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CLASSE   V   -   Sintesi di Storia (4)

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Terminologia storica

 

L'Italia dopo il 1870

 

L'Italia

 

L'occupazione di Roma aveva posto termine all'epoca risorgimentale (sebbene nel Trentino, a Trieste, nell'Istria e in Dalmazia circa 750.000 persone di lingua italiana rimanessero ancor fuori dei confini dello stato nazionale); problemi e difficoltà esistenti durante il primo decennio del Regno d'Italia non erano tuttavia scomparsi.
In particolare rimaneva sempre viva la Questione Romana, dal momento che il trasferimento della capitale d'Italia a Roma non poteva non inasprire il contrasto con la Chiesa cattolica.
Il governo Lanza-Sella non si illudeva di aver posto termine a tale contrasto con la Legge delle Guarentigie (13 maggio 1871), che assegnava al pontefice il Vaticano, il Laterano e la villa di Castel Gandolfo con una dotazione annua, e sanzionava la rinuncia dello stato italiano a inserirsi nella vita della Chiesa. Il permanere del contrasto fra lo Stato e la Chiesa portò invece, all'interno, alla non partecipazione dei cattolici militanti alla vita pubblica, all'estero, a una crescente ostilità verso il nuovo stato italiano da parte delle potenze cattoliche, specialmente da parte della Francia (quantomeno finché le forze monarchico-clericali dominarono la politica della Terza Repubblica) e dell'Austria-Ungheria.

 

La Questione Romana, benché il più grave, non era il solo grave problema della nuova Italia.
I problemi di organizzazione, di unificazione, di istruzione, di riassesto finanziario non erano stati risolti che in piccola parte durante il primo decennio dello stato unitario.
Ufficiali e funzionari piemontesi agivano in base all'istintiva assunzione di aver «conquistato» l'Italia, suscitando reazioni vivaci, sopra tutto nel Sud. D'altra parte il Sud mancava di una amministrazione efficiente, e, salvo in pochi casi, accogliere elementi della burocrazia borbonica significava tramandare e diffondere la corruzione e l'inerzia che avevano minato dall'interno lo stato di Francesco II.
La situazione del Sud era poi complicata dal fatto che la «rivoluzione» garibaldina, sia per quanto riguardava i suoi stessi esponenti, che avevano avuto il merito di portare una cospicua parte d'Italia entro lo stato unitario ed erano ora considerati con diffidenza dai funzionari e ufficiali piemontesi, sia per quanto riguardava le misere popolazioni meridionali, indotte da tale «rivoluzione» a sperare in un mutamento della loro condizione di vita, era in parte fallita. Ne derivò un malcontento sociale che si manifestò sopra tutto nel fenomeno del brigantaggio, prodotto e tenuto vivo dall'indigenza economica, sollecitato dagli elementi reazionari che sussistevano ancora numerosi nelle classi alte del Meridione e dalla stessa corte di Francesco II di Borbone, stabilita a Roma.
Il generale Cialdini, inviato a Napoli a dirigere la repressione, ottenne alcuni risultati, ma non certo definitivi e soddisfacenti.
Altri problemi incombevano poi con una gravità e un'urgenza da diffondere un senso di delusione che contrastava (e ne costituiva per altro la naturale reazione psicologica) col clima di fervida aspettativa che aveva caratterizzato l'ultima fase dell'unificazione.

 

 

 

La Destra storica

 

 

Erano problemi di legislazione, consistenti, ad esempio, nelle difficoltà tecniche di fondere insieme i codici dei diversi stati, considerati anche le notevoli rivalità e e gli antagonismi regionali che emergevano in diverse situazioni (i toscani, ad esempio, non volevano rinunciare alle loro leggi, più progredite di quelle piemontesi).
C'era i problemi relativi all'organizzazione dello stato, come ad esempio quello, fondamentale, della suddivisione amministrativa del territorio nazionale, risolto, non senza discussioni e dubbi (Marco Minghetti sostenne già in quel momento la tesi di estese autonomie regionali) con l'adozione di un sistema centralizzato che divise l'Italia, ad imitazione del sistema francese rivoluzionario dei dipartimenti, in province rette da prefetti, nominati dal governo centrale.
C'erano notevoli problemi nelle comunicazioni, importanti (in un paese caratterizzato da distanze sproporzionate rispetto alla superficie e da considerevoli sbarramenti orografici) non soltanto dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista politico.
C'erano problemi di istruzione, soprattutto di istruzione elementare, in alcune regioni del sud dove la percentuale di analfabeti oltrepassava 1'80%.

 

Tutti questi ed altri problemi, come quello del personale amministrativo dello stato, della fusione dei vari eserciti ecc., venivano a confluire nel gravissimo problema finanziario.
Per diverse ragioni le spese di ordinaria amministrazione del nuovo stato unitario superavano già quelle dei preesistenti stati regionali messi assieme; per di più lo stato unitario doveva affrontare essenziali problemi di riforma in diversi campi, che esigevano spese eccezionali. Tali spese si poterono affrontare solo in parte, talora, anzi, solo in piccola parte; malgrado ciò il peso delle imposte si fece dolorosamente sentire, specialmente nelle classi povere rurali.

 

Proprio questo decennio di vita pubblica aveva rivelato la difficoltà incontrata dalla classe politica dirigente che aveva attuato il Risorgimento, a trasformarsi, adattandosi ai nuovi compiti, ad ampliarsi per l'adesione di nuove forze sociali, e soprattutto a rinnovarsi. Mancò, pertanto, negli anni seguenti, una classe dirigente all'altezza della situazione, mentre a tale mancanza faceva riscontro l'apatia dell'opinione pubblica, come dimostrava il fatto che il diritto di suffragio elettorale, nel primo decennio dopo il 1870 ancora assai ristretto, venisse esercitato soltanto da circa la metà degli elettori.
Una parte considerevole della nazione rimaneva fuori della vita politica o perché esclusa dal suffragio, come gran parte della popolazione rurale e buona parte della popolazione urbana (e di questi esclusi la grande maggioranza non era politicamente educata), oppure perché intenzionata espressamente a fare opera di assenteismo o di opposizione, come i cattolici militanti e i fautori degli antichi regimi in Toscana, a Roma, nell'Italia meridionale.

 

Destra storica e Sinistra trasformista

 

I governi che si erano succeduti al potere dalla proclamazione del Regno appartenevano alla «Destra».
Eredi della tradizione cavouriana, essi avevano dunque saputo affrontare i problemi più urgenti, fra quelli che incombevano sul nuovo stato unitario e avevano ottenuto, grazie alla loro fermezza, risultati significativi soprattutto nell'opera di unificazione delle leggi, nella repressione del brigantaggio, nell'organizzazione amministrativa dello stato, e nel delicato campo dei rapporti con la Chiesa, introducendo una legislazione ecclesiastica eminentemente liberale.
Durante il secondo ministero Minghetti riuscirono, attraverso dure economie e imposte impopolari (fra cui la famosa tassa sul macinato, assai gravosa per la parte più povera della popolazione), a colmare il deficit finanziario che gravava sul bilancio del Regno dall'epoca della sua costituzione.
Tanti anni di governo avevano logorato questi «componenti un'aristocrazia spirituale, galantuomini e gentiluomini di piena lealtà» — come scrisse Benedetto Croce —, che videro infine esaurirsi il loro compito di fronte all'affiorare di problemi nuovi che essi non avevano modo di affrontare, di nuove forze sociali che essi non sapevano comprendere.
Avversari parlamentari ed extra parlamentari, democratici o reazionari, alimentavano contro la Destra l'accusa di costituire una «consorteria», che imponeva al paese un governo di minoranza.

 

 

 

Il trasformismo della Sinistra

 

 

Quando nel marzo 1876 il ministero Minghetti venne posto in minoranza per la defezione del gruppo dei moderati toscani, amareggiati dalla situazione di Firenze dopo il trasferimento della capitale a Roma, si aprì la via a una trasformazione radicale della vita politica italiana. Vittorio Emanuele chiamò al potere Agostino Depretis, che formò il primo governo della «Sinistra»; questa «rivoluzione parlamentare» come venne chiamata, non consistette in un semplice trasferimento dell'incarico governativo ad altro partito, bensì fu l'inizio di un processo di trasformazione e di sgretolamento dei due partiti che, eredi delle due maggiori forze politiche del Risorgimento, la liberale-moderata cavouriana e la democratica-mazziniana, aveva caratterizzato i primi quindici anni della vita politica e parlamentare dell'Italia unita.
La Sinistra era un partito sostanzialmente privo di esperienza governativa, erede diretto del Partito d'Azione degli anni dell'unificazione. Vi figuravano antichi esponenti democratici del Parlamento Subalpino, come appunto il Depretis, e attivi ex-cospiratori e combattenti garibaldini del Nord e del Sud come i lombardi Benedetto Cairoli e Giuseppe Zanardelli o i meridionali Francesco Crispi e Giovanni Nicotera. Lo animava il proposito di far procedere il paese verso la democrazia, migliorando il tenore di vita delle classi povere, in particolare con l'alleggerimento fiscale, e facendo partecipare un maggior numero di cittadini alla vita politica attraverso l'allargamento del suffragio elettorale.

 

Il governo della Sinistra si dispose ad applicare tale programma circondato da fervide aspettative, fattesi più sicure dopo la grande vittoria elettorale conseguita nelle elezioni del 1876.
Sembrava allora che il paese dovesse effettivamente dar corso a una nuova epoca, mentre scomparivano le personalità preminenti dell'epoca risorgimentale. Il Mazzini si era spento a Pisa fin dal 1872 dopo aver dedicato i suoi ultimi anni a combattere, in nome dei principi spirituali che animavano la sua democrazia, il socialismo marxistico in ascesa. Vittorio Emanuele chiuse nel 1878 un'esistenza relativamente breve (aveva 58 anni) e ricca di eventi drammatici e fortunati. Nello stesso anno, 1878, moriva Pio IX, la cui opera aveva pure avuto un'influenza essenziale sul Risorgimento, e quattro anni dopo, nel 1882, scompariva, a Caprera, Giuseppe Garibaldi.
L'epoca che pareva dovesse iniziare con l'avvento della Sinistra al governo e del re Umberto I al trono, non recò che in piccola parte al popolo italiano gli attesi mutamenti.
La maggiore apertura politico-sociale portata dal nuovo governo e da quelli che gli succedettero non valse in realtà a creare una classe politica dirigente che sostituisse con vantaggio la vecchia Destra, ristretta e fatalmente destinata a esaurirsi, ma attiva, onesta, disinteressata e dominata da un alto senso del dovere pubblico.
Più evidenti e profonde si fecero invece nella vita politica italiana le tare che i governi della Destra non avevano eliminato, ma erano riusciti a contenere e controllare: la tendenza all'intrigo, la scarsa fermezza d'opinioni, la povertà di convinzioni, l'opportunismo, il carrierismo.
D'altra parte, i capi della Sinistra che avevano effettive doti — il Depretis, il Crispi — si resero conto che solo in parte si potevano apportare mutamenti (in effetti la pressione fiscale venne diminuita, il suffragio elettorale venne ampliato a successive riprese, fino all'instaurazione del suffragio universale maschile nel 1911). Le linee fondamentali, sia nella politica interna che nella politica estera, dovevano rimanere quelle già seguite dalla Destra, in quanto erano dettate dalla situazione obiettiva del paese, povero, con una coesione nazionale ancora assai scarsa, turbato dall'opposizione cattolica e isolato in campo internazionale.
L'Italia, con scarsi capitali, priva di carbone e con le sue industrie accentrate in una piccola parte del suo territorio, solo con fatica poteva procedere verso la meta di un'economia prospera e moderna, mentre i progressi dell'economia industriale del Nord tendevano a rendere più forte il contrasto con le regioni meridionali, alimentando divisioni e rancori.

