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CLASSE   V   -   Sintesi di Storia (2)

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Terminologia storica

 

La prima fase della I guerra per l'indipendenza in Italia. La crisi del fronte rivoluzionario in Italia e in Europa

 

 

L'Italia e la prima fase della prima Guerra d'indipendenza

 

In seguito alla sollevazione siciliana del 12 gennaio, antecedente il febbraio parigino, le truppe borboniche avevano lasciato l'isola, dove veniva proclamato il ristabilimento della costituzione del 1812 e si formava un governo provvisorio, con l'adesione del Crispi e del La Farina.
Nel frattempo un movimento di maggiore consistenza andava delineandosi nell'Italia centro-settentrionale, sia nelle maggiori città del Granducato di Toscana e del Regno di Sardegna sia nei territori austriaci del Lombardo-Veneto. Già dal 1847 l'opposizione al dominio austriaco aveva qui preso la forma dell'ostruzionismo, come attraverso l'astensione dal fumo per danneggiare il monopolio del tabacco (gennaio 1848).

 

Sull'onda dei movimenti parigini, tuttavia, e alla notizia dell'insurrezione di Vienna, fra il 18 e il 22 marzo fu Milano a insorgere; la cittadinanza riuscì ad allontanare la guarnigione austriaca che, sotto il comando del maresciallo Radetzky, si ritirava nelle munite fortezze del Quadrilatero (Verona, Mantova, Peschiera e Legnago), mentre le truppe imperiali abbandonavano anche Venezia, insorta anch'essa contemporaneamente.
Il 25 marzo l'esercito piemontese varcava il Ticino e invadeva senza difficoltà la Lombardia; a Milano Carlo Alberto, di cui non si erano dimenticati i trascorsi di reazionario, trovava un governo provvisorio già costituito sotto la presidenza di Gabrio Casati, e se da un lato l'aristocrazia si mostrava interessata a concludere in fretta il conflitto e ad annettere la Lombardia al Piemonte, i membri del partito regionalista con a capo Carlo Cattaneo si mostravano diffidenti nei suoi confronti.
Nel frattempo anche a Venezia si era costituito un governo provvisorio per l'iniziativa di Daniele Manin, il quale aveva proclamato la restaurazione dell'antica Repubblica veneta, e nei ducati padani (Parma-Piacenza, Modena-Reggio) la popolazione insorta aveva costretto alla fuga i propri sovrani, aprendo però conflitti interni tra le diverse città.
Nel complesso, pertanto, nel Lombardo veneto si affermavano forti tendenze autonomistiche ed antipiemontesi, in opposizione alle quali la politica sabauda cercò di gestire le rivalità a proprio vantaggio.

 

Non diversamente incerto si presentava lo scenario del resto della penisola dove si era costituita una Lega di stati che avrebbe dovuto realizzare il programma federalistico neoguelfo. Una volta introdotte le istituzioni costituzionali, che avevano portato alla formazione di governi liberali, il granduca di Toscana, il papa e il re delle Due Sicilie dovettero aderire alla guerra d'indipendenza e inviarono dei contingenti nella pianura padana.
La partecipazione alla guerra era stata determinata dalla volontà dell'opinione liberale-nazionale impostasi nei diversi stati, ma la prospettiva di ingrandimenti territoriali per il Regno sabaudo, che avrebbero rotto l'equilibrio tra i diversi stati federati, costituirono un freno alla partecipazione. In particolare, il Granducato di Toscana, che si trovava immediatamente sul confine della zona di eventuale espansione del Regno di Sardegna, reagì annettendo Carrara; Pio IX, imbarazzato dalla sua posizione di sovrano italiano e di capo del cattolicesimo, finì per prendere partito per i suoi interessi di capo della Chiesa, avverso alla guerra, soprattutto contro una grande potenza cattolica come l'Austria (allocuzione del 29 aprile), ordinando il ritiro immediato delle truppe pontificie (che tuttavia rimasero sul campo di battaglia); Ferdinando II, cogliendo l'opportunità di un moto rivoluzionario scoppiato in Sicilia e che minacciava di spezzare l'integrità dello stato, attuò una dura repressione militare e abolì le istituzioni costituzionali ripristinando l'assolutismo e ritirandosi dal conflitto.

 

Il Piemonte si trovò dunque, di fatto, solo nel sostenere il peso delle operazioni che, per giunta, si svolgevano in zone in cui la mancata collaborazione delle autorità municipali lombarde ritardava le comunicazioni e gli approvvigionamenti. Per due mesi circa l'esercito piemontese riuscì a condurre con successo il conflitto, registrando vittorie a Goito, a Pastrengo e a Peschiera, dove cadeva la prima fortezza del Quadrilatero, ma il Radetzky, che nel frattempo aveva riorganizzato le sue forze riusciva a infliggere ai piemontesi la sconfitta di Custoza, il 23 luglio, dopo la quale i piemontesi erano costretti a ritirarsi oltre il Ticino.
Il 9 agosto generale Caneva di Salasco firmava un armistizio che imponeva al Piemonte di ritirarsi entro i confini del suo stato ed aveva così termine la prima fase della prima guerra per l'indipendenza italiana.

 

La rottura del fronte rivoluzionario italiano e la ripresa delle forze conservatrici in Europa

 

La ripresa militare austriaca era dovuta, quindi, all'efficienza tecnica dell'esercito austriaco, alle doti militari del Radetzky, all'incertezza nel comando manifestata da Carlo Alberto e, infine, alla mancanza di unione in campo italiano, dovuta alle mentalità regionalistiche o municipalistiche e anche alle divergenze politiche interne al fronte.
Tali divergenze, già presenti prima della guerra, deflagrarono nel momento in cui si trattò di decidere l'assetto politico dei territori conquistati dall'esercito piemontese; a ciò si aggiunse il fatto che le defezioni dalla guerra dei sovrani della penisola inflisse un colpo mortale all'ideale federalista neoguelfo, lasciando i liberali moderati, che avevano cercato l'alleanza con i principi vedendoli disposti ad assumere atteggiamenti di apertura costituzionale, del tutto privi di un orientamento e di fatto esautorati, con la conseguenza del rinforzarsi delle tendenze radicali e repubblicane che non potevano collaborare con la dinastia sabauda, intesa come conquistatrice ed espansionista.
Dopo la ritirata piemontese, comunque, le forze democratiche più radicali ebbero il sopravvento in alcune regioni, Toscana e Roma, mentre a Napoli, la loro esigua presenza favorì il ripristino del potere monarchico e poi alla reazione.

 

Napoli fu quindi la prima zona in cui la reazione prevalse, prima nel continente, poi anche nell'isola dove Ferdinando II con il bombardamento di Messina, poté riottenere il controllo e ristabilire la propria autorità su tutta la Sicilia.
Comunque, nella seconda metà del 1848 le forze conservatrici europee poterono riprendere il sopravvento, grazie, soprattutto alle divisioni interne dei vari fronti rivoluzionari, come nel caso italiano.

 

 

 

La restaurazione in Europa

 

 

In Francia, la “Seconda Repubblica” era stata caratterizzata dall'affermarsi accanto alle forze liberali delle forze socialiste, i membri delle quali, partecipando per la prima volta alla vita politica avevano ottenuto l'adozione di provvedimenti favorevoli alle classi lavoratrici, in particolare l'istituzione degli ateliers nationaux (“fabbriche nazionali”) che avrebbero dovuto dare lavoro, per iniziativa statale, ai disoccupati. La maggioranza della nuova Assemblea nazionale assunse però un atteggiamento ostile verso le iniziative socialiste, inducendo così gli elementi estremi ad organizzare manifestazioni di massa che avrebbero dovuto dare inizio a una nuova fase, più radicale della Rivoluzione di febbraio. Il tentativo, tuttavia, fallì e fra il 23 e il 27 giugno il ministro della guerra del governo repubblicano, generale Cavaignac, faceva reprimere le manifestazioni dalla guardia nazionale e dalle truppe, non senza violenti e sanguinosi scontri per le vie di Parigi.
La “Seconda Repubblica” iniziava, pertanto, con le giornate di giugno, una fase contrassegnata dal potere preminente di una democrazia borghese sospinta su posizioni conservatrici per il timore di radicali sovvertimenti sociali.
In tale situazione poté costituirsi un raggruppamento di forze monarchiche (legittimisti, orleanisti e bonapartisti) e cattoliche, cui si unirono anche forze socialiste, che portò all'elezione a Presidente, il 10 dicembre 1848, del principe Luigi Napoleone Bonaparte, figlio di Luigi re d'Olanda (fratello di Napoleone) e di Ortensia Beauharnais.

 

In Prussia le rivendicazioni dell'Assemblea costituente eletta al principio di aprile avevano spinto gli elementi conservatori a fondare un solido ed energico partito, di cui divenne l'anima Ottone di Bismarck, futuro realizzatore dell'unificazione tedesca. Il re Federico Guglielmo IV trovò in tale partito un'ottima base politica cui appoggiarsi fino al momento in cui la situazione interna ed europea non gli permise l'imposizione di una nuova costituzione (dicembre 1848), che negli anni successivi sarebbe stata modificata in senso conservatore e autoritario.

 

Per quanto concerne l'Impero d'Austria, l'agitazione radicale di Praga fu repressa già nel mese di giugno, ad opera del maresciallo Windischgrätz, mentre il controllo da parte del governo centrale non poteva essere ristabilito nei confronti del movimento nazionale ungherese; a Vienna, invece, venivano costrette a retrocedere le forze radicali che avevano rafforzato le loro posizioni e si costituiva, a fine ottobre, un nuovo governo imperiale sotto la guida dell'inflessibile principe di Schwarzenberg, che iniziò la sua opera di restaurazione del potere centrale e dello stato asburgico inducendo l'incapace imperatore Ferdinando I ad abdicare in favore del diciottenne arciduca Francesco Giuseppe (sul trono dal 1848 al 1916).
Nel novembre 1848, all'inizio del regno di Francesco Giuseppe e del governo dello Schwarzenberg, l'Impero d'Austria si era quindi ormai ripreso dalla crisi che l'aveva indebolito fra la primavera e l'autunno per l'opera concomitante dei movimenti nazionali sviluppatisi all'interno di esso. La ripresa era tuttavia parziale, perché l'Ungheria, tutt'altro che sottomessa, si avviava alla proclamazione dell'indipendenza, mentre nel settore italiano, benché il Lombardo-Veneto fosse tenuto saldamente sotto controllo militare dal maresciallo Radetzky e benché nella parte continentale del Regno delle Due Sicilie fosse avvenuta la restaurazione del regime assolutistico di Ferdinando II, in Toscana, a Roma e nello stesso Piemonte il movimento nazionale entrava in una nuova fase, caratterizzata dalla preminenza delle tendenze democratiche.

 

 

 

Le esperienze democratiche in Italia centrale e la conclusione del conflitto

 

 

Gli esperimenti democratici in Italia

 

Tali tendenze riuscirono a prevalere sopra tutto in Toscana, dove la posizione del granduca Leopoldo e dei moderati che costituivano la base politico-sociale del regime costituzionale, risultò molto indebolita dal fallimento dei progetti federalistici neoguelfi e dall'esito negativo della guerra per l'indipendenza.
Durante l'estate i governi moderati (Ridolfi e Capponi) poterono resistere alla pressione dei democratici, attivi soprattutto a Livorno, ma alla fine di ottobre il granduca fu costretto ad affidare il governo ai democratici Guerrazzi, tra i principali esponenti livornesi, e il Montanelli, professore dell'Università di Pisa e fautore della convocazione di una costituente italiana.
Il nuovo ministero, pur privo di una maggioranza democratica in Parlamento, portò avanti, benché in mezzo a disordini ed eccessi demagogici, il progetto relativo alla Costituente. Dal canto suo il granduca finì col sottrarsi con la fuga alla situazione, ormai insostenibile (7 febbraio 1849), mentre il supremo potere veniva assunto da un triunvirato (Guerrazzi, Montanelli e Manzoni).

 

Corso in parte analogo, fino al marzo 1849, seguirono gli eventi in Roma.
Dopo l'allocuzione del 29 aprile con cui Pio IX si era ritirato dalla guerra per l'indipendenza, era definitivamente caduto il mito del pontefice “nazionale”, mentre il ministero costituzionale presieduto prima dal Mamiani e poi dal Fabbri si sforzava inutilmente di superare gli ostacoli e le contraddizioni create dalla struttura gerarchica e assoluta della Chiesa, che resisteva ancora accanto alle nuove istituzioni costituzionali introdotte nello Stato pontificio nella primavera.
Pio IX affidò allora il governo a Pellegrino Rossi, liberale moderato, ambasciatore di Francia a Roma. Pellegrino Rossi però venne assassinato (15 novembre 1848) e la sua morte fu il primo episodio di una serie di disordini che si protrassero finché il Papa fu costretto ad accettare un governo democratico (Galletti); il 24 novembre, tuttavia, Pio IX fuggiva a Gaeta presso Ferdinando II di Borbone.
La fuga del pontefice preoccupò i governi e turbò i paesi cattolici d'Europa, ponendo su piano appunto europeo il problema di un intervento che valesse a ristabilire l'autorità del Santo Padre in Roma. La situazione agitata e confusa in cui venne a trovarsi la stessa città, non impedì comunque che vi si svolgessero le elezioni per un'Assemblea costituente, la quale riuscì ad assicurare un efficiente governo alla città. Dopo la proclamazione della Repubblica romana (9 febbraio), essa affidò il potere esecutivo a un triunivirato, formato dal Mazzini, dal Saffi e dall'Armellini.

 

In Sicilia, invece, l'elemento democratico non poté sostituirsi che in parte a quello moderato, esercitando solo nella seconda fase della rivoluzione un'influenza che non aveva potuto avere nel periodo fra il gennaio e il luglio 1848).

