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CLASSE   V   -   Sintesi di Storia (3)

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Terminologia storica

 

Il periodo dell'unificazione tedesca: la situazione dell'Europa

 

 

l'europa nell'epoca bismarckiana

 

 

L'unificazione italiana costituì il primo grande mutamento dell'assetto territoriale e politico dell'Europa dall'epoca della Restaurazione.
Essa significava il primo grande trionfo del principio di nazionalità.

 

Francia, Inghilterra e Russia nell'epoca delle unificazioni italiana e tedesca

 

Subito dopo la formazione dello stato unitario italiano, e contemporaneamente ai completamenti dell'unificazione italiana rappresentati dall'annessione del Veneto del 1866 e dall'annessione di Roma del 1870, l'Europa subì un'altra grande trasformazione a causa dell'unificazione tedesca.
Questa fu un fenomeno storico di proporzioni più vaste, di conseguenze più profonde dell'unificazione italiana, per l'estensione territoriale della Germania, per la sua potenza demografica, per la sua posizione geografica al centro del continente europeo, per il suo eccezionale progresso tecnico e per il poderoso sviluppo intellettuale.
Singolare fu poi il carattere di sviluppo del movimento unitario, in cui l'elemento statale-dinastico prevalse sollecitando e nello stesso tempo appoggiandosi ad una concezione nazionale non più legata all'idea liberale, ma a una nuova valutazione della potenza e dell'autorità dello stato.

 

In Francia, il regime di Napoleone III (così l'imperatore volle chiamarsi per stabilire la continuità dinastica attraverso il figlio di Napoleone I e di Maria Luisa d'Austria, il “re di Roma”, poi duca di Reichstadt, che se avesse regnato sarebbe stato Napoleone II) fu caratterizzato dall'accentramento del potere nelle mani dell'imperatore, il quale si sbarazzò dei maggiori avversari politici facendoli processare e deportare, stabilì il suo controllo diretto sul corpo legislativo e instaurò una rigida censura sulla stampa.
Peraltro, a compensare i Francesi della perdita o almeno delle gravi limitazioni poste alla loro libertà politica e individuale, Napoleone III si dedicò all'attuazione di diverse opere pubbliche, al miglioramento delle comunicazioni, all'incentivazione del commercio e dell'industria, così da aumentare il benessere materiale della nazione.
D'altro lato, sempre seguendo la medesima direttiva, e tenendo presente, per di più, la grande tradizione del Primo Impero, Napoleone III volle ottenere il consenso dei Francesi con una politica estera vivace e aggressiva, che valesse a ridare alla Francia del Secondo Impero una prestigiosa posizione europea.

 

 

 

Francia, Inghilterra, Russia

 

 

Il prestigio e la posizione internazionale del Secondo Impero, assai elevati nel 1856 dopo la fine vittoriosa della guerra di Crimea e il congresso di Parigi, che aveva visto Napoleone III al centro della politica europea, cominciarono ad essere scossi quando l'indipendenza italiana si compì non secondo i piani di Napoleone III, ma secondo una soluzione unitaria che appariva alla maggioranza dei Francesi contraria ai loro interessi nazionali.
Nel decennio successivo fatti e circostanze contribuirono alla decadenza del Secondo Impero:
 - il raffreddamento dei rapporti con l'Inghilterra, che temeva i piani napoleonici di revisione dell'assetto territoriale dell'Europa a norma del principio di nazionalità,
 - il peggioramento dei rapporti con la Russia, per l'atteggiamento inutilmente antagonistico assunto da Napoleone III a proposito della rivoluzione polacca del 1863,
 - la maldestra politica verso Austria e Prussia nel 1865-66, che permise la vittoria e il rafforzamento della Prussia senza che la Francia potesse trarne alcun compenso,
 - il fallimento dell'impresa iniziata nel 1863 nel Messico e terminata con la fucilazione nel 1867 di Massimiliano d'Asburgo, creato per iniziativa di Napoleone e con l'aiuto militare francese imperatore del Messico,
 - il faticoso e insoddisfacente sviluppo della Questione Romana, che inaspriva i rapporti franco-italiani e d'altra parte non evitava a Napoleone III il biasimo dei clericali francesi.

 

Nel 1869, poi, l'ultima delle imprese spettacolari con cui l'Imperatore intendeva colpire l'immaginazione dei Francesi e del mondo, il completamento e l'inaugurazione del Canale di Suez, venne a coincidere con una ripresa dell'opposizione al regime napoleonico, che contava nelle sue file ora non più soltanto i liberali e i democratici, ma anche i clericali, che avevano inizialmente favorito la restaurazione imperiale.
Nello stesso anno Napoleone III tentò di attirare a sè i liberali dando all'impero un regime più sinceramente rappresentativo e costituzionale, ma l'affermarsi delle tendenze repubblicane e socialiste annullò del tutto i vantaggi che egli aveva potuto trarre dalla parziale adesione dei liberali.

 

In Inghilterra l'epoca delle unificazioni italiana e tedesca è contraddistinta da un ulteriore sviluppo della prosperità del paese, che mantiene il suo primato economico malgrado i progressi compiuti dalla Francia e soprattutto dallo ZolIverein tedesco, e da una graduale trasformazione delle classi e dei partiti politici.
In questi decenni centrali dell'età vittoriana (1837-1901) si hanno solo due eventi che turbano il generale carattere pacifico dell'epoca:
 - la guerra di Crimea (1853-56)
 - la rivolta delle truppe indigene in India del 1857, che provocò stragi sanguinose sia da parte dei sepoys (soldati indiani) contro gli Inglesi residenti in India, sia da parte delle forze inglesi inviate a reprimere la rivolta.
In seguito all'insurrezione la Compagnia delle Indie (East India Company) venne privata dei suoi poteri e l'India divenne un possedimento della Corona (1858).

 

Nel campo politico, l'ascesa e il consolidamento della borghesia industriale e commerciale britannica portò ad una trasformazione della classe politica dirigente e degli stessi partiti. Questi vennero trasformandosi dai vecchi partiti aristocratici tory e whig nei nuovi partiti conservatore e liberale.
Gli esponenti della borghesia entrarono in misura sempre più notevole in Parlamento e sempre più occuparono posizioni spesso importanti nello stesso governo.
La misura di tale trasformazione della classe politica britannica è data dalla riforma elettorale (Reform Act) del 1867, riforma che venne presentata al Parlamento da un governo conservatore, che estese il diritto di voto dalla classe media benestante, che l'aveva ottenuto nel 1832, alla piccola borghesia e a una parte del proletariato. Quasi a sanzionare l'avvento della democrazia politica in due aspetti fondamentali della storia britannica, nello stesso anno 1867 il British North America Act riconobbe al Canadà lo stato di Dominion autonomo con un governatore rappresentante la Corona e un regime costituzionale simile a quello del del Regno Unito: era il primo nucleo di quello che sarebbe divenuto poi il Commonwealth britannico.

 

Importanti trasformazioni interne subì durante questo periodo la Russia.
L'Impero zarista sotto Nicola I, conservatore inflessibile, aveva contribuito più di qualsiasi altra potenza alla Seconda Restaurazione, aiutando l'Austria a reprimere l'insurrezione ungherese, reprimendo il movimento costituzionale nei principati danubiani di Moldavia e Valacchia e favorendo il ristabilimento dell'antico assetto federale in Germania.
Morto Nicola I durante la guerra di Crimea, il figlio e successore Alessandro II si era trovato sulle spalle una pesante eredità. Benché, infatti, le operazioni di guerra non avessero avuto esito disastroso, esse avevano comunque inciso da un lato sulla potenza militare della Russia, dall'altro sulle sue risorse finanziarie, provocando, inoltre, un diffuso fermento politico-sociale.
Fra il 1861 e il 1864, pertanto, Alessandro II, più perché non si sentiva sufficientemente forte per continuare la politica di inflessibile conservatorismo autocratico del padre, che perché ritenesse giusto modificare il regime politico-sociale esistente, introdusse diverse riforme:
 - nel 1861 decretò la liberazione dei contadini che erano ancora asserviti alle proprietà terriere nobiliari secondo il regime feudale ormai scomparso in tutti gli altri stati europei;

 

 

 

La politica di Alessandro II. L'Italia dopo l'unificazione

 

 

 - nel 1862 introdusse una riforma giudiziaria che rendeva pubblici i procedimenti, adottava il sistema della giuria, la codificazione delle leggi ed altre misure di carattere liberale;
 - nel 1864 adottò infine un sistema di decentramento amministrativo per cui l'amministrazione delle province e dei distretti era assunta da assemblee locali.
Le riforme di Alessandro II, tuttavia, non ebbero seguito, anche in conseguenza dell'insurrezione dei polacchi registratasi nel gennaio del 1863 e subito repressa come la precedente del 1830-31. Dopo il 1865, comunque, Alessandro II riprese la tradizione reazionaria di Nicola I, incontrando però maggiore difficoltà e resistenza per il progressivo rafforzamento delle tendenze rivoluzionarie democratiche e socialiste.
Nello stesso tempo, riorganizzate le proprie forze militari, la Russia si sentì sufficientemente forte per compiere il primo passo di una ripresa della sua politica espansionistica nella Questione d'Oriente. Nel 1870, infatti, approfittando della situazione creatasi nell'Europa occidentale per la guerra franco-prussiana, essa denunciò l'articolo del trattato di Parigi del 1856 che le proibiva di tenere navi da guerra nel Mar Nero.

 

L'Italia dopo l'unificazione

 

In meno di due anni, dall'aprile 1859 all'ottobre del 1860, l'Italia aveva sostanzialmente raggiunto l'unificazione nazionale.
Compiuta l'unificazione, il Regno d'Italia doveva da un lato assumere il proprio posto fra le potenze europee, dall'altro dare coesione e unità a regioni sostanzialmente diverse per quel che riguarda le istituzioni amministrative e giudiziarie, la situazione economica, lo sviluppo culturale.

