizioni, fu costretta a correre ai ripari, sia allargando a nuovi popoli gli statuti privilegiati dei dominions (cioè dei territori ex coloniali dotati di autogoverno), sia riconoscendo l'indipendenza dell'Egitto (1922), con l'eccezione del canale di Suez, sia attuando qualche limitata riforma in India.
Nel 1926 lo statuto di Westminster venne a regolamentare i rapporti tra l'Inghilterra e i dominions, nell'ambito del Commonwealth, federazione di entità statali autonome associate tra loro mediante larghi legami di dipendenza dalla Corona britannica.
All'interno del Commonwealth fu trovata una soluzione anche all'annosa questione dell'Irlanda, ripresentatasi in tutta la sua gravità nel 1919, quando l'esercito di liberazione irlandese (IRA) iniziò una sanguinosa guerriglia. Due anni dopo, il premier inglese Lloyd George concedette lo statuto di dominion alla parte centrale e meridionale del territorio irlandese (Eire), prevalentemente cattolico e agricolo, staccandola dal Nord industriale e a maggioranza protestante (Ulster).
Insieme con una più elastica politica coloniale, l'Inghilterra tentò di risollevare la propria economia cercando nuovi sbocchi per le proprie merci e i propri capitali in Europa. Ciò spiega il suo interesse per la distensione internazionale, per la rinascita della Germania, per un diretto controllo sulla Società delle Nazioni.
Tale politica distensiva fu accelerata anche dall'ascesa del Partito laburista, giunto in pochi anni a soppiantare quasi completamente il Partito liberale in Parlamento. Tuttavia, dopo la brevissima parentesi laburista, il governo ritornò nelle mani del conservatore Baldwin (1925-1929), che per risolvere i gravi problemi economici appoggiò le richieste degli ambienti industriali di tenere bassi i salari. Nel 1926, allora, uno sciopero, iniziato dai lavoratori delle miniere, divenne generale, interessando ben 4 milioni di operai. Il duro intervento del governo e il progressivo sfaldarsi del fronte dello sciopero, non impedirono ai minatori di resistere ottenendo migliori condizioni di lavoro e preparando la riscossa del Partito laburista che culminò nelle elezioni del 1929.

 

Come l'Inghilterra cercò nel riassetto coloniale la via per uscire dalle difficoltà del dopoguerra, così la Francia puntò tutto, inizialmente, sul pieno sfruttamento della vittoria contro la Germania e sulle riparazioni di guerra di fronte alla crisi finanziaria dello Stato e alla svalutazione.
Questa linea corrispondeva alle tendenze nazionalistiche che allignavano nelle coalizioni di centrodestra succedutesi al potere in Francia dal 1919 al 1924. D'altronde, le nuove acquisizioni coloniali e il mandato sulla Siria, sanciti dai trattati di pace, alimentarono l'illusione della Francia di poter ritornare a esercitare una funzione di potenza dominante. La diplomazia francese si atteggiò ad arbitra della pace, almeno in Europa, guardando alla Germania come a una terra di conquista e legando a sé i nuovi Stati ugualmente interessati al pieno rispetto dei trattati: Polonia e "piccola Intesa" (Cecoslovacchia, Jugoslavia e Romania).
Le forze politiche conservatrici e nazionaliste avevano tratto anche vantaggi dalla spaccatura intervenuta nel Partito socialista (SFIO) al congresso di Tours, con la formazione del nuovo Partito comunista francese (1920). Il correlativo indebolimento del movimento sindacale aveva reso più facile il contenimento delle richieste operaie, in parte mediante riforme (giornata lavorativa di 8 ore, concessa nel 1919), in parte con l'uso della forza. Tuttavia, il tentativo di Poincaré (1922-1924) di far pagare ai salariati il risanamento del bilancio statale e della moneta rese possibile la formazione di un cartello delle sinistre (repubblicani, radicali e socialisti della SFIO), che trionfò nelle elezioni del 1924.
Il nuovo ministero del radicale Herriot (1924-1925), caratterizato da una politica distensiva all'estero (patto di Locarno) e da propositi riformatori in campo scolastico, finanziario e fiscale, provocò la reazione della destra economica, con relativa fuga di capitali all'estero e crollo della moneta. In tal modo, dopo un periodo di continue crisi di governo, il potere tornò saldamente nelle mani di Poincaré (1926-1929), il quale con l'appoggio della grande finanza e dei circoli industriali ristabilì il valore del franco (consolidandolo a un quinto del valore d'anteguerra), ponendo le premesse per una ripresa dello sviluppo economico su basi capitalistiche.