 

L'esito delle rivoluzioni italiane fu determinato comunque, anche in questo secondo periodo, dal corso degli eventi politici nel Regno di Sardegna. che portò alla ripresa della guerra per l'indipendenza e alla sua rapida e infelice conclusione nel marzo 1849.
Dimessosi, in seguito all'armistizio Salasco, il ministero presieduto dal milanese Casati, che si era costituito solo qualche giorno prima, il 27 luglio, seguì, fra la metà di agosto e la metà di dicembre, un periodo incerto. Francia e Inghilterra, malgrado la sconfitta militare piemontese, avevano acconsentito ad esercitare opera di mediazione fra il Regno di Sardegna e l'Impero d'Austria, con l'intento più o meno esplicito di ottenere che l'Austria cedesse la Lombardia, perdita della quale avrebbe potuto compensarsi con annessioni a oriente, nei territori iugoslavi dell'Impero turco.
Il governo repubblicano francese confermò le proprie inclinazioni con una risoluzione dell'Assemblea costituente di Parigi auspicante l'intervento francese nel conflitto austro-sardo, sospeso ma non risolto dall'armistizio Salasco. Il governo britannico, dal canto suo, riteneva che la costituzione di un “Regno dell'Alta Italia” a regime costituzionale e sufficientemente solido e vasto per impedire sia una preminenza francese che una preminenza austriaca nella Penisola, sarebbe tornato di vantaggio alla situazione generale italiana, all'equilibrio europeo e agli interessi inglesi.
Tuttavia, l'involuzione conservatrice della situazione interna francese negli ultimi mesi del 1848, la cautela con cui mostrò di voler agire, una volta eletto alla presidenza della Repubblica, il principe Luigi Napoleone, e il consolidamento della situazione interna austriaca dopo l'assunzione del potere da parte dello Schwarzenberg, resero vani gli sforzi della diplomazia piemontese.
La delusione e il disappunto per quanto i moderati non avevano saputo ottenere coi mezzi diplomatici e la suggestione degli eventi toscani e romani, dove i democratici si erano nel frattempo impadroniti del potere, portarono il 16 dicembre 1848 alla formazione di un ministero Gioberti, in cui prevalsero appunto gli elementi liberal-democratici.
Assunto il potere, Vincenzo Gioberti cercò di ridare al Piemonte la direzione del movimento nazionale (e offrì così al granduca di far ristabilire il suo potere costituzionale in Toscana dalle armi piemontesi) evitando nello stesso tempo di riprendere la guerra, cui il paese appariva del tutto impreparato. Questa sua politica valse per altro ad alienargli l'appoggio dei democratici, che, rafforzatasi dopo le elezioni del gennaio 1849, lo costrinsero a dimettersi.
Il ministero Chiodo-Rattazzi, costituito il 21 febbraio, si avviò quindi a quella ripresa della guerra che Carlo Alberto, incapace di controllare la situazione politica interna, giunse a concepire come la soluzione migliore delle incertezze del momento. Malgrado le precarie condizioni materiali e morali dell'esercito, e le esortazioni delle potenze occidentali a guardarsi dalle conseguenze di un simile atto, venne denunciato l'armistizio (12 marzo 1849).
Le operazioni militari, iniziate il 20, durarono meno di una settimana. Errori di generali e disorganizzazione dell'esercito, già duramente provato nella campagna dell'anno precedente, si risolsero nella battaglia campale di Novara con la piena vittoria del ben addestrato esercito austriaco del vecchio maresciallo Radetzky (23 marzo). La sera stessa della battaglia Carlo Alberto abdicava in favore del figlio primogenito Vittorio Emanuele e partiva per Oporto, in Portogallo, scegliendo la via dell'esilio volontario.

 

 

 

La Repubblica romana; il proclama di Moncalieri. Il riassetto della Germania

 

 

La Repubblica Romana

 

Con la sconfitta di Novara il destino della rivoluzione nazionale italiana apparve segnato.
Mentre in Sicilia le truppe di Ferdinando II di Borbone potevano procedere, senza più nessun ostacolo da parte delle potenze occidentali, alla riconquista dell'isola, conclusasi alla metà di maggio, in Toscana il Guerrazzi non riusciva a impedire il fallimento della rivoluzione democratica. Neppure l'assunzione della dittatura gli consentì di resistere all'opposizione dei moderati, che, nell'intento di salvare il regime costituzionale, con un colpo di stato lo fecero arrestare, offrendo al granduca di rientrare nel suo stato. Leopoldo II non si sentì per altro di riprendere la politica di aperture del 1847, fondata sul progetto di una progressiva instaurazione di un regime liberale, e si fece precedere da un contingente austriaco che ne ristabilì il potere assoluto (maggio 1849). Ciò indusse i moderati toscani all'adesione, nel corso del decennio seguente, alla soluzione “piemontese” e “sabauda” del problema italiano.

 

Diversamente si svilupparono gli eventi relativamente alla città di Roma. Il problema di ristabilirvi la persona e l'autorità del pontefice, era essenzialmente europeo, che interessava in particolar modo oltre l'Austria, intenzionata a ristabilire il suo pieno controllo sulla Penisola, anche altre potenze cattoliche come la Spagna e la Francia. Mentre gli Austriaci occupavano le Legazioni (maggio 1849), confluirono quindi verso il territorio romano truppe spagnole, napoletane e francesi (queste ultime sbarcarono a Civitavecchia, al comando del generale Oudinot il 24 aprile).
Fu la Francia, comunque, a rivendicare per sé il compito di risolvere la questione per importanti motivi sia di politica interna che di politica estera. Il principe presidente desiderava riconciliare Pio IX con i suoi sudditi cattolici, la futura base del suo potere. Inoltre, attuando la restaurazione papale, la Francia avrebbe impedito che tale compito venisse assolto dall'Austria, che avrebbe in tal modo potuto ristabilire anche in Roma la sua preminenza, come già aveva fatto in quasi tutta la Penisola.
L'attuazione di tale strategia francese venne tuttavia attuata maldestramente: in un primo tempo il principe presidente concluse con Mazzini un accordo secondo il quale la popolazione romana sarebbe stata libera di scegliere, con un plebiscito, fra la repubblica e la restaurazione del potere papale; dopo le elezioni tenute in Francia nel maggio 1849, tuttavia, stabilitasi in Parlamento una maggioranza cattolica, il presidente fu costretto ad attuare la restaurazione di Pio IX con la forza. Il generale Oudinot, che già alla fine di aprile era stato respinto verso il mare da Garibaldi, occupò di sorpresa il colle del Gianicolo (3 giugno). Terminata, con il 1° luglio, ogni resistenza della Repubblica Romana alle forze francesi, tutta la Penisola era ritornata alla situazione politico-territoriale antecedente alle rivoluzioni del 1848, salvo Venezia, ultima delle città del Lombardo Veneto a sostenere la resistenza che resistette, sotto la guida di Daniele Manin e di Guglielmo Pepe, fino al 24 agosto.

 

Il Piemonte costituzionale

 

Il ventinovenne Vittorio Emanuele II comprese quali prospettive si aprivano al paese e alla dinastia se avesse mantenuto il regime costituzionale e seguito una politica nazionale italiana.
Dopo la firma dell'armistizio di Vignale (24 marzo 1849), costituito temporaneamente (27 marzo) un nuovo ministero presieduto dal conservatore generale de Launay, Vittorio Emanuele ricostituì meno di due mesi dopo (21 maggio) il governo sotto la presidenza di Massimo D'Azeglio.
Tale governo, che rimase in carica fino all'avvento di Cavour alla fine del 1852, si mantenne fedele a un moderato costituzionalismo.
L'Azeglio, avvalendosi di uomini di sicura fede liberale, tra i quali il Cavour in qualità di ministro dell'Agricoltura e delle Finanze, si dedicò all'opera di ricostruzione e di sviluppo del Regno di Sardegna che portò al moderno Piemonte della fase decisiva dell'unificazione italiana.
Il primo atto importante compiuto da questo governo, da intendersi come atto di “liquidazione” dell'agitata situazione politica degli ultimi mesi del 1848 e dei primi mesi del 1849, oltre che come espressione della volontà di consolidare la situazione internazionale del Piemonte, fu l'emanazione del Proclama di Moncalieri (20 novembre 1849) con cui il Re, di fronte all'impossibilità del governo di ottenere dalla maggioranza democratica del Parlamento la ratifica del trattato di pace con l'Austria (firmato a Milano il 6 agosto 1849 sulla base della rinuncia del re di Sardegna ai territori annessi nel corso del conflitto e del pagamento di un'indennità di guerra), sciolta la Camera, si appellò direttamente agli elettori esortandoli a designare nuovi deputati più sensibili alle attuali difficoltà interne e internazionali del paese.
L'atto ottenne il risultato desiderato e la ratifica del trattato di pace da parte della nuova Camera (9 gennaio 1850) sottrasse la politica piemontese alla pesante ipoteca che l'Austria avrebbe altrimenti continuato a mantenere su di essa, conferendo la necessaria indipendenza alla posizione internazionale dello stato subalpino.

 

La “Seconda Restaurazione” in Europa

 

All'inizio del 1849 la situazione europea è caratterizzata dalla ripresa delle forze conservatrici in quasi tutto il continente.

 

In Francia l'elezione del principe Luigi Napoleone Bonaparte alla presidenza della Repubblica il 10 dicembre 1848 era stata il risultato di una coalizione di forze politiche eterogenee, fra le quali le forze clericali si erano affermate decisive. In linea generale si può dire che le sue tendenze liberali e la sua concezione delle nazionalità erano spesso soffocate dalle esigenze della sua ambizione personale.
Pur avendo dietro di sé un passato di cospiratore carbonaro (nei movimenti dell'Italia centrale del 1831) e di attivo bonapartista, nei primi anni della presidenza si appoggiò alle forze conservatrici, fino ad arrivare, il 2 dicembre 1851, con un colpo di stato, a prolungare il proprio mandato presidenziale, e ad essere poi proclamato, esattamente un anno dopo, Imperatore dei Francesi col nome di Napoleone III.

 

Data la nuova realtà francese e stante l'atteggiamento isolazionista dell'Inghilterra, le potenze conservatrici – Austria e Russia – poterono ristabilire a loro piacimento il controllo sull'Europa centro-orientale.
L'Austria ristabilì saldamente la sua preminenza sulla penisola italiana, pur non mostrandosi in grado, tuttavia, di risolvere da sola gli altri due gravi problemi ancora aperti, quello della rivoluzione ungherese, e quello della supremazia in Germania. Per l'uno e per l'altro problema, infatti, cercò l'appoggio dello zar di Russia.
Nel caso dell'Ungheria, Nicola I si rese disponibile per un vero e proprio aiuto armato, consistente in un esercito di 150.000 uomini inviato ad occupare, a richiesta dello Schwarzenberg, lo stato magiaro proclamatosi indipendente sotto un regime repubblicano, e a sconfiggerne l'esercito (13 agosto 1849), mentre il Kossuth e gli altri maggiori esponenti dell'Ungheria indipendente cercavano asilo in Inghilterra e in America dopo esser passati in territorio turco.
Per la questione della supremazia in Germania, invece, fu di decisiva importanza l'intervento diplomatico dello zar.
Il problema più importante che si dibatteva nel Parlamento di Francoforte era quello della struttura politico-costituzionale da dare alla nuova Germania che si voleva edificare, e dei suoi limiti territoriali. Il Parlamento e l'opinione pubblica tedesca si divisero, per quanto riguardava i confini del costituendo Reich, fra fautori di una soluzione senza l'Austria (“Piccoli Tedeschi”) e fautori di una soluzione che comprendesse l'Austria tedesca (“Grandi Tedeschi”).
Nel marzo 1849 i Piccoli Tedeschi riuscirono a far prevalere la loro tesi al Parlamento di Francoforte, che il 28 marzo offriva a Federico Guglielmo IV di Prussia la corona di “Imperatore dei Tedeschi”. Federico Guglielmo, però, benché sensibile all'ideale nazionale tedesca e desideroso di affermare il primato dello stato prussiano in Germania, era troppo devoto alle concezioni legittimistiche per accettare una designazione imperiale di origine “popolare”. Egli rifiutò quindi la corona offertagli dal Parlamento di Francoforte, ma nello stesso tempo il suo governo, approfittando delle difficoltà dell'Austria, impegnata nella questione ungherese, si adoperò energicamente per riformare a vantaggio della Prussia l'assetto politico del Reich.
Scioltosi, dopo il rifiuto del re di Prussia, il Parlamento di Francoforte, i cui ultimi membri democratici, convenuti a Stoccarda, vennero dispersi dalle stesse truppe prussiane, il governo di Berlino riprese il progetto di uno stato federale tedesco sotto direzione prussiana, creato però non dalla volontà popolare espressa attraverso il Parlamento di Francoforte, bensì dalla volontà e dalla collaborazione dei vari principi. A questo piano “prussiano” il principe di Schwarzenberg, che il 4 marzo 1849 aveva promulgato una nuova costituzione di carattere “centralista” al fine di controllare le forze centrifughe delle varie nazionalità dell'impero, contrappose il piano “austriaco” di una Grande Germania di cui avrebbero fatto parte anche i territori dell'Impero d'Austria, e in cui gli affari comuni sarebbero stati affidati a un Direttorio formato dai rappresentanti degli stati medi tedeschi, quegli stessi che, per garantire la loro indipendenza, avevano interesse a mantenere il dualismo austro-prussiano.
Il contrasto fra le tesi prussiana e austriaca si prolungò per più di un anno fino alla crisi del novembre 1850, quando la Prussia decise la mobilitazione parziale dell'esercito e l'Austria rispose con un ultimatum; in quella circostanza Nicola I assunse un atteggiamento sostanzialmente favorevole all'Austria, che poté quindi far prevalere, se non altro, almeno una soluzione che tornava di maggior vantaggio agli interessi di conservazione dello status quo dell'Impero asburgico. Di fronte a ciò la Prussia aderì al piano austriaco nella conferenza di Olmütz (29 novembre 1850) e all'inizio dell'anno seguente una conferenza generale degli stati membri della Confederazione tedesca, riunita a Dresda, ristabilì l'assetto federale nella forma esistita fra il 1815 e il 1848.