 

Il 17 marzo 1861 Vittorio Emanuele assunse il titolo di re d'Italia, “per grazia di Dio e volontà della Nazione”, secondo, cioè, una formula che fondeva insieme, i due concetti (contrastanti) del diritto divino e della sovranità popolare.
Il nuovo stato derivava dalle successive annessioni al Regno di Sardegna; la sua costituzione rimaneva quindi quella del Regno di Sardegna, ossia lo Statuto, concesso da Carlo Alberto nel marzo 1848.
A cominciare dall'Inghilterra, tutte le potenze riconobbero il Regno d'Italia, sebbene in periodi diversi: l'Austria, benché ovviamente riluttante i territori perduti, al Russia zarista, che considerava soprattutto l'aspetto rivoluzionario della formazione del regno unitario, la Francia, che vedeva in esso e nella sua evidente ambizione di togliere Roma al papa, il risultato dell'errata politica del proprio imperatore.

 

Gravi erano i problemi di politica interna che si ponevano agli amministratori chiamati a dar forma organica al nuovo stato italiano. Soprattutto nel Sud l'unificazione aveva finito per essere vissuta come una “conquista” che discriminava gli ex-amministratori locali e i garibaldini che avevano pur dato un contributo fondamentale per quell'unificazione. Ne derivò un malcontento sociale che si manifestò soprattutto nel fenomeno del brigantaggio, prodotto e tenuto vivo dall'indigenza economica, sollecitato dagli elementi reazionari che sussistevano ancora numerosi nelle classi alte del Meridione e dalla stessa corte di Francesco II di Borbone, stabilitasi in Roma.
La repressione attuata nel napoletano non portò risultati definitivi.

 

Altri problemi incombevano con urgenza:
 - le difficoltà tecniche di fondere insieme le legislazioni dei diversi stati erano complicate da rivalità e antagonismi regionali;
 - la suddivisione amministrativa del territorio nazionale, risolto, non senza discussioni con l'adozione di un sistema centralizzato che divise l'Italia, ad imitazione del sistema francese rivoluzionario dei dipartimenti, in province rette da prefetti, nominati dal governo centrale;
 - le comunicazioni, importanti in un paese dalle notevoli distanze (in proporzione della sua superficie) e dai ramificati sbarramenti orografici, erano o inesistenti o circoscritte a singole regioni;
 - il tasso di analfabetismo in alcune regioni del sud oltrepassava 1'80%;
 - la scelta del personale amministrativo dello stato;
 - la fusione dei vari eserciti;
 - la gravissima situazione finanziaria. Per diverse ragioni le spese di ordinaria amministrazione del nuovo stato unitario superavano già quelle dei preesistenti stati regionali messi assieme; per di più lo stato unitario doveva affrontare essenziali problemi di riforma in diversi campi, che esigevano spese eccezionali.

 

 

 

La Questione romana fino alla Convenzione di settembre. Il compimento dello Zollverein e il Nationalverein

 

 

La Questione Romana

 

Di tutti i problemi della nuova Italia, tuttavia, quello forse più grave, per la sua immensa portata psicologica e sentimentale all'interno e all'estero, era quello dei rapporti fra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica.
La Questione Romana, che in questo decennio 1861-70 fu anzitutto il problema di Roma capitale, gravò in effetti sulla politica italiana per diversi decenni.
Il Cavour, appena compiuta l'unificazione, vi dedicò particolare attenzione, facendo dichiarare Roma capitale d'Italia con atto formale non privo di risonanza politica (27 marzo 1861) ed esponendo in Parlamento, all'opinione europea e allo stesso Pontefice, oltre che ai parlamentari presenti, la famosa tesi “libera Chiesa in libero Stato”, che avrebbe tolto alla Chiesa cattolica il potere temporale, ma le avrebbe conferito piena libertà d'azione, in Italia, nell'ambito del diritto comune; d'altro lato, il Cavour iniziò trattative con Napoleone III per ottenere il ritiro da Roma delle truppe francesi, che sarebbero state sostituite da soldati italiani.
Il 6 giugno 1861, però, lo statista piemontese moriva stroncato dalla malattia, che lo accompagnava da tempo, e Napoleone III non volle continuare le trattative con il successore di Cavour alla presidenza del Consiglio, Bettino Ricasoli.

 

Insoluta, la Questione Romana, continuò quindi a gravare sulla politica italiana.
Dimessosi nel marzo 1862 il Ricasoli, a motivo della sua intransigenza, assunse il potere Urbano Rattazzi, vecchio alleato politico di Cavour. Egli volle riprendere riguardo alla Questione Romana l'audace politica riuscita brillantemente al Cavour e a Vittorio Emanuele nel 1860, quella cioè di ignorare ufficialmente le iniziative garibaldine finché fosse giunto il momento di far intervenire lo Stato, ponendo l'Europa di fronte al fatto compiuto.
Napoleone III, tuttavia, reso accorto dalla precedente esperienza, quando Garibaldi nel giugno 1862 radunò dei volontari in Sicilia con l'esplicito intento di risalire lungo la penisola fino a Roma per strappare la città al Papa, inviò un perentorio avvertimento al governo italiano, e questo, dopo aver lasciato fare ed aver anzi implicitamente appoggiato la nuova impresa garibaldina, per il timore di un intervento francese inviò delle truppe a fermare Garibaldi che, passato lo stretto di Messina, avanzava in Calabria sull'Aspromonte. Ferito a un piede dalle prime scariche di fucileria, Garibaldi impose ai suoi volontari di cedere per evitare la guerra civile (26 agosto 1862).
Il governo Rattazzi, screditato per aver condotto la questione in maniera il equivoca e maldestra e per aver poi preso ingenerosi provvedimenti contro i garibaldini, dovette dimettersi (dicembre 1862). Aspromonte fu il simbolo delle difficoltà e del disagio spirituale della nuova Italia, le cui divisioni, scomparso Cavour, si rivelavano in modo drammatico.

 

La politica dei governi Farini e Minghetti, successi al ministero ministero Rattazzi, non valse a far uscire il paese da una situazione di incertezza e di disagio. Il 15 settembre 1864 il Minghetti giunse ad una soluzione di compromesso nella Questione Romana, concludendo con la Francia la Convenzione di Settembre, che impegnava Napoleone III a ritirare entro due anni le sue truppe da Roma, contro la promessa del governo italiano di impedire qualsiasi attacco contro il territorio pontificio e di trasferire la capitale da Torino a Firenze. Con ciò, la Questione Romana era ben lontana da una soddisfacente soluzione.

 

Subito dopo, alla fine del 1864, la pubblicazione, del Syllabus, in cui Pio IX condannava il movimento liberale, sanciva la paralisi del cattolicesimo liberale europeo.

 

La Prussia e il movimento nazionale tedesco

 

Nonostante l'Austria, alla fine del 1850, fosse riuscita ad imporre alla Prussia un ritorno, in sostanza, all'assetto federalistico degli stati tedeschi stabilito nel 1815, il grande sviluppo economico della Germania, favorito dal completamento dell'Unione doganale (Zollverein) con l'adesione ad essa, nel 1852, degli stati del Mare del Nord, non aveva subito una battura d'arresto.
La rete ferroviaria tedesca fu considerevolmente estesa e collegata con le reti ferroviarie di tutti i paesi confinanti con la Confederazione tedesca, dalla Francia alla Svizzera, alla Russia.
L'industria mineraria compì grandi passi sulla via dello sviluppo, tanto che fin dal 1850 la produzione di carbone della Germania era la maggiore del continente europeo.
Fra le altre industrie compirono maggiori progressi quella del settore tessile, l'industria meccanica in genere, l'industria dello zucchero (con 250 zuccherifici, mentre nel 1850 erano circa un centinaio), che favorì il miglioramento dell'alimentazione dei tedeschi.

 

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Zollverein

 

Lo sviluppo economico influì sul problema nazionale tedesco sotto due aspetti:
 - con il completamento dell'Unione doganale, l'unità tedesca, dal punto di vista economico, divenne una realtà, e i Tedeschi dei vari stati si abituarono ad agire e a pensare in base a tale presupposto, sia per quanto riguardava i rapporti interni, sia per quanto riguardava i rapporti con gli altri paesi europei;
 - grazie allo sviluppo delle comunicazioni e all'importanza assunta da alcune zone di produzione industriale della Germania centro-settentrionale, il commercio degli stati tedeschi meridionali invece di continuare a gravitare verso il bacino danubiano si rivolse verso il Mare del Nord.
Questi furono due presupposti fondamentali  per la soluzione “prussiana” del problema tedesco.

 

Nel 1859, anche grazie alle ripercussioni della seconda guerra d'indipendenza italiana, venne fondato der Deutsche Nationalverein (l'Unione nazionale tedesca) sul modello della Società nazionale italiana, al fine di promuovere la soluzione del problema nazionale tedesco sotto la direzione della Prussia.

 

 

 

Guglielmo I, il Bismarck e la guerra prusso-danese

 

 

Dopo le vicende del Quarantotto Federico Guglielmo IV aveva aderito ad una politica di stretto conformismo conservatore. Quando le sue condizioni di salute, nel 1857, gli impedirono di continuare a reggere lo stato, le sue funzioni vennero assolte dal fratello, il principe Guglielmo, che nel 1858 assunse formalmente la reggenza.
L'anno dopo la Prussia non si impegnò al fianco dell'Austria contro la Francia, ponendo condizioni talmente pesanti per entrare nel conflitto che Francesco Giuseppe preferì stabilire con Napoleone III l'armistizio di Villafranca. D'altro lato il principe reggente, un soldato per temperamento e per educazione, aderì al programma degli ambienti conservatori, secondo cui la Prussia, per assolvere il grande compito che l'attendeva nella politica nazionale tedesca, doveva anzitutto riformare e rafforzare il suo già cospicuo esercito.
Alla morte del fratello (1861), divenuto re, Guglielmo I sciolse il Parlamento, all'interno del quale la maggioranza non era di suo gradimento, ma senza ottenere l'effetto desiderato, perché le elezioni rinviarono alla Camera una nuova maggioranza liberale. Allora, dietro consiglio dei capi militari, affidò il governo a Ottone di Bismarck, l'uomo che, con le sue eminenti capacità politiche e la sua inflessibile volontà, in otto anni avrebbe realizzato l'unificazione tedesca sotto la direzione della Prussia e avrebbe dominato l'Impero tedesco e la politica europea per un ventennio.