 

Il fatto più significativo del tormentato periodo postbellico fu il rifiuto degli Stati Uniti, che avevano tratto i maggiori vantaggi dal conflitto, di assumere il ruolo di nazione guida dell'Occidente, almeno sul piano politico. I tentativi di Wilson di imporre la propria visione di una "pace democratica" gli erano costati non solo l'ostilità di alcuni governi delle nazioni vincitrici (Italia e Francia), ma la stessa fiducia dell'elettorato americano, deluso dalle vicende europee.
La vittoria del Partito repubblicano su quello democratico nelle elezioni per il Congresso del 1918 e poi in quelle presidenziali del 1920, quando Harding (1921-1923) prese il posto di Wilson, segnarono il trionfo della tendenza isolazionista, con il rigetto del trattato di Versailles e il rifiuto di entrare nella Società delle Nazioni.
Si trattava di una rivincita del nazionalismo, che non contrastava, ma in certo modo accompagnava il predominio economico e finanziario americano sui mercati mondiali. Sotto la presidenza Harding questa politica isolazionistica e insieme imperialistica fu perseguita fino in fondo. Mentre le merci e i capitali statunitensi si riversarono in tutto il continente americano, la conferenza di Washington venne a sanzionare l'egemonia marittima degli USA nel Pacifico e ad accrescere la loro presenza in Estremo Oriente (ponendo le basi della rivalità con il Giappone).
In Europa, invece, i governi americani si mostrarono interessati al mantenimento dell'equilibrio postbellico e al tamponamento della minaccia comunista, anche mediante l'assistenza finanziaria ai popoli vinti come la Germania, o a regimi autoritari come il fascismo in Italia.
All'interno, dopo l'approvazione delle prime leggi d'emergenza sulle tariffe doganali (1920), richieste dagli industriali e dai sindacati, dazi sempre più elevati vennero imposti alle merci straniere, soprattutto agricole. Nello stesso tempo fu drasticamente limitata l'immigrazione (1921), fatto che contribuì a rendere ancor più drammatica la disoccupazione in Europa.
Il nazionalismo americano, accresciuto da un esasperato timore, per le "novità sovversive" d'origine europea, scorgeva nei lavoratori stranieri dei potenziali rivoluzionari. L'America visse per alcuni anni in un clima che favoriva l'intolleranza ideologica e che culminò con la ingiusta condanna morte dei due anarchici italiani Sacco e Vànzetti (1927).
La pretesa d'imporre per legge una rigida ma esteriore moralità puritana si espresse nel divieto dello spaccio di alcoolici (proibizionismo), in un contesto in cui si moltiplicavano invece le speculazioni, gli scandali, i sanguinosi scontri tra bande rivali di gangsters. Ripresero forza il razzismo e l'antisemitismo.
Nel complesso l'economia americana conobbe dal 1922 un altro periodo di accelerata espansione. Le grandi concentrazioni industriali proliferarono, aggirando le leggi antitrust. Il finanziere e imprenditore Henry Ford aveva fatto scuola: le tecniche di razionalizzazione del lavoro vennero applicate su larga scala, la pubblicità moltiplicò i consumi e le vendite a rate dominarono il campo. I salari aumentarono, le banche fecero crediti illimitati, la borsa di Wall Street salì vertiginosamente. Il nuovo presidente repubblicano Coolidge (1923-1928) era convinto che tale prosperità non potesse subire pause o arretramenti proclamò.
L'economia americana è ormai un'economia industriale "matura", nella quale gli addetti all'agricoltura sono meno del 22% della forza lavoro, gli addetti all'industria il 31% e gli addetti ai servizi il 47%. La produzione di autoveicoli supera, nel 1929, i 5 milioni di unità, contro le 700.000 unità prodotte dalla Gran Bretagna, dalla Germania, dalla Francia e dall'Italia messe insieme. Gli apparecchi radio raggiungono gli 8 milioni tra il 1922 e il 1929. La popolazione risiede ormai in maggioranza nei centri urbani: New York sfiora i 7 milioni di abitanti; Detroit, la città dell'auto, raggiunge i 3.500.000.