 

[Il “secondo” Impero britannico

 

Con l'espressione “secondo Impero britannico” si indica il complesso di territori rimasti sotto la sovranità della Corona inglese o occupati o colonizzati da Inglesi dopo la Rivoluzione americana.
La differenza fra il primo e il secondo Impero non sta soltanto nell'epoca, in cui l'uno e l'altro si costituì e si sviluppò, e nei territori facenti parte dell'uno e dell'altro (il nucleo fondamentale del primo Impero era costituito dalle tredici colonie americane), ma anche nelle concezioni e nelle istituzioni politiche, sociali, economiche e religiose che caratterizzarono l'uno e l'altro.
Come gli altri Imperi coloniali di potenze europee dell'età moderna – Spagna, Portogallo, Francia, Olanda – il primo Impero britannico era fondato dal punto di vista economico su un rigido sistema monopolistico a favore della madre patria, e dal punto di vista politico sul controllo del governo della madre patria, non così rigido e sistematico come quello prevalente negli altri imperi coloniali, ma certo solo in parte temperato dalle autonomie in terne delle colonie.
Il secondo Impero britannico venne invece sviluppandosi nei primi decenni del secolo XIX sotto l'influenza di correnti dì pensiero liberali e umanitarie dal triplice carattere: politico, etico-religioso, economico; e sebbene in molti casi ciò non impedisse azioni che contraddicevano a tali condizioni, si può dire che in complesso l'influenza di queste correnti riuscì ad imporsi, e a porre le basi per la formazione del Commonwealth delle Nazioni (britanniche), e contribuì d'altra parte in senso più generale al declino del colonialismo nel mondo contemporaneo.

 

Canadà, Australia, Nuova Zelanda, Sud Africa

 

Queste quattro colonie, situate in tre parti del mondo (America, Oceania, Africa), venute a far parte dell'Impero britannico attraverso circostanze storiche diverse, avevano una caratteristica comune, che doveva farne nell'epoca seguente i primi quattro membri del Commonwealth: le loro popolazioni, o almeno notevoli contingenti di esse, erano di origine europea.

 

La più antica di queste colonie era il Canadà, originariamente colonia francese, passato sotto sovranità britannica dopo la guerra dei Sette Anni (1763) e diviso nel 1791 in Canadà superiore (Ontario) abitato da coloni di origine britannica e Canadà inferiore (Quebec) abitato in grande maggioranza da popolazioni di origine francese.
Nel quarto decennio del secolo XIX, in corrispondenza con la “rivoluzione” liberale inglese, il governo di Londra si rese conto della necessità di una riforma istituzionale e amministrativa del Canadà. Mentre i lealisti canadesi e le truppe inglesi reprimevano un movimento insurrezionale diffusosi sopra tutto nel Canadà inferiore, venne nominato governatore, con l'incarico nonché di parificare la colonia, di studiare e proporre una riforma della sua amministrazione, lord Durham, uno degli esponenti più rappresentativi delle nuove concezioni liberali in materia coloniale (1838).
Il Durham redasse una famosa Relazione (Report), destinata a porre le basi del sistema di governo che sarebbe stato seguito e applicato poi nella costituzione degli stati membri del Commonwealth. Essa suggeriva:
 - che vi venisse stabilito un regime rappresentativo non più limitato dagli ampi poteri discrezionali del governatore, ma liberamente impostato sulla volontà della maggioranza parlamentare;
 - che, per porre termine alla situazione di disordine dei coloni francesi senza privarli dei diritti di cittadini canadesi, il Canadà superiore e il Canadà inferiore venissero riuniti in una sola colonia.
Questa seconda proposta, subito accettata dal governo di Londra, portò alla costituzione del “Canadà unito” (1840). La prima invece venne introdotta solo alcuni armi dopo dal nuovo governatore, lord Elgin, e, dopo un primo periodo di difficile assestamento, fece della colonia, alla metà del secolo XIX, uno stato costituzionale pacificamente e attivamente impegnato nello sfruttamento delle grandi risorse naturali del paese.
L'ultima tappa di questa evoluzione politico-costituzionale sarebbe stata compiuta nel 1867 con la costituzione del Dominion del Canadà.

 

La colonizzazione britannica in Australia era cominciata nel secolo XVIII.
Scoperta e in parte esplorata dal navigatore inglese Cook, l'Australia divenne nel 1787 una colonia penale. Alcuni anni dopo cominciarono però ad affluire anche i primi coloni liberi, mentre tuttavia le deportazioni di criminali continuarono, almeno in alcune parti dell'Australia, fino alla metà del secolo XIX.
Alla fine del terzo decennio del secolo XIX la popolazione inglese dell'Australia ammontava a poche decine di migliaia di abitanti, quattro quinti dei quali erano deportati o ex deportati. Il rapido sviluppo della colonia nei due decenni che seguirono fu dovuto sopra tutto a quello stesso gruppo di liberali che, attraverso l'opera di lord Durham, contribuì a risolvere i problemi politico-istituzionali del Canadà. Questo gruppo, in cui aveva posizione preminente oltre al Durham il Wakefield, studiò e curò l'applicazione di un organico programma di colonizzazione che avrebbe fatto prosperare l'Australia (e la Nuova Zelanda), alleviando nello stesso tempo con l'emigrazione il problema sociale in Inghilterra.
In pochi anni 16.000 Inglesi si trasferirono nelle nuove colonie australiane di Victoria e dell'Australia meridionale, sorte accanto alle tre preesistenti del Nuovo Galles del Sud, della Tasmania e dell'Australia occidentale.
A quest'epoca l'Australia, la cui popolazione era costituita ormai da liberi coloni nella proporzione del 99%, era anche divenuta una colonia assai prospera, grazie ai grandiosi progressi compiuti dall'allevamento degli ovini nelle aride e immense regioni interne: la lana australiana aveva preso il posto di quella spagnola e in buona parte di quella tedesca nelle forniture di materia prima per le industrie tessili inglesi.
La popolazione indigena dell'Australia, gli aborigeni, relegati nelle regioni dell'interno, rappresentavano uno dei più bassi gradi di evoluzione della specie umana, tale da non costituire un “problema” per la colonizzazione inglese. Nella Nuova Zelanda, invece, divenuta una base di balenieri inglesi alla fine del secolo XVIII, ma colonizzata soltanto a partire dal principio del secolo XIX il governo inglese proclamò la sovranità della Gran Bretagna nel 1840 e stabilì un trattato con i Maori, popolazione evoluta di origine polinesiana, che avrebbe dovuto garantire i possessi territoriali degli indigeni (circa 100.000 unità).
Alla metà del secolo la Nuova Zelanda, popolata da alcune decine di migliaia di coloni inglesi e suddivisa in sei province, a ciascuna delle quali venne concesso l'autogoverno (1852), era una colonia agricola che univa uno sviluppo economico assai promettente ad una particolare devozione e fedeltà alla madrepatria.

 

Non ebbe invece luogo, in quest'epoca, un'analoga evoluzione politico-costituzionale verso l'autogoverno nell'altra grande colonia “bianca” della Gran Bretagna, il Sud Africa.
La Colonia del Capo, nucleo della colonia sudafricana che tendeva ad espandersi verso il nord e il nord-est, era stata ceduta dall'Olanda (Regno dei Paesi Bassi) all'Inghilterra alla fine del periodo napoleonico contro il pagamento di 3 milioni di sterline.
I coloni olandesi stabiliti nell'Africa meridionale da generazioni, i Boeri, erano un'industriosa popolazione profondamente dominata dalla religiosità protestante, da lungo tempo priva di contatti culturali con l'Europa e poco avvezza alle forme di autogoverno tipiche della colonizzazione britannica dopo il 1832.
Negli anni immediatamente seguenti lo stabilimento della sovranità britannica i Boeri si trovarono naturalmente in maggioranza rispetto ai coloni che cominciavano ad affluire dall'Inghilterra. Venne così a crearsi una situazione tesa fra le due popolazioni “bianche“ del Sud Africa, aggravata nel 1833 dall'abolizione della schiavitù da parte del governo di Londra, in virtù della quale gli agricoltori e gli allevatori boeri rimanevano privi di una mano d'opera servile quanto mai utile, contro un indennizzo ritenuto del tutto inadeguato.
I Boeri iniziarono, allora, una lenta migrazione che li portò dapprima nel Natal e poi, quando questo territorio venne annesso dall'Inghilterra (1842), in quelle che divennero, per loro iniziativa, le repubbliche indipendenti del Transvaal e dello Stato Libero d'Orango, riconosciute dall'Inghilterra rispettivamente nella convenzione del Sand Riter (1852) e nella convenzione di Bloemfontein (1854).
Un problema irrisolto, quello della cospicua popolazione indigena e delle tribù selvagge che premevano sulle mal difese frontiere delle colonie sudafricane non era però stato risolto; esso contribuì in modo essenziale a stabilire un tradizione di rancore e di ostilità fra Boeri e Inglesi, mantenendo la colonia in una situazione di tensione e di inquietudine, impedendo l'introduzione, a quest'epoca, di un regime politico autonomo analogo a quello già instaurato nelle altre colonie britanniche abitate da popolazioni di origine europea.

 

L'India

 

Un problema a sé, nell'evoluzione dell'Impero britannico, è quello dell'India.
Nel 1828, con il governatorato di lord Bentinck, ebbe inizio o un'opera preliminare di riforme sociali e politiche, determinata sia dalla pressione del movimento liberale-umanitario in Inghilterra, sia dalle considerazioni opportunistiche dei dirigenti della Compagnia delle Indie (East India Company), che in vista della prossima scadenza (1833) della concessione governativa che affidava alla compagnia l'amministrazione dell'India, desideravano presentare al Parlamento britannico risultati finanziari, politici e sociali positivi.
Nel 1833 la Compagnia delle Indie ricevette una nuova concessione, che rifletteva i nuovi criteri di amministrazione coloniale, a cominciare dall'eliminazione completa di qualsiasi forma monopolistica non solo verso i cittadini inglesi, ma anche verso gli stranieri. La Carta del 1833 stabiliva:
 - l'unificazione del governo, anche se i principi indigeni rimanevano controllati comunque, in genere, da un residente britannico;
 - la definizione e l'introduzione di un nuovo codice per tutta l'India, fondato sulle leggi e i costumi indiani e non inglesi;
 - l'adeguato impiego di Indiani nell'amministrazione del paese;
 - un sistema di istruzione ispirato ai criteri europei.
Il programma stabilito nella nuova Carta della Compagnia delle Indie cominciò ad essere applicato nello stesso decennio 1830-40, affrettando il processo di modernizzazione della società indiana, col liberarla, anzitutto, dai costumi più barbari, legati in genere dalla tradizione religiosa.
Se il decennio 1830-40 fu un periodo di pace e di riforme, quello che seguì vide nuovamente l'immenso paese in preda alla guerra. A determinarla fu in parte una causa estranea alla situazione interna indiana, e cioè la preoccupazione dell'Inghilterra di premunirsi contro l'espansione russa nel Turkestan, che poteva costituire una minaccia per l'India. Il governo di Londra, e in particolare lord Palmerston, intese stabilire un più sicuro controllo sull'Afganistan insediandovi un emiro filo-inglese, ma le tribù afgane reagirono a tale imposizione e dopo aver ucciso il residente inglese annientarono il contingente militare britannico incaricato di sostenere il nuovo regime.
Ciò costituì un grave colpo per il prestigio imperiale dell'Inghilterra, che si vide in seguito impegnata a ristabilire il suo controllo sull'Afganistan con maggiori forze. Nel frattempo un'altra e più grande tribù guerriera, i Sikhs del Pungiab, tentò di approfittare della crisi militare britannica.
Soltanto dopo il ristabilimento della situazione nell'Afganistan, conclusasi con l'imposizione di un protettorato che doveva servire a impedire la penetrazione russa, i Sikhs poterono essere affrontati e sconfitti (battaglia di Gujerat, 1849), e un'altra grande regione, il Pungiab, venne a far parte dell'India britannica. Questa, alla metà del secolo XIX, accresciuta dell'intera valle dell'Indo, veniva a comprendere tutta la penisola fino all'Himalaja e alle aspre regioni della frontiera di Nord-Ovest.
L'epoca della Compagnia delle Indie tuttavia si avviava al tramonto. Di lì a pochi anni una violenta e sanguinosa insurrezione delle truppe indiane (1857) indusse il governo britannico ad assumere il controllo diretto dell'India, che divenne un possedimento della Corona (1858).

 

L'espansione delle altre potenze europee

 

Nei primi decenni del secolo XIX il movimento rivoluzionario portò al crollo dell'Impero coloniale spagnolo e alla formazione di una ventina di stati indipendenti nella America centro-meridionale.

 

La costituzione della vastissima colonia portoghese del Brasile in stato indipendente segnò pure un mutamento cospicuo per la storia del Portogallo, la prima potenza coloniale (in ordine di tempo) dell'età moderna.

 

Conseguenze più limitate ebbe per l'Olanda la perdita del Capo e della Guiana, sia perché queste colonie rimasero tali sotto la sovranità di un'altra potenza europea, l'Inghilterra, sia perché l'Olanda aveva i suoi più ricchi possedimenti coloniali nell'Asia sud-orientale.

 

La Francia, dopo le perdite in campo coloniale subite nel secolo XVIII e la caduta dell'Impero napoleonico, poté ricostruire durante il corso del secolo XIX un impero coloniale che alla vigilia della prima guerra mondiale era inferiore, per estensione e popolazione, soltanto all'Impero britannico. Diversamente dalla maggior parte delle iniziative coloniali inglesi, le iniziative francesi furono prevalentemente determinate da considerazioni di grandezza e di prestigio nazionale e non di rado furono strettamente legate – come nel caso dell'impresa algerina di Carlo X e nel caso delle imprese coloniali del Secondo Impero – alla situazione politica interna francese: l'impresa coloniale assumeva la funzione di distrarre anzitutto l'attenzione dei Francesi dai problemi interni e contribuiva al prestigio e al rafforzamento politico del regime esistente.
In questa prima metà del secolo XIX le iniziative coloniali francesi si limitarono comunque all'Algeria e ad alcuni arcipelaghi del Pacifico. L'insediamento francese in Algeria, che avrebbe portato, alla metà del secolo XX, ad uno dei più difficili e complessi problemi di liquidazione del colonialismo, ebbe inizio nel 1830. Carlo X decise l'impresa per conferire prestigio e rafforzare la monarchia nel momento in cui si apprestava a instaurare un regime assoluto; il suo intento non era peraltro quello di compiere un'occupazione stabile di Algeri, né tantomeno del territorio algerino, ma di infliggere una dura lezione ai pirati barbareschi che turbavano il traffico nel Mediterraneo e che avevano la loro base principale appunto ad Algeri.
Caduto Carlo X, la Monarchia di luglio dapprima decise di mantenere l'occupazione di Algeri, poi, soprattutto per garantire la sicurezza della città e della regione costiera, procedette all'occupazione dei territori dell'interno.
La prima fase di questo programma, che peraltro non venne eseguito  con sistematicità, si concluse cori la conquista di Costantina (1837), ma solo dieci anni più tardi la resistenza delle tribù arabe dell'interno sarebbe stata piegata e l'Algeria avrebbe potuto considerarsi colonia francese.

