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CLASSE   V   -   Sintesi di Storia (1)

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Terminologia storica

 

1788-1791: la prima fase della Rivoluzione francese

 

La crisi della monarchia francese

 

In Francia, meno che altrove, la monarchia corrispose alle aspirazioni riformatrici della borghesia, che era, nondimeno, tra le più ricche e, intellettualmente, tra le più progredite d'Europa.
La dinastia borbonica aveva perduto molta parte del proprio prestigio e, dopo la morte di Luigi XIV, aveva legato la propria fortuna a quella degli ordini privilegiati, ostili a ogni forma di rinnovamento. I privilegi, le immunità, li ingiustizie di carattere feudale tipiche dell'Antico Regime resistevano infatti, in Francia, più che altrove nell'Europa centro-occidentale. Dopo un secolo e mezzo di monarchia assoluta, da Luigi XI a Luigi XIV, lo Stato moderno non era ancora realizzato annullando tali privilegi.
Uscita duramente sconfitta dalla Guerra dei Sette anni, la monarchia francese si era per di più impegnata nella lotta tra l'Inghilterra e le sue colonie d'America. Il bilancio, già fortemente passivo, ne ricevette un aggravio insostenibile e si prospettò una gravissima crisi finanziaria. La monarchia, rappresentata dal debole Luigi XVI (1774-1793), non fu capace di affrontare con energia la situazione e, riordinando l'amministrazione dello stato, di riacquistare quel credito, non solo morale ma anche finanziario, che era necessario per continuare a governare.
La causa fondamentale della situazione di malcontento prevalente in Francia stava nell'ingiusta e antieconomica distribuzione dei carichi fiscali che ricadevano quasi esclusivamente sulla borghesia commerciale e industriale e sui contadini, mentre gli ordini privilegiati, clero e aristocrazia, che pur possedevano larga parte della proprietà fondiaria, ne erano esenti. Vani riuscirono tutti i tentativi di riforma finanziaria intrapresi prima dal fisiocratico Giacomo Turgot (1774-76), chiamato dal re alla carica di Controllore generale delle Finanze, e poi dal liberaleggiante banchiere ginevrino Necker (1776-81). L'uno e l'altro, quando si spinsero sull'unica via che poteva fornire un rimedio alla situazione, quella di imporre una tassazione proporzionata a tutte le classi sociali, incontrarono la resistenza insuperabile degli ordini privilegiati, appoggiati dalla Corte, in cui dominava la regina Maria Antonietta, figlia di Maria Teresa d'Austria.

 

La Rivoluzione francese

 

Dall'Antico Regime alla Costituente
Nel 1788 Luigi XVI volle fare appello al paese perché lo aiutasse a riassestare le finanze pubbliche.
La monarchia giunse così alla convocazione degli Stato Generali del Regno, corpo rappresentativo in cui accanto ai deputati dei due Stati privilegiati, Nobiltà e Clero (rappresentanti di un totale 200.000 persone) stavano quelli del Terzo Stato (rappresentanti di tutto il resto della nazione, cioè circa 25 milioni di persone).
La convocazione degli Stati Generali, che non avveniva dal 1614, si presentava come il miglior mezzo per ovviare alla crisi, ma corrispondeva pure ai desideri della nobiltà, che lamentava la perdita dell'importanza politica goduta un tempo e che aspirava a riottenerla con la crisi del potere centrale. Ma il clima generale era mutato, e ciò si rese palese nell'importanza assunta dal Terzo Stato ancor prima della riunione degli Stati Generali, sottolineata da un'intensissima pubblicistica che vi contribuì in modo decisivo.
Quando si giunse alla riunione degli Stati Generali, dunque, la vittoria era già nelle mani del Terzo Stato, i cui rappresentanti erano in numero superiore a quelli degli altri due ordini messi insieme (5 maggio 1789). Inoltre, i rappresentanti di Nobiltà e Clero erano di fatto divisi tra loro, dal momento che tra essi c'erano, da una parte, numerosi elementi che esprimevano aperture liberali (come il Lafayette, che aveva partecipato alla lotta di indipendenza americana), dall'altra, un congruo numero di curati di campagna che erano solidali con il popolo loro affidato. Nel Terzo Stato, poi, era ormai chiara la coscienza di non costituire più uno “stato” della nazione, ma la nazione stessa.
Sfuggendo al tentativo della corona di tenere separate le diverse componenti della rappresentanza, definendo i limiti e le funzioni dei tre Stati, il 20 giugno del 1789 tutto il corpo rappresentativo si riunì presso la sala della Pallacorda e stabilì di non separarsi mai e di riunirsi ovunque le circostanze lo esigessero finché la costituzione del Regno non venisse stabilita e consolidata (Giuramento della Pallacorda).
Gli Stati Generali, allora, si trasformarono di propria iniziativa in Assemblea Nazionale Costituente, dotata dei poteri sovrani conferiti dalla stessa nazione.