 

 

 

I fermenti rivoluzionari in Italia

 

 

il fascismo in Italia

 

 

Nel primi anni del dopoguerra prese corpo in Italia, sino a giungere alla conquista del potere e all'instaurazione di una dittatura, una forza politica nuova: il fascismo. Il fenomeno, che non aveva precedenti diretti nel passato, si configurava caratterizzato dall'applicazione sistematica e generalizzata del metodo della violenza alla lotta politica.
Il fascismo si faceva interprete a proprio modo del desiderio mitizzato della "rivoluzione", cioè dell'esigenza diffusa di una radicale rottura con il passato, largamente condivisa all'indomani della prima guerra mondiale.
Mussolini, capo del fascismo, già militante nelle fila del socialismo rivoluzionario, di ascendenze soreliane, uno dei fautori più accesi dell'intervento italiano nella guerra mondiale, fu colui che trasformò le confuse attese rivoluzionarie in un disegno politico che egli stesso definì, alcuni anni dopo, come totalitario, intendendo dire che lo sbocco della rivoluzione fascista conduceva alla costruzione di uno Stato onnipotente, in grado di controllare la vita sociale e il destino di tutti i cittadini.
Ciò significava sottrarre i detentori del potere politico a qualsiasi verifica democratica, escludere ogni possibilità di un reale ed efficace dissenso, combattere le autonomie, esercitare un rigido controllo e un continuo intervento in tutti i campi della vita civile e privata.
Lo Stato, così come i fascisti lo concepirono e cercarono di realizzare, finiva pertanto per assorbire totalmente in se stesso tanto gli individui quanto i gruppi sociali, le comunità locali e le voci della cultura, le Chiese e le correnti d'opinione.
Lo Stato assumeva l'aspetto di un nuovo idolo, cui tutto doveva essere subordinato.

 

Il fascismo si impose come regime politico sfruttando una situazione favorevole e godendo di appoggi più ampi e potenti del nucleo di uomini, relativamente piccolo, che l'aveva generato. Il fascismo, infatti, trovò supporti e consensi in una realtà sociale, politica e culturale che aveva lontane radici nella storia d'Italia e di cui alcuni tratti si considerano acquisiti.

 

In primo luogo il fascismo poté e seppe sfruttare le tendenze antiparlamentari e antidemocratiche già presenti nella cultura del Novecento, diffuse largamente anche in settori della media e piccola borghesia attratta dal nazionalismo, frustrata e impaurita dal clima del dopoguerra.
Si trattava di strati sociali numericamente consistenti percorsi da una violenta crisi di orientamento e di identità, oltre che investiti dà un reale declassamento nella situazione economica e nella rappresentanza politica.
Il fascismo interpretò a suo modo questa crisi e utilizzò quegli sbandamenti, facendo dell'ambiguità ideologica il proprio programma. Mussolini, nel 1921, proclamò questa ambiguità quando disse in Parlamento: «Noi ci permetteremo il lusso di essere aristocratici e democratici, conservatori e progressisti, reazionari e rivoluzionari, legalisti e illegalisti, a seconda delle circostanze di tempo, di luogo e di ambiente».
Non solo, dunque, giovani in prevalenza di estrazione piccolo borghese, conquistati ai metodi della violenza e ai miti nazionalisti, fornirono l'iniziale personale politico del movimento e poi del Partito fascista; il fascismo trovò anche una sua base di massa nei gruppi sociali del ceto medio e del popolo minuto meno organizzati politicamente. In queste classi si parlava magari di "rivoluzione", ma in effetti si aspirava soprattutto a riportare l'ordine nella difficile situazione postbellica; e il fascismo seppe presentarsi nello stesso tempo come rivoluzionario e come restauratore dell'ordine.