 

Con il nuovo pontefice, Leone XIII, il contrasto fra Stato e Chiesa perdette parte della sua asprezza, anche perché, con il consolidamento della repubblica in Francia e più tardi, con la conclusione dell'alleanza dell'Italia con l'Austria-Ungheria, la Santa Sede perdette due potenti appoggi.
Diminuì fino a scomparire un'altra divisione entro la vita politico-parlamentare italiana che invece avrebbe avuto una sana influenza sull'educazione politica nazionale, quella fra Destra e Sinistra, che nei primi due decenni del Regno pareva riprodurre il sistema bipartitico dei paesi anglosassoni. Ai due partiti, che vedevano confondersi programmi e metodi di governo, si sostituirono gruppi parlamentari facenti capo a singole personalità o legati da determinati interessi regionali o locali.
Questa frammentazione delle forze politiche venne favorita e in parte addirittura provocata dal Depretis, che con questo metodo, detto del trasformismo, continuò a dirigere la politica italiana in successivi ministeri fino alla sua morte nel 1887.

 

 

 

La politica estera della Sinistra

 

 

La politica estera italiana subì durante questo periodo un deciso mutamento d'indirizzo.
Gli eventi europei del 1870-71, in particolare la caduta di Napoleone III, avevano sottratto la politica estera italiana all'influenza francese, ma avevano d'altra parte relegato il giovane Regno in una situazione di pericoloso isolamento internazionale. Le sue scarse forze militari (malgrado la notevole popolazione, 26.800.000 nel 1871), le sue altrettante scarse risorse economiche facevano dell'Italia, nella migliore delle ipotesi, l'ultima delle potenze europee, tale da non essere in grado di affrontare da sola l'ostilità del nuovo regime francese, e necessitata quindi a procurarsi potenti alleati.
Fu appunto l'ostilità francese a indurre il governo Minghetti, nel 1873, a predisporre il primo realistico passo di avvicinamento alla Germania e all'Austria-Ungheria: una visita ufficiale di Vittorio Emanuele II a Vienna e a Berlino.
Venire ad una intesa con la potenza che aveva dominato l'Italia fino a ieri e che ancora teneva sotto la sua sovranità gli Italiani di Trento e Trieste ripugnava alla coscienza nazionale, tenuta viva dal movimento irredentistico. Vittorio Emanuele compì il suo viaggio, ma l'avvicinamento alle potenze centrali per il momento non andò oltre, e l'Italia continuò a trovarsi in una precaria situazione di isolamento internazionale e tali svantaggi apparvero chiaramente quando al congresso di Berlino, nel 1878, l'Austria rafforzò la sua posizione nei Balcani e quindi nell'Adriatico senza che la timida richiesta di compensi dell'Italia venisse presa in considerazione.
Nello stesso anno, peraltro, il Bismarck aveva suggerito al governo italiano di occupare Tunisi con una mossa intesa sopra tutto a tenere divise e ostili l'Italia e la Francia. L'allora presidente del Consiglio italiano, Cairoli, non volle però saperne, affermando che l'Italia faceva una politica delle «mani nette» e dopo essersi costituita lottando per la sua indipendenza, non voleva imporre il suo dominio ad altri popoli. Argomento mal posto, data la specifica situazione della Tunisia, vicinissima alla Sicilia, sì che una potenza straniera avrebbe potuto facilmente minacciare da essa il territorio nazionale, e in parte colonizzata da Italiani, che costituivano il nucleo di europei di gran lunga più numeroso; argomento che comunque non impedì anni dopo all'Italia di seguire una politica di espansionismo coloniale; argomento infine che indusse in equivoco gli Italiani su quello che era il reale motivo del rifiuto: il timore di incontrare l'opposizione della Francia che da tempo dalla vicina Algeria preparava la penetrazione in Tunisia.
In effetti, quando nel 1881 la Francia stabilì effettivamente il suo protettorato sulla Tunisia, l'opinione pubblica italiana ne rimase comunque amaramente impressionata.
La tensione fra i due paesi si aggravò, anche se ormai la Questione Romana non costituiva più fra essi, dopo l'affermazione dei repubblicani anticlericali in Francia, un motivo di contrasto.

 

La Questione Romana, peraltro, che continuava a turbare la situazione interna e a preoccupare il governo per la tendenza del pontefice ad appoggiarsi ora all'Austria-Ungheria, fu, con l'ostilità della Francia, uno dei due motivi principali che indussero il Depretis, tornato alla presidenza del Consiglio, a rompere gli indugi sollecitando un'intesa con le potenze centrali.
Il governo di Roma avrebbe evidentemente preferito allearsi con la sola Germania, che gli avrebbe offerto tutte le garanzie di aiuto senza che l'alleanza ferisse la coscienza patriottica degli Italiani. Ma il cancelliere tedesco, cui premeva tenere saldamente unito il suo sistema di alleanze, fu irremovibile.
Venne conclusa così, il 20 maggio 1882, la Triplice Alleanza fra l'Italia, l'Austria-Ungheria e la Germania, che procurava all'Italia il desiderato aiuto in caso di attacco francese e sopra tutto conteneva la sanzione di fatto del possesso italiano di Roma da parte delle potenze centrali: per quanto inquieti e a volte tesi potessero essere, malgrado l'alleanza, i rapporti fra l'Italia e l'Austria-Ungheria negli anni seguenti, era per lo meno improbabile che il pontefice potesse trovare un esplicito appoggio a Vienna nel suo contrasto con il governo italiano.
La Triplice Alleanza si configurava come un atto necessario, benché una parte dell'opinione pubblica italiana non volesse rendersene ragione.
Il gesto disperato del triestino Guglielmo Oberdan, che preparò un attentato contro l'imperatore Francesco Giuseppe e, scoperto prima che potesse effettuarlo, fu condannato a morte, fu espressione della delusione suscitata nelle terre «irredente». La Triplice Alleanza era stata negoziata dal governo italiano sotto l'incalzare di urgenti necessità e non aveva quindi recato all'Italia che i vantaggi indispensabili alla sua sicurezza. Cinque anni dopo, tuttavia, nel 1887, all'atto del primo rinnovamento dell'alleanza, la situazione italiana era molto più sicura, mentre il Bismarck aveva motivo di essere preoccupato per la consistenza generale del suo sistema; così l'energico e abile ministro degli esteri italiano del tempo, il conte di Robilant, riuscì a ottenere importanti aggiunte al trattato, che assicurarono all'Italia vantaggi nei Balcani in caso di mutamento dello status quo, e sopra tutto l'aiuto tedesco nel caso che l'Italia intendesse impedire alla Francia una eventuale estensione dei suoi domini nord-africani alla Tripolitania.
Un ulteriore rafforzamento della sua posizione internazionale l'Italia trasse, nello stesso anno 1887, dagli Accordi mediterranei con l'Inghilterra (cui poi aderì anche l'Austria-Ungheria), che impegnavano le due potenze a collaborare alla conservazione dello status quo nel Mediterraneo o ad accordarsi preventivamente nel caso che paresse loro opportuno modificare tale status quo.

 

Alla fine del periodo qui considerato la situazione internazionale italiana appariva quindi nettamente migliorata.
Fu in buona parte la coscienza di questo miglioramento della situazione internazionale, che aveva procurato all'Italia potenti alleati e che l'aveva assunta alla posizione di grande potenza, a indurre il governo italiano a favorire e poi ad assumere direttamente le iniziative coloniali in Africa orientale che avrebbero caratterizzato la politica italiana nel decennio susseguente la morte del Depretis (1887), sotto la guida di Francesco Crispi.

 

 

 

Il sistema bismarckiano delle alleanze

 

 

Il sistema di alleanze bismarckiano

 

L'analisi del sistema di alleanze sapientemente elaborato, ricostituito e mantenuto in vita fino alle sue dimissioni dal Principe di Bismarck fornisce un'idea del significato di allineamenti, intese e alleanze tra i paesi europei nel quarantennio di pace e di intensa attività diplomatica che precedette la prima guerra mondiale.
È rilevante che nell'epoca bismarckiana, per la prima volta in tempo di pace, si costituisse una tale complessa rete di impegni e controimpegni, e per la prima volta, forse, il problema della sicurezza dall'eventuale attacco di un avversario avesse la tendenza a sovrapporsi agli altri interessi e intenti delle grandi potenze.

 

Mira iniziale e fondamentale della politica bistriarckiana è mantenere la Francia, la cui potenza militare è ormai inferiore a quella del Reich tedesco, in n una situazione di isolamento internazionale che non le consenta di procurarsi degli alleati che l'aiutino a prendersi la rivincita (revanche) sulla Germania.
In un secondo tempo a questo intento fondamentale si aggiunge quello di neutralizzare la Russia, impedendole di unirsi alla Francia.
Per realizzare tali intenti il Bismarck si accinge a legare alla Germania, in alleanza o in semplice intesa, direttamente o indirettamente attraverso potenze già ad essa alleate, quanti più stati europei può.

 

Il «sistema» bismarckiano assume una prima forma fra gli anni 1873 e 1878 con l'Intesa dei tre Imperatori (1873).
Esso aveva per altro una solidità molto dubbia; in effetti gli interessi diversi e anche contrastanti delle tre potenze, o almeno tra Germania e Russia e tra Austria-Ungheria e Russia, apparvero chiaramente in occasione di crisi internazionali quali quella del 1875 e sopra tutto quella del 1876-78. Nella fase della Questione d'Oriente che si concluse con il congresso di Berlino, il Bismarck, nell'intento di non compromettere l'Intesa dei tre Imperatori, era riuscito in un primo tempo a non prendere posizione nè per l'uno, né per l'altro dei partners della Germania, ostentando un atteggiamento disinteressato e cercando di esercitare senza parere una funzione di arbitro e di mediatore; l'esito sfavorevole alla Russia del congresso internazionale tenuto nella capitale tedesca sotto la presidenza del Cancelliere tedesco, però, generò nello zar Alessandro II e nel suo cancelliere Gortchakov l'amara convinzione che la Germania avesse collaborato con i nemici della Russia.