 

Esponente della piccola nobiltà terriera, il Bismarck era entrato nel Landtag unito nel 1847 e aveva aderito al partito conservatore. Dal 1851 al 1859 aveva rappresentato la Prussia alla Dieta di Francoforte, nel 1859 era stato nominato ambasciatore a Pietroburgo e nella primavera del 1862 era stato trasferito a Parigi. A Francoforte aveva svolto una sistematica azione di opposizione all'Austria, a Pietroburgo e a Parigi si era reso conto che le due maggiori potenze continentali europee, se il governo di Berlino avesse agito con abilità e decisione, avrebbero accettato l'ascesa della Prussia ad un incontrastato primato in Germania.
Richiamato in Prussia nel settembre 1862, il Bismarck si impegnò con il re ad attuare la riforma dell'esercito anche contro il parere della maggioranza parlamentare. In seguito Guglielmo I lo nominò ministro degli Esteri e due settimane dopo primo ministro.

 

La guerra austro-prussiana e la terza guerra per l'indipendenza italiana

 

L'intento fondamentale dell'opera politica del Bismack era quello di affermare la posizione della Prussia come grande potenza europea, promuovendone l'espansione territoriale in Germania; a tale scopo si servì delle condizioni favorevoli offertegli dal movimento nazionale tedesco, sia affermando la posizione di stato-guida della Prussia sia indebolendo, isolando e screditando l'Austria.

 

Riuscì anzitutto a rendere impossibile la partecipazione dell'Austria allo Zollverein, che i dirigenti della politica austriaca desideravano anche a costo di superare difficoltà economiche interne, per legare più organicamente l'Austria al Reich. Il governo prussiano, invece, aveva stabilito nel 1862 un trattato commerciale con la Francia che abbassava notevolmente le tariffe doganali dei due paesi; il Bismarck, poi, dichiarò che avrebbe rinnovato i trattati che costituivano l'Unione doganale tedesca soltanto con quegli stati che avessero aderito al trattato con la Francia. Gli stati tedeschi medi, la cui economia, benché i loro governi simpatizzassero con l'Austria, era ormai legata a quella della Prussia e rivolta, come abbiamo detto, verso il Mare del Nord, furono costretti ad aderire; l'Austria, invece, le cui tariffe doganali erano assai elevate, non poté farlo, perché tale adesione avrebbe completamente rovinato le proprie industrie.

 

Tuttavia, la questione che permise al Bismarck di infliggere un duro colpo al prestigio dell'Austria e nello stesso tempo di preparare il terreno per una futura guerra contro di essa, che egli riteneva indispensabile per stabilire l'incontestato predominio della Prussia in Germania, fu quella dei Ducati dello Schleswig e dello Holstein.
I Ducati, abitati da popolazioni in parte di lingua danese, in parte di lingua tedesca, erano stati al centro del problema nazionale tedesco nel 1848. In seguito all'intervento diplomatico dell'Inghilterra e della Russia, che aveva posto fine alla guerra prusso-danese del 1848, era stata confermata la posizione dei Ducati quali territori autonomi dipendenti direttamente dalla Corona danese (Trattato di Londra, 1852). Il nuovo re di Danimarca, Cristiano IX, salendo al trono nel 1863, emanò, invece, una costituzione che toglieva ai Ducati tale autonomia e li rendeva parte integrante del Regno.
Di fronte a queste misure il sentimento nazionale tedesco insorse e il Bismarck si affrettò ad assumere la direzione dell'azione antidanese.
All'Austria, che pure era scarsamente interessata a territori lontani dai suoi confini, non rimase che prendere posizione a fianco della Prussia, nell'intento di mantenere la sua posizione di grande potenza tedesca. La guerra ebbe inizio al principio del 1864 e terminò in primavera per l'intervento diplomatico delle grandi potenze non tedesche. Con il trattato di pace di Vienna (30 ottobre) la Danimarca rinunciò ai Ducati, e Austria e Prussia si assunsero di definire il futuro assetto politico.

 

 

 

La guerra austro-prussiana

 

 

Bismarck si accinse quindi a creare motivi di discordia e di tensione con l'Austria per provocare un conflitto. Il 14 agosto 1865 con la convenzione di Gastein egli aderì a una soluzione di compromesso la quale poneva lo Schleswig e il porto di Kiel sotto amministrazione prussiana e lo Holstein sotto amministrazione austriaca, ma riuscì poi a provocare la rottura prendendo motivo dalla situazione di disagio e di tensione provocata dalla questione dei Ducati per affermare che la Confederazione tedesca, nelle attuali condizioni, era impossibilitata ad agire e che quindi il suo statuto andava riformato. La riforma da lui proposta, che comprendeva l'istituzione di una assemblea nazionale a suffragio universale, era inaccettabile per l'Austria, appoggiata a sua volta dagli stati tedeschi medi.
Il contrasto portò alla metà di giugno 1866 alla guerra, che vide gli stati tedeschi medi – Hannover, Würtemberg, Baviera, Sassonia – schierarsi a fianco dell'Austria, e l'Italia, alleata alla Prussia, scendere in campo contro l'Austria in quella che fu la terza guerra per l'indipendenza italiana.
Da tempo il Bismarck aveva proposto all'Italia un'alleanza, che lo stato maggiore prussiano, diretto dal generale von Moltke riteneva opportuna per obbligare l'Austria a combattere su due fronti. Il governo italiano, presieduto, dopo le dimissioni del Minghetti, dal generale Lamarmora, era favorevole all'alleanza, sia perché avrebbe consentito all'Italia di acquistare il Veneto con maggior sicurezza di quella offerta dai progetti che Garibaldi e i suoi andavano elaborando, sia perché avrebbe distolto l'attenzione dell'opinione nazionale italiana dalla spinosa e per il momento apparentemente insolubile Questione Romana. Il governo italiano, però, temeva che il Bismarck volesse usare l'alleanza italiana soltanto per minacciare l'Austria, così da indurla ad accettare le sue condizioni nel problema nazionale tedesco. Tali esitazioni per altro vennero superate quando Napoleone III garantì il suo aiuto all'Italia nel caso che la Prussia non avesse mantenuto fede all'alleanza: l'imperatore dei Francesi era favorevole all'alleanza italo-prussiana, sia perché ciò avrebbe distolto l'attenzione degli Italiani da Roma, sia perché sperava che una guerra austro-prussiana logorasse gli avversari (che egli riteneva di forze equivalenti con, se mai, una certa superiorità austriaca) rendendo più decisa la preminenza della Francia in Europa, e gli consentisse di modificare a proprio vantaggio il confine del Reno.
Quali che fossero gli errori di prospettiva e di valutazione di Napoleone III il suo intervento, rassicurando il governo italiano, rese possibile l'alleanza italo-prussiana, che venne firmata l'8 aprile 1866. Venuto a conoscenza dell'alleanza, l'imperatore Francesco Giuseppe, memore del danno procuratagli dalla sua intransigenza nel 1859, fece sapere a Napoleone III che sarebbe stato disposto a cedere il Veneto, se l'Italia si fosse ritirata. Ma il governo italiano, sollecitato ad accettare da Napoleone, rispose che ormai non poteva più recedere dai propri impegni, nel timore che la Francia, in compenso dell'annessione del Veneto senza alcuna campagna di guerra, intendesse ottenere garanzie più onerose nella Questione Romana.

 

Quando le operazioni militari ebbero inizio, i Prussiani, dopo aver rapidamente occupato i più vicini degli stati tedeschi medi alleati dell'Austria, avanzarono rapidamente in Boemia.
Sul fronte italiano invece le cose andarono diversamente. Alla discordia tra i capi militari corrispose la scarsa coesione di un esercito che non aveva avuto il tempo di costituirsi con tanti elementi diversi. Le forze italiane vennero divise; il piano d'attacco, non ben coordinato, fallì e non permise agli Italiani di trarre vantaggio della superiorità numerica (250.000 uomini contro 140.000).
L'arciduca Alberto di Asburgo fermò e ributtò indietro le divisioni del Lamarmora a Custoza (24 giugno 1866); nel frattempo i Prussiani, avanzando vittoriosi in Boemia, finivano con lo sconfiggere completamente gli Austriaci a Sadowa (3 luglio).

 

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I due fronti nel 1866

 

La notizia Sadowa della decisiva vittoria degli alleati spinse gli Italiani ad agire, ma la ritirata dell'esercito austriaco e la cessione del Veneto da parte di Francesco Giuseppe a Napoleone III rese ormai inutile l'avanzata in quella regione. Mentre l'imperatore dei Francesi, allarmato della vittoria della Prussia, premeva sull'Italia perché ponesse fine alla guerra, si tentò, sotto la spinta dell'opinione pubblica, di conquistare il Trentino e di prendere Trieste dal mare. Garibaldi con i suoi volontari e una divisione dell'esercito al comando del generale Medici giunsero fino in vista di Trento (combattimento di Bezzecca, 21 luglio); ma sul mare l'ammiraglio Persano fu sorpreso dalla squadra austriaca dell'ammiraglio Tegethoff a Lissa e duramente battuto.

 

Fu il Bismarck a voler porre termine al conflitto, in quanto si rendeva conto che sarebbe stato un errore il voler umiliare l'Austria occupando la sua capitale, come certo si sarebbe potuto fare.
Prussia e Austria firmarono l'armistizio di Nikolsburg (25 luglio), confermato, un mese dopo, dalla pace di Praga, sulla base della rinuncia austriaca ad ottenere compensi per l'annessione dei Ducati dello Schleswig e dello Holstein alla Prussia, e ad esercitare un controllo sugli affari tedeschi.
L'Italia, dal canto suo, si trovò impossibilitata a proseguire un conflitto che avrebbe fatto riversare su di essa tutte le forze dell'Austria; fu quindi firmato a Cormons il 12 agosto un armistizio, poi confermato dalla pace di Vienna (3 ottobre). Con esso l'Italia ottenne il Veneto, ma dalle mani di Napoleone III, e rinunciò al Trentino, dal quale Garibaldi si era ritirato in base a un ordine personale di Vittorio Emanuele.