 

Il fascismo fu inoltre alimentato e sempre più sostenuto da una parte consistente delle forze conservatrici, di varia natura, ma ugualmente preoccupate dal rafforzarsi del movimento operaio e contadino e, in genere, dall'ascesa tumultuosa dei partiti popolari. Tali forze non aspiravano ad alcuna rivoluzione, e pertanto guardarono con iniziale diffidenza al fascismo; solo in un secondo tempo si convinsero che il movimento fascista potesse essere condizionato e utilizzato ai fini della restaurazione della pace e dell'ordine sociale come esse lo intendevano.
Tra questi gruppi un peso preponderante ebbero la proprietà terriera, specialmente della Pianura Padana, e la parte della borghesia industriale sviluppatasi grazie al protezionismo, alle commesse statali e alla guerra, cioè i settori economici cresciuti in una situazione di favori e di agevolazioni cui non erano disposte a rinunciare, e che vedevano minacciati dall'acuirsi delle lotte sociali.
Sullo sfondo c'era poi la paura della Rivoluzione russa, che poté essere utilizzata per chiamare a raccolta, sotto le insegne del fascismo o in suo sostegno, tutti coloro che paventavano il bolscevismo.
In tal modo, nel momento stesso in cui le forze socialiste si dividevano (nasceva anche in Italia il Partito comunista, nel 1921), molte delle tendenze conservatrici individuavano nel fascismo una comune garanzia di ordine e di sicurezza.
Al di là di questo, tuttavia, fu necessario che lo Stato e la classe politica liberale cedessero le armi di cui disponevano per difendere la legalità; in effetti, la classe politica liberale fu impari ai compiti di riforma dello Stato in senso democratico, lasciando spazio o rendendosi complice dell'illegalità fascista, decretando, peraltro, proprio in tal modo la propria fine.
Per questi aspetti il fascismo trovava radici profonde nella storia italiana, esprimendo i limiti
 - di un sistema politico rimasto chiuso all'apporto di nuove forze popolari,
 - di una concezione di Stato ancora oligarchica e naturalmente percorsa da tentazioni autoritarie,
 - di un predominio di ceti dirigenti che già si erano spaventati di fronte al riformismo di Giolitti.
Il fascismo sembrava quindi incarnare i mali antichi d'Italia ed era, a suo modo, un'«autobiografia della nazione» (Gobetti).

 

La situazione di fermento sociale in Italia

 