 

L'espansione della Russia si volse naturalmente verso l'Asia seguendo una direttiva ormai secolare.
Nell'età della Restaurazione Alessandro I, nei suoi ambiziosi progetti di opposizione al predominio marittimo mondiale dell'Inghilterra, spinse le iniziative russe dalla Siberia orientale e dall'Alaska, dove la Russia aveva già costituito delle basi commerciali, verso sud, lungo la costa americana. La Compagnia russo-americana fondata nel 1799, che aveva il proprio maggior centro a Sitka, nell'Alaska, nel 1816 stabilì una base commerciale nella baia di Bodega in California. Tale espansione, tuttavia, si arrestò ben presto e, sotto la pressione politico-economica degli Stati Uniti, subì un regresso, mentre la Russia abbandonava ogni pretesa sui territori e sulle acque a sud dell'Alaska e giungeva a cedere anche questa regione agli Stati Uniti, nel 1867, contro il pagamento di 7.200.000 dollari.
Con lo zar Nicola I (1825-1855), invece, procedette e si intensificò la penetrazione nell'Asia centrale, ossia nel Turkestan, determinata dal desiderio di esercitare una pressione sull'Inghilterra minacciando l'India britannica.
Nel 1834 la Russia stabilì una sorta di protettorato sulla Persia, che essa incoraggiò ad occupare Herat, nell'Afganistan occidentale (1837). Fu proprio in questo momento l'Inghilterra, preoccupata di stabilire uno stato cuscinetto fra l'India e la zona d'influenza russa decise di imporre all'Afganistan un emiro anglofilo (1838), suscitando la reazione xenofoba delle tribù afgane.
L'occupazione russa del Turkestan, compiuta contemporaneamente alla politica di penetrazione in Persia, portò i presidi militari russi al confine settentrionale dell'Afganistan. Essa rimase comunque, in questo periodo, un'occupazione puramente militare, senza portare ad un'effettiva colonizzazione.
D'altro lato, dopo il ristabilimento dell'influenza inglese sull'Afganistan, la situazione politico-strategica sarebbe rimasta invariata fino al penultimo decennio del secolo, quando la Russia, esteso e consolidato il proprio controllo politico ed economico sull'Asia orientale del nord, avrebbe ripreso ad esercitare la propria pressione sulla frontiera di Nord-Ovest dell'India britannica.

 

L'Estremo Oriente

 

Nei decenni centrali del secolo XIX si verificò l'apertura agli occidentali – europei e nordamericani – dei paesi dell'Estremo Oriente, che da secoli mantenevano un atteggiamento di diffidente isolamento, e quindi l'inizio di un processo di trasformazione economica, sociale e politica.
L'immenso Impero cinese, con una popolazione approssimativa, in questo periodo, di 300 milioni di abitanti, era in netta decadenza. La dinastia mancese, che regnava a Pechino dalla metà del secolo XVII, era minacciata dall'azione di società segrete che provocavano periodiche rivolte in questa o in quella regione dell'impero, e non avendo né la capacità né l'energia per ristabilire un effettivo controllo sull'amministrazione del paese, si atteneva ad una rigida politica di opposizione e di miope repressione di tutte le forze che potevano pregiudicare lo status quo. Fra queste erano anche quelle rappresentate dalle iniziative commerciali degli occidentali, in primo luogo degli Inglesi, in posizione di gran lunga preminente rispetto a Francesi, Olandesi e Americani, nell'unico porto commerciale di Canton, l'unico aperto dalle autorità cinesi al commercio estero.
Il commercio inglese con la Cina era rimasto fino al 1833 sotto il monopolio della Compagnia delle Indie. Rinnovando in quell'anno la Carta della Compagnia, il governo britannico le sottrasse tale monopolio, rese libero il commercio con la Cina e inviò un proprio rappresentante a Canton con l'incarico di intensificare e ampliare i rapporti economici con l'Impero cinese. Ciò che soprattutto premeva al governo di Londra, sollecitato dagli industriali del Lancashire, era di poter aprire il mercato cinese ai prodotti cotonieri inglesi, ma l'opera del rappresentante britannico a Canton venne ostacolata ostinatamente dal governo imperiale cinese, che non voleva stabilire rapporti diretti con le potenze estere né consentiva ad esse di avere rapporti economici con i Cinesi se non attraverso una interessata e corrotta associazione di mercanti di Canton, il Co-Hong.
La tensione si aggravò e infine nel 1839 il governo cinese, per fermare il commercio dell'oppio che si svolgeva da anni illegalmente, perché l'importazione in Cina ne era proibita, non disponendo delle forze navali per fermare le navi sospettate di contrabbando prima che scaricassero la merce nella zona commerciale britannica, fece requisire tutti i depositi dei mercanti inglesi a Canton e non revocò la misura finché non ebbe ritrovato e confiscato la merce di contrabbando.
Da questo incidente nacque la cosiddetta “guerra dell'oppio”, condotta dall'Inghilterra per aprire la Cina al commercio britannico in genere, e in primo luogo ai prodotti cotonieri. Le operazioni militari rivelarono subito l'incapacità della Cina di difendersi, sul mare, dalla squadra navale britannica d'Estremo Oriente, e sullo stesso territorio cinese dal piccolo corpo di spedizione sbarcato dagli Inglesi nella zona dello Yang-Tse-Kiang. Dopo la vittoria di Ning-po (marzo 1842), la Gran Bretagna ottenne con il trattato di pace di Nanchino (29 agosto 1842) i vantaggi desiderati dai suoi ambienti commerciali e industriali:
 - l'apertura di altri quattro porti (oltre a Canton) nella Cina centro-meridionale, fra cui Shangai, nei quali i mercanti inglesi avrebbero potuto stabilire la loro residenza e in cui essi sarebbero stati sottoposti, in materia penale, ai loro tribunali consolari;
 - il diritto di stabilire rapporti commerciali diretti con singoli cinesi invece di passare, come prima, attraverso il Co-Hong;
 - la riduzione dei diritti doganali al 5% circa del valore delle merci importate;
 - la cessione di una piccola zona intorno all'isola di Hong Kong all'estremità meridionale della Cina, che, quale colonia della Corona britannica sarebbe divenuta un grande porta commerciale, ma anche una grande base navale (questa clausola assumeva significato politico-strategico, oltre che economico-commerciale).
Con il trattato di Nanchino si apriva una nuova era per l'Asia orientale, in quanto l'iniziativa inglese incoraggiò le altre grandi potenze e affrettò il processo di deterioramento oppure di trasformazione delle strutture politiche,sociali ed economiche dei due maggiori stati dell'estremo oriente, l'Impero cinese e l'Impero giapponese.
Nel 1844, infatti, Francia e Stati Uniti ottennero condizioni analoghe a quelle ottenute dall'Inghilterra dal governo cinese, che sperava di vedere nascere una concorrenza di contrasto nei confronti degli Inglesi. Le conseguenze dell'apertura, sintetizzabili in un generale impoverimento economico, culturale e sociale, provocarono un vivo sentimento di opposizione agli occidentali e sopra tutto agli Inglesi, che la stessa dinastia mancese parve far proprio con l'avvento dell'imperatore Hien-Fong nel 1850. Nonostante le iniziative del nuovo imperatore, tuttavia, l'anno seguente scoppiò e si estese a tutta la Cina centro-meridionale un vasto movimento rivoluzionario, quello dei Taiping, che sconvolse il paese per quasi quindici anni, permettendo agli occidentali una penetrazione ancora più invasiva.
Nel 1854 l'Inghilterra e la Francia, alleate nella guerra di Crimea, si accordarono per esercitare una “pressione armata” sul governo cinese; nel 1856, due incidenti, l'uccisione di un missionario francese e l'arresto dell'equipaggio di una nave mercantile inglese, indussero le due potenze a imporre al governo cinese un nuovo trattato.
La resistenza della Cina (1858) provocò un'effettiva spedizione militare franco-inglese, che occupò Pechino. Il trattato di Pechino (25 ottobre 1860) definì le nuove condizioni delle potenze occidentali:
 - apertura di undici nuovi porti marittimi e fluviali, fra cui Tien-Tsin e Nanchino;
 - autorizzazione a risalire un tratto dello Yang-Tse;
 - diritto per gli stranieri di viaggiare nell'interno della Cina e per i missionari anche di stabilirvi la loro residenza;
 - estensione della giurisdizione dei tribunali consolari dal campo penale a quello civile;
 - costituzione di rappresentanze diplomatiche a Pechino.

 

Negli stessi anni in cui l'Inghilterra e la Francia gli Stati Uniti e la Russia rivolgevano la loro attenzione all'Impero giapponese.
Questo era cristallizzato, come l'Impero cinese, su forme sociali e politiche secolari. Alla metà del secolo XIX il paese aveva ancora una struttura feudale consistente in un imperatore, quasi trecento famiglie dell'alta nobiltà terriera e circa cinquecentomila piccoli nobili di tradizioni squisitamente militari, i samurai. Peraltro, sotto questa struttura feudale si erano delineate aggregazioni economico-sociali che, di lì a pochi decenni, avrebbero contribuito alla trasformazione e all'occidentalizzazione del Giappone: una classe di contadini abbienti e una classe di artigiani e di commercianti riuniti in potenti e ricche corporazioni.
Nuove correnti di pensiero, poi, contribuirono a minare le strutture politico-sociali esistenti. Una di esse si rifaceva alle antiche tradizioni filosofiche e religiose dei Giappone per rivendicare, in campo politico, un più rigoroso e assoluto controllo del potere da parte dell'imperatore; un'altra si ispirava alla civiltà europea, e nell'unico porto parzialmente aperto al commercio occidentale (sopra tutto a quello olandese), Nagasaki, ne studiava i risultati tecnici e politici.
Tanto gli Stati Uniti quanto la Russia dimostrarono particolare interesse a stabilire rapporti con il Giappone alla metà del secolo, quando gli Stati Uniti dopo la vittoria sul Messico estesero la loro sovranità fino alla costa californiana del Pacifico, mentre la Russia, sotto l'impulso dell'energico governatore della Siberia, Muraviev, stabilì un porto militare sul Pacifico a Petropavslosk e occupò la foce dell'Amur.
Data la resistenza giapponese a qualsiasi offerta di negoziati, i due governi decisero quasi contemporaneamente l'intervento armato (1851). Gli Americani giunsero per primi in Giappone con una squadra navale (1853), di fronte alla quale il Giappone cedette e con il trattato di Kanawaga (31 marzo 1854) accordando agli Americani il diritto dì fare scalo, di risiedere e di vendere e acquistare merci in due porti d'importanza secondaria. Quattro anni dopo tali disposizioni vennero ampliate: furono aperti altri cinque porti, fra cui Yokohama; gli Americani, poi, ottennero il diritto di stabilire rapporti diretti con la popolazione, di essere giudicati da tribunali consolari, di stabilire una rappresentanza diplomatica presso il governo giapponese.
L'Inghilterra, la Russia, la Francia e l'Olanda ottengono convenzioni analoghe.
In quattro anni, senza tentare di opporre alcuna resistenza armata, il Giappone aveva quindi abbandonato la politica d'isolamento che seguiva da due secoli.

 

Le conseguenze dell'apertura della Cina si fecero presto sentire nel Pacifico.
La potenza che tradizionalmente manteneva una posizione preminente in questa zona era la Spagna, specie per il possesso delle Filippine. Ma essa non possedeva ormai più le forze per opporsi all'insediamento delle altre potenze europee e degli Stati Uniti negli arcipelaghi. Dopo il 1842, la Francia occupava Tahiti e le altre isole della Società; gli Stati Uniti, che già avevano notevoli interessi economici nelle Hawai, si opposero a che la Francia o l'Inghilterra vi stabilissero il loro controllo politico, ma non occuparono l'arcipelago, limitandosi a intensificare le attività economiche, consistenti sopra tutto nelle grandi piantagioni di frutti tropicali.]

 

 

 

La questione d'Oriente. Le crisi egiziane e il trattato di Unkiar Skelessi

 

 

La Questione d'Oriente dal trattato di Adrianopoli alla Convenzione degli Stretti (1829-1841)

 

Nell'età della Restaurazione (1815-30) i principi di conservazione dello status quo europeo sostenuti dalla Santa Alleanza non si applicarono alla parte d'Europa che si trovava sotto il dominio turco.
In quell'epoca l'Impero ottomano, in fase di grave decadenza interna ed esposto alla pressione della Russia, dopo aver visto costituirsi entro i suoi confini il Principato autonomo di Serbia (1815), dovette cedere una parte dei suoi territori europei perché venisse costituito il Regno indipendente di Grecia, mentre il trattato di Adrianopoli gli aveva imposto l'autonomia dei Principati danubiani di Moldavia e Valacchia (1829) posti sotto la “garanzia”, cioè in effetti il controllo della Russia. Da allora in poi il complesso di problemi portati dalla decadenza dell'Impero turco e dai contrastanti interessi delle grandi potenze, ossia la Questione d'Oriente, diventa uno degli aspetti più importanti della politica europea e tale rimane fino alla prima guerra mondiale, quando lo stato ottomano infine soccombe.