 

Pareva quindi, nel 1878, che l'Intesa dei tre Imperatori dovesse considerarsi decaduta, e il cancelliere si dispose a ricostituire il suo sistema, riuscendo in pochi anni a dargli forma più elaborata e complessa.
La prima solida base di questa nuova forma del sistema bismarckiano è l'Alleanza austro-tedesca del 7 ottobre 1879 di carattere difensivo, ma diretta contro la Russia.
Bismarck pareva quindi deciso a dare alla sua politica generale un orientamento antirusso (sebbene l'alleanza rimanesse per il momento segreta), correndo il pericolo di un avvicinamento franco-russo.
In realtà, benché tenesse espressamente all'alleanza con l'Austria-Ungheria sia in sé sia per il solito motivo di impedire che la Francia se ne cattivasse l'amicizia, il cancelliere tedesco riteneva che l'intimità dei rapporti austro-tedeschi avrebbe potuto indurre la Russia a riflettere sulla sua situazione di isolamento e a preferire ancora una volta un'intesa con gli Imperi centrali, che non con la Repubblica francese, di cui lo zar aborriva il regime interno.
Come auspicato, infatti, egli giunse ad ottenere, il 18 giugno 1881, un rinnovamento dell'Intesa dei tre Imperatori.
Le tre potenze non si promettevano alcun aiuto armato, ma soltanto una «neutralità benevola» nel caso in cui una di esse si trovasse in guerra con un'altra grande potenza.
Non contento del successo ottenuto neutralizzando la Russia in caso di guerra franco-tedesca e impegnando ad un'intesa nei Balcani l'Austria-Ungheria e la Russia riluttanti, il Bismarck aggiunse al suo sistema l'alleanza con l'Italia.
La Triplice Alleanza (20 maggio 1882) procurava alla Germania l'alleanza dell'Italia nel caso di guerra franco-tedesca; soprattutto, però, Bismarck si preoccupava di rafforzare la posizione dell'alleata Austria-Ungheria, timorosa di essere attaccata alle spalle dall'Italia nel caso di un conflitto con la Russia che l'Intesa dei tre Imperatori non rendeva impossibile.

 

Il sistema bismarckiano va dunque assumendo in questa fase una complessità che pur non compromettendone la consistenza, è certo macchinosa.
Nell'inverno del 1886-87 il sistema è tuttavia nuovamente minacciato in due punti essenziali, che esigeranno un vero e proprio virtuosismo diplomatico.
In quell'epoca si ha una crisi dei rapporti franco-tedeschi (corrispondente allo sviluppo del movimento boulangista in Francia) e una crisi dei rapporti austro-russi (provocata dalla questione bulgara), poi risolta a vantaggio dell'Austria-Ungheria.
Bismarck teme che dalle due crisi — specie se dal movimento boulangista dovesse derivare una restaurazione monarchica o almeno un regime conservatore in Francia — derivi un avvicinamento e forse un'alleanza fra la Francia e la Russia, e per impedirlo segue due vie contemporaneamente.
Per far fronte al pericolo di una pressione minacciosa della Francia e della Russia egli accetta, all'atto del primo rinnovamento della Triplice Alleanza nella primavera del 1887, di assumere nuovi impegni verso l'Italia. Nel momento in cui assume tale impegno, però, il cancelliere tedesco ne ha già per così dire scaricato il peso su altre spalle. Infatti dietro sua esortazione il governo conservatore inglese di lord Salisbury, preoccupato del contrasto con la Francia nella questione egiziana, della politica russa in Bulgaria e della situazione interna irlandese, accetta di uscire almeno in parte dall'isolamento per stipulare con l'Italia gli Accordi mediterranei del 12 febbraio 1887, cui l'Austria-Ungheria aderisce circa un mese dopo. Tali accordi prevedono una collaborazione anglo-italo-austriaca in caso di mutamento dello status quo nel Mediterraneo e quindi neutralizzano, senza bisogno di intervento tedesco, eventuali iniziative francesi in Tripolitania.
Il «sistema» viene completato in questo settore dall'Accordo italo-spagnolo del 4 maggio 1887 per cui la Spagna si impegna a collaborare alla conservazione dello status quo e in particolare a non dare alla Francia alcun aiuto che possa danneggiare direttamente o indirettamente l'Italia, l'Austria-Ungheria o la Germania. Il cancelliere tedesco cerca così di premunirsi contro il pericolo dì una effettiva collaborazione franco-russa.

 

 

 

Il congedo del Bismarck. La seconda rivoluzione industriale. La trasformazione del liberalismo

 

 

Oltre a ciò, compie comunque un ultimo sforzo per legare a sé la Russia.
Nel 1887, con la nuova crisi dei rapporti austro-russi provocata dalla questione bulgara, non è evidentemente più il caso di cercare di rinnovare l'Intesa dei tre Imperatori, ma è possibile stabilire un'intesa a due fra la Germania e la Russia, che non hanno interessi direttamente contrastanti.
La proposta di Bismarck di dare luogo a negoziati a tale scopo trova però i dirigenti russi divisi: lo zar Alessandro III esita fra una tendenza filo-tedesca, rappresentata dal cancelliere Giers, e una tendenza filo-francese capeggiata dall'influente scrittore e giornalista panslavista Katkov. Una indiscrezione giornalistica del Katkov, che pubblica senza il permesso dello zar il testo dell'Intesa dei tre Imperatori del 1881, lo fa cadere in disgrazia, e Alessandro III acconsente a che si inizino i negoziati russo-tedeschi che portano rapidamente al trattato segreto detto di Controassicurazione (18 giugno 1887).

 

Con la conclusione di tale trattato il sistema di alleanze bismarckiano tocca il suo apogeo.
La Germania ha in questo momento:
 - un trattato di alleanza con l'Austria-Ungheria del 1879 (contro la Russia);
 - un trattato di alleanza con la Romania del 1883 (contro la Russia);
 - per il caso in cui fosse attaccata dalla Francia, una promessa di aiuto armato dell'Italia e una promessa di neutralità della Russia;
 - l'Inghilterra, senza avere preso con essa alcun impegno diretto, con gli Accordi mediterranei si trova indirettamente associata alla politica tedesca.
Nel giro di pochi anni, per altro, questo complesso sistema si sgretolerà e le potenze europee si divideranno in due blocchi, assumendo la posizione caratteristica del ventennio che precede la prima guerra mondiale.
Il colpo fatale al sistema bismarckiano venne inflitto dai successori del Cancelliere alla direzione della politica estera tedesca, quando nel 1890 evitarono di rinnovare il trattato di Controassicurazione, permettendo così alla Francia di ottenere, meno di tre anni dopo, la tanto necessaria alleanza con la Russia (1893).
Già prima delle dimissioni del Bismarck (1890) — impostegli dal contrasto di opinioni con il giovane imperatore Guglielmo II, salito al trono dopo la morte del nonno Guglielmo I (1888) e il brevissimo regno del padre Federico III — il sistema, per gli insopprimibili contrasti e le segrete contraddizioni che in esso sussistevano, appariva estremamente fragile, mantenuto in vita, com'era, non da altro che dal genio politico o, spesso, dagli estremi virtuosismi diplomatici del vecchio Cancelliere.

 

 

 

LO SVILUPPO DEGLI STATI UNITI E DEL CONTINENTE AMERICANO

 

 

 

Il continente americano e l'Europa

 

Durante il secolo XIX il continente americano nel suo complesso compie uno sviluppo economico notevole, mentre la sua popolazione di origine europea subisce un aumento impressionante.

 

Diverso è invece il progresso politico-sociale.
Al Nord, nel Canadà britannico e negli Stati Uniti, assistiamo ad un organico sviluppo delle forme dello stato liberal-democratico e una felice applicazione dei principi del federalismo politico, non senza però conflitti costituzionali che si traducono in conflitti armati, trascurabili nel Canadà, assai gravi negli Stati Uniti; superati tali conflitti, il processo politico riprende con maggior sicurezza senza altri impedimenti seri, accompagnato da un'attività economica intensa, da una prosperità sempre crescente.
Al Sud gli stati sorti dal crollo dell'Impero coloniale spagnolo, nello sforzo di aderire a un regime di democrazia per il quale, durante i secoli della dominazione spagnola, non hanno avuto adeguata preparazione, conducono un'esistenza spesso turbata da rivoluzioni, pronunciamenti militari, anarchia e dittatura; finché negli ultimi decenni del secolo si ha almeno nei più importanti di essi un riuscito sforzo per affermare uno stabile governo repubblicano.
Al Centro il corso degli eventi politici è ancora più turbolento. Alle complicate rivalità fra i piccoli stati istmici e alle gravi crisi politico-sociali interne messicane si aggiungono le iniziative delle potenze europee, che occupano nuovi territori, come la Gran Bretagna nel Guatemala alla metà del secolo, o vogliono imporre regimi politici di loro scelta, come la Francia nel Messico nel 1863-67; mentre su tutta l'America centrale si fa sentire il peso crescente della politica degli Stati Uniti, sia che si tratti del controllo marittimo e commerciale dei Caraibi, sia che si tratti dell'espansione territoriale verso territori nordamericani sotto sovranità messicana.

 

L'espansione degli Stati Uniti

 

I progressi di gran lunga maggiori sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista demografico, sono registrabili, già nella prima metà del secolo, negli Stati Uniti.
A tali progressi gli Stati Uniti aggiungono un'espansione territoriale che, considerata la relativa brevità del periodo, non ha precedenti nella storia occidentale.
Nei primi trent'anni dalla costituzione dell'Unione erano sorti nove altri stati; durante lo stesso periodo la popolazione era aumentata da quattro milioni e nove milioni e mezzo (1820).
L'espansione aveva assunto diverse forme:
 - l'avanzata verso occidente lungo il fiume Ohio con gli insediamenti nel Kentucky e nel Tennessee;
 - l'occupazione delle regioni del nord-ovest al di là del lago Erie;
 - l'acquisto della Luisiana dalla Francia (1803) e della Florida dalla Spagna (1819), che aveva esteso il territorio dell'Unione fino al golfo del Messico.
Nei decenni seguenti, definita la loro posizione internazionale nei confronti dell'Europa con la proclamazione della dottrina di Monroe (sintetizzata dal motto: «L'America agli americani»), e postisi per così dire alle spalle i problemi del Vecchio Mondo, gli Stati Uniti proseguirono la loro espansione. Essa si sviluppò secondo le direzioni già fissate nei decenni precedenti, ossia verso Ovest, nelle grandi pianure del Midlle West.

 

Le comunità statali dell'Ovest acquistano, nell'ambito dell'Unione, una progressiva importanza economica e politica.
Politicamente esse sono caratterizzate da uno spirito più radicale e democratico di quello degli stati della costa atlantica, sia del Sud che del Nord.
Espressione di questo trionfo delle forze democratiche dell'Ovest e della loro particolare avversione alle gerarchie sociali del Sud e al capitalismo del Nord, fu l'elezione alla presidenza, nel 1828, del generale Jackson, l'energico conquistatore della Florida.