L'Italia era uscita vittoriosa dalla guerra, ma priva del senso della vittoria.
La guerra, dopo i primi entusiasmi per Trento e Trieste finalmente italiane, aveva lasciato un lungo strascico di amarezza e aveva deluso la speranza di una società postbellica più giusta, più pacifica e più democratica.
Per le masse popolari, specialmente contadine, gli unici frutti della guerra, dopo le facili promesse di distribuzione delle terre, erano stati le campagne abbandonate, le centinaia di migliaia di morti e di mutilati, la febbre spagnola (un'epidemia che tra 1917 e 1919 fece più vittime della stessa guerra), la fame e il carovita.
La fame di terre era rimasta insoddisfatta, le grandi riforme fondiarie neppure abbozzate.
Il movimento socialista, ne trasse occasione per ribadire la validità del proprio neutralismo, peraltro dimostratosi incerto, giungendo a disinteressarsi delle clausole di pace, chiudendosi in un'attesa quasi fatalistica di un prossimo crollo dello "Stato borghese", e trattando in certi casi con rancore e disprezzo gli ufficiali reduci dal fronte, quasi fossero i responsabili dell'inutile massacro.
Gli ufficiali i e sottufficiali di complemento, dal canto loro, sulle cui spalle era gravata la responsabilità del comando diretto della truppa, appartenenti quasi tutti alla piccola e media borghesia, trovarono difficile reinserirsi in una società di pace e rinunciare all'autorità della divisa; sentendosi interpreti dell'Italia combattente e dei veri interessi nazionali, andarono in gran numero a costituire il fulcro dei movimenti degli ex combattenti.
Essi rivendicavano per l'Italia maggiori compensi territoriali, diffondevano il mito della "vittoria mutilata", prestavano orecchio agli appelli d'Annunziani per la conquista della città di Fiume (che aveva proclamato in un plebiscito la propria volontà di unirsi all'Italia).
Anche la vecchia classe dirigente liberale, rappresentata alle trattative di pace da Orlando e Sonnino, aveva contribuito con il proprio comportamento alla conferenza di Parigi ad alimentare irrealistiche attese e violente frustrazioni.
La fine della guerra aveva mostrato inoltre quanto profonde fossero rimaste le fratture nella classe politica liberale; dal suo interno il Giolitti non esitava a porre sotto accusa gli autori dell'intervento e a proporre un deciso mutamento di rotta in politica interna e internazionale.

 

I segni d'irrequietezza e di crisi profonda della società e dello Stato si moltiplicano di fatto nel 1919, sotto l'urgere in una situazione economica che annovera, nel novembre, due milioni di disoccupati, una drastica riduzione dei raccolti agricoli, l'accelerazione dei fenomeni inflazionistici prodotti dalla guerra e la crescita dello squilibrio tra importazioni ed esportazioni (nel 1919 il deficit della bilancia commerciale con l'estero raggiunge il quintuplo di quello del 1913 ed è dovuto per buona parte all'importazione di prodotti alimentari).
Il mondo del lavoro risulta in fermento, impegnato in una serie di lotte sociali, di scioperi e di manifestazioni, che talora sfuggono al controllo delle organizzazioni sindacali, benché rafforzate da un notevole afflusso di aderenti.
Si sciopera nelle fabbriche, nelle campagne, nei servizi pubblici (ferrovieri) e persino tra il ceto impiegatizio; in alcune zone si procede all'occupazione delle terre.
Benché non accade nulla di paragonabile alla proclamazione delle "repubbliche sovietiche" in Germania, si parla molto di rivoluzione, ma il concetto resta avvolto nell'ambiguità. Accanto alle concezioni rivoluzionarie d'impronta socialista, rilanciate dall'attualità della Rivoluzione russa, proliferano altri confusi fermenti di ribellione che si radicano nel clima di violenza bellico e postbellico, che esprimono un diffuso malcontento dei reduci e delle classi medie, che riprendono i temi propri del sindacalismo rivoluzionario dell'anteguerra, mescolati ora con spunti nazionalistici e dannunziani.
Trai gruppi di ex-combattenti si segnalano i nuclei di ex-arditi, che pretendono di applicare anche in periodo di pace rituali e filosofia della violenza da loro appresi al fronte come truppe d'assalto. Sorgono i Fasci italiani di combattimento, fondati a Milano nel marzo 1919, primo nucleo del futuro Partito fascista che da essi prende il nome. Il fondatore, Mussolini, offre loro un complesso di postulati, semplici e contraddittori:
A)
 - lotta alla monarchia e alla Chiesa,
 - suffragio universale,
 - partecipazione operaia alla gestione delle fabbriche,
 - terra ai contadini,
 - lotta ai profitti di guerra e imposte progressive,
 - disarmo generale e politica di distensione;
B)
 - rivendicazione di Fiume e della Dalmazia,
 - riduzione dei compiti e delle funzioni dello Stato in materia economica e sociale,
 - antisocialismo.