 

La Questione d'Oriente si presenta sotto tre aspetti principali strettamente congiunti:
1) decadenza del dominio turco e movimenti nazionali nella penisola balcanica;
2) assetto giuridico internazionale degli stretti dei Dardanelli e del Bosforo, che collegano il Mediterraneo con il Mar Nero;
3) decadenza del dominio turco, che nominalmente si estende su tutta l'Africa settentrionale e nei paesi del Mediterraneo orientale dall'Egitto alla Siria.
I fattori tendenzialmente costanti della Questione d'Oriente durante il secolo XIX sono:
 - la politica contraria all'Impero ottomano della Russia, che generalmente, sia dai movimenti nazionali slavi e cristiano-ortodossi della penisola balcanica, sia per l'eventuale possibilità di accesso al Mediterraneo attraverso gli Stretti e di espansione nella Turchia asiatica dalla frontiera del Caucaso, ha tutto da guadagnare da un indebolimento e anche da un crollo dell'Impero ottomano;
 - la politica favorevole all'Impero ottomano dell'Inghilterra (appoggiata spesso dall'Austria), la quale vede nella conservazione del pur decadente organismo statale turco il mezzo per contenere l'espansione russa nei Balcani, nel Mediterraneo orientale e nel Medio Oriente.

 

Per più di un decennio, fino al 1841, la Questione d'Oriente subirà l'influenza delle iniziative di Mehemet Alì, pascià d'Egitto.
Questo turco della penisola balcanica era divenuto pascià d'Egitto nell'epoca napoleonica. Per venti anni, benché vassallo del Sultano, aveva operato di fatto in condizioni di piena indipendenza, trasformando l'Egitto in un paese economicamente relativamente moderno ed efficiente. Un'avveduta e spregiudicata politica economica e finanziaria gli aveva dato i mezzi per creare una flotta e un esercito di notevole entità e addestramento, strumenti principali di una politica espansionistica che fra il 1820 e il 1822 l'aveva portato a conquistare il Sudan e ad occupare Creta, mentre nel 1825 un esercito egiziano aveva aiutato in modo decisivo il Sultano a reprimere la rivoluzione greca di Morea e aveva in tal modo riaffermato la potenza di Mehemet Alì e la sua posizione a un livello pari a quello del sovrano di Costantinopoli.
Benché nel 1827 gran parte della flotta egiziana fosse andata distrutta a Navarino e la Morea fosse stata poi abbandonata sotto la minaccia di un'azione franco-anglo-russa, al principio del quarto decennio del secolo l'Egitto aveva di nuovo consolidato le sue forze e si apprestava a lanciare l'attacco contro lo stesso Sultano di Costantinopoli. Infatti in due successive riprese, nel 1832-33 e nel 1839, Mehemet Alì, non contento di godere di fatto di una completa indipendenza, estese il proprio dominio fino alla Siria, minacciò di stabilire il suo controllo sull'Anatolia e di conquistare la stessa capitale dell'impero, con l'ambizione di salire egli stesso sul trono di Costantinopoli.
Nell'uno e nell'altro caso, però, l'impresa del pascià d'Egitto viene arrestata dall'intervento prima della Russia e poi dell'Inghilterra, le quali approfittarono per sanzionare con accordi internazionali l'influenza ottenuta.

 

Al principio del 1833 lo zar fece sbarcare un corpo di spedizione russo a Costantinopoli, inducendo Mehemet Alì ad arrestare la sua marcia vittoriosa e poi a ripiegare. Né l'Inghilterra né l'Austria intervennero in quel caso a ostacolare la stipulazione del trattato russo-turco di Unkiar Skelessi (8 luglio 1833), con il quale si stabiliva un'alleanza difensiva tra l'Impero turco e Russia, per la durata di otto anni, che prevedeva l'intervento russo in favore dell'Impero turco (che avrebbe permesso alle truppe russe, nel caso in cui la Turchia fosse stata attaccata, di occupare gli Stretti), e la chiusura degli Stretti del Bosforo e dei Dardanelli agli eventuali avversari della Russia intenzionati ad entrare nel Mar Nero.
La seconda crisi egiziana, sei anni dopo, si presentò sotto un aspetto diverso per l'appoggio dato a Mehemet Alì dalla Francia, la quale intendeva aumentare la propria influenza nel Mediterraneo orientale. Sconfitte a Nazib (29 giugno 1839), in Siria, le forze del Sultano, l'esercito egiziano comandato da Ibrahim pascià si accinge a ripetere l'impresa interrotta sei anni prima per l'intervento russo. In questo caso, però, L'Inghilterra ammonì la Francia a ritirare il suo appoggio a Mehemet Alì, stante un accordo generale tra Inghilterra, Russo, Austria e Prussia nella convenzione del 15 luglio 1840. Il governo francese finì col cedere, accettando le decisioni delle quattro potenze (ottobre); nel frattempo, truppe inglesi e turche, sbarcate in Siria, indussero gli Egiziani a ritirarsi, mentre Mehemet Alì rinunciava a tutte le sue conquiste ricevendo in cambio dal Sultano la conferma della ereditarietà della sua carica di pascià d'Egitto.

 

Questa seconda crisi egiziana fornì, però, l'occasione per un generale assetto della Questione d'Oriente, più importante di quello dato dal trattato russo-turco di Unkiar Skelessi, per l'iniziativa, questa volta, dell'Inghilterra. La Convenzione degli Stretti, definita a Londra il 13 luglio 1841 dalle quattro potenze firmatarie della convenzione dell'anno precedente (più la Francia) stabilì il principio fondamentale della chiusura degli Stretti alle navi da guerra di qualsiasi potenza (salvo naturalmente la Turchia) in tempo di pace. La Turchia, se si fosse trovata in stato di guerra, avrebbe avuto il diritto di lasciar varcare gli Stretti alle navi delle potenze con essa alleate.

 

 

 

La guerra di Crimea

 

 

La guerra di Crimea e il congresso di Parigi (1853-1856)

 

Dopo la seconda crisi egiziana il governo ottomano, sotto l'influente pressione dell'ambasciatore britannico, operò anche un consolidamento interno dell'Impero, attuando un limitato programma di riforme amministrative; rimaneva sempre grave, e in sostanza insolubile, tuttavia, il problema dei sudditi cristiani del Sultano, intimamente connesso con quello delle nazionalità balcaniche.

 

In tale situazione lo zar Nicola I riprese ben presto i suoi piani di espansione.
Nel 1849 la Russia aveva abbattuto il governo liberale che si era costituito a Bucarest l'anno prima e che aveva proclamato l'indipendenza della Moldavia-Valacchia dalla sovranità della Turchia e che, quindi, a norma del trattato russo-turco di Adrianopoli del 1829, si era emancipata anche dalla “garanzia” della Russia.
In seguito, fra la primavera del 1852 e l'estate del 1853, Nicola aveva cercato (inutilmente) di far approvare dalle potenze europee diversi progetti di spartizione parziale o totale dell'Impero ottomano. Contemporaneamente, aveva esercitato pressioni diplomatiche sulla Turchia, dapprima esigendo una sistemazione della questione e Luoghi Santi di Palestina e una convenzione che riconfermasse e ampliasse il protettorato religioso russo sulle popolazioni ortodosse dell'Impero ottomano (già ottenuto dalla Russia fin dal 1774 con il trattato di Kainargi), poi imponendo alla Turchia un'alleanza.

 

A fronte dei cedimenti turchi, però, nel maggio 1853 si veniva affermando la resistenza alla politica russa da parte sia dell'Inghilterra sia della Francia.
I motivi dell'atteggiamento inglese erano evidenti, quelli dell'atteggiamento francese più complessi. Accanto al desiderio di Napoleone III d'ingraziarsi il partito clericale francese eliminando dai Luoghi Santi l'influenza degli ortodossi a vantaggio di monaci cattolici, infatti, stava il motivo di politica generale europea di ottenere l'amicizia e l'alleanza dell'Inghilterra, che l'imperatore dei Francesi considerava tanto più necessaria in quanto era convinto che lo zio, Napoleone I, avesse perduto l'impero in gran parte proprio per l'inimicizia inglese.
Nel maggio 1853, pertanto, Napoleone III offrì all'Inghilterra un'intesa contro la Russia.
Lo zar, dal canto suo, convinto che l'alleanza non ci sarebbe stata e che l'Inghilterra non avrebbe osato scendere in campo da sola per l'esiguità delle sue forze terrestri, occupò i Principati danubiani di Moldavia e Valacchia (luglio). Il 4 ottobre il governo ottomano, sostenuto dall'Inghilterra e dalla Francia, chiese l'evacuazione delle truppe russe e, non avendola ottenuta, iniziò le operazioni militari, mentre le squadre navali delle potenze occidentali passavano gli Stretti, grazie alla Convenzione.

 

In questo conflitto le operazioni militari ebbero minore importanza degli aspetti politico-diplomatici. Lo stesso problema, per le potenze occidentali, di scegliere un teatro d'operazioni efficace sul quale agire contro la Russia, finì col sollecitare l'azione diplomatica, inducendo i governi di Londra e di Parigi a cercare l'alleanza delle potenze confinanti della Russia, dalla Svezia alla Prussia, all'Austria. I teatri d'operazione che vennero scelti (dapprima la regione della foce del Danubio, abbandonata dopo che un'epidemia ebbe decimato il corpo di spedizione, e poi la penisola della Crimea, nell'intento principale di conquistare la base navale di Sebastopoli) non soddisfecero gli stati maggiori delle potenze occidentali, e i governi di Londra e di Parigi si adoperano quindi per procurarsi nuovi alleati, anche per aumentare gli effettivi militari.
La Svezia prudentemente declinò l'offerta franco-inglese, la Prussia non volle recedere, scendendo in campo contro la Russia, dalla solidarietà fra le potenze conservatrici. Le pressioni maggiori, quindi, furono esercitate dai franco-inglesi sull'Austria, direttamente interessata alla Questione d'Oriente per i suoi confini balcanici.
Nell'agosto 1854 il governo austriaco accettò di concludere con le potenze occidentali un accordo, basato su quattro punti (i “quattro punti di Vienna”), che definiva le condizioni di pace che avrebbero dovuto essere imposte alla Russia in caso di vittoria. Inutilmente, tuttavia, per quasi un anno e mezzo, mentre le operazioni militari portavano nell'ottobre 1855 alla caduta di Sebastopoli, la Francia e l'Inghilterra fecero pressione sull'Austria perché intervenisse effettivamente nel conflitto. Soprattutto per eliminare obiezioni e pretesti da parte dell'Austria, allora, esse chiesero l'intervento del Regno di Sardegna, con il quale l'Austria avrebbe ottenuto la garanzia che il governo di Torino non le avrebbe provocato contro la rivoluzione e la guerra in Italia qualora essa si fosse impegnata nella guerra contro la Russia.
L'alleanza con il Regno di Sardegna venne definita il 22 gennaio 1855, ma l'Austria ugualmente non si decise. Napoleone III, allora, ricorse a un'efficace pressione indiretta, facendo annunciare la visita di Vittorio Emanuele II a Parigi, quasi a significare il proprio intento di prendersi a cuore la politica nazionale italiana del Piemonte. L'Austria, come egli aveva previsto, allarmata dalla mossa francese, cedette inviando alla Russia un ultimatum (16 dicembre 1855). Un mese dopo il nuovo zar Alessandro II, successo a Nicola I nel marzo precedente, si rassegnava a chiedere la pace sulla base dei “quattro punti di Vienna”.

 

 

 

La conferenza di Parigi del 1856. La situazione in Italia dopo il 1849

 

 

Il congresso di Parigi, riunitosi al principio del 1856, sanzionò nel trattato di pace del 30 marzo le dure condizioni imposte alla Russia, che in effetti annullavano i risultati da essa ottenuti nella Questione d'Oriente da oltre ottant'anni, ossia dal trattato di Kainargi  del 1774.
A norma dei “quattro punti di Vienna” essa:
1) rinunciava ad esercitare un'influenza preminente sui Principati danubiani (che ottenevano “un'amministrazione nazionale” rumena nell'ambito dell'Impero ottomano) e al protettorato religioso sulle popolazioni ortodosse dell'Impero ottomano;
2) accettava la sostituzione di questa sua posizione d'influenza con una garanzia collettiva delle potenze europee;
3) accettava che venisse stabilita e regolata da uno statuto e da un organo internazionale la libertà di navigazione sul Danubio;
4) veniva obbligata a non tenere navi da guerra né arsenali nel Mar Nero.
Quest'ultima condizione, espressa nell'articolo II del trattato, era senza dubbio la più pesante, in quanto toglieva alla Russia il mezzo più diretto per esercitare una pressione sulla Turchia.

 

Il congresso di Parigi costituì un significativo successo per le due potenze occidentali e per la loro protetta, la Turchia. Napoleone restituiva alla Francia una posizione di preminenza e di prestigio internazionale quale essa non godeva più dalla caduta del Primo Impero; l'Inghilterra otteneva i maggiori vantaggi concreti per la sua politica nella Questione d'Oriente e nel Mediterraneo. L'Impero ottomano, dal canto suo, otteneva a sua volta la garanzia dell'Europa alla sua esistenza e integrità territoriale, potendo così sopravvivere fino al termine della prima guerra mondiale.
Le conseguenze della guerra di Crimea e del trattato di Parigi del 1856 si estesero comunque oltre l'ambito pure assai importante, della Questione d'Oriente. Con il suo atteggiamento l'Austria si era alienata l'amicizia della Russia e aveva spezzato quella solidarietà delle potenze conservatrici che aveva costituito un aspetto fondamentale della situazione europea dal 1815 in poi e che le aveva recato non pochi vantaggi. Lo zar di Russia, dal canto suo, risentendo della sconfitta, si sarebbe apprestato ad affrontare i più urgenti problemi interni, trascurando di necessità, soprattutto per ragioni finanziarie, le sue forze militari. La temporanea eclissi della potenza russa, unita alla freddezza dei rapporti austro-russi, avrebbe facilitato il trionfo dei movimenti nazionali e unitari nel settore centrale dell'Europa, in Italia e in Germania.