 

Sia l'espansione verso Ovest, sia l'affermazione del radicalismo democratico vennero favorite dall'afflusso di immigranti dall'Europa. Mentre nel decennio 1820-30 gli immigranti non superarono i 150.000, verso la metà del secolo essi aumentarono in modo notevole: soltanto nel periodo 1845-50 giunsero negli Stati Uniti 1.500.000 europei, in gran parte Irlandesi spinti dalla carestia del 1846 e Tedeschi indotti ad abbandonare il loro paese dalle repressioni seguite alle rivoluzioni del 1848.

 

All'espansione verso Ovest, per iniziativa degli abitanti degli stati del Nord e degli immigranti europei (che affluiscono sopra tutto ai porti di questi stati – New York, Boston – per poi, almeno in parte, spingersi verso l'interno del continente, spinti dalla ricerca del benessere economico, da desiderio di libertà, da spirito d'avventura) si aggiunge l'espansione verso Sud-Ovest, in terre poste sotto la sovranità più nominale che effettiva della Spagna e poi del Messico.

 

Dal punto di vista della politica interna l'espansione sia verso ovest che verso sud-ovest, e quindi la conseguente formazione di nuove comunità statali, oltre a provocare lo sviluppo delle tendenze democratiche, crea il problema di conservare l'equilibrio fra stati del Sud, legati a una struttura economica basata sulle grandi piantagioni coltivate da schiavi negri, e stati del Nord e dell'Ovest più o meno democratici, ma in ogni caso avversi, sia per interesse economico che per convinzione politica e umanitaria, alla schiavitù.
Gli stati del Sud, per conservare la loro posizione in seno all'Unione e non essere soverchiati dagli stati antischiavisti, dovettero promuovere una loro espansione, che però non tenesse conto del principio dell'uguaglianza dei diritti degli abitanti dei nuovi stati dell'Unione, posto dalla Ordinanza del Nord-Ovest del 1787: in altre parole un'espansione che portasse alla costituzione di nuovi stati schiavisti.
Tale situazione assunse contorni precisi intorno al 1820 quando si trattò di costituire, nel vastissimo territorio della Luisiana, il nuovo stato del Missouri, che avrebbe aumentato il numero degli stati schiavisti.
La questione venne risolta mediante un compromesso con la formazione, al Nord, di un altro stato, il Maine, tratto dalla parte settentrionale del Massachusetts, e con l'intesa che l'istituto della schiavitù non avrebbe potuto essere introdotto in alcun territorio dell'Unione posto più a nord della latitudine di 36° 30'.
Fino alla metà del secolo il «compromesso del Missouri» rimase in vigore, e si continuò a procedere con lo stesso criterio di contrapporre a un nuovo stato del Sud un nuovo stato del Nord e viceversa. Ciò però non poteva eliminare il fatto che lo sviluppo economico e demografico del Nord fosse considerevolmente maggiore. Ai politici del Sud, tuttavia, premeva per lo meno di conservare la parità in Senato, dove ciascuno stato era rappresentato, come era previsto dalla costituzione, indipendentemente dalla sua popolazione, da due senatori.

 

Il contrasto fra Nord e Sud venne però a complicarsi e ad offrire nuovo motivo di tensione a motivo delle iniziative espansionistiche degli abitanti e degli stati del Sud nel territorio messicano del Texas, annesso agli Stati Uniti nel 1845.
L'annessione del Texas, seguita da quella di altri estesi territori messicani, porta il territorio dell'Unione fino alla costa del Pacifico. Ciò si compie per la prima volta sotto l'influenza della dottrina che afferma il Manifest Destiny («destino manifesto») degli Stati Uniti di imporre la loro dominazione all'America settentrionale, o – secondo gli espansionisti più esaltati – a tutto il Continente, estendendo l'«area della libertà» a territori male amministrati, a popoli poveri e oppressi.
Nel territorio messicano della California si sviluppa nel 1844 un movimento autonomista sostenuto dagli immigranti dagli Stati Uniti, che trae vantaggio dalla situazione sempre incerta del governo centrale messicano per affermare tendenze separatiste. I pionieri che sono giunti in questa ricca ma lontana regione dagli Stati Uniti, sono meno numerosi che nel Texas, ma il governo di Washington rivela subito l'intenzione di appoggiare le loro pretese, offrendo al governo messicano di acquistare la parte della California intorno al porto di San Francisco.
Il governo messicano rifiuta e resiste alla pressione diplomatica statunitense, finché un incidente di frontiera offre agli Stati Uniti l'occasione per far precipitare la guerra. La netta superiorità militare li porta rapidamente ad occupare la California e poi a spingere l'avanzata verso sud. Il Messico non può far altro che chiedere la pace e nel trattato di Guadelupe Hidalgo (2 febbraio 1848) deve cedere non solo la California, ma anche tutto il territorio che sta fra la stessa California e il Texas, corrispondente agli attuali stati americani del Nevada, dell'Utah, dell'Arizona e del Nuovo Messico.
Mentre gli Stati Uniti completavano la loro espansione verso Sud-ovest, era stata portata avanti anche l'espansione dai pionieri nell'Ovest: spingendosi oltre le grandi pianure del West e valicando le Montagne Rocciose essi giungevano in numero sempre crescente sul litorale del Pacifico, mentre altri si fermavano lungo la via costituendo comunità agricole in rapido sviluppo, come quella fondata dalla setta protestante dei Mormoni, giunti dall'Illinois nell'attuale Utah nel 1847.

 

Intanto il governo di Washington aveva provveduto a definire il confine fra gli Stati Uniti e il Canadà: nel 1842 aveva stabilito un accordo con la Gran Bretagna riguardo al confine del Maine, nel Nord-Est, e nel 1846 ne stabilì un altro per il Nord-Ovest, al confine dell'Oregon, divenuto territorio dell'Unione nel 1848.

 

La Guerra Civile

 

Alla metà del secolo XIX la Repubblica nordamericana appariva un paese in continuo e rapido progresso politico, economico e sociale.
Incombeva, tuttavia, il pericolo di una grave crisi politico-sociale, che maturò fra il 1850 e il 1860 per poi concludersi, nel 1861-65, con la più grave guerra civile dal tempo della prima rivoluzione inglese, e con il più sanguinoso conflitto del secolo intercorrente fra la Restaurazione e la prima guerra mondiale.

 

Nel rapporto fra Nord e Sud erano indubbiamente presenti insopprimibili motivi di contrasto morale.
L'atteggiamento dei liberali del Nord verso la schiavitù, espresso e sollecitato da organi abolizionisti come il giornale The Liberator di Boston, divulgato da libri di grande successo come La capanna dello zio Tom (1852), era analogo a quello che aveva indotto i liberali inglesi, sotto il governo di lord Grey, ad imporre l'abolizione della schiavitù nell'Impero britannico (1833).
Nel Nord dirigenti politici e personalità rappresentative sentivano che l'avvenire stesso dell'America come terra tipica della libertà e della democrazia era irrimediabilmente compromesso dall'istituto della schiavitù.
I motivi morali erano solo in parte sostenuti da considerazioni economiche, dal momento che gli stati antischiavisti avevano raggiunto un grado di sviluppo economico generale più elevato degli stati schiavisti e non ne temevano certo la concorrenza. Peraltro, gli stati industriali del Nord e gli stati cotonieri del Sud auspicavano politiche doganali opposte, perché una politica di libertà di scambi avrebbe permesso al Sud di barattare il cotone con manufatti inglesi e francesi, mentre una politica di alte tariffe doganali consentiva al Nord di vendere i suoi prodotti industriali all'interno dell'Unione in condizioni di favore.

 

Strettamente legati agli impulsi morali che determinarono la campagna dei liberali del Nord contro lo schiavismo del Sud erano poi i motivi sociali della frattura. La società industriale e mercantile del Nord, infatti, sostenuta da un'antica tradizione puritana e democratica, guardava con antipatia alla società aristocratica e sotto certi aspetti feudale del Sud, dominata da una minoranza di grandi proprietari terrieri che conducevano un'esistenza raffinata e facile; il Sud, d'altronde, contraccambiava l'antipatia e nutriva disprezzo e senso di superiorità per l'affarismo mercantile e borghese del Nord.

 

Altro motivo fondamentale della frattura, che fu determinante nel far precipitare il conflitto, era quello politico-costituzionale.
Nel Nord industriale e mercantile e nel Sud agricolo, malgrado le trasformazioni portate nella situazione politica americana dal radicalismo democratico dell'Ovest, erano ancora vive le tradizioni impersonate all'epoca della Rivoluzione e della fondazione degli Stati Uniti, da Alexander Hamilton, sostenitore di un potere centrale sufficientemente forte per controllare la politica locale degli Stati, e da Thomas Jefferson, sostenitore della sovranità e dell'autonomia degli Stati. Il senso dell'autonomia del proprio Stato nell'ambito dell'Unione si rifaceva direttamente al primo originario impulso di libertà che aveva spinto gli abitanti delle diverse comunità coloniali a ribellarsi al governo di Londra; per esso si schierarono molti uomini del Sud, come il comandante dell'esercito della Confederazione, generale Robert Lee, quando presero posizione nella Guerra Civile.