 

D'Annunzio e l'impresa di Fiume

 

Mentre la tensione sociale nel Paese cresce, con le manifestazioni del giugno 1919 contro il carovita e lo sciopero generale di luglio, proclamato dalla Confederazione generale del lavoro in segno di solidarietà con la Russia sovietica, l'opinione pubblica è scossa dall'occupazione di Fiume attuata nel settembre, con un colpo di mano, da Gabriele D'Annunzio.
Postosi a capo di un gruppo di ex-combattenti, arditi, irredentisti, ma anche di ufficiali e soldati dell'esercito regolare, D'Annunzio "vate" occupa la città contesa. Per la prima volta, come sottolinea Nitti, presidente del consiglio, lo spirito di sedizione entra nell'esercito regio.
Non solo gli ambienti nazionalisti salutano con entusiasmo il colpo di mano; anche gruppi di sindacalisti rivoluzionari guardano con interesse e speranza al governo dannunziano di Fiume, che prende il nome di Reggenza del Carnaro, e collaborano alla stesura della Carta costituzionale del Carnaro. Essa prospetta una nuova organizzazione della società, basata sul superamento della contrapposizione tra lavoratori e datori di lavoro, e incentrata sulle corporazioni, che raccolgono tutti gli addetti a un'attività economica e produttiva.
Si mescolano confusamente, nella costituzione della piccola città-Stato, spunti del sindacalismo rivoluzionario, elementi propri del nazionalismo, aspirazioni dannunziane da signorotto cinquecentesco; tale convergenza di forze disparate testimonia di un clima favorevole a grandi equivoci e alla diffusione di tendenze eversive che si ammantano di etichette rivoluzionarie.

 

Difficoltà del sistema parlamentare e ascesa dei partiti di massa

 

Di fronte a queste tendenze eversive e illegali, che trovavano per ora nel dannunzianesimo un elemento di coagulo, stava il potenziamento irruente e improvviso dell'apparato statale, provocato dalla guerra.
Gli apparati dello Stato erano enormemente cresciuti sottraendosi al controllo, già limitato, del Parlamento. Come aveva rilevato Giolitti, la guerra aveva visto in Italia l'esautoramento delle rappresentanze parlamentari, la soppressione di ogni diritto di critica, l'annullamento del principio della sovranità popolare. In compenso, erano cresciuti i poteri dell'esecutivo, cioè del governo, nonché dei corpi dello Stato (burocrazia, esercito) e dei gruppi di pressione, specialmente economici.
La crisi del Parlamento e del sistema rappresentativo si aggravò nel dopoguerra per tre sostanziali motivi:
 - perché il successo elettorale dei nuovi partiti di massa (il Partito socialista, il Partito popolare e, dal 1921, il Partito comunista) rese impossibile la prosecuzione della pratica trasformistica degli accordi personali, senza riuscire a sostituire ad essa salde coalizioni di governo tra partiti diversi;
 - perché la lotta politica e sociale assunse un dinamismo che sfuggiva alle possibilità di mediazione e di coordinamento delle strutture parlamentari;
 - perché si moltiplicarono, a destra e a sinistra, le forze politiche che, per opposti motivi, vedevano nel Parlamento un'istituzione superata, simbolo di uno Stato che si diceva di voler abbattere.
A parte i liberali, i radicali, i socialisti riformisti e i popolari, dunque, gli altri partiti e le varie correnti (socialisti massimalisti e rivoluzionari, nazionalisti, fascisti) affermavano di voler superare il sistema parlamentare.