 

 

 

 

l'unificazione italiana e l'unificazione tedesca

 

 

La “Seconda Restaurazione” in Italia

 

Negli anni che seguirono il fallimento delle rivoluzioni del 1848-49 il rafforzamento del potere centrale per merito soprattutto dello Schwarzenberg, aveva consentito all'Austria di ristabilire il suo saldo controllo militare sulla penisola italiana. Le truppe austriache occupavano i Ducati padani, la Toscana e, in territorio pontificio, le Legazioni e Ancona ed erano il più efficace strumento della politica di repressione instaurata dal Radetzky in Lombardia.
Truppe francesi, invece, occupavano Roma.

 

L'unico stato, a parte il Piemonte, che non fosse sottoposto all'occupazione straniera era il Regno delle Due Sicilie, dove Ferdinando II si sentiva sufficientemente forte per reprimere l'elemento liberale senza l'aiuto delle truppe straniere. In effetti nel Regno delle due Sicilie la reazione fu efficace e sistematica.
Dopo la repressione regia del movimento liberal-democratico del 15 maggio 1848, i liberali napoletani rinunciarono ad ottenere l'adesione della Casa di Borbone all'instaurazione di un regime costituzionale e abbracciarono l'idea unitaria organizzando una nuova società segreta, l'Unità italiana, fondata da Silvio Spaventa nell'estate 1848. La polizia borbonica, però, ne scoprì l'attività e procedette a numerosi arresti (lo Spaventa e altri esponenti del liberalismo di Napoli e delle province, quali Carlo Poerio e Luigi Settembrini).

 

Nello Stato della Chiesa Pio IX, ritornato a Roma nell'aprile 1850, non conservò il regime costituzionale concesso nel marzo 1848 né volle dare peso agli inviti alla moderazione che gli venivano dal governo francese. Naturalmente il neoguelfismo perdette qualsiasi importanza politica, mentre il Pontefice si volse sempre più a cercare un appoggio presso le grandi potenze cattoliche d'Europa, Austria e Francia.

 

In Toscana Leopoldo II d'Asburgo-Lorena agì con la tradizionale mitezza (che però non valse a restituire alla dinastia lorenese, ormai screditata la devozione dell'elemento liberale-moderato), facendo condannare a una pena relativamente lieve, poi commutata nell'esilio, il Guerrazzi.

 

Nel Lombardo Veneto il maresciallo Radetzky, seguendo una politica già applicata con successo dal Metternich nelle provincie polacche dell'Impero asburgico, cercò di colpire soprattutto le classi elevate; sottopose a contribuzioni straordinarie la nobiltà milanese e riuscì ad aizzarle contro la gente di campagna, naturalmente maldisposta verso l'aristocrazia di grandi proprietari terrieri. Comunque, nel 1851 le due esecuzioni di Amatore Sciesa a Milano e di Luigi Dottesio a Venezia confermarono l'asprezza del regime del Radetzky nei confronti del movimento nazionale che pure continuava la sua opera di resistenza.
A Roma, intanto, considerandosi investito dei pieni poteri dalla Costituente romana, il Mazzini emise un prestito nazionale, da rimborsarsi quando l'unità italiana fosse stata compiuta. Sottoscrivere questo prestito nelle regioni controllate dall'Austria era di per se stesso un atto di adesione al movimento nazionale italiano, quindi un atto rivoluzionario e sovversivo, e quando la polizia austriaca si impadronì di un registro segreto in cui erano indicati i nomi dei sottoscrittori, ne seguì una repressione inflessibile.
Un centinaio di arrestati vennero sottoposti a processo (1852); i maggiormente compromessi vennero condannati a morte, una cinquantina vennero condannati a varie pene detentive, i rimanenti furono amnistiati. Fra i condannati a morte furono il sacerdote don Enrico Tazzoli, il conte veronese Carlo Montanari, Tito Speri e Domenico Frattini, reduci da Brescia e da Roma. Il Mazzini, allora, anche nell'intento di intimidire il governo del Lombardo-Veneto per indurlo a sospendere le esecuzioni, organizzò a Milano un movimento insurrezionale (febbraio 1853), che tuttavia finì con la cattura e la fucilazione dei partecipanti, mentre le esecuzioni di Belfiore venivano inesorabilmente portate a termine (marzo).
Al principio del 1853, quindi, l'inutilità dei tentativi insurrezionali pareva confermata, e il movimento mazziniano sembrava avviato a un nuovo declino.

 

 

 

Il governo d'Azeglio e il connubio Cavour-Rattazzi

 

 

Camillo di Cavour e lo sviluppo del Piemonte liberale

 

In Piemonte, nel frattempo, con il proclama di Moncalieri e la successiva ratifica del trattato di pace con l'Austria da parte del Parlamento, il ministero d'Azeglio aveva liquidato l'eredità più pesante della prima guerra per l'indipendenza.
Il primo e più importante punto del programma di revisione legislativa del ministero d'Azeglio consistette nell'abolizione di privilegi ecclesiastici che contraddicevano allo spirito e alla stessa lettera dello Statuto. Esaurito, per l'intransigenza di Pio IX, il tentativo di giungere ad una liquidazione di tali privilegi attraverso un accordo amichevole con la Santa Sede, il ministro guardasigilli Siccardi presentò un progetto di legge in Parlamento con il quale si eliminava il cosiddetto foro ecclesiastico, per cui i sacerdoti e in genere gli ecclesiastici non erano giudicati per i reati comuni da normali tribunali dello stato, ma appunto dal foro ecclesiastico.
La polemica politico-religiosa si fece aspra, mettendo l'Azeglio in grave imbarazzo a motivo della defezione dei conservatori, che costituivano una parte della maggioranza parlamentare cui il ministero si appoggiava. La legge, comunque, venne approvata dal Parlamento per l'appoggio dell'opposizione democratica, primo segno di una prossima evoluzione della politica piemontese.
La politica del governo, intanto, sia in sé stessa, sia soprattutto per quanto riguardava i dibattiti in Parlamento, venne a dipendere sempre più dalla personalità del ministro dell'Agricoltura, Camillo Benso di Cavour.
Il conte di Cavour apparteneva a una famiglia dell'aristocrazia piemontese, ma per via materna era imparentato con l'aristocrazia ginevrina e con quella francese. Dimessosi dall'esercito, aveva assunto l'amministrazione della tenuta paterna di Leri, appassionandosi ai nuovi razionali criteri di coltivazione che venivano applicati oltralpe; aveva svolto un'attività intensa nel campo speculativo e borsistico, che aveva migliorato assai le sue condizioni economiche e nello stesso tempo gli aveva dato una notevole padronanza degli aspetti più significativi della società economica del tempo.

 

Da ministro dell'Agricoltura, prima, e poi anche delle Finanze e della Marina, proseguì per così dire nell'ambito dello stato piemontese l'attività che aveva felicemente svolto quale privato cittadino nella tenuta di Leri, attento a sfruttare ogni possibile forma di progresso economico: così introdusse nuovi metodi agricoli, fece intraprendere opere d'irrigazione, fece sorgere istituti di credito e costruire ferrovie, incoraggiò lo sviluppo della marina mercantile, e favorì l'iniziò della politica economica internazionale di libero scambio.
Dopo il colpo di stato del 2 dicembre 1851 in Francia, che sanzionava il trionfo dell'autoritarismo ai confini del Piemonte, l'Azeglio aveva assunto un atteggiamento di estrema prudenza, mentre la parte conservatrice della maggioranza parlamentare diventava intransigente, ostacolando l'opera innovatrice del Cavour.
In questo clima politico, nel febbraio del 1852 egli stabilì il cosiddetto “Connubio” accordandosi con la sinistra moderata guidata da Urbano Rattazzi, in modo da costituire un centro liberale e progressivo. Quest'atto politico, che avrebbe improntato di sé tutta la politica cavouriana, provocò una crisi governativa per cui il Cavour, di fronte alle proteste del presidente del Consiglio, dovette dimettersi. L'Azeglio, tuttavia, trovandosi in una situazione parlamentare che non gli consentiva più di appoggiare consistentemente il suo ministero a una maggioranza omogenea, finì anch'egli, dopo qualche mese, per dimettersi, consigliando egli stesso Vittorio Emanuele ad affidare l'incarico di formare il nuovo ministero al Cavour.

 

 

 

La politica del Cavour

 

 

Nel novembre del 1852 Cavour assunse la presidenza del Consiglio.
Proseguì il rinnovamento della legislazione in materia ecclesiastica, ostacolato con decisione e in parte con successo dai conservatori; ottenne che si giungesse a una ridistribuzione delle alte cariche civili e militari del Regno, ancora monopolio dell'aristocrazia; incoraggiò il progresso economico del paese, favorì l'assorbimento degli esuli delle altre regioni italiane, molti dei quali rappresentavano l'élite intellettuale e politica dei rispettivi stati d'origine.

 

La politica nazionale e la politica estera

 

La politica di sviluppo interno del Piemonte, che, nelle aspirazioni del Cavour, doveva trasformare la fisionomia politica, sociale ed economica dello stato, rendendola quanto più era possibile simile a quella dei grandi stati occidentali, doveva avere il suo naturale complemento nella politica estera.
Il Piemonte, stato costituzionale con una struttura economica ispirata a quella della Francia e dell'Inghilterra, doveva appoggiarsi, nella politica internazionale, a questi due paesi. E questa politica generale di appoggio alle potenze occidentali doveva assumere un significato e una portata specifica per il problema italiano.
Dopo il 1848 il problema italiano, che nel periodo precedente, a norma dell'assetto del 1815, aveva potuto essere considerato dalle potenze europee un problema “austriaco” o per lo meno un problema in cui si riconoscevano all'Austria un interesse e un diritto d'intervento maggiori che a qualsiasi altra potenza, si sarebbe dovuto prospettare ormai come un problema di interesse generale. Far cadere i regimi reazionari della penisola con un'azione insurrezionale ed espellere l'Austria dal Lombardo-Veneto con un'azione militare, sarebbe stato secondo il Cavour al di sopra delle possibilità del movimento nazionale italiano e dello stato piemontese. Anche qualora gli Italiani fossero riusciti nell'intento in cui avevano fallito nel 1848, poi, si sarebbero trovati di fronte le potenze europee, che, ciascuna secondo scopi e interessi particolari, avrebbe certo desiderato e imposto la propria partecipazione alla definizione di un nuovo assetto della Penisola. Di qui la ferma convinzione del Cavour che invece di subire la diplomazia europea, bisognasse servirsene, procurandosi almeno un'attiva alleata fra le grandi potenze, sia per ottenerne il necessario aiuto militare nella lotta per l'indipendenza, sia per poter contare su un autorevole appoggio e su impegni prestabiliti quando si fosse giunti a definire il nuovo assetto della Penisola.
Era naturale che questa ricerca di un alleato lo volgesse verso le potenze occidentali, sia per l'affinità delle istituzioni politiche e della struttura economico-sociale, sia perché queste potenze – la Francia e l'Inghilterra – erano in sostanza le sole che potevano aver interesse e potevano essere in grado di opporsi all'Austria nella penisola italiana. Le sue concezioni liberali portavano il Cavour a considerare con maggiore simpatia un aiuto dell'Inghilterra che un aiuto della Francia, soggetta, con la formazione del Secondo Impero, ad un regime in parte autoritario; ma il Conte non si nascondeva che l'Inghilterra non avrebbe mai potuto dare al Piemonte l'appoggio militare di cui questo aveva bisogno.

 

Il Cavour da un lato diede alla politica piemontese un tono talora di sfida all'Austria, protestando quando la politica italiana dell'Impero asburgico danneggiava gli interessi piemontesi, e richiamando d'altra parte l'attenzione dell'Europa sulle manchevolezze dei regimi degli stati reazionari italiani; dall'altro si adoperò per rendere più stretti e cordiali i rapporti con le potenze occidentali in modo da acquistarne la benevolenza per trarne vantaggio quando si fosse presentata l'occasione di giocare la carta dell'indipendenza.
Seguendo la prima direttiva il governo piemontese nel 1853 protestò energicamente quando il governo austriaco, dopo il tentativo insurrezionale mazziniano del febbraio, sequestrò i beni dei lombardo-veneti che, rifugiatisi nel Regno di Sardegna nel 1848-49, ne avevano assunto la cittadinanza; nella seconda direzione il Cavour si mosse in occasione della guerra di Crimea, quando Francia e Inghilterra si adoperarono perché l'Austria intervenisse al loro fianco, recando alle potenze occidentali l'aiuto del suo esercito e un terreno d'operazioni dal quale attaccare la Russia con maggiore facilità.
Di fronte alla riluttanza austriaca e ai timori espressi dal governo di Vienna che il Piemonte approfittasse di una sua eventuale partecipazione alla guerra contro la Russia per suscitare la rivoluzione in Italia e attaccare il Lombardo-Veneto, le potenze occidentali proposero anche al Piemonte di partecipare alla guerra.
Vittorio Emanuele si dichiarò subito favorevole ad accettare la proposta, il governo, invece, era di parere discorde. Il Cavour manifestava perplessità in quanto comprendeva che un'eventuale partecipazione al conflitto a fianco dell'Austria avrebbe pregiudicato la sua politica nazionale italiana. La sua decisione di schierarsi con il re e con i ministri che desideravano accettare la proposta d'intervento fu una delle più importanti e drammatiche della sua carriera.
Egli contò sulla probabilità che l'Austria, in ultima analisi, non sarebbe entrata in guerra, e quindi sarebbe rimasta isolata, a guerra finita, sia rispetto alle potenze occidentali, che non avevano ancora motivo di esserle amiche dopo il suo mancato aiuto, sia rispetto alla Russia, che aveva seguito con allarme e diffidenza il suo comportamento ambiguo e poco amichevole. Il Piemonte, invece, si sarebbe procurato validi alleati e avrebbe potuto far valere le benemerenze acquistate con la sua partecipazione all'Alleanza occidentale per ottenere l'appoggio franco-inglese nel problema italiano.
Le aspettative del Cavour si rivelarono in buona parte esatte. I quindicimila soldati inviati in Crimea al comando del generale Alfonso Lamarmora a norma del trattato d'alleanza con la Francia e l'Inghilterra del 28 gennaio 1855 parteciparono alla battaglia della Cernaia (agosto 1855) ristabilendo il prestigio dell'esercito piemontese. Al congresso di Parigi, quindi, Cavour poté esporre il problema italiano dinanzi ai rappresentanti delle grandi potenze, insistendo in particolar modo sulla triste situazione delle popolazioni dello Stato della Chiesa e del Regno delle Due Sicilie, ottenendo l'importante risultato di sottrarre una volta per sempre gli affari politici della Penisola al controllo dell'Austria, il cui rappresentante, conte Buol, benché protestasse contro la presentazione da parte del Piemonte di una questione che non avrebbe dovuto riguardare il congresso, si trovò isolato, come il Cavour aveva sperato, anche rispetto alla Prussia, che mantenne un atteggiamento estremamente riservato, e alla Russia che, tradita dall'alleata da essa tanto aiutata nel 1849 (in Polonia e in Ungheria), si apprestò a rivedere la sua posizione internazionale avvicinandosi alla Francia.