 

 

 

La guerra franco-prussiana e la presa di Roma

 

 

La guerra franco-prussiana e la formazione dell'Impero tedesco

 

Con la vittoria della Prussia nella guerra del 1866 i Ducati danesi vennero a far parte dello stato prussiano e il porto di Kiel sarebbe presto diventato la base della potenza navale tedesca all'epoca di Guglielmo II; la Prussia, inoltre, poté annettere l'Hannover, l'AssiaCassel, il Nassau e Francoforte sul Meno, congiungendo i suoi territori originari con quelli ottenuti in Renania al congresso di Vienna nel 1815 e raggiungendo una cospicua consistenza territoriale su buona parte della Germania settentrionale.
La forzata rinuncia dell'Austria alla sua tradizionale posizione direttiva nel l'organismo federale tedesco, inoltre, permise al Bismarck di costituire nel 1867 la Confederazione tedesca del Nord, che, sotto la presidenza ereditaria del re di Prussia, comprendeva tutti gli stati tedeschi tranne quelli meridionali. Essa fu dotata di un corpo legislativo composto di due camere: un Bundesrat, in cui figuravano i rappresentanti degli stati, e un Reichstag eletto a suffragio universale.
Gli stati tedeschi meridionali (Baviera, Württemberg, Baden, Assia-Darmstadt) rimanevano sì fuori della Confederazione, ma sarebbero stati in breve trascinati ad accettare la soluzione “prussiana” del problema nazionale tedesco.
Così, mentre la Prussia assurgeva ad un assoluto primato in Germania compiendo un passo innanzi decisivo sulla via dell'unificazione, l'Austria con il 1866 aveva definitivamente perduto la posizione di controllo sull'Europa centro-meridionale. Nel 1867 l'Impero asburgico trasformava la sua struttura costituzionale interna da impero centralizzato in duplice Monarchia, austro-ungarica, che, salvo per le questioni d'interesse generale – politica estera, difesa, ecc. –, veniva ad avere due capitali, Vienna e Budapest, con due parlamenti e due governi. Il « centro di forza » dell'Impero austro-ungarico veniva così ad essere spostato più a oriente, anche per il particolare vigore dell'elemento nazionale ungherese, comportando, nei decenni seguenti, un'opera di penetrazione economico-politica nei Balcani che sarebbe durata fino alla prima guerra mondiale, costituendone una delle cause fondamentali.

 

Durante la guerra Napoleone III aveva sperato di vedere le due potenze tedesche logorare le proprie forze in una lotta lunga e di esito incerto e di poter ottenere il consenso prussiano a compensi territoriali in Renania in cambio della propria neutralità.
La rapida vittoria prussiana, invece, sconvolse i piani dell'imperatore dei Francesi, minacciando per di più, per il solo fatto di aver dimostrato la potenza della Prussia, la posizione di preminenza e di prestigio che egli aveva in parte effettivamente ottenuto con le sue successive imprese militari (guerra di Crimea, guerra del 1859, spedizione nel Messico) e per l'attività continua della sua diplomazia.

 

Ora il Bismarck, come alcuni anni prima aveva “preparato” una guerra con l'Austria, “preparava” una guerra con la Francia, persuaso che nulla come una guerra contro il secolare nemico dell'unità germanica avrebbe contribuito ad avvicinare alla Prussia gli stati meridionali, cementando l'unificazione nazionale.
A fornire al Bismarck l'occasione per far precipitare il conflitto giunse, nel 1869, l'offerta della corona di Spagna al principe Leopoldo di Hohenzollern-Sigmaringen, parente del re di Prussia. Alla fine di maggio del 1870, quando il principe accettò l'offerta spagnola, Napoleone III e il suo governo si opposero alla candidatura, chiedendo però al re di Prussia di dichiarare che il trono di Spagna non sarebbe stato mai occupato da un Hohenzollern.
Guglielmo I si rifiutò di fare ciò, ma, poiché si trovava lontano da Berlino nella cittadina termale di Ems, dove appunto gli era stata inoltrata la richiesta francese, riferì la cosa telegraficamente al Bismarck. L'uomo di stato prussiano forzò allora gli eventi con quello che fu uno dei più spregiudicati atti della sua carriera: riformulò il “telegramma di Ems” in termini tali da sollevare il sentimento nazionale in Francia e in Germania, costringendo così Napoleone III a prendere posizione. La Francia dichiarò la guerra (19 luglio) e come previsto dal Bismarck gli stati tedeschi meridionali unirono le loro forze a quelle della Prussia e della Confederazione del Nord.

 

La guerra si risolse in un duello tra le due nazioni, senza coinvolgere altre potenze, esattamente come voleva Bismarck. La Francia, infatti, col suo comportamento al tempo dell'insurrezione polacca del 1863 si era alienata le simpatie della Russia, destando nello stesso tempo la diffidenza dell'Inghilterra per le sue mire di revisione dei confini europei. Non era poi riuscita a concludere un'alleanza con l'Austria in funzione antiprussiana, poiché l'Austria subordinava la propria adesione a quella dell'Italia e quest'ultima pretendeva in cambio il ritiro delle truppe francesi da Roma, che Napoleone III non voleva concedere.
Dal canto suo Bismarck si era accordato con la Russia (1868) perché questa concentrasse truppe al confine austriaco in caso di guerra franco-prussiana, e proprio all'indomani dell'inizio del conflitto aveva fatto pubblicare sul quotidiano inglese Times un progetto di trattato franco-prussiano di alcuni anni prima che rivelava le mire dell'imperatore francese sul Belgio. Austria e Inghilterra si astennero perciò dall'intervenire, assieme alla Russia, e il conflitto rimase limitato a Francia e Prussia.

 

Le operazioni militari volsero ben presto a favore dei Tedeschi, i quali, dopo aver circondato parte delle forze francesi a Metz, vinsero e fecero prigioniero Napoleone III a Sedan (2 settembre).
La catastrofe militare provocò il crollo del Secondo Impero, mentre la nazione francese, costituito un governo provvisorio repubblicano di cui fu l'anima Léon Gambetta, riprese la lotta anche grazie all'intervento di Garibaldi, accorso con i suoi volontari in difesa della democrazia francese (scontro di Digione, 22 gennaio 1871).

 

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L'occupazione tedesca del 1871

 

Mentre l'occupazione del territorio francese procedeva e Parigi esauriva le sue ultime energie, Ottone di Bismarck otteneva il suo intento, la proclamazione a Versailles, il 18 gennaio 1871, dell'Impero tedesco, con il conferimento della corona imperiale al re Guglielmo I di Prussia, sanzionò l'unità tedesca sotto la direzione della Prussia e nello spirito della sua politica di potenza.

 

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La formazione dell'Impero tedesco

 

Dieci giorni dopo, con la capitolazione di Parigi, avevano inizio le trattative di pace, che imposero alla Francia la cessione della Alsazia-Lorena e il pagamento di una indennità di guerra di cinque miliardi di franchi (Pace di Francoforte, 10 maggio 1871).
La Germania, attraverso l'unificazione e la vittoria sulla Francia, assurgeva ad una posizione di indiscussa preminenza sul continente europeo.

 

Roma capitale d'Italia

 

La terza guerra per l'indipendenza aveva risolto la Questione Veneta.
Benché, tuttavia, una grande regione fosse entrata a far parte dello stato nazionale, il paese non ne aveva tratto, oltre il vantaggio materiale, un adeguato rafforzamento morale. Le operazioni militari e navali avevano rivelato una grave impreparazione e, quel che era peggio, una mancanza di senso di responsabilità nei supremi dirigenti.
La situazione finanziaria continuava ad essere gravissima, tanto da rendere necessaria una riduzione delle spese militari che diminuì ancora la già scarsa efficienza dell'esercito, e l'imposizione di nuove tasse.
In tale situazione di profondo disagio morale e materiale le divisioni tendevano ad accentuarsi mettendo in pericolo la compagine nazionale appena costituita : da un lato l'agitazione repubblicana si diffondeva in alcune regioni dell'Italia centro-settentrionale (Romagna, Lombardia), dall'altro clericali e fautori dei vecchi regimi irridevano alle difficoltà e agli insuccessi della Monarchia costituzionale.

 

Caduto il ministero Ricasoli in seguito alle elezioni del marzo 1867, ritornò al potere il Rattazzi, mentre Garibaldi rinnovava i preparativi per l'occupazione di Roma.
Un gruppo guidato dai fratelli Cairoli, intanto, cercò di far giungere alla città le armi che le avrebbero permesso d'insorgere, ma venne attaccato a Villa Glori dalle truppe pontificie e dovette ritirarsi.
Garibaldi, dal canto suo, riapparve nello stesso tempo alla testa di circa 3000 volontari, e marciò verso Roma. Di fronte a ciò il Rattazzi, non osando ancora prender posizione contro di lui per l'atteggiamento dell'opinione pubblica, si dimise, ma a salvare il potere temporale del papa giunse un corpo di spedizione francese che, sbarcato a Civitavecchia, a Mentana il 3 novembre fermava e ricacciava indietro i garibaldini.
La Convenzione di Settembre fu così abolita e le truppe francesi tornarono a presidiare Roma, che avevano lasciato l'anno precedente.

 

L'andamento della guerra franco-prussiana, però, provocando l'abbandono di Roma da parte delle truppe francesi dopo il crollo del Secondo Impero, indusse il ministero Lanza-Sella a disporre che un corpo di truppe al comando del generale Cadorna entrasse in Roma (20 settembre 1870).
Con la proclamazione della città a capitale d'Italia (2 ottobre) la Questione Romana non era risolta, ma drasticamente chiusa.

 

 

 

L'Impero tedesco e la Comune parigina

 

 

Il secondo Reich

 

La fondazione dell'Impero tedesco costituì probabilmente l'evento più importante della storia europea del secolo XIX.
Portò infatti a uno spostamento del centro di forza — politico, economico, militare, demografico — del continente europeo, tanto che il problema fondamentale della politica continentale europea fino alla prima guerra mondiale sarebbe consistito appunto nel cercare di adattare il vecchio sistema (ancora "viennese") ad una Germania che occupava ormai una posizione preminente.