 

La presa della Bastiglia
Il quadro politico francese del 1789, tuttavia, non si esaurisce nei tre Stati radunati dalla monarchia; entra in scena, infatti, un altro elemento, nuovo nel modo di agire e nella maturità dimostrata, con l'intenzione di assumere un ruolo di primo piano nella vita politico-sociale del paese, il popolo, che sollecita una stretta collaborazione con i rappresentanti del Terzo Stato nell'Assemblea.
Nel frattempo, l'ambiente di corte, sotto l'egida del Conte di Artois, uno dei fratelli del re, concepisce piani di restaurazione del potere assoluto della monarchia attraverso un colpo di stato militare. Vengono concentrate truppe (in genere svizzere, più affidabili al momento) e viene allontanato il Necker, sostenitore di misure moderate e di opportune concessioni; ma queste manovre finiscono per inasprire l'Assemblea e suscitare diffidenza nell'opinione popolare, creando l'atmosfera favorevole alla rivoluzione municipale di Parigi, che si manifesta con l'assalto e la conquista del carcere politico della Bastiglia (14 luglio), luogo simbolico del regime.
Da quel momento la rivoluzione è in atto e i suoi esponenti operano per darle una struttura organizzata: si costituisce la municipalità rivoluzionaria della metropoli parigina, si forma una milizia, chiamata poi Guardia Nazionale, cui viene posto a capo il Lafayette, si costringe il re a venire a Parigi per riconoscervi pubblicamente, al Palazzo di Città, il nuovo stato di cose, mentre il Necker viene in tutta fretta richiamato.
Il re, dal canto suo, cede ora alla municipalità parigina, come aveva poco prima ceduto all'Assemblea, mentre il partito aristocratico lo abbandona, e dà vita, con i suoi membri più rappresentativi a un movimento di emigrazione oltre frontiera verso i Paesi Bassi austriaci, la Germania, il Piemonte (dove si rifugia il Conte di Artois), che dall'estero continua l'opera di opposizione al nuovo regime.

 

La Dichiarazione dei diritti

 

Il temporaneo favore di cui gode il re di fronte all'opinione popolare non placa affatto, tuttavia, i timori di una cospirazione aristocratica.
La cosiddetta “grande paura” si diffuse quindi a diverse province francesi, estendendo il moto popolare parigino, creando in tutta la Francia una situazione sociale ed economica confusa e precaria.
Lo stato di agitazione delle campagne indusse l'assemblea a pensare all'abolizione del regime feudale, un passo fondamentale per il superamento dell'Antico Regime (agosto 1789), benché realizzata solo parzialmente per la complessità insita nel problema e per le resistenze e le difficoltà sollevate da non pochi degli stessi membri dell'Assemblea. Il dibattito sull'abolizione della feudalità, tuttavia, comportò la sua generalizzazione nella discussione sui diritti naturali dell'uomo vivente in società, conseguenza logica della mentalità razionalistica dell'Illuminismo, già peraltro sperimentata nella Dichiarazione americana del 1776.
Nasceva la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino (26 agosto 1789), in 17 articoli, che intendeva porre le basi di una nuova società fondata su principi di libertà e di uguaglianza, di cui affermava sentenziosamente la validità universale e perenne.
Tipica espressione della mentalità razionalistica e generalizzatrice francese, la Dichiarazione doveva acquistare il significato di fondamento solenne della vita etico-politica di tutta un'età.

 

Proseguiva intanto, al di fuori dell'Assemblea, la rivoluzione municipale avente come suo centro Parigi.
Cominciarono ad imporsi le figure che avrebbero avuto importanza determinante negli anni seguenti, il Marat, il Desmoulins, e altri pubblicisti che si facevano portavoce dei clubs rivoluzionari e democratici della grande città, che diffidavano dell'Assemblea, che ne reclamavano lo scioglimento e chiedevano il ritorno del re a Parigi.
Il 5 ottobre un corteo di parecchie migliaia di donne dei quartieri popolari parigini giunse a Versailles, la residenza del re, ed ottenne dal re in persona assicurazioni di rispetto per la costituzione che si veniva votando.
Luigi XVI dovette ritornare a Parigi, questa volta per rimanervi, mentre l'Assemblea lo seguiva: i rivoluzionari tenevano ormai sotto controllo sia la Corona sia l'Assemblea.

 

La Costituzione del '91

 

Nei due anni circa che seguirono, fino al settembre 1791, l'Assemblea assolse il suo compito di riorganizzazione dello Stato.
Anzitutto operò una radicale riforma della legislazione penale, garantendo all'accusato un'ampia e sicura salvaguardia dei diritti, fra cui quello di essere interrogato entro ventiquattro ore dall'arresto e il diritto all'assistenza di un avvocato.
La discussione del problema finanziario, poi, nella ricerca di una contribuzione straordinaria che colmasse il disavanzo, giunse, non senza opposizione, a deliberare la confisca dei beni ecclesiastici, che formavano circa un quinto della proprietà terriera francese. Sulla base della garanzia offerta da questo ingente patrimonio, che doveva essere venduto a poco a poco per non deprezzarne il valore, vennero emessi i cosiddetti assegnati, che avevano il duplice carattere di titoli di stato (con un interesse) e di cartamoneta per qualsiasi pagamento.
In terzo luogo venne affrontata la riorganizzazione territoriale, che veniva sostituendo la struttura esistente, formatasi nei secoli con il