 

Cavour, Mazzini e il problema italiano dal 1856 al 1859

 

Il governo di Torino aveva giocato una carta rischiosa: aveva aderito a un'impresa bellica che gli aveva tolto una parte delle sue limitate risorse militari e che aveva inciso gravemente sulle sue risorse finanziarie (l'offerta britannica di stipendiare le truppe piemontesi, rendendole di fatto mercenarie, era stata declinata), già provate dal vasto programma di lavori pubblici, senza che ciò apportasse vantaggi percepibili in campo italiano.
La situazione politica interna, d'altra parte, non era delle più promettenti. Se i democratici subito dopo la crisi del 1848-49 avevano costituito un pericolo per la saldezza dello stato e per il suo prudente inizio costituzionale, in seguito l'ostacolo alla realizzazione della politica cavouriana era rappresentato dai conservatori-clericali.
La pressione di questi gruppi si fece sentire durante la guerra di Crimea, nella primavera del 1855, per questioni di legislazione ecclesiastica, e subito dopo le elezioni del 1857, quando la minoranza clericale si rafforzò in parlamento e il Cavour dovette rinunciare alla collaborazione di Urbano Rattazzi, ministro degli Interni e suo antico alleato del Connubio, perché ritenuto troppo radicale.
Il Cavour dovette far fronte anche all'opposizione che nell'ambito del movimento italiano era mantenuta viva contro la sua politica dal Mazzini, il quale, infatti, diffidava del Cavour, che riteneva asservito alla politica dinastica di Casa Savoia e rimaneva fermo nella convinzione che gli Italiani dovessero conquistare l'indipendenza da soli, senza l'aiuto straniero, tanto più per il fatto che l'aiuto esterno sembrava dovesse venire all'Italia da Napoleone III, l'uomo che aveva abbattuto la Repubblica Romana, che sosteneva il potere temporale del papa, che aveva ristabilito in Francia il dispotismo imperiale.

 

Il Cavour, comunque, seppe sfruttare i tentativi mazziniani, usandoli come esempi per sollecitare, particolarmente presso Napoleone III, una soluzione costituzionale e moderata del problema italiano; per altro, per preparare gli animi alla soluzione unitaria sotto Casa Savoia egli poteva contare su una associazione, che divenne subito uno strumento fedele della sua politica, fondata il 1° agosto 1857, la Società Nazionale Italiana, che aveva per programma l'unificazione della penisola sotto la monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele II.
Presidente della Società Nazionale fu il marchese milanese Giorgio Pallavicino, antico reduce dello Spielberg, e segretario il siciliano Giuseppe La Farina, che nella rivoluzione siciliana del 1848 aveva attivamente militato nella minoranza repubblicana; l'adesione più significativa alla Società Nazionale fu, tuttavia, quella di Giuseppe Garibaldi, esponente della democrazia repubblicana.
Il Cavour disponeva così di un valido strumento di azione politica nelle altre regioni italiane e i suoi rapporti segreti con il La Farina furono continui e sistematici; azione tanto più opportuna in quanto, se gli stati reazionari italiani parevano avviati a una fatale decadenza, l'Austria faceva ora un tentativo per mutare il suo sistema di governo nel Lombardo-Veneto, abolendo il regime militare, inviando quale viceré l'arciduca Massimiliano e togliendo il sequestro ai beni degli esuli politici.

 

 

 

L'alleanza con la Francia e la guerra del '59

 

 

Veniva intanto precisandosi, per iniziativa di Napoleone III, quella promessa di fare qualche cosa per l'Italia che l'Imperatore aveva espresso al congresso di Parigi. Dopo l'attentato perpetrato ai suoi danni il 14 gennaio 1858 da Felice Orsini Napoleone III, nel luglio, diede segretamente appuntamento al Cavour nella cittadina termale di Plombières. I due uomini stabilirono così all'insaputa della diplomazia ufficiale, l'accordo da cui sarebbe originato poi, al principio dell'anno seguente, il trattato d'alleanza franco-sardo. La Francia avrebbe aiutato il Piemonte a conquistare l'Italia settentrionale e i Ducati padani, ricostituendo stabilmente il “Regno dell'Alta Italia” che già era stato abbozzato nella primavera del 1848. Il resto d'Italia sarebbe stato suddiviso in tre parti: una parte centrale, una parte meridionale e un piccolo territorio intorno a Roma per il papa.
Gli stati italiani sarebbero stati uniti in una Confederazione, di cui il papa avrebbe assunto la presidenza. L'Imperatore accennò, vagamente, all'eventualità che a capo del Regno dell'Italia centrale fosse posto suo cugino Gerolamo Bonaparte, figlio del fratello di Napoleone I, Gerolamo re di Vestfalia e che a capo del Regno dell'Italia meridionale fosse posto il principe Luciano Murat.
Venne poi espressamente stabilito che Vittorio Emanuele avrebbe dato in sposa la figlia Clotilde al principe Gerolamo, che il Piemonte avrebbe ceduto alla Francia la Savoia e, in certe circostanze, Nizza; che la guerra con l'Austria che avrebbe dovuto portare a questa trasformazione dell'assetto italiano avrebbe dovuto essere provocata, almeno in apparenza, dalla stessa Austria.

 

Napoleone III, la diplomazia europea e la seconda guerra per l'indipendenza

 

Impegnandosi con il Cavour ad aiutare la causa italiana, Napoleone III obbediva senza dubbio ad una inclinazione personale che risaliva al tempo della sua gioventù, quando, associato alla Carboneria, aveva partecipato ai movimenti dell'Italia centrale del 1831; tali inclinazioni erano condivise dal cugino Gerolamo e in genere dal bonapartismo “di sinistra”.
Far guerra all'Austria e vincerla significava d'altra parte iniziare quel processo di revisione dell'assetto territoriale e politico dell'Europa stabilito nel 1815, che costituiva l'intento più o meno esplicito della politica estera del Secondo Impero.
Tale revisione avrebbe dovuto attuarsi in due sensi: nel tracciare nuovamente i confini dell'Europa in base al principio di nazionalità, e nel riaffermare in tale nuovo assetto europeo la posizione preminente della Francia; l'uno e l'altro nell'adempimento di una “missione” napoleonica che l'Imperatore era impegnato a tener viva.
Così egli sperava di stabilire in Italia un nuovo assetto politico ispirato al principio di nazionalità, e nello stesso tempo di stabilirvi, con le benemerenze acquistate verso gli Italiani e con la soluzione federalistica, la preminenza della Francia; inoltre intendeva rafforzare con l'annessione della Savoia e di Nizza, la compagine territoriale dello stato francese. Nello stabilire che il futuro assetto della Penisola avrebbe avuto struttura federale e non unitaria, Napoleone III intendeva forse riservare a dinastie “napoleoniche” una possibilità di restaurazione in Italia, assicurandosi attraverso di esse una posizione di controllo più sicura; ma egli intendeva soprattutto premunirsi contro il pericolo che uno stato nazionale italiano unitario si sentisse sufficientemente forte per fare a meno della protezione francese; e intendeva inoltre riservare al papa un'indipendenza che i cattolici francesi non avrebbero mancato di esigere.

 

Dal canto suo il Cavour, ottenuta l'alleanza francese in vista della formazione di un “Regno dell'Alta Italia”, coerente con il suo metodo di procedere per gradi, non si preoccupò per il momento dei progetti imperiali riguardo al resto d'Italia: il suo principale intento, dall'incontro di Plombières in poi, fu quello di stabilire un effettivo trattato di alleanza sulle basi convenute e, ad alleanza stabilita, fare di tutto perché la guerra scoppiasse, e scoppiasse per apparente iniziativa dell'Austria.
Il trattato di alleanza franco-piemontese venne firmato il 28 gennaio 1859.
Gli eventi successivi denotarono l'imminenza di una crisi internazionale: ricevendo a capo d'anno il corpo diplomatico, Napoleone III ebbe a dire all'ambasciatore austriaco che si rammaricava che i rapporti austro-francesi non fossero più buoni come in precedenza; Vittorio Emanuele aprì la sessione del Parlamento Subalpino con un discorso in cui dichiarava di non essere insensibile al “grido di dolore” che da tante parti d'Italia si levava verso di lui.
Allarmato, il governo austriaco dislocò un nuovo corpo d'armata lungo la frontiera del Ticino, mentre il Cavour, chiesti alla Camera nuovi crediti militari, dispose per il rafforzamento dell'esercito e per l'arruolamento dei numerosi volontari che affluivano d'oltre frontiera, a capo dei quali Vittorio Emanuele pose, col grado di generale dell'esercito piemontese, Giuseppe Garibaldi. A questo punto, però, Napoleone III, che al principio dell'anno era apparso deciso a forzare gli avvenimenti e sicuro che la situazione internazionale non avrebbe ostacolato l'impresa franco-piemontese, mutò parere quando la Russia non accettò di stabilire con la Francia un'alleanza, e si limitò a impegnarsi, con il trattato del 3 marzo, a mantenere una “benevola” neutralità in caso di guerra franco-austriaca. La Prussia, inoltre, non appariva disposta a prender posizione contro l'Austria, per il manifesto timore di veder la Francia, una volta impegnata in una revisione dell'assetto del 1815, sollevare la questione del confine del Reno, e l'Inghilterra, sotto il nuovo governo conservatore, si dichiarava contraria a un mutamento dell'assetto territoriale in Italia, proponendo il disarmo generale e la convocazione di un congresso delle grandi potenze che avrebbe dovuto discutere il problema italiano.
Tutta la politica cavouriana degli ultimi anni sembrava dovesse concludersi con un nulla di fatto, infatti la convocazione di un congresso avrebbe fatto evidentemente svanire la prospettiva della guerra, quindi della formazione del Regno dell'Alta Italia e degli eventuali mutamenti che una guerra vittoriosa avrebbe potuto portare nel resto della Penisola.
Fu invece l'imperatore Francesco Giuseppe a far precipitare la crisi e a rendere possibile la realizzazione dei piani cavouriana. Il governo di Vienna accettò la proposta del congresso, ma volle, per ragioni di prestigio, che il Piemonte disarmasse per primo, e il 23 aprile inviò un ultimatum in tal senso a Torino. Vittorio Emanuele lo respinse, facendo figurare con ciò il Piemonte come l'aggredito. La mediazione inglese venne allora ritirata e l'esercito piemontese (80.000 uomini) si dispose a resistere lungo la frontiera del Ticino alle forze austriache in attesa dell'esercito francese (110.000 uomini), che sotto il comando dell'Imperatore, in parte confluiva attraverso il Moncenisio, in parte sbarcava a Genova, in adempimento del trattato d'alleanza del 28 gennaio.

 

Le operazioni militari volsero ben presto a favore dei Franco-piemontesi negli scontri di Montebello (20 maggio), Palestro (30-31 maggio), Magenta (4 giugno), mentre Garibaldi con i suoi Cacciatori delle Alpi era vittorioso a Varese e a Como (San Fermo).
L'8 giugno Vittorio Emanuele e Napoleone III entravano in Milano.
Come nel 1848, l'esercito austriaco si ritirò verso Verona, mentre Francesco Giuseppe veniva in Italia ad assumere personalmente il comando. Il 24 giugno nella zona a sud del lago di Garda fra San Martino e Solferino ebbe luogo una battaglia estremamente cruenta, che si risolse con la vittoria franco-piemontese e con la ritirata austriaca oltre il Mincio, nel Quadrilatero.

 

 

 

L'armistizio di Villafranca e l'annessione del centro Italia

 

 

L'armistizio di Villafranca

 

La vittoria di Solferino e San Martino (24 giugno 1859) era importante, ma non decisiva, perché le forze austriache erano comunque saldamente arroccate nelle fortezze del Quadrilatero; peraltro nella situazione politica italiana e nella situazione internazionale europea si erano verificati eventi che indussero Napoleone III alla decisione di cessare le ostilità e di accordarsi con l'imperatore Francesco Giuseppe. Veniva perciò firmato l'armistizio di Villafranca (11 luglio), in base al quale
 - l'Austria cedeva alla Francia la Lombardia, che sarebbe stata ulteriormente ceduta al Regno di Sardegna;
 - i principi dell'Italia centrale che erano stati costretti alla fuga dall'insurrezione generale, sarebbero stati restaurati sui loro troni;
 - si sarebbe costituita una Lega Italiana sotto la presidenza del Pontefice, cui avrebbe partecipato anche il Veneto, costituito in territorio autonomo dell'Impero asburgico.
Napoleone III fu comunque indotto alla firma dell'armistizio dalla situazione italiana, che nei due ultimi mesi si era sviluppata contro gli interessi francesi, in quanto preannunciava soltanto l'ampliamento dello stato sabaudo nell'Italia centrale, anche ai danni del potere temporale del papa; la Prussia, inoltre, pur essendosi astenuta dal conflitto, aveva deciso nel giugno di mobilitare alcuni corpi d'armata inviando nel contempo al governo francese l'ammonimento a non oltrepassare la linea del Mincio sul confine italiano.