 

Le elezioni politiche del 1919, svoltesi per la prima ma volta con il sistema proporzionale, avevano visto una sconfitta dei liberali.
Un inatteso successo ottenne invece il Partito popolare, d'ispirazione cattolico-sociale, fondato all'inizio del 1919 da don Sturzo, nel solco del movimento della democrazia cristiana di circa vent'anni prima, ma con due importanti novità:
 - il consenso della Santa Sede e di papa Benedetto XV ad abolire ufficialmente il non expedit, permettendo l'inserimento del movimento cattolico nella vita politico-parlamentare in posizione non più subordinata;
 - la professione di aconfessionalità, voluta personalmente da Sturzo, il quale, rinunciando a un'etichetta cattolica per il suo partito, intendeva sottolinearne l'indipendenza dalla Chiesa e il suo impegno a difendere le libertà e gli interessi religiosi nel quadro più ampio delle libertà civili e politiche.
Con queste premesse il Partito popolare ottenne nelle elezioni del 1919 un centinaio di deputati.
L'altro grande partito di massa uscito vincitore dalle elezioni del 1919 fu quello socialista, che portò i suoi seggi da 52 a 156. Nel caso dei socialisti, però, il successo elettorale nascondeva la crisi del partito, diviso tra i riformisti e massimalisti. I riformisti si trovavano presi in una morsa tra la forte spinta popolare di rinnovamento, innescata dalla crisi economica, e l'irrigidimento delle forze liberali fattesi più conservatrici. I massimalisti, che prevalevano nelle strutture organizzative del partito, in parte attendevano in modo fatalistico la rivoluzione, in parte si esaurivano in agitazioni sporadiche e isolate o in violente polemiche verbali che celavano l'incapacità di giungere a una soluzione rivoluzionaria.

 

La situazione parlamentare dopo il 1919 era dunque che nessuno dei grandi gruppi politici – liberale, socialista, popolare – era in grado di dar vita da solo a una maggioranza di governo, ma ciascuno di essi trovava forti remore, di natura storica e ideologica, ad allearsi con uno degli altri o con tutti e due.
Ciò contribuì a rendere precaria la vita dei governi: tra il 1919 e il 1922 se ne succedettero cinque, variamente orientati.
A Orlando, dimessosi nel giugno 1919, subentrò Francesco Saverio Nitti, un noto economista, studioso del problema meridionale, che cercò d'impostare un piano innovatore in campo economico-finanziario. Vi erano, tuttavia, diversi ostacoli che bloccavano ogni politica di riforme: la non disponibilità politica dei socialisti ad avviare un dialogo, la pesante situazione finanziaria e il diffondersi della crisi economica.

 

Problemi di riconversione industriale e crisi bancaria

 

La guerra aveva accelerato le concentrazioni industriali e finanziarie, rafforzando i potenti complessi siderurgici, meccanici e chimici. Questi avevano operato in un regime di privilegio, consentito dalla situazione bellica. Ciò aggravò i limiti della rivoluzione industriale italiana, compromise lo sviluppo dell'industria leggera, accrebbe il divario tra industria e agricoltura.

 

Insieme alle concentrazioni erano cresciuti i collegamenti strettissimi tra settore industriale e settore bancario. Le grandi banche si erano impegnate oltre ogni limite di prudenza in attività finanziarie-industriali a lungo termine e i gruppi industriali tendevano a impossessarsi delle banche.
L'inflazione galoppante del dopoguerra, mentre da un lato significò la rovina dei ceti medi a reddito fisso e dei piccoli risparmiatori, dall'altro favorì una sfrenata speculazione sui titoli di borsa. I profitti del periodo bellico vennero investiti nell'acquisto di azioni a fini speculativi o di controllo, o nella dilatazione di impianti industriali in settori già pletorici.

 

In questo complesso sistema di interrelazioni tra industrie e banche, il periodo critico di riconversione delle industrie belliche provocò una serie di sconvolgimenti.
Il crollo, avvenuto nel 1921, di alcune grandi società industriali (come la siderurgica Ilva e la meccanica Ansaldo), provocò il fallimento di grandi banche, come la Banca di Sconto, proprio mentre si scatenava la lotta tra gruppi concorrenti per il controllo delle maggiori banche nazionali: la cosiddetta "scalata alle banche".