 

L'Impero tedesco (il «Secondo Reich») ebbe struttura federalistica, entro la quale trovarono posto i vecchi stati (Prussia, Baviera, Würtemberg, Baden ecc.), ma la preminenza prussiana venne garantita sia dall'estensione e dall'entità demografica della Prussia, sia dalla stessa struttura costituzionale del Reich. Il re di Prussia, infatti, ottenne il titolo ereditario di «Imperatore tedesco», con il potere di dirigere gli affari politici e militari del Reich, di cui comandava le forze armate, e di designare il Cancelliere dell'Impero (che fu, fino al 1890, il Bismarck) ossia il capo del governo centrale tedesco.
Gli organi legislativi — un Reichstag eletto dalla popolazione tedesca e un Bundesrat formato dai rappresentanti degli stati — rimasero in sostanza quelli che erano nella Confederazione germanica del Nord; il potere di questi organi, tuttavia, e specialmente del Reichstag, risultò molto limitato dall'esecutivo e dal suo capo, il cancelliere.

 

Un elemento che assicurava alla Germania la preminenza in Europa era sicuramente il grande sviluppo industriale. Nel decennio fra il 1880 e il 1890 la produzione industriale tedesca aumentò del 50%, cominciando ad oltrepassare, per valore, la produzione agricola.
Un secondo fattore della preminenza della Germania era costituito dal suo sviluppo demografico, per cui la popolazione tedesca salì da 41 milioni nel 1871 a 49 milioni nel 1890. L'aumento demografico, nella nuova epoca dei grandi eserciti nazionali basati sulla coscrizione obbligatoria (che la stessa Germania aveva inaugurato), costituiva naturalmente un valido motivo della potenza militare tedesca, fattore chiave della preminenza del Reich in Europa. Ciò che rendeva la potenza militare tedesca di gran lunga superiore erano anche le condizioni della psicologia collettiva del popolo tedesco, la posizione morale dell'esercito nel paese, la sua efficienza tecnica. Le vittorie del 1866 e del 1870 confermavano agli occhi dei tedeschi la validità della dottrina nazionale che sosteneva un orgoglioso senso di superiorità, a spese della «romanità» e dello «slavismo» all'interno della Germania.

 

Durante il ventennio in cui Ottone di Bismarck fu cancelliere dell'Impero, lo statista prussiano dedicò le sue maggiori cure a garantire la conservazione della preminenza acquistata dalla Germania in Europa nel 1871. In effetti tale preminenza non lo rendeva meno sensibile ai pericoli, esterni ed interni, che potevano minacciare la pax germanica e la stessa saldezza interna dell'Impero:
 - all'esterno, infatti, qualora la Francia, nazione sconfitta del 1870, ansiosa di riacquistare le perdute province dell'Alsazia e della Lorena, fosse riuscita a formare contro di essa una coalizione, avrebbe potuto minacciare la superiorità tedesca, specialmente se avesse ottenuto l'alleanza della Russia, costringendo l'Impero tedesco a combattere su due fronti. L'incubo delle coalizioni, pertanto, caratterizzò la politica estera del Bismarck, inducendolo alla formazione di un complesso sistema di alleanze, inteso a mantenere la Francia nell'isolamento;
 - all'interno, il cancelliere riteneva che la grande opera unitaria non dovesse considerarsi definitivamente compiuta finché non fossero state eliminate entro l'Impero le forze che potevano corroderlo e intaccarne la potenza.
Era perciò necessario, in primo luogo, anzitutto eliminare la resistenza alla «germanizzazione» delle popolazioni non tedesche — i Danesi dello Schleswig, gli Alsaziani-lorenesi, i Polacchi — cercando di assimilarle; l'opposizione che più lo preoccupava era quella dell'Alsazia-Lorena, come dimostrò l'invio in quelle regioni di diversi governatori che alternarono metodi di repressione a metodi di conciliazione senza ottenere comunque risultati positivi.
Secondariamente, il cancelliere ritenne pure importante eliminare fra i Tedeschi i sentimenti particolaristici che potevano essere sopravvissuti all'unificazione, e indebolire le tendenze politiche che potevano ottenere consensi e simpatie e mantenere legami all'estero. Da ciò fu indotto ad una lotta contro il cattolicesimo che assunse due aspetti, da una parte, di lotta contro la Chiesa cattolica e la Santa Sede per la definizione dei rapporti fra Chiesa e Stato in Prussia e nell'Impero (il cosiddetto Kulturkampf, 1873-83), dall'altra di lotta, sopra tutto al Reichstag, contro il partito cattolico del Centro, sostenitore del particolarismo o almeno dei diritti degli stati tedeschi, assurto a posizione politica importante dopo il 1876 quando appunto la sua posizione centrale gli consentì di condizionare la situazione parlamentare.
In terzo luogo, sempre ispirata a questa esigenza di rafforzare l'unità dell'Impero, sostenuta, in questo caso, da evidenti motivi e sentimenti conservatori, fu la politica di Bismarck contro i socialisti, costituitisi nel 1875 in Partito socialdemocratico, i quali nel 1877 ottennero 12 seggi al Reichstag e nel 1890 ben 35. I socialdemocratici attaccavano le basi stesse della Germania bismarckiana, sostenendo l'instaurazione di un regime di democrazia politica e promuovendo l'antimilitarismo. Il Bismarck da un lato ricorse contro di essi a metodi repressivi, facendo emanare delle «Leggi eccezionali» per sopprimere il socialismo (1880-90); dall'altro seppe trovare e introdurre misure intese a eliminare le rivendicazioni sociali su cui i socialdemocratici appoggiavano il loro crescente ascendente sulle masse lavoratrici. Oltre a far introdurre una legislazione protezionistica (1879), che, fra gli altri scopi, aveva anche quello di consentire migliori prospettive di lavoro e di guadagno agli operai nelle industrie tedesche "protette" contro la concorrenza estera, il cancelliere introdusse una legislazione sociale, che pose la Germania all'avanguardia in questo campo di fronte agli stessi paesi industriali e liberaldemocratici dell'Occidente: fra il 1881 e il 1890 fu infatti introdotta una serie di leggi che assicuravano gli operai contro le malattie e gli infortuni, regolavano il lavoro delle donne e dei bambini nell'industria, stabilivano un giorno di riposo settimanale, imponevano l'assicurazione obbligatoria dei lavoratori contro l'inabilità e la vecchiaia, consentivano e definivano la costituzione dei sindacati ecc.

 

Meno importante, nell'ambito dell'opera politica del cancelliere, che dominò la politica interna tedesca così come dominò la politica internazionale europea per tutto questo periodo, fu la politica coloniale tedesca, cui il Bismarck si decise tardi e senza particolare convinzione, incoraggiato da rappresentanti degli interessi economici — commerciali, bancari, industriali — con cui egli seppe mantenersi in cordiale e proficuo contatto.

 

La Terza Repubblica francese

 

La Francia, che aveva perduto nel 1870 — né avrebbe più ripreso — la posizione di preminenza europea mantenuta in diversi periodi della sua storia e ultimamente durante la maggior parte dell'epoca del Secondo Impero, seppe tuttavia risollevarsi rapidamente dalla sconfitta.
Dopo la caduta del regime imperiale, i Francesi si adoperarono a restaurare in senso socialista quella libertà che il precedente regime, malgrado i mutamenti costituzionali del 1869, non aveva saputo assicurare.
La Comune parigina, istituita per organizzare la difesa durante l'assedio della città da parte dei Tedeschi, fu un governo rivoluzionario costituito dai membri dello stesso Consiglio comunale di Parigi, in cui figuravano tanto radicali borghesi quanto socialisti, che staccò la capitale francese dal resto della nazione dal marzo al maggio 1871 e capitolò, alla fine, di fronte all'ostilità dal resto della Francia, tradizionalmente avversa alla preminenza di Parigi, e per la repressione dell'esercito repubblicano.

 

 

 

La Francia nel ventennio 1870-90

 

 

La Terza Repubblica, di cui Adolfo Thiers fu il primo presidente, era divisa dai partiti che si agitavano in seno all'Assemblea nazionale, composta da circa cinquecento monarchici e duecento repubblicani.
I monarchici — bonapartisti, legittimisti (fautori della restaurazione della Casa di Borbone) e orleanisti (fautori della restaurazione della Casa d'Orleans) — differivano aspramente fra loro riguardo alla scelta e alla forma della monarchia. I legittimisti, infatti, ancora ligi al diritto divino, non volevano accettare la monarchia costituzionale sostenuta dai liberali orleanisti, pur disposti a cedere per quanto riguardava la scelta della dinastia.
Essa, in fin dei conti, poté reggere e consolidarsi proprio grazie a questi contrasti fra i monarchici.

 

Il presidente succeduto al Thiers, il monarchico maresciallo Mac Mahon, eletto nel 1872, si adoperò per rendere possibile una restaurazione monarchica nella persona del candidato legittimista, il conte di Chambord; questi, però, non volle assolutamente rinunciare alle prerogative della monarchia legittima e in particolare alla bandiera bianca con i gigli d'oro dell'Antico Regime e della Restaurazione, in favore del tricolore nazionale. Di fronte a tale resistenza i liberali orleanisti finirono con lo schierarsi con i repubblicani moderati e le possibilità di restaurazione monarchica svanirono.
Le elezioni del 1875 diedero ai repubblicani la maggioranza in una delle due camere; quelle del 1877, indette dal Mac Mahon nell'intento di ricreare una maggioranza monarchica in un momento da lui ritenuto favorevole, accentuarono il progresso dei repubblicani, che ottennero la maggioranza in entrambe le camere. Il Mac Mahon si dimise e un repubblicano moderato, Jules Grévy, fu eletto presidente.

 

Intanto, fin dal 1875 la Repubblica francese aveva definito la sua costituzione:
 - il presidente della Repubblica, eletto dall'assemblea, durava in carica 7 anni;
 - il potere legislativo era esercitato da una Camera di deputati, eletta a suffragio universale maschile per 4 anni, e da un Senato, scelto con elezioni indirette per 9 anni;
 - il potere esecutivo era esercitato da un governo, il cui capo, o presidente del Consiglio dei ministri, veniva designato dal presidente della Repubblica in considerazione della situazione parlamentare e politica;
 - il governo era responsabile verso il Parlamento.