 

In tal modo non si risolveva la questione nazionale italiana né si costituiva un nuovo assetto italiano aperto all'influenza francese; tantomeno la Francia usciva rafforzata territorialmente dal conflitto. La decisione di Napoleone III provocò una violenta reazione in Cavour, culminata nelle dimissioni, che fecero posto a un governo Lamarmora-Rattazzi per il disbrigo della difficile situazione profilatasi nell'Italia centrale.

 

La situazione dell'Italia centrale

 

All'inizio della guerra la rivoluzione era scoppiata a Firenze (27 aprile), inducendo il granduca a lasciare la Toscana dopo un breve e vano tentativo di resistenza. Poco dopo analoghi movimenti insurrezionali nei Ducati padani avevano indotto anche i rispettivi sovrani alla fuga, mentre le agitazioni si propagavano ai territori pontifici delle Legazioni, delle Marche e dell'Umbria.
Vittorio Emanuele, invocato dittatore sia in Toscana sia nelle Legazioni, si era peraltro limitato a nominare commissari regi per l'amministrazione di tali regioni, ma con la firma dell'armistizio, che prevedeva il ritiro di tali commissari da quei territori e la restaurazione dei sovrani legittimi, personalità politiche filopiemontesi (come Bettino Ricasoli e Carlo Farini) ne assumevano la dittatura, mentre erano in corso i preparativi contro un'eventuale restaurazione dei principi e le elezioni di gruppi assembleari che proclamavano la volontà delle popolazioni dell'Italia centrale di essere annesse al Piemonte.

 

Quando il ministero Lamarmora-Rattazzi firmò la Pace di Zurigo (10 novembre), alcune clausole dell'armistizio, peraltro riconfermate, apparivano dunque difficilmente attuabili. Napoleone III era incerto sulla via da seguire riguardo agli eventi dell'Italia centrale, mentre il governo liberale inglese, che aveva assunto il potere nel luglio '59 (ministero whig-liberale Palmerston-Russel), si dichiarava favorevole nel novembre dello stesso anno all'annessione di quelle regioni al Piemonte, in vista della formazione di un forte stato italiano unitario e indipendente come sicura garanzia di conservazione e ristabilimento dell'equilibrio di forze in Europa e nel Mediterraneo.

 

Con l'Inghilterra favorevole e Napoleone III che sembrava, pur con molte perplessità, rassegnarsi a che gli eventi seguissero il corso desiderato dalle popolazioni dell'Italia centrale, il Cavour, che l'opinione pubblica aveva riportato al governo (16 gennaio 1860), fece indire in Toscana, nei Ducati e nelle Legazioni i plebisciti che confermarono la volontà delle popolazioni di essere annesse al regno di Vittorio Emanuele (11-12 marzo).
Si costituiva così il Regno dell'Italia Settentrionale e Centrale, che rappresentava per la politica cavouriana un successo e un risultato maggiori di quelli previsti dall'alleanza franco-piemontese e bruscamente compromessi dall'armistizio di Villafranca.
Napoleone III, dopo aver visto deluse le sue aspettative di creare in Italia una confederazione di stati ligi all'influenza francese, volle ottenere almeno un vantaggio previsto dall'alleanza: il “compenso” della Savoia e di Nizza, che il governo di Torino non poté negargli e dovette impegnarsi a cedergli nello stesso tempo in cui venivano proclamati risultati dei plebisciti. Tale cessione, che suscitò l'allarme delle potenze europee e in particolare dell'Inghilterra, preoccupata dell'espansione territoriale del Secondo Impero, fu inoltre in buona parte la causa di una crisi della politica cavouriana che durò per parecchi mesi, a motivo del malcontento di molti sostenitori del principio di nazionalità contro i vecchi criteri della monarchia patrimoniale (che sembravano in tal modo ritornare in auge).

 

 

 

La spedizione dei Mille e la proclamazione del Regno d'Italia

 

 

La spedizione dei Mille: la fase siciliana

 

A questa temporanea crisi della politica cavouriana corrispose però la ripresa dell'altra corrente del movimento unitario italiano, di tendenze repubblicane e democratiche, che si presentava ora come il Partito d'Azione, che, pur debitore nei confronti del Mazzini per la sua ispirazione originaria e i suoi stessi metodi di lotta, ricercava ora una guida più realistica nell'azione politica, più competente nell'azione militare, individuata presto nelle figure di Giuseppe Garibaldi e di Francesco Crispi.

 

Proprio il Crispi, dopo aver avuto una parte di primo piano nella rivoluzione siciliana del 1848-49, aveva mantenuto dall'esilio in Piemonte i legami con i nuclei rivoluzionari della Sicilia, finché, nel 1859, era ritornato segretamente nell'isola per prepararvi un tentativo insurrezionale che di là avrebbe dovuto propagarsi ai territori di terraferma del Regno delle Due Sicilie.
L'insurrezione avrebbe dovuto essere aiutata e poi guidata da una spedizione proveniente dall'esterno, a dirigere la quale era stato designato il Garibaldi. Il Crispi seppe preparare l'azione con meticolosità e precisione, sia in Sicilia, sia nel Regno di Sardegna, da dove la spedizione avrebbe dovuto partire, superando anche l'ostilità del Cavour, che voleva impedire che l'iniziativa e la guida del movimento nazionale passassero in al Partito d'Azione.

 

Nella notte fra il 5 e il 6 maggio 1860 Garibaldi, insieme con Nino Bixio e con un migliaio di volontari provenienti da diverse regioni d'Italia, si imbarcò a Quarto (Genova) su due vapori sardi, il Piemonte e il Lombardo, di cui il giorno precedente era stata simulata la cattura nel porto di Genova, e partì alla volta della Sicilia.
L'Italia meridionale e la Sicilia si presentavano in questo momento agli occhi dei membri del Partito d'Azione come le regioni più favorevoli per l'inizio dell'impresa unitaria, sia perché il pericolo di complicazioni internazionali era valutato rispetto ad esse minore che rispetto ad altri territori (come ad esempio i territori pontifici), sia perché non ci si sarebbe trovati di fronte a una grande potenza militare come sarebbe accaduto nel Veneto austriaco, sia, ancora, perché si temeva che Napoleone III non avesse abbandonato i suoi progetti di restaurazione murattiana a Napoli (il che avrebbero sbarrato la via all'unificazione), sia, infine, perché molti fra i più attivi membri del Partito d'Azione erano meridionali e siciliani.

 

Nel momento in cui i Mille si apprestavano a sbarcare in Sicilia, d'altronde, il Regno delle Due Sicilie si trovava ormai in condizioni di grave decadenza.
Tenuto saldamente in pugno dal gretto ma energico Ferdinando II, che poco si era curato della rottura dei rapporti diplomatici con la Francia e con l'Inghilterra, dopo la primavera del 1859, morto il sovrano, il Regno era passato all'inetto Francesco II.
In Sicilia il Crispi aveva preparato la situazione per lo sbarco di Garibaldi e il 4 aprile si ebbe a Palermo un movimento insurrezionale che, senza riuscire a prevalere in città, si diffuse nelle campagne circostanti. L'11 maggio Garibaldi sbarcò a Marsala sotto il fuoco della flotta napoletana, giunta infine a intercettare i due vapori, e tre, giorni dopo a Calatafimi inflisse la prima sconfitta alle truppe borboniche; poi, avvicinatosi a Palermo e indotta una parte delle forze concentrate a difesa della città ad uscirne e ad allontanarsene, vi penetrò di sorpresa mentre gli abitanti insorgevano di nuovo.
Il 31 maggio il comandante borbonico, generale Lanza, chiedeva un armistizio, e alcuni giorni dopo capitolava imbarcandosi con le sue truppe per Napoli, mentre a Palermo si costituiva un governo provvisorio in cui il Crispi assunse posizione preminente.
Garibaldi, dal canto suo, portò a termine la liberazione dell'isola, che culminò nello scontro di Milazzo (20 luglio), dopo il quale ai borbonici rimase soltanto la fortezza di Messina.

 

Le ripercussioni internazionali

 

Gli eventi avevano avuto naturalmente importanti ripercussioni sulla situazione politica e diplomatica italiana ed europea.
A Napoli, nel tentativo di salvare il salvabile, Francesco II promise di concedere una costituzione e formò un ministero liberale, i cui stessi membri, per altro, erano ormai orientati verso il movimento nazionale (30 giugno).
Napoleone III, nel tentativo di impedire il progresso del movimento unitario, cercò di salvare la dinastia borbonica presentando alle cancellerie europee la proposta che la Sicilia fosse sì indipendente da Napoli, ma sotto un principe della Casa di Borbone, mentre il Regno dell'Italia Settentrionale e Centrale avrebbe stabilito con il Regno meridionale un'alleanza (che non gli avrebbe permesso così di annetterne i territori).
La Gran Bretagna si oppose alla proposta francese e riuscì a farla fallire; a questo punto, infatti, il governo di Londra si convinse definitivamente che un'unificazione della penisola italiana sotto la monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele potesse essere la miglior soluzione del problema italiano, e così la squadra navale inglese del Mediterraneo, contrariamente all'esplicita richiesta di Napoleone III, permise a Garibaldi di attraversare lo Stretto di Messina, proteggendolo dalla flotta napoletana (18 agosto).

 

Nell'ambito della politica piemontese Vittorio Emanuele e Cavour seguirono due linee sostanzialmente indipendenti.
Il Re, verso il quale Garibaldi nutriva una grande devozione personale, si era mantenuto segretamente in contatto con lui fin dall'inizio della spedizione, credendo in tal modo neutralizzare le aspirazioni repubblicane del Partito d'Azione. La politica personale del Re si espresse chiaramente quando Garibaldi si accinse ad attraversare lo stretto di Messina; infatti, sotto la pressione della diplomazia e in particolare della Francia, Vittorio Emanuele inviò al Garibaldi l'ordine ufficiale di non passare lo Stretto, ma segretamente gli fece pervenire il suo consenso e il suo incoraggiamento.
Il Cavour, dal canto suo, aveva seguito il progresso dell'impresa con molta perplessità, cercando di indirizzarne gli sviluppi politici in senso favorevole allo stato sabaudo.
Crispi e allo stesso Garibaldi temevano che il Cavour, prendendo eventualmente nelle sue mani il controllo politico dell'impresa, sia per non compromettere la situazione internazionale dello stato sabaudo, sia per non poter resistere alla pressione della diplomazia, si accontentasse di una soluzione parziale.

 

La seconda fase della spedizione e la proclamazione del Regno d'Italia

 

Attraversato lo Stretto, i garibaldini avanzarono rapidamente sul continente, mentre l'esercito borbonico era in disfacimento, e giunsero ai primi di settembre alle porte di Napoli.
Il 6 settembre Francesco II si rifugiava nella fortezza di Gaeta, da dove si sarebbe allontanato soltanto nel febbraio 1861, dopo aver perduto la corona.
Il successo dell'impresa garibaldina, però, rendeva ormai improcrastinabile per il Cavour ristabilire il controllo della politica sabauda sull'Italia meridionale, benché inutilmente il prodittatore piemontese in Sicilia, Agostino Depretis, avesse fatto un nuovo tentativo per affrettare il plebiscito di annessione dell'isola al Regno, e dopo che, altrettanto inutilmente, lo stesso primo ministro piemontese aveva cercato di indurre i liberali moderati napoletani ad insorgere quando ancora era in carica il governo borbonico, e ad assumere il controllo della città in nome di Vittorio Emanuele.
Di fronte a questa situazione che non riusciva a controllare, e che avrebbe potuto avere sviluppi ancor più pericolosi per le inevitabili conseguenze in campo internazionale se Garibaldi, liberato il Meridione, si fosse deciso ad avanzare verso Roma, Cavour seppe riprendere il controllo del movimento italiano decidendo un intervento militare piemontese che attraverso i territori papali delle Marche e dell'Umbria portasse le truppe regie a ricongiungersi, nel Napoletano, con le forze garibaldine.
Egli era convinto che Napoleone III, nel caso che l'Austria approfittasse dell'azione piemontese per attaccare la Lombardia, sarebbe venuto in aiuto dell'Italia (in effetti ottenne assicurazioni francesi in tal senso); inoltre, pensò che l'intervento piemontese avrebbe assicurato quel congiungimento del territorio nazionale italiano che le potenze europee in questo momento o avrebbero approvato, come l'Inghilterra, o, come la Francia e l'Austria, non si sarebbero azzardate a impedire per il timore di una crisi generale europea. Tale intervento avrebbe inoltre ristabilito la situazione politica nei territori meridionali, garantendo la soluzione monarchico-costituzionale della loro liberazione, e arrestando l'eventuale proseguimento dell'impresa garibaldina verso Roma, che Napoleone III non avrebbe potuto fare a meno di impedire con la forza.

 

La spedizione delle Marche e dell'Umbria, al comando dei generali Fanti e Cialdini, ebbe facilmente ragione, a Calstelfidardo, della resistenza dei volontari pontifici comandati dal Lamoricière.
Mentre Vittorio Emanuele giungeva ad assumere il comando della spedizione e Pio IX protestava presso le potenze europee (alcune delle quali, fra cui la Francia, che però lasciò fare, ritirarono i loro rappresentanti diplomatici a Torino), Garibaldi concludeva la sua campagna vincendo l'impegnativa battaglia del Volturno (1-2 ottobre). Subito dopo, il 22 ottobre, avevano luogo i plebisciti per l'annessione dell'ex Regno delle Due Sicilie il 4 e 5 novembre quelli delle Marche e dell'Umbria; il 26 ottobre, infine, Garibaldi a Teano rendeva omaggio a Vittorio Emanuele salutandolo re d'Italia.
Mentre, quindi, i collaboratori di Cavour si adoperavano per stabilire nelle regioni liberate il controllo dello stato sabaudo, manifestando un'ingrata diffidenza verso gli elementi garibaldini, Garibaldi, cui era stata rifiutata la luogotenenza dell'Italia meridionale, si ritirava nell'isola di Caprera.
La fortezza di Gaeta capitolava il 13 febbraio 1861, mentre Francesco II riparava a Roma; pochi giorni dopo si riuniva a Torino (18 febbraio) il primo Parlamento italiano.

 

Fu costituito in tal modo il Regno d'Italia (17 marzo 1861).