 

I nuovi problemi annessionistici portati dalla conclusione vittoriosa della guerra con il Messico fecero apparire ormai inadeguato il compromesso del Missouri del 1820.
Infatti seguendo la linea di 36° 30' di latitudine per separare territori «liberi» e territori schiavisti, si sarebbe divisa arbitrariamente la California, la più importante delle nuove annessioni. Inoltre, la costituzione interna della California proibiva la schiavitù; si sarebbe quindi dovuto contraddire il voto della legislatura locale.
Dopo un intenso dibattito al Senato si giunse così, ad opera sopra tutto di John Clay e Daniel Webster, ad un ulteriore compromesso (1850) a norma del quale la California venne annessa nell'Unione come stato «libero», i territori dell'Utah e del Nuovo Messico furono costituiti senza riferimento alla schiavitù, e venne promulgata una severa legge sulla cattura e la riconsegna ai proprietari degli schiavi fuggiti e catturati in stati «liberi».
Il compromesso del 1850 non valse però ormai che a ritardare la crisi.
La tensione portò a episodi di violenza. L'episodio più clamoroso si verificò nel 1859 quando un fanatico antischiavista, John Brown, si impadronì con alcuni compagni dell'arsenale federale di Harpers Ferry, posto sul confine fra territorio libero e territorio schiavista, compì incursioni liberando un certo numero di schiavi e dichiarò guerra agli Stati Uniti. Il Brown venne catturato dopo accanita resistenza, processato e giustiziato con quattro dei suoi compagni, ma la giustizia federale era ormai incapace di impedire la profonda divisione degli animi.
Tale divisione venne inequivocabilmente in chiaro durante la campagna presidenziale del 1860.
Il Partito repubblicano, sorto nel 1854 con il preciso programma di impedire l'introduzione della schiavitù nei nuovi territori dell'Unione, e rapidamente impostosi negli stati del Nord, nominò candidato alla presidenza Abramo Lincoln, un avvocato dell'Ovest che nell'ultimo decennio si era imposto all'attenzione nazionale per l'appassionata convinzione con cui aveva sostenuto al Congresso e in pubblici discorsi il carattere morale del movimento antischiavista e aveva affermato in modo intransigente la necessità che l'Unione mantenesse la sua compattezza e non permettesse fratture nella compagine nazionale.
Di fronte al candidato repubblicano stavano diversi altri candidati, perché il contrasto fra Nord e Sud aveva determinato una rottura nell'altro grande e più antico partito americano, il Partito democratico.
Quando Lincoln venne eletto, il 6 novembre 1860, apparve subito chiaro che i più intransigenti fra gli stati del Sud avrebbero adottato misure estreme. Infatti nel mese seguente la Carolina del Sud adottò, un'Ordinanza di Secessione che dichiarava sciolta l'unione stabilita nel 1788 fra la Carolina del Sud e gli altri stati. Quest'atto gravissimo venne presto imitato dagli altri «stati del cotone» — Mississippi, Florida, Alabama, Georgia, Luisiana e Texas — che, riuniti i loro rappresentanti a Montgomery, nell'Alabama, formarono nel febbraio 1861 una nuova Confederazione sotto la presidenza del senatore Jefferson Davis.
Quando, nel marzo seguente, il Lincoln assunse la presidenza dell'Unione, la Confederazione degli stati del Sud aveva già preso le misure opportune per resistere alle forze federali.
Nei mesi seguenti presero posizione gli stati schiavisti che finora non avevano fatto atto di adesione alla Confederazione né confermato la loro fedeltà all'Unione: la Virginia, il Tennessee, la Carolina del Nord, l'Arkansas, che aderirono alla Confederazione; il Kentucky, il Missouri, il Maryland e il Delaware, confinanti in gran parte con gli stati «liberi», che, divisi all'interno e aspiranti alla neutralità, furono guadagnati alla causa dell'Unione.
La Virginia, legata per tradizione al principio della sovranità degli stati, fu spinta da tale principio più che dalla questione della schiavitù a schierarsi con il Sud, e la capitale confederale venne allora trasferita a Richmond, capitale appunto della Virginia.
Undici stati con nove milioni di abitanti, di cui quasi quattro milioni erano schiavi, si contrapponevano quindi a ventitre stati con una popolazione di ventidue milioni.

 

Alcune circostanze, nonostante la sproporzione di forze, parevano favorire la causa della Confederazione. Il Sud aveva un corpo di ufficiali assai superiore, per preparazione tecnica ed esperienza, a quelli del Nord; ai fini della secessione, per realizzare il suo intento, il Sud non doveva vincere l'avversario, ma soltanto difendersi, infliggendogli perdite sufficientemente dure perché desistesse dal proposito di impedirne la secessione; infine, pareva che la Confederazione potesse contare sull'appoggio diplomatico e forse sull'intervento militare, o almeno navale, delle potenze europee — l'Inghilterra e la Francia — prevalentemente filo-sudiste e intenzionate, in particolare, a garantire la regolare fornitura di cotone greggio alle loro industrie tessili.
In un primo tempo le operazioni militari furono nettamente favorevoli al Sud, mentre Lincoln doveva continuamente sostituire i comandanti d'esercito, sia perché si rivelavano privi di capacità tecniche e di esperienza, sia perché erano soggetti alle critiche da elementi del Congresso e dell'opinione pubblica.
In un secondo tempo tuttavia, a prezzo di enormi perdite e grazie alla tenacia del Presidente, il Nord fu in grado di mettere in campo ingenti forze, ben addestrate, armate ed equipaggiate, comandate da generali aall'altezza della situazione, come Ulisse Grant, divenuto comandante in capo delle forze dell'Unione nell'ultimo periodo della guerra.

 

Le operazioni militari si svolsero in genere in due settori, uno occidentale nella valle del Mississippi, e uno orientale negli stati della costa atlantica.
Un primo tentativo dell'Unione di occupare la Virginia puntando su Richmond, la capitale confederata, fallì, e il Sud portò la guerra in territorio nemico, in Pennsylvania.
Malgrado le brillanti vittorie iniziali del generale Lee, questa campagna si concluse tuttavia con la vittoria nordista nella sanguinosa battaglia di Gettysburg (1863). Da quel momento i Confederati, rientrati nel loro territorio, non poterono fare altro che mantenersi sulla difensiva. Nel frattempo le risorse economiche della Confederazione, consistenti sopra tutto nella produzione di cotone greggio per esportazione, andavano esaurendosi non tanto perché la produzione non fosse mantenuta ad un notevole livello, quanto perché il blocco navale dell'Unione impediva gli scambi.
Nonostante le brillanti imprese delle navi da corsa sudiste, l'Unione aveva una netta superiorità sul mare, e di essa si era valsa per attaccare e conquistare New Orleans (1862), il maggior porto della Confederazione; risalendo il Mississippi, flottiglie di cannoniere nordiste assicurarono da allora in poi lo stabile controllo del grande fiume.
La situazione drammatica della Confederazione, circondata pressoché da tutti i lati dalle forze dell'Unione, si mantenne fino all'ultimo notevolmente salda all'interno; in particolare, la maggior parte degli schiavi rimase al suo posto, malgrado il proclama del presidente Lincoln del 1863 che dichiarava liberi gli schiavi degli stati della Confederazione.
Nella primavera del 1865, tuttavia, tale situazione si fece insostenibile: l'esercito del generale Lee in Virginia si trovò alle prese con forze tre volte superiori che convergevano su di esso da tutti i lati, e dovette cedere le armi (Appomattox, 9 aprile); due settimane più tardi cedeva anche il settore occidentale.
Il presidente Lincoln, che alla fine del 1864 era stato rieletto, annunciò subito una politica di pacificazione e di ricostruzione, ma il 14 aprile 1865 un fanatico sudista lo assassinò.

 

La ricostruzione politica e lo sviluppo economico degli Stati Uniti

 

La vittoria del Nord aveva salvato l'Unione americana, ma ad un prezzo gravissimo.
Il Nord aveva avuto circa 360.000 morti, il Sud 260.000; a questi andavano aggiunti i morti, in numero imprecisato ma certo cospicuo, per malattia e per mancanza di nutrimento negli ultimi tempi della guerra e nei primi tempi della pace. Elevatissimo era stato anche il costo materiale della guerra: il governo dell'Unione aveva emesso prestiti e riscosso tributi straordinari per poco meno di tre miliardi di dollari; quello della Confederazione per più di due miliardi.
Le perdite materiali subite dal Sud, sia sotto l'aspetto propriamente finanziario (istituti di credito, compagnie d'assicurazione, affari in genere) sia sotto l'aspetto materiale della distruzione o confisca di beni, erano incalcolabili. La produzione agricola, malgrado coraggiosi sforzi, era ormai ferma, i trasporti non funzionavano più, vaste zone erano soggette alla carestia e alla fame.
La gravissima situazione del Sud venne inoltre resa più tragica, nei primi anni, dalla politica dei vincitori. Morto il Lincoln, il suo successore, il vicepresidente Andrew Johnson, uomo di modeste capacità politiche, si trovò in gran parte impedito dall'applicare la politica di pacificazione che lo statista scomparso aveva annunciato, per la prevalenza al Congresso di una maggioranza di Repubblicani radicali, decisi a far pagar cara al Sud la secessione e a trarre profitto politicamente ed economicamente dalla vittoria.
I Repubblicani Radicali imposero il riconoscimento della parità giuridica degli ex-schiavi. Essi tuttavia non si accontentarono di introdurre tale principio nella legislazione federale, ma intesero imporne la più ampia applicazione agli stati dell'ex-Confederazione, nell'intento di conservare, attraverso l'elettorato nero del Sud, che certo avrebbe votato per i liberatori, quindi per il Partito repubblicano, la maggioranza al Congresso.
Valendosi di tale maggioranza essi poterono ricorrere, per ottenere il loro intento, a un mezzo estraneo alla consuetudine politica americana: per dieci anni, dal 1867 al 1877, il territorio della ex-Confederazione venne così suddiviso in zone militari e sottoposto al controllo dell'esercito.
Sotto la presidenza del generale Ulisse Grant (1868-77) questa situazione venne però progressivamente trasformandosi. Si ebbe, da un lato, la crescente resistenza del Sud, che si attuò sia con mezzi legali sia attraverso organizzazioni segrete, come il famoso Ku Klux Klan, mirante a rovesciare nei vari stati le amministrazioni minoritarie controllate dal Partito repubblicano e appoggiate dall'elettorato nero, e a ristabilire la supremazia bianca. Intanto, al Nord l'opinione pubblica tolse progressivamente il suo appoggio ai Repubblicani Radicali e quando, nel 1877, le truppe federali vennero ritirate, i governi di minoranza che ancora sussistevano in Florida, nella Luisiana e nella Carolina del Sud caddero.
Il danno politico-psicologico recato da questo primo decennio del dopoguerra tuttavia rimase grave; l'odio razziale era vivo e rimase radicato a lungo nella società del Sud.

 

Dalla fine della «Ricostruzione» all'ultimo decennio del secolo XIX la vita politica degli Stati Uniti si svolse senza che si prospettassero problemi importanti o che apparissero personalità di rilievo. Il periodo coincise con una ripresa economica e con uno sviluppo demografico del paese ancor più notevoli di quelli del periodo intorno alla metà del secolo.
Lo sviluppo demografico porta la popolazione degli Stati Uniti dai 38 milioni circa degli anni del dopoguerra ai 75 milioni della fine del secolo. A questo sviluppo l'emigrazione europea dà un contributo notevolissimo: circa 15 milioni. Fino agli ultimi decenni del secolo gli immigranti sono Tedeschi (750.000 fra il 1882 e il 1885), Inglesi, Irlandesi, Scandinavi. Dal 1895 circa cominceranno ad affluire Italiani, Spagnoli, Austro-ungarici, Russi, che per la loro più difficile assimilazione entro la compagine sociale nord-americana, presenteranno al principio del secolo nuovi preoccupanti problemi agli organi federali. La trasformazione economica degli ultimi decenni del secolo, aiutata dallo sviluppo demografico, è straordinaria.