 

Gli eccessivi impegni finanziari, le speculazioni e il fallimento della Banca di Sconto si rifletterono negativamente su altre grandi banche, come il Banco di Roma, legato agli ambienti cattolici.
Le conseguenze della crisi bancaria e industriale degli anni 1920-1922 furono di tre tipi
 - annientò gli ultimi risparmi dei piccoli investitori, già colpiti dall'inflazione, accrescendo la sfiducia e il desiderio di "cose nuove";
 - rese più stretti e stabili i legami tra lo Stato e il sistema bancario-industriale, poiché fu lo Stato a intervenire per salvare le banche in crisi, con un aggravamento del proprio già critico bilancio;
 - accrebbe in alcuni gruppi finanziari il desiderio di rivincita, la volontà di stabilizzare la situazione a proprio favore, che doveva ben presto portarli a fiancheggiare e a finanziare il fascismo.

 

La volontà di rivincita e di stabilizzazione derivava anche dalle effettive conquiste che il movimento operaio e sindacale ottenne nell'immediato dopoguerra:
 - le otto ore lavorative,
 - le commissioni interne con maggiori poteri,
 - i contratti collettivi periodici e gli aumenti salariali.
Se nel 1918 le retribuzioni reali (cioè comprensive della svalutazione) erano scese a circa il 64 per cento rispetto a quelle del 1913, nel 1920 risalirono al 114 per cento e nel 1921 al 127 per cento.
Di fronte alle conquiste salariali e normative dei lavoratori divenne di primaria importanza per gli industriali stabilizzare i profitti, congelare i salari, bloccare il movimento sindacale, contrastare gli scioperi.
Nel 1919, d'altronde, gli imprenditori più dinamici già avevano provveduto a darsi una nuova organizzazione, la Confederazione dell'industria, che raggruppò ben 6000 aziende.
Dopo un nuovo sciopero generale proclamato nell'aprile 1920 a Torino sotto la guida della sinistra socialista ispirata dal giornale "Ordine nuovo", diretto da Granisci, Togliatti e Tasca, si venne nel settembre dello stesso anno a uno scontro frontale.

 

L'occupazione delle fabbriche

 

Al centro dell'azione di "Ordine nuovo" c'erano i consigli di fabbrica, i quali, sul modello dei soviet russi, dovevano rappresentare il superamento dei vecchi organismi sindacali e delle commissioni interne per diventare la cellula fondamentale della futura organizzazione politica ed economica, la guida delle masse operaie, il punto di incontro tra operai, tecnici e intellettuali. I consigli corrispondevano in qualche misura al principio leninista secondo cui toccava a un'avanguardia operaia guidare il proletariato alla rivoluzione, dandogli precisi obiettivi di lotta. Avevano dunque un significato politico oltre che economico-sindacale.
Furono i consigli di fabbrica che promossero nell'autunno 1920 il movimento, estesosi a tutto il triangolo industriale, dell'occupazione delle fabbriche da parte delle maestranze. Le occupazioni dovevano anche dimostrare che gli stessi operai erano in grado di far fronte ai problemi produttivi e di organizzarsi autonomamente.
Il movimento, tuttavia, dopo i primi tempi, rimase isolato alla sola Torino e soprattutto restò privo di una guida politica nazionale, per il rifiuto del Partito socialista di intraprendere una via così rivoluzionaria. L'occupazione delle fabbriche segnò dunque la definitiva frattura tra le dirigenze socialiste e sindacali e il gruppo di "Ordine nuovo", che infatti l'anno successivo (1921), in occasione del congresso socialista di Livorno, contribuì alla fondazione del Partito comunista d'Italia, raccogliendo altri gruppi rivoluzionari come quello napoletano di Amadeo Bordiga. Il nuovo partito si presentava, come ebbe a dire Antonio Granisci (1891-1937), come l'unico vero partito della classe proletaria, investito della stessa funzione liberatrice che nel Risorgimento era stata propria dei liberali.