 

Caratteri fondamentali della storia della Terza Repubblica, una volta che essa ebbe consolidata la sua posizione, furono, in questo e nel successivo periodo, fino alla prima guerra mondiale, la posizione preminente della borghesia, il contrasto fra Stato e Chiesa, il movimento nazionalistico-patriottico e il sentimento della revanche (vendetta-rivincita) contro la Germania.

 

Tra il 1871 e il 1890, infatti, la borghesia francese mantenne senza difficoltà la posizione di controllo politico già da essa avuta nei precedenti regimi della Monarchia di luglio e del Secondo Impero. Ciò le fu agevole in quanto la dura repressione della Comune parigina portò ad un indebolimento e a una dispersione delle forze radicali e socialiste che avevano sostenuto quel regime rivoluzionario. Lo sviluppo industriale del paese, non così cospicuo come quello tedesco, è sempre considerevole (nei primi dieci anni della Repubblica la produzione industriale aumenta di più del 30% e le attrezzature meccaniche del 70%), e lo sviluppo delle attività creditizie e bancarie, che fanno di Parigi uno dei due grandi centri finanziari (con Londra) del tempo, accentuano naturalmente tale preminenza.

 

I rapporti fra Stato e Chiesa, poi, furono al centro degli eventi politici della Terza Repubblica; durante i primi anni la Chiesa cattolica sostenne apertamente i monarchici e i repubblicani, sia per convinzione ideologica, sia per reagire politicamente a questo atteggiamento della Chiesa, si fecero attivi promotori dell'anticlericalismo, guidati da Leon Gambetta. Soltanto nel periodo seguente, tuttavia, lo Stato francese ripudiò il concordato con la Chiesa che era stato concluso da Napoleone Bonaparte nel 1801 e introdusse una drastica legislazione anticlericale.

 

Per quanto invece concerne il movimento patriottico-nazionalistico, esso era strettamente legato al ricordo della sconfitta del 1870 e della perdita della Alsazia-Lorena. Ciò alimentò lo spirito della revanche e favorì la diffusione di idee militaristiche anche in partiti politici che prima della guerra erano stati decisamente pacifisti, come i repubblicani. L'esercito, ricostituito a norma delle leggi del 1872-73, assunse nella vita della Terza Repubblica una posizione morale eccezionale, profondamente diversa nei suoi caratteri eppure parallela a quella mantenuta dall'esercito tedesco nel Secondo Reich. La coscrizione militare obbligatoria, applicata con rigore, fornì effettivi cospicui rispetto alla popolazione francese, mentre il Parlamento accettò di buon grado bilanci militari molto elevati. Le forze armate francesi si mantennero così, durante tutto questo periodo, in condizioni non molto inferiori, per entità numerica e per potenza, a quelle dell'esercito tedesco.
L'umore patriottico e nazionalistico del popolo francese, alimentato dalla propaganda della Lega dei patrioti, e di altre organizzazioni come l'Associazione nazionale della Alsazia-Lorena, portò nel 1886 alla formazione del movimento boulangista (dal nome del le generale Boulanger, il ministro della guerra chiamato "Général Revanche"), nazionalistico e antitedesco, che univa a tali istanze di fondo un preciso sentimento monarchico, o meglio una più generica convinzione che la Repubblica in quanto tale non avesse forza sufficiente per di guidare la crociata nazionale.
Il generale Boulanger, sembrò per un momento indotto dalla popolarità di cui godeva a rovesciare la Repubblica, ma la sua esitazione all'ultimo momento, che lo indusse a fuggire nel Belgio quando sembrava già che il movimento potesse imporsi, portò alla sconfitta e alla dispersione dei suoi aderenti in sede elettorale, e a misure di «epurazione» del governo repubblicano nei confronti degli ufficiali monarchici (1889).

 

 

 

Il “secondo vittorianesimo”. La Russia di Alessandro II e Alessandro III

 

 

Il movimento patriottico-nazionalistico e il sentimento della revanche ebbero naturalmente un peso considerevole sulla politica estera francese.
Durante tutto questo periodo i numerosi ministeri che si succedettero al governo si trovarono di fronte al problema di come superare la posizione di isolamento internazionale in cui il Bismarck intendeva mantenere la Francia, il che costituiva un problema non di facile soluzione per diversi motivi:
 - l'Inghilterra, in un primo tempo contraria a qualsiasi intesa continentale, poi fu ostile alle iniziative coloniali francesi;
 - l'Austria divenne un cardine del sistema bismarckiano;
 - l'Italia era divisa dalla Francia dalle rivalità nel Mediterraneo;
 - la Russia, che avrebbe costituito per la Francia l'alleata più valida, era dal Bismarck tenuta legata alla Germania con i più sottili mezzi diplomatici.
Specialmente nel primo periodo della Repubblica la Francia fu impegnata nel non offrire alla Germania un motivo valido per attaccarla. Tale linea di condotta fu prudentemente tenuta dal Thiers, il quale, grazie alle risorse economiche e al patriottismo del popolo francese, che sottoscrisse rapidamente il prestito nazionale emesso dal governo per pagare l'indennità di guerra, riuscì a pagare i 5 miliardi di franchi di tale indennità, e quindi a ottenere la liberazione di tutto il territorio francese, fin dalla primavera del 1873, in anticipo sulle scadenze imposte dalla Germania.
Ad analoga prudenza si sarebbe ispirato il Gambetta, che pure era stato l'anima della resistenza nazionale nel 1870-71, mentre Jules Ferry nel decennio seguente, senza ripudiare lo spirito della revanche, pensò di approfittare della inclinazione del Bismarck ad appoggiare le iniziative francesi fuori d'Europa per impostare un grande programma di espansione imperialistica in Asia e in Africa.

 

L'Inghilterra del «secondo vittorianesimo»

 

I grandi mutamenti verificatisi nella situazione dell'Europa continentale e in particolare della Germania e della Francia, non ebbero ripercussioni altrettanto importanti in Inghilterra. Tuttavia, sia gli eventi continentali di quegli anni, sia gli eventi verificatisi circa nel medesimo tempo nell'Inghilterra stessa, giustificano l'affermazione che intorno al 1870 anche per la Gran Bretagna ebbe inizio una nuova epoca, il «secondo vittorianesimo» (1868-1901).
La storia della Gran Bretagna durante l'epoca bismarckiana è caratterizzata anzitutto dall'aumento e dalla maggior diffusione di quella prosperità economica che era stata uno dei tratti tipici del primo vittorianesimo (1837-68). Nel momento in cui la Germania afferma la sua preminenza europea con la vittoria sulla Francia, l'Inghilterra conserva ancora nell'economia mondiale quella preminenza che nell'ultimo decennio del secolo le verrà aspramente contesa da nuovi rivali, quali la stessa Germania e gli Stati Uniti.
Per ora essa è tuttavia la maggiore produttrice di carbone del mondo, e conserva pure una posizione di primato nell'industria metallurgica e tessile; è l'emporio dove affluiscono dagli altri continenti le materie prime e i prodotti coloniali che l'organizzazione commerciale inglese ridistribuisce negli altri stati europei; è il centro finanziario del mondo.
Dal 1846, ossia dalla abolizione del sistema protezionistico ad opera di sir Robert Peel, la prosperità economica è associata, nella mente degli Inglesi, al libero scambio, di cui soltanto alla fine di questo periodo, diminuita la superiorità industriale e commerciale britannica rispetto ad altri paesi, e trinceratisi tali paesi dietro barriere doganali spesso vantaggiose per le singole economie nazionali, si comincia a dubitare.
La prosperità economica britannica (a differenza che nel primo vittorianesimo, in cui era tornata a esclusivo vantaggio di una classe produttrice e commerciale) pur confermando la posizione preminente della borghesia, cominciò in questo periodo ad estendersi alla massa della popolazione. Incominciò ora quel processo di miglioramento delle condizioni economiche delle classi lavoratrici che doveva portare nei cinquant'anni precedenti l'inizio della prima guerra mondiale ad un aumento dei salari reali del 50%.

 

Più deciso del progresso delle condizioni economiche delle masse fu però quello verso la democrazia politica. Già nel 1867 una nuova riforma estese il diritto elettorale dalla classe media benestante, che l'aveva ottenuto nel 1832, alla piccola borghesia e al proletariato urbano. Una successiva legge nel 1884 (Representation of the people Act) estese tale diritto ai lavoratori agricoli portando ormai al suffragio universale maschile.
Già nel 1872 era stato introdotto il sistema del voto segreto attraverso il Ballot Act e nel 1885 le circoscrizioni elettorali vennero ridistribuite in modo che vi fosse un deputato alla Camera dei Comuni ogni 50.000 abitanti.
Con il 1885, quindi, l'Inghilterra aveva compiuto, senza scosse rivoluzionarie e con l'adesione di una parte considerevole e talora preminente del Partito conservatore, il processo di adesione alla democrazia politica. Delle rivendicazioni sostenute dal movimento ultraradicale dei Cartisti mezzo secolo prima, che erano allora parse essenzialmente rivoluzionarie, solo quella delle elezioni parlamentari annuali e quella dello stipendio ai deputati non erano divenute realtà.
I due partiti politici emersi nell'epoca immediatamente precedente dai vecchi partiti aristocratici whig e tory, ossia il Partito liberale e il Partito conservatore, guidati rispettivamente da William Gladstone e Benjamin Disraeli, si resero entrambi promotori di questo progresso verso la democrazia politica. Fu in effetti il governo conservatore del Disraeli (sostenitore dell'alleanza dell'aristocrazia con le masse popolari contro il capitalismo borghese, ossia della cosiddetta «democrazia tory») a introdurre la prima e più radicale riforma elettorale di questo periodo, quella del 1867.
Il primo ministero di William Gladstone, (1868-74), d'altra parte, promosse notevoli riforme nei settori più diversi (educativo, militare, tributario ecc.).