 

Il Sud si riprese. Quasi tutti i proprietari di grandi piantagioni, impoveriti dalla guerra e duramente tassati durante il periodo della Ricostruzione, dovettero vendere buona parte delle loro terre. Sorse così una numerosa classe di proprietari medi e piccoli, che, giovandosi della mano d'opera nera, ricostruì su nuove basi l'economia agricola del paese. Ci vollero però quasi vent'anni perché la produzione del cotone raggiungesse il livello d'anteguerra, ma dopo di allora essa crebbe rapidamente finché alla fine del secolo la produzione annuale era più che doppia di quella del 1860.
Accanto all'economia agricola, sempre prevalente, si svilupparono nel Sud anche l'industria tessile, che si valse della vicinanza della materia prima, l'industria del tabacco nella Carolina del Nord e in Virginia, l'industria siderurgica che sfruttò i giacimenti del Tennessee e dell'Alabama.
Il grande sviluppo industriale, che trasformò la repubblica rurale di Lincoln e di Lee nello stato industriale urbano di MeKinley e di Theodore Roosevelt, i due presidenti del principio del secolo XX, avvenne però soprattutto nel Nord, in proseguimento del cospicuo sforzo produttivo compiuto dalle industrie dell'Unione durante la guerra di Secessione. Sorsero e si svilupparono i grandi stabilimenti siderurgici della regione di Pittsburgh, le raffinerie di petrolio dell'Ohio e della Pennsylvania, le industrie per la conservazione delle carni di Chicago e di Cincinnati ecc.

 

Con lo straordinario sviluppo di alcune industrie si arricchirono in modo impressionante e raggiunsero, grazie alla loro potenza economica e finanziaria, una posizione di preminenza nella vita del paese, i grandi industriali (Rockfeller [petrolio], Carnegie [acciaio], Vanderbilt [ferrovie] ecc.), cui si aggiunsero grandi finanzieri, come John Pierpoint Morgan. Tale posizione di preminenza consentì a questi uomini, spesso uniti in potenti società per azioni, di eliminare le industrie minori assorbendole o rovinandole, e di controllare il mercato di uno o magari di una serie di prodotti, stabilendo così grandi monopoli o trusts; situazione che verso la fine del secolo XIX preoccupava vivamente l'opinione pubblica, e prospettava al Congresso e al governo federale l'urgenza di provvedimenti legislativi anti-trusts.
Nel frattempo, gli Stati Uniti non solo avevano cessato di dipendere dai prodotti industriali europei, ma avevano cominciato a imporsi negli stessi mercati del Vecchio Continente. Prima ancora che divenissero grande potenza politica, gli Stati Uniti si erano quindi affermati come grande potenza economica mondiale.

 

L'America latina dall'indipendenza alla prima guerra mondiale

 

La storia dell'America latina, ossia di tutti i territori dell'America centro-meridionale uscenti dalla colonizzazione della Spagna e del Portogallo, fu caratterizzata durante il secolo XIX da un'instabilità politica più o meno grave e continua.
Falliti i progetti federalistici di Simone Bolivar, la personalità più eminente del movimento d'indipendenza contro la Spagna, l'ex impero coloniale spagnolo si suddivise in una ventina di stati. Fra essi per semplicità di esposizione si possono distinguere tre categorie:
 - gli stati dell'America centrale, in cui figurano il Messico e i piccoli stati istmici (Guatemala, San Salvador, Honduras, Nicaragua, Costa Rica), che ripetutamente, durante il secolo XIX, cercano di costituirsi e mantenersi in una federazione;
 - gli stati della parte centro-settentrionale dell'America meridionale (Venezuela, Colombia, Ecuador, Bolivia, Perù, Paraguay), che hanno uno sviluppo economico difficile e stentato turbato da una instabilità politica più grave e persistente che negli altri stati dell'America latina;
 - gli stati della parte centro-meridionale dell'America meridionale (Argentina, Brasile, Cile, Uruguay) che godono di uno sviluppo economico notevole e, benché siano sconvolti da rivoluzioni o oppressi da dittature, si avviano, verso la fine del secolo (salvo l'Uruguay) ad un regime politico costituzionale e stabile.

 

Non è il caso di delineare la serie di eventi rivoluzionari, di colpi di stato ecc. che caratterizza la storia di ciascun paese.

 

Il paese che subì un'evoluzione interna più tranquilla fu il Brasile, che trasse probabilmente vantaggio dal fatto di non essere passato immediatamente dallo stato di colonia rigidamente governata dalla madrepatria a quello di repubblica democratica.
Nel 1822 il principe Pedro di Braganza, della dinastia portoghese, si fece proclamare imperatore del Brasile sotto di lui, e sopra tutto sotto il figlio Pedro II (1834-89), il paese si abituò gradatamente alle forme dello stato costituzionale. Pedro II considerò con spirito illuminato, in particolare, il movimento per l'abolizione della tratta degli schiavi e poi della stessa schiavitù, problema che venne progressivamente affrontato a cominciare dalla metà del secolo, così che dei 2.500.000 schiavi allora esistenti, alla vigilia dell'emancipazione totale non ne rimanevano più che 750.000.
Fu tuttavia proprio l'atteggiamento liberale della monarchia in questo problema a provocare la sua caduta: quando infatti nel 1888 la figlia di Pedro II, Isabella, reggente in nome del padre assente, sanzionò il voto del Parlamento per l'emancipazione completa degli schiavi, la monarchia perdette l'appoggio dell'unica classe ostile all'instaurazione della repubblica, quella dei grandi proprietari terrieri, i quali, con metodo tipicamente latino-americano, ossia con un pronunciamento di truppe comandate da generali rivoluzionari, la monarchia venne abbattuta, la famiglia imperiale partì per il Portogallo e il Brasile adottò una costituzione federale simile a quella degli Stati Uniti, votata nel 1891 ed effettivamente adottata, dopo un periodo di guerra civile e di dittatura, nel 1894.
Favorito dalla relativa stabilità di governo e dalle ingenti risorse naturali, il paese subì un notevole sviluppo economico, principalmente basato sull'allevamento e sull'agricoltura.
Alla vigilia della prima guerra mondiale il Brasile produceva la metà del caffè prodotto nel mondo e ingenti quantità di zucchero e di cotone. Era il paese con la maggior popolazione assoluta dell'America latina (non più di 20 milioni).
L'emigrazione europea aveva contribuito notevolmente a tale sviluppo demografico, sebbene in modo meno decisivo che in Argentina; a cominciare dall'ultimo decennio del secolo XIX il contingente medio annuo di immigranti fu di circa 130.000 persone, in prevalenza portoghesi, spagnoli e italiani. A volte questi immigranti europei si mantenevano in gruppi etnici e linguistici compatti, dando la propria impronta a un particolare stato: tale fu il caso dello Stato del Rio Grande del Sud, colonizzato prevalentemente da Tedeschi che avevano cominciato ad affluirvi fin dalla metà del secolo XIX, e il caso dello Stato di San Paolo, colonizzato prevalentemente da Italiani (circa 1.000.000), che doveva divenire il più prospero e il più moderno degli Stati Uniti del Brasile.

 

L'evoluzione politica dell'Argentina fu caratterizzata, più che in qualsiasi altro stato dell'America latina, dalla lotta continua fra il partito centralista, assai forte in Buenos Aires e nelle regioni costiere, e il partito federalista, che intendeva affermare l'autonomia delle regioni dell'interno contro la preminenza della capitale.
Durante la dittatura di Juan Manuel de Rosas (1835-52), il paese compì considerevoli progressi economici, la popolazione di Buenos Aires raddoppiò e gli immigrati dall'Europa cominciarono ad affluire in numero considerevole, recando anche (specialmente gli Inglesi) notevoli capitali, impiegati sopra tutto nell'allevamento, poi anche nelle ferrovie e in altre imprese.
Rovesciato il Rosas nel 1852, l'Argentina si dette una costituzione federale del tipo di quella degli Stati Uniti.
Contrasti politici e vere guerre civili tuttavia non cessarono, alimentati dall'urto di interessi e di concezioni sociali e politiche fra gli abitanti di Buenos Aires e gli abitanti delle provincie; dal 1890 alla prima guerra mondiale, tuttavia, la vita politica seguì un normale corso costituzionale, favorendo il progresso economico del paese, basato, come in Brasile, sull'allevamento, che cominciò ad alimentare una ingente produzione di carni destinate all'Europa, e sull'agricoltura, che portò la superficie delle terre coltivate a quintuplicarsi dal 1900 al 1914.
Nel frattempo si era avuto pure un cospicuo aumento della popolazione (circa 8 milioni di abitanti nel 1914), cui contribuì in misura essenziale l'immigrazione dell'Europa (nel 1914 il 30% della popolazione argentina era nata in Europa). In tale immigrazione la percentuale di Italiani (il 47%, ossia quasi 2 milioni di persone) era elevatissima; tale immigrazione italiana contribuì in modo decisivo alla trasformazione delle regioni interne da praterie da allevamento in terre coltivate.

 

L'immigrazione europea e il grande sviluppo economico di questi paesi, cui si deve aggiungere quello dell'Uruguay, compiutosi malgrado le sempre instabili condizioni politiche, favorì, come abbiamo anticipato, il mantenimento di stretti rapporti con l'Europa, nel campo culturale e sopra tutto nel campo economico. I rapporti finanziari, basati essenzialmente sull'investimento di capitali europei nell'America latina, furono particolarmente rilevanti fra l'Argentina, l'Uruguay, il Cile e l'Inghilterra; il 50% degli ingenti investimenti esteri in Argentina era nel 1914 inglese e inglesi erano ben quattro delle sei banche straniere di Buenos Aires. Alla vigilia della prima guerra mondiale gli Stati Uniti occupavano una posizione di preminenza economica-finanziaria nell'America centrale, ma nell'America meridionale la loro posizione era inferiore a quella dell'Europa occidentale o anche della sola Inghilterra, salvo che nel Brasile. Questa situazione sarà rovesciata dalla guerra, che confermerà il progresso economico degli Stati Uniti anche nel campo dei rapporti commerciali (in seguito anche finanziari) con gli altri stati del Continente americano.

 

 

 

 

TENDENZE E PROBLEMI POLITICI ED ECONOMICI DELLA società EUROPEA
DALLA META DEL SECOLO XIX ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE

 

 

Il progresso scientifico, tecnico ed economico. Lo sviluppo demografico

 

La seconda metà del secolo XIX fu un'epoca di scoperte e progressi senza precedenti in tutte le scienze: fisica, chimica, geologia, astronomia, biologia, medicina ecc.
Le applicazioni dei risultati di tali scoperte e progressi scientifici provocarono grandi mutamenti nella vita e nel modo di cogliere la realtà.
Nel campo della vita pratica, l'applicazione delle scoperte scientifiche ebbe le sue maggiori conseguenze nella produzione industriale, accelerandola al punto che si può parlare di una seconda Rivoluzione industriale, verificatasi fra la fine del secolo XIX e il principio del XX.
Nei decenni subito dopo la metà del secolo, il progresso tecnico si manifestò sopra tutto nel perfezionamento dei metodi per l'estrazione del carbone e per la produzione metallurgica. Durante tale periodo la situazione relativa dei paesi industriali rimase in gran parte ancora quella della prima metà del secolo, con un'Inghilterra al primo posto e un'Europa occidentale (Francia, Belgio) che si manteneva in posizione di vantaggio. L'industria tedesca compì tuttavia sensibili progressi e così pure l'industria degli Stati Uniti, il cui sviluppo produttivo fu per altro in parte assorbito dallo sforzo bellico dell'Unione durante la guerra di Secessione. D'altra parte le attività industriali cominciarono a estendersi, almeno per quanto riguarda lo sfruttamento di risorse minerarie, a nuovi paesi: alla Svezia (ferro), alla Spagna, alla Russia (giacimenti petroliferi di Baku).
Strettamente legato a questa grande espansione industriale è lo sviluppo del commercio.
Per quanto riguarda i trasporti e le comunicazioni, si ha fin dai decenni subito dopo la metà del secolo un grande sviluppo delle ferrovie: datano da questo periodo la struttura principale della rete ferroviaria che congiunge nell'Europa centro-occidentale, la Francia, l'Italia settentrionale e l'Europa-centrale tedesca, nonché le grandi iniziative ferroviarie transcontinentali negli Stati Uniti. Nei decenni precedenti la prima guerra mondiale questo sviluppo della rete ferroviaria europea e nordamericana ancora si accelera, mentre si cominciano a costruire ferrovie anche nelle altre parti del mondo: la rete ferroviaria europea passa da 223.000 Km nel 1890 a 342.000 Km nel 1913; quella degli Stati Uniti da 268.000 a 402.000 Km; nelle altre parti del mondo considerate complessivamente da 92.000 a 226.000 Km.
Uno sviluppo forse ancora maggiore subiscono i trasporti marittimi, che già prima della metà del secolo XIX, grazie alla navigazione a vapore e all'uso di tipi assai efficienti di velieri veloci, erano divenuti molto agevoli. Successivamente, le esigenze crescenti del commercio mondiale, che stimolano le costruzioni navali e di conseguenza aumentano la concorrenza fra gli armatori, portando ad un abbassamento dei prezzi dei trasporti; i perfezionamenti tecnici (l'introduzione del motore a turbina è del 1897), che aumentano la velocità delle navi consentendo pure una diminuzione dei prezzi dei trasporti, la costruzione dei canali interoceanici di Suez (1869) e di Panama (1912), che abbreviano sensibilmente le comunicazioni intercontinentali, sono tutti elementi che contribuiscono al grande sviluppo della marina mercantile.
Fra il 1890 e il 1913 il tonnellaggio della marina mercantile mondiale raddoppia (da 23.000.000 tonnellate passa a quasi 47.000.000 tonnellate), mentre cresce rapidamente il numero relativo delle navi a vapore (dal 60% al 95%).

 

Il grande sviluppo del commercio è legato, durante quest'epoca, alla forma complementare assunta dall'economia mondiale, e specialmente dai rapporti economici fra l'Europa centro-occidentale (nonché, alla vigilia della prima guerra mondiale, il Giappone) e gli altri continenti.
Quasi tutti i paesi industriali ricevono una parte più o meno cospicua delle materie prime di cui abbisognano per le loro industrie da paesi extraeuropei: colonie da essi dipendenti, colonie di altre potenze o stati sovrani. D'altra parte la maggior parte dei paesi industriali (in primo luogo l'Inghilterra, dove questo fenomeno risale alla prima metà del secolo), concentrando la loro attività economica sulla produzione industriale, vengono a dipendere dall'estero per il loro fabbisogno di generi di consumo. In molti casi tale dipendenza sarebbe inevitabile anche senza l'intensa industrializzazione del paese, visto che la popolazione è talmente cresciuta e ha talmente aumentato i propri bisogni, che le risorse nazionali sarebbero comunque insufficienti.
Altro essenziale fattore di questa grande espansione del commercio mondiale è l'apertura di mercati per la vendita dei prodotti industriali nei continenti che forniscono materie prime ai paesi industriali: l'America latina, l'Africa, l'Asia, l'Australia. Questa espansione della produzione industriale impone naturalmente ai governi una politica economica intesa a non compromettere il progresso economico interno e nello stesso tempo a sostenere l'intensa competizione internazionale.
La sola Inghilterra rimase fedele al libero scambio, sebbene negli ultimi decenni del secolo molti Inglesi auspicassero il mutamento di una politica economica che ormai non rispondeva più agli interessi del paese, e al principio del secolo XX si cominciassero a discutere le prime forme di un sistema di «protezionismo imperiale», ossia di un sistema libero-scambistico limitato ai paesi dell'impero.
Aspetto fondamentale della grande espansione di quest'epoca è il complesso sistema finanziario e creditizio, che ha le sue sedi principali nei due grandi mercati finanziari di Londra e di Parigi, ma che in seguito si appoggia al mercato finanziario tedesco e anche nordamericano.
Nello stesso periodo si manifesta negli investimenti di capitali europei la caratteristica tendenza, già in parte preannunciata dai decenni precedenti, per cui gli investimenti inglesi tendono a rivolgersi ai paesi extraeuropei (Impero britannico, regioni asiatiche dell'Impero ottomano, Egitto, Stati Uniti, America latina), lasciando il campo libero, in Europa, alle iniziative francesi e belghe. Le grandi banche francesi, che finora si erano prevalentemente interessate dei prestiti emessi dagli stati esteri (il Regno di Sardegna e poi il Regno d'Italia, fra gli altri), collocano ora capitali in numerose imprese private ferroviarie e industriali, in Italia, in Russia, nel Lussemburgo ecc.
Tale sviluppo delle attività industriali e finanziarie porta, per iniziativa di alcuni settori industriali che esigono grandi investimenti di capitali, quali ad esempio quello metallurgico, al collegamento di varie imprese industriali o di vari interessi finanziari in cartels e trusts, che dispongono di ingenti mezzi tecnici e finanziari. Il fenomeno si afferma dapprima negli Stati Uniti e in Germania nel decennio 1880-90 e si diffonde poi agli altri paesi, creando potenti monopoli che controllano la produzione e il prezzo di determinati prodotti. D'altra parte la concentrazione dei mezzi finanziari che tal genere di società comporta, finisce col dare alle questioni bancarie e finanziarie e agli uomini che le rappresentano, un'importanza preminente nell'attività industriale.

 

Non minore importanza del progresso scientifico, tecnico ed economico ha per la fisonomia dell'epoca qui considerata lo sviluppo demografico.
L'aumento della popolazione varia considerevolmente da paese a paese. L'Italia e la Russia hanno gli aumenti relativi più forti (la popolazione italiana passa da 30 milioni nel 1891 a più di 35 milioni nel 1913); le popolazioni della Gran Bretagna e della Germania, grazie sopra tutto ai progressi dell'igiene e della medicina, aumentano rispettivamente di 7 e di 15 milioni. In Francia la popolazione cresce soltanto di 1.300.000 abitanti. Gli Stati Uniti, grazie, in buona parte, all'immigrazione dall'Europa, vedono la loro popolazione aumentare, dal 1900 al 1914, di ben 21 milioni di abitanti (da 76 a 97 milioni). Fuori d'Europa, assai ingente è pure l'aumento demografico del Giappone, in questo caso dovuto più che altro all'aumento delle nascite (da 30 a 55 milioni), mentre i due maggiori paesi asiatici, l'India e la Cina, hanno alla vigilia della prima guerra mondiale una popolazione, la prima di 315 milioni, la seconda di 320-330 milioni.
Questa situazione demografica nei paesi di evoluzione politico-sociale più progredita influisce in modo fondamentale sulla vita delle comunità statali, ponendo nuovi problemi di organizzazione economica e politica, direttamente connessi con lo sviluppo industriale, con il progresso della democrazia e del socialismo.
Lo stato dello sviluppo demografico influisce sulla posizione relativa dell'Europa e degli Stati Uniti nel mondo: il rapido e cospicuo spostamento di decine di milioni di persone da una parte all'altra dell'Atlantico, che favorisce uno sviluppo economico dovuto d'altra parte ad energie risorse e condizioni naturali affatto eccezionali, tende in effetti a fare degli Stati Uniti un preoccupante concorrente dell'Europa.

 

Il liberalismo democratico

 

Fra la metà del secolo XIX e la prima guerra mondiale, il liberalismo, che abbiamo visto imporsi nell'epoca precedente nell'Europa occidentale, compie una grande evoluzione, che senza mutarne i principi originari, ne arricchisce gli elementi dottrinari, sotto l'influenza della nuova realtà sociale ed economica creata dalla Rivoluzione industriale. Così il movimento liberale supera i limiti ristretti entro i quali si era mantenuto nell'epoca precedente nella sua forma dominante di liberalismo moderato o costituzionalismo per trasformarsi in liberalismo democratico o democrazia.
La monarchia costituzionale cessò di essere la formula tipica dello stato liberale quando, accanto ai regni costituzionali di Gran Bretagna, d'Italia, del Belgio ecc., sorse la liberale Terza Repubblica francese.
Il corpo elettorale venne esteso fino a corrispondere al suffragio universale maschile:
 - in Francia questo era in vigore fin dalla Seconda Repubblica (1848), anche se poi il Secondo Impero ne aveva annullato il significato ai fini di uno sviluppo della democrazia;
 - in Gran Bretagna entrò di fatto in vigore con la riforma elettorale del 1884;
 - in Germania (quale che potesse essere il suo significato nel Reich bismarckiano e guglielmino) venne introdotto per le elezioni al Reichstag nel 1871;
 - in Italia venne attuato solo nel 1912;
 - negli Stati Uniti era stato introdotto nella maggior parte degli stati del Nord e dell'Ovest nel decennio 1830-40, e venne predominio esteso a tutti gli stati dopo la guerra di Secessione.

 

La trasformazione del liberalismo moderato in liberalismo democratico ha inoltre un fondamentale aspetto economico, con conseguenze sociali di importanza decisiva.
Verso la metà del secolo XIX il liberalismo moderato aveva dato maggior rilievo ai suoi aspetti economici accettando e facendosi banditore dei principi del liberismo economico. Ciò era originariamente avvenuto in Inghilterra per la fusione delle forze del liberalismo politico dei whigs e del liberalismo economico di Richard Cobden e della Scuola di Manchester.
La dottrina del laisser faire, però, non venne mai applicata integralmente in nessun paese, mentre interventi saltuari e particolari dello stato si ebbero sempre (concessioni di sussidi a imprese ferroviarie, imposizioni di tariffe protettive su determinati prodotti ecc.), ma essa conferì in ogni caso un definito carattere a un'epoca del liberalismo occidentale. Tale epoca, in cui il liberismo si impone all'interno degli stati, coincide con quella in cui un regime di libero scambio regola i rapporti economici internazionali. Essa ha inizio circa alla metà del secolo XIX e ha termine prima della fine di esso, quando in ambito internazionale gli stati ritornano ad una politica di protezionismo doganale più o meno rigido, e nell'ambito interno l'espansione industriale (che crea una sempre più numerosa classe di lavoratori politicamente educati) e il progresso della democrazia in genere impongono una nuova politica di intervento dello stato nelle iniziative economiche individuali.