 

Un deciso contrasto caratterizzò invece la concezione e l'azione dei due partiti nel campo della politica estera e in quello della politica imperiale-coloniale.
I liberali, quando si trovarono al governo, seguirono, specie in un primo tempo, una politica di isolamento dalle questioni europee assai criticata dai conservatori, che sotto la guida del Disraeli erano per una politica di potenza e di prestigio. Quando, ad esempio, la Germania annetté l'Alsazia-Lorena, il Gladstone, allora primo ministro, e con lui la maggior parte dei liberali, concepirono verso di essa una decisa diffidenza, contrariati soprattutto dal fatto che con tale annessione non era stato rispettato il principio dell'autodecisione dei popoli, e il governo liberale britannico fu indotto a dedicarsi con ancor maggior convinzione ai problemi interni.
Il successivo ministero Disraeli (1874-81) si impegnò invece attivamente nella politica internazionale, sebbene il Disraeli tendesse particolarmente ad affermare la potenza della Gran Bretagna fuori d'Europa. Fu per sua iniziativa che il governo britannico, che a suo tempo aveva lasciato che la Francia costruisse e si assicurasse una posizione preminente nel funzionamento del canale di Suez, acquistò nel 1875 le azioni della Compagnia del Canale in possesso del Khedive d'Egitto, e che nel 1876 la regina Vittoria assunse il titolo, molto discusso in Inghilterra, di «Imperatrice dell'India».
Nella crisi d'Oriente del 1876-78 il Disraeli sostenne energicamente la Turchia, e il primo ministro conservatore, con il valido aiuto del ministro degli Esteri, lord Salisbury, guidò energicamente la politica britannica finché riuscì a salvare ancora una volta l'Impero ottomano al congresso di Berlino (giugno-luglio 1878), non senza però aver ottenuto un compenso dalla Turchia con la cessione di Cipro, considerata dall'Ammiragliato la migliore base navale nel Mediterraneo orientale.

 

L'altro grande settore in cui si ebbe un netto contrasto fra le concezioni e l'azione del partito liberale e quelle del partito conservatore, fu, abbiamo detto, il settore della espansione imperiale-coloniale. Per l'Inghilterra l'espansione coloniale e imperiale assunse in questo periodo un'importanza ben maggiore che per gli altri paesi europei, sia per i motivi ormai tradizionali della sua economia e della sua preminenza marittima mondiale, sia per la profonda rispondenza che i problemi imperiali-coloniali trovarono nell'opinione pubblica.
Nel 1872, quando il movimento imperialistico era agli inizi, il Disraeli ne inserì principi e aspirazioni nel programma del Partito conservatore, mentre il Gladstone, pur riconoscendo il valore di stretti legami economici e sentimentali con i territori d'oltremare colonizzati (ossia i futuri stati membri di Commonwealth), fu contrario all'espansione e la conquista di nuovi territori, la sottomissione e lo sfruttamento economico di popolazioni indigene. Peraltro, l'atteggiamento del Gladstone non fu seguito che da una parte del Partito liberale, o meglio una parte del Partito liberale (in cui figuravano personalità di primo piano quali lord Rosebery, successo al Gladstone come primo ministro, e il più brillante esponente del liberalismo radicale, Joseph Chamberlain) finì col deviare dalla linea di tradizionale antimperialismo seguita dal Gladstone.

 

Il problema che operò una grave frattura nel Partito liberale britannico fu però quello dell'Irlanda.
William Gladstone era dominato da una profonda esigenza morale di risolvere questo problema secolare che pesava gravemente sulla coscienza dei liberali inglesi. Nel 1869 aveva compiuto un primo passo facendo approvare una legge che aboliva la posizione di Chiesa di stato goduta dalla Chiesa anglicana in Irlanda, paese in maggioranza cattolico.
Nel 1870 una legge, ampliata e rafforzata undici anni dopo, provvide a regolare le condizioni dei fittavoli agricoli irlandesi, duramente sfruttati dai grandi proprietari terrieri. L'isola, tuttavia, continuava ad essere periodicamente sconvolta da agitazioni e tumulti, inaspriti dalle divergenze religiose fra la minoranza protestante, che aveva posizione sociale ed economica dominante, e la maggioranza cattolica, formata quasi esclusivamente da contadini poverissimi.
Sotto la guida di Charles Stewart Parnell si formò nel Parlamento britannico, dove convenivano anche i deputati irlandesi, un Partito nazionale irlandese di 86 deputati, che nell'intento di forzare il governo e concedere l'autonomia all'Irlanda, adottò una tattica ostruzionistica, fonte di tensione e di tumulto, che confinava con l'aperta ribellione.
In tale situazione il Gladstone si convinse che era venuto il momento di assicurare all'Irlanda la tanto desiderata autonomia (Home Rule).
Nel 1886 egli introdusse una legge a tal fine, che però venne bocciata dai conservatori e da una parte dei liberali, la quale, guidata da Joseph Chamberiain, non si sentì di abbandonare il controllo inglese sull'isola. L'autonomia irlandese sarebbe poi stata approvata dal Parlamento solo nel 1914 e applicata effettivamente solo dopo la prima guerra mondiale.
I secessionisti liberali costituirono il Partito unionista, destinato a collaborare e poi a fondersi con il Partito conservatore.

 

La Russia e la Questione d'Oriente

 

La storia della Russia durante questo periodo è caratterizzata in politica interna da un inasprimento del regime autocratico e in politica estera da una ripresa dell'espansionismo antiturco.
In entrambi i campi della politica russa si avverte l'influenza crescente del movimento panslavista.

 

Lo zar Alessandro II, dopo l'insurrezione polacca del 1863, aveva abbandonato la politica di riforme degli anni precedenti. Tale ritorno alla reazione non fece per altro che stimolare l'opposizione più radicale dei nihilisti e dei socialisti anarchici seguaci del Bakunin, portando alla formazione di gruppi di terroristi che malgrado l'efficienza della polizia segreta compirono con successo una serie di attentati politici, finché nel 1881 lo stesso zar venne assassinato.
Il successore Alessandro III, con l'aiuto di due abili ministri reazionari, il Pobiedonostsev e il Plehve, concentrò allora tutti gli sforzi del suo governo nell'eliminare qualsiasi tentativo di opposizione, centralizzando l'amministrazione con l'abolire quelle rimanenze di governo locale che Alessandro II aveva permesso, e proibendo qualsiasi forma di istruzione che non fosse impartita, con metodi tradizionali e senza tener conto dello sviluppo della società moderna fuori della Russia, dalla Chiesa ortodossa; dure condanne alla deportazione in Siberia colpivano quanti si opponevano anche in forma non rivoluzionaria alla politica zarista.
In tal modo Alessandro III e i suoi consiglieri riuscirono ad arrestare il naturale progresso politico-sociale-intellettuale del popolo russo, la cui grande massa (75 milioni nel 1871) era composta da contadini analfabeti, profondamente devoti allo zar («il Piccolo Padre») e alla religione cristiana ortodossa.

 

Legata agli intenti di questa politica autocratica e reazionaria fu l'opera di russificazione dell'Impero, ossia di soppressione o assimilazione forzata di gruppi nazionali in esso esistenti e di tutte le forme di culto che non fossero quella cristiana ortodossa, saldamente controllata dallo zar.
Tale opera venne favorita dalla diffusione nei ceti dirigenti intellettuali e politici del movimento panslavista, che sosteneva l'autocrazia zarista perché riteneva che avrebbe tenuto uniti gli Slavi dell'Impero e avrebbe pure reso possibile l'estensione dell'influenza russa a tutte le popolazioni slave dell'Europa orientale.
La politica di russificazione, iniziata sotto Alessandro III e continuata sotto Nicola II (1894-1917), portò all'imposizione della lingua russa in Polonia, alla persecuzione dei cattolici in Lituania, alla sostituzione dei funzionari locali con funzionari russi in Finlandia, e sopra tutto alla persecuzione degli Ebrei, sottoposti a una legislazione discriminatoria, mentre periodici tumulti popolari contro di essi (i pogróm) ne mettevano in pericolo la vita e i beni. La più grave manifestazione di tale persecuzione fu il massacro di Kishinec (1903) nel quale perdettero la vita migliaia di Ebrei.

 

Tenuta in tal modo separata dall'Europa da una sospettosa politica reazionaria intesa a impedire la penetrazione di idee e di costumi occidentali, la Russia conservò, in un periodo di rapidi progressi tecnici ed economici nell'Europa centro-occidentale, la sua economia quasi esclusivamente agricola, condotta con metodi arcaici e tradizionali. Ciò si verificò malgrado gli sforzi del più illuminato dei ministri di Alessandro III e di Nicola II, il ministro delle Finanze conte Witte, fautore di un più adeguato sviluppo delle comunicazioni ferroviarie, dell'introduzione in Russia di industrie moderne e di una legislazione sociale.
Negli ultimi due decenni del secolo si compirono tuttavia due notevoli trasformazioni: con l'aiuto di capitali e tecnici stranieri vennero create nella valle del Donez le prime industrie moderne e nel 1891 venne iniziata, con l'aiuto del capitale francese, la grande Ferrovia Transiberiana, la cui realizzazione, portata a termine nel 1905, mentre soddisfaceva esigenze di progresso economico e sociale, serviva pure agli intenti espansionistici dei panslavisti e alla politica accentratrice del governo zarista.

 

Nel campo della politica estera la Russia dedicò in questo periodo le sue energie all'espansione antiturca, con risultati tuttavia in gran parte negativi.
Nel 1870 il governo zarista, con il consenso di Bismarck, ben felice di ottenere in cambio la neutralità benevola della Russia nella guerra contro la Francia, denunciò l'articolo del trattato di Parigi del 1856 che le impediva di tenere navi da guerra nel Mar Nero.