 

Questo interventismo dello stato, che doveva porre termine al liberalismo classico, instaurando il liberalismo democratico o democrazia, che avrebbe poi avuto, dopo la prima guerra mondiale, uno sviluppo nel liberalismo sociale o social democrazia, si manifestò in forma diversa da paese a paese.
È significativo il fatto che il primo paese in cui venne introdotta una legislazione sociale intesa a proteggere i lavoratori dallo sfruttamento della società industriale capitalistica fu la Germania bismarckiana (fra il 1883 e il 1889), dove il movimento liberale era stato soffocato o deviato dal suo corso naturale. È pure significativo che l'Inghilterra, il paese che aveva dietro di sé la più gloriosa tradizione liberale e che aveva contribuito più di ogni altro (con la possibile eccezione della Francia) a diffondere i principi liberali, fu il più restio ad abbandonare il laisser faire. Il Partito liberale britannico, sotto la direzione di William Gladstone, si mantenne fedelmente ligio ai principi dell'iniziativa individuale e rifuggì dall'intervento statale in campo sindacale e in campo sociale in genere, cosa che non deve fare comunque dimenticare il sistematico impulso riformatore del liberalismo gladstoniano nel campo politico, educativo, religioso.
Con il nuovo secolo, comunque, si ebbe, come abbiamo accennato, una decisa affermazione del liberalismo democratico, che si espresse in una serie di riforme sociali.
In Inghilterra il Partito liberale, al governo dal 1906 al 1916, appoggiato dai laburisti, compì sotto la guida di Herbert Asquith e sopra tutto di David Lloyd William Gladstone George una vasta opera legislativa, stabilendo compensi per i lavoratori in caso di infortunio o malattia, conferendo pensioni a carico dello stato ai lavoratori anziani, definendo i salari minimi ecc.
Ancora più importante fu l'introduzione, nel 1909, da parte del Lloyd George, della prima imposta progressiva sul reddito.

 

Riforme analoghe si ebbero in Francia, mentre il liberalismo democratico acquistava nuovo vigore dall'accettazione degli ideali democratici e repubblicani da parte dei socialisti.
In Italia si ebbe pure una legislazione sociale, più timida e più limitata, per altro, che negli altri paesi occidentali.
Negli Stati Uniti la legislazione «progressiva» dell'epoca del presidente Teodoro Roosevelt (1901-08), venne seguita da quella, assai più estesa e radicale, del periodo seguente alla grande vittoria democratica nelle elezioni del 1912, che portò alla presidenza il democratico Woodrow Wilson.

 

L'evoluzione del liberalismo in senso democratico, culminante, in questa epoca, nelle varie legislazioni sociali e progressive del decennio che precede la prima guerra mondiale, si accompagnò pure all'introduzione del regime costituzionale in paesi rimasti soggetti per gran parte del secolo XIX a regimi autocratici.
Il regime costituzionale dell'Impero tedesco, pur non potendo certo considerarsi liberale per l'ampiezza dei poteri riservati all'imperatore e al cancelliere, costituiva in ogni caso un riconoscimento dell'attualità del sistema rappresentativo, mentre regimi e metodi liberali si diffondevano, d'altra parte, all'interno dei vari stati tedeschi, specie di quelli sud-occidentali.
Nell'Impero asburgico una forma limitata di regime rappresentativo era stata introdotta già alcuni anni prima della costituzione della Duplice Monarchia del 1867; il suffragio universale maschile fu introdotto nel 1906 in Austria, ma non in Ungheria.
Perfino nell'Impero russo venne istituito, nel 1906, una Assemblea rappresentativa, la Duma, i cui poteri erano per altro assai limitati.
Fra i paesi asiatici, l'Impero ottomano adottò il regime costituzionale nel 1908, dopo la rivoluzione dei «Giovani Turchi»; il Giappone l'adottò, insieme con gli aspetti tecnici ed economici della civiltà occidentale, fin dalla «rivoluzione» del 1868 che reinsediò sul trono l'imperatore; in Cina, infine, nel 1912, l'impero venne abbattuto e venne istituita una repubblica che almeno nominalmente adottò le forme di governo rappresentativo occidentale.

 

 

 

Il socialismo

 

 

Il socialismo

 

Anche il socialismo, come il liberalismo, compie in quest'epoca un'importante evoluzione, o addirittura una trasformazione, abbandonando le forme utopistiche che aveva assunto nella prima metà del secolo XIX, per diventare un fattore essenziale ed operante della società politica.
La causa generale di questa trasformazione va ricercata nel progresso tecnico, nello sviluppo industriale e nel conseguente progresso della società politica, stimolati dal movimento liberale; ciò crea nel proletariato industriale urbano una categoria sociale particolarmente adatta ad assimilare i principi del socialismo, a farne proprie le rivendicazioni, a collegarsi e a organizzarsi per dare a tali rivendicazioni esito concreto.
Massimo esponente del socialismo «scientifico» o realistico, fu il tedesco Carlo Marx (1818-83).
Il Manifesto del nuovo socialismo (1847-48) affermava che l'evoluzione dell'attuale società capitalistica avrebbe portato alla concentrazione del capitale nelle mani di poche persone, finché sarebbe stato possibile al proletariato di insorgere, stabilendo la sua «dittatura» nello stato comunista, basato sull'eliminazione della proprietà privata. Intento principale dell'azione socialista doveva quindi essere l'organizzazione politica del proletariato, in attesa del momento in cui esso avrebbe dovuto conquistare il potere; il mezzo principale dell'affermazione del proletariato si sarebbe configurato come «lotta di classe» contro la borghesia e, nella fase finale, come rivoluzione.
Sebbene l'influenza del Marx e del Manifesto comunista sulle rivoluzioni del 1848 fosse scarsa, ed egli dovesse rassegnarsi, dopo il fallimento, a esulare in Inghilterra (dove rimase, vivendo poveramente, fino alla morte) nei decenni seguenti il fondatore del socialismo scientifico diede al movimento la sua complessa struttura dottrinaria (sopra tutto nell'opera Il Capitale, il cui primo volume apparve nel 1867) e la sua prima organizzazione internazionale. Questa consistette nella Associazione internazionale dei lavoratori, fondata a Londra nel 1864, che cercò attraverso congressi in cui convenivano rappresentanti dei gruppi socialisti di vari paesi europei e degli Stati Uniti, di coordinare e di potenziare l'azione politica del socialismo.
L'Associazione internazionale dei lavoratori o «Internazionale» come venne poi comunemente chiamata, non resistette però a lungo. La scarsità di fondi, il sorgere dei movimenti nazionalistici nei vari paesi, il severo colpo ricevuto dal socialismo con la repressione della Comune di Parigi e l'esecuzione o la deportazione dei suoi capi, e il dissidio interno fra socialisti marxisti e gli anarchici, facenti capo al russo Michele Bakunin, ne determinarono lo scioglimento (1876).
Nel 1889 venne costituita una seconda Internazionale; la sua esistenza fu tuttavia travagliata, ancor più di quella della prima Internazionale, dall'urto coi sentimenti nazionalistici, che erano nel frattempo penetrati più profondamente nella coscienza politica dei popoli europei.
La dottrina socialista vedeva nei conflitti fra nazioni la conseguenza delle competizioni economiche generate dal sistema capitalista e proclamava che gli operai di tutti i paesi avevano i medesimi interessi. La seconda Internazionale cercò quindi di stabilire un comune piano di lotta contro il militarismo e l'imperialismo.
A partire dal 1904, quando i blocchi di potenze avverse si precisano mentre la corsa agli armamenti assume un ritmo preoccupante, i congressi socialisti internazionali discutono seriamente un piano d'azione comune. Sull'opportunità di condannare l'espansione coloniale i pareri sono discordi, ma si ha un'unanime presa di posizione contro i metodi dell'imperialismo e il ricorso alla guerra come mezzo per regolare le divergenze internazionali. Per altro i congressi non raggiungono alcun risultato concreto quando si discutono i mezzi che si dovrebbero impiegare per opporsi a un eventuale conflitto: al congresso di Stoccarda del 1907 una parte notevole dei delegati si oppone alla proposta di ricorrere allo sciopero generale per impedire o ostacolare un eventuale mobilitazione militare nei vari stati, mentre il problema viene eluso negli anni seguenti con dichiarazioni generiche e non compromettenti, rivelatrici dell'incapacità dell'Internazionale socialista di imporsi ai sentimenti nazionalistici.

 

 

 

Ortodossia e revisionismo

 

 

Maggior successo ebbe l'organizzazione politica del socialismo nei vari stati.
L'iniziativa in questo campo spetta al tedesco Ferdinando Lassalle, per opera del quale nel 1875 si costituì in Germania il Partito socialdemocratico, che accettò i principi marxisti ma intese applicarli nell'ambito nazionale. Dal 1877 i socialdemocratici, malgrado le leggi antisocialiste del periodo 1878-90, aumentarono la loro influenza nel paese, finché alla vigilia della prima guerra mondiale costituivano una forza considerevole nel Reichstag.
Analogamente, partiti socialisti nazionali si formarono e svilupparono negli altri paesi europei.
In Inghilterra, dove i primi esponenti socialisti o laburisti (ossia «del lavoro») apparvero in Parlamento alla fine del secolo XIX, il Partito laburista crebbe rapidamente, finché nel primo dopoguerra si sostituì al Partito liberale come grande rivale del Partito conservatore; in Francia i socialisti nel 1914 occupavano 102 seggi in Parlamento; negli Stati Uniti il movimento socialista rappresentò un partito minore che ottenne nelle elezioni del 1912 circa 900.000 voti; in Italia il Partito socialista, fondato nel 1892, aveva alla Camera, nel 1914, un numero considerevole di deputati.
Nello stesso tempo, nell'ambito di questi partiti socialisti nazionali si determinarono due tendenze principali:
 - una corrente massimalista (ortodossia) impegnata ad applicare integralmente i principi marxisti della lotta di classe e della preparazione alla conquista rivoluzionaria del potere;
 - una corrente riformista (revisionismo) che riteneva più importante e più vantaggiosa per gli interessi della classe lavoratrice ottenerne un graduale miglioramento delle condizioni economiche attraverso un'opera politica legale in parlamento e attraverso movimenti d'opinione.
La tendenza marxista-rivoluzionaria prevale nei paesi dove le condizioni del popolo sono più disagiate, o dove non esiste legislazione sociale, o dove il regime politico è nettamente antidemocratico (Russia, Italia). La tendenza riformistica prevale nei paesi di tradizione liberale e democratica più solida, o di benessere economico più elevato e diffuso (Inghilterra, Germania). In Francia il Partito socialista subisce una caratteristica evoluzione dalla prima alla seconda tendenza durante il primo decennio del secolo XX, per divenire poi chiaramente riformista con l'entrata in vigore dell'importante legislazione sociale degli anni intorno al 1910.