 

Tale atto, che il governo liberale inglese si limitò a deplorare quale mezzo arbitrario di porre fine unilateralmente a un impegno internazionale, ma che poi accettò e sanzionò ufficialmente con le altre grandi potenze nella conferenza di Londra del 1871, costituì l'inizio di una ripresa dell'attività russa nella Questione d'Oriente.
Quando nel 1875 scoppiò nella Bosnia-Erzegovina un'insurrezione che si estese poi rapidamente ai territori bulgari, la Russia, si affrettò a sfruttare la situazione per indebolire l'Impero ottomano e rafforzare la propria influenza nella penisola balcanica.
La repressione turca dell'insurrezione bulgara permise allo zar di approfittare della reazione sentimentale da essa provocata in Europa per intervenire (primavera del 1877). Un esercito russo penetrò allora nei Balcani e, dopo aver occupato Sofia e Adrianopoli, giunse a Santo Stefano, di fronte a Costantinopoli, mentre un altro contingente attraversava il Caucaso e arrivava a Trebisonda.
Il sultano si piegò al trattato di Santo Stefano (3 marzo 1878) che stabiliva:
 - l'annessione da parte della Russia, nella parte asiatica dell'Impero ottomano, delle città di Kars, Batum e Bayazid e, nella parte europea, della Dobrugia;
 - ingrandimenti territoriali per la Serbia e per il Montenegro;
 - l'autonomia per la Bosnia-Erzegovina e l'indipendenza per la Romania (ossia gli ex Principati danubiani di Moldavia e Valacchia), già autonoma;
 - infine la formazione di un grande stato bulgaro dal Mar Nero all'Egeo.
Ciò avrebbe permesso alla Russia, secondo le potenze europee allarmate degli sviluppi della Questione d'Oriente, di controllare attraverso il grosso satellite bulgaro tutti i Balcani e di affacciarsi al Mediterraneo orientale.
La decisa opposizione al trattato dell'Inghilterra, appoggiata dall'Austria, indusse il governo russo — in cui il moderato cancelliere principe Gortchakov riprese il sopravvento sugli intransigenti elementi panslavisti — ad accettare la proposta di un congresso internazionale che rivedesse tutta la questione e stabilisse un nuovo assetto dei Balcani.
Il congresso, che si riunì a Berlino fra il 15 giugno e il 13 luglio 1878, quando in realtà le grandi potenze avevano già definito con accordi bilaterali i punti più importanti, modificò in misura notevolissima l'assetto della Questione d'Oriente previsto dal trattato di Santo Stefano:
 - la «Grande Bulgaria» venne sostituita da un principato autonomo di proporzioni più modeste che non si estendeva fino all'Egeo, ossia al Mediterraneo, e rimaneva sotto la sovranità del Sultano;
 - la Russia conservò, in Asia, Kars e Batum, ma non Bayazid, e ricevette dalla Romania la Bessarabia, mentre la Romania venne a sua volta compensata con la cessione del territorio bulgaro della Dobrugia;
 - gli aumenti territoriali della Serbia e del Montenegro vennero notevolmente ridotti, mentre vennero promessi vantaggi territoriali alla Grecia, lo stato balcanico che più risentiva l'influenza britannica e occidentale.

 

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I Balcani dopo il Congresso di Berlino

 

Lo scacco subito dalla Russia appariva ancora più grave se confrontato con i vantaggi ottenuti dalle sue avversarie, l'Inghilterra e l'Austria-Ungheria; infatti, mentre l'Inghilterra otteneva dalla Turchia la cessione di Cipro e stringeva con il governo ottomano un'alleanza che poneva il territorio asiatico dell'Impero sotto la protezione britannica, l'Austria-Ungheria ottenne l'ultimo grande successo internazionale nella storia dell'Impero, consistente nel diritto di amministrare la Bosnia-Erzegovina, senza però poter procedere all'annessione, nel diritto di mantenere una guarnigione nel Sangiaccato di Novi Bazar, che le permetteva di controllare la linea di sviluppo della sua espansione economica verso Salonicco, nella limitazione degli aumenti territoriali ottenuti dagli stati che costituivano i naturali oppositori della sua espansione nei Balcani, ossia la Serbia e il Montenegro.

 

Le iniziative della Russia ancora una volta avevano fatto sorgere contro di essa una coalizione europea. Questa volta però (diversamente rispetto alla precedente crisi del 1853-56) l'Austria-Ungheria, per opera del ministro degli esteri, il conte Andrassy, assumeva una posizione di preminenza e di controllo sulla parte occidentale della penisola balcanica che le avrebbe permesso di contrastare efficacemente ogni ulteriore pressione russa sulla Turchia europea. Ciò avvenne, in questo periodo, in Serbia, in Romania e infine nella stessa Bulgaria, dove la Russia vide svanire attraverso tumultuose vicende ed intrighi la posizione di controllo ottenuta durante l'occupazione del paese e apparentemente garantita dall'assunzione al trono del principe Alessandro di Battenberg, nipote dello zar Alessandro III. Ritiratosi nel 1886 il Battenberg, il trono di Bulgaria andò infatti, nel 1887, al principe Ferdinando di Sassonia Coburgo, candidato dell'Austria-Ungheria.

 

A meno di dieci anni di distanza dal trattato di Santo Stefano, che aveva trionfalmente sanzionato le aspirazioni dei panslavisti russi, la Russia si vedeva quindi privata del solo importante vantaggio che era riuscita a conservare al congresso di Berlino: dopo la Serbia e la Romania, anche la Bulgaria sfuggiva al suo controllo, e la sua politica di espansione nei Balcani pareva destinata al completo fallimento.

 

Gli altri stati europei

 

Oltre che nell'espansione nella penisola balcanica, ossia nel cosiddetto Drang nach Osten («spinta verso oriente»), la politica estera austro-ungarica ottenne risultati lusinghieri anche in altri settori. Nel 1879, infatti, l'Austria-Ungheria stabilì con la Germania l'alleanza che sarebbe rimasta un punto fermo della sua situazione internazionale e di tutta la situazione internazionale europea fino alla prima guerra mondiale; nel 1882, poi, aderendo alla Triplice Alleanza con la Germania e l'Italia, essa garantì i suoi confini, minacciati dalle rivendicazioni degli irredentisti italiani.
I successi nella politica estera, tuttavia, non potevano eliminare il problema della multinazionalità dello stato in un'epoca di affermazione delle nazionalità.
La suddivisione e l'associazione stabilita nel 1867 con la costituzione della Duplice Monarchia fra Austriaci e Ungheresi consentì senza dubbio ai governi di ciascuna delle due parti dello stato asburgico (Impero d'Auaria e Regno d'Ungheria) di tenere più facilmente sotto controllo le altre popolazioni (Boemi, Polacchi, Rumeni della Transilvania, Italiani, Iugoslavi). Tuttavia, Austriaci e Ungheresi, quantunque uniti, costituivano pur sempre una minoranza della popolazione complessiva della duplice Monarchia (35 milioni nel 1871) e la resistenza degli Slavi, soprattutto, dei Rumeni della Transilvania e degli Italiani del Trentino e di Trieste, costituiva un persistente ostacolo all'opera dello stato.
In tale complessa e difficile situazione, comunque, la monarchia asburgica, pur avendo perduto il prestigio e l'ascendente di un tempo, rappresentava l'unico valido elemento atto a tener insieme lo stato.

 

La Spagna fu probabilmente, per gran parte del secolo XIX il paese più inquieto e turbolento d'Europa.
Dopo la morte nel 1833 del re Ferdinando VII di Borbone, restaurato nel 1814, il paese era stato sconvolto dalla guerra civile fra costituzionali fautori della regina Isabella II e assolutisti, guidati dallo zio di Isabella, don Carlos di Borbone. Le grandi potenze erano intervenute in una forma o nell'altra nella contesa; nel 1834 lord Palmerston era riuscito a concludere una Quadruplice Alleanza fra l'Inghilterra, la Francia e i regimi costituzionali di Spagna e del Portogallo, intesa a sostenere tali regimi contro l'opposizione assolutistica interna ed esterna.
Nel 1868, però, Isabella fu infine costretta a fuggire in Francia, e l'offerta della corona spagnola al principe Leopoldo di Hohenzollern costituì due anni dopo la causa occasionale della guerra franco-prussiana.
Nel 1871 accettò e assunse la corona di Spagna un principe di Casa Savoia, Amedeo, duca d'Aosta, figlio secondogenito di Vittorio Emanuele II; la situazione tumultuosa del paese, tuttavia, lo indusse ad abdicare solo dopo due anni. Venne allora instaurata la repubblica, dalla durata solo biennale, fino alla restaurazione della dinastia borbonica nella persona del figlio di Isabella II, Alfonso XII, il quale, con l'aiuto dei due ministri Martinez Campos e Canovas del Castillo, riuscì a ristabilire l'ordine, introdusse una costituzione liberale che rimase in vigore fino alla caduta della monarchia nel 1931, e riassestò la situazione finanziaria.
Alfonso XII morì, però, soltanto ventottenne, nel 1885 e fino all'assunzione al trono del figlio postumo Alfonso XIII (1902) la reggenza venne tenuta dalla regina Maria Cristina d'Asburgo.
Il Canovas del Castillo, rimasto al governo, promosse il progresso civile del paese, introducendo un nuovo codice civile, modificando la procedura dei processi penali e istituendo il suffragio universale maschile (1890); questo periodo, tuttavia, si concluse con una disastrosa guerra con gli Stati Uniti (1898), che, oltre a pesare pericolosamente sulle finanze spagnole, fece perdere al paese Cuba, Porto Rico, le Filippine, Guam.
L'anno seguente la Spagna vendeva alla Germania le ultime rimanenze (a parte l'insediamento nel Marocco) del suo grande impero coloniale, consistente nelle Caroline e in poche altre isole.

 

In Portogallo il regno di Maria II (1834-53) fu turbato da intrighi, corruzione, illegalità e colpi di mano militari; lo stesso disordine si protrasse sotto i suoi successori, finché nel 1910 la rivoluzione abbatté la monarchia, allora rappresentata da Manoel II, e instaurò la repubblica.
A differenza della Spagna, il Portogallo riuscì tuttavia a conservare almeno una parte del suo impero coloniale.

 

Svezia-Norvegia, Danimarca, i Paesi Bassi (Olanda), il Belgio e la Svizzera proseguirono invece nella seconda metà del secolo XIX lungo un percorso di graduale e pacifico progresso verso la democrazia politica, accompagnato dall'estensione di un notevole benessere economico ai ceti meno elevati della popolazione.
L'evento più drammatico della storia di questi stati dopo la guerra della Danimarca contro la Prussia e l'Austria del 1864, fu la secessione della Norvegia dal Regno di Svezia e la sua costituzione in regno separato sotto un principe della famiglia reale danese, Haakon VII (1905); ma esso si compì senza spargimento di sangue, perché la Svezia accettò il fatto compiuto, e l'integrità territoriale e statale della Norvegia venne riconosciuta due anni dopo da una convenzione internazionale firmata dalla Gran Bretagna, dalla Francia, dalla Germania e dalla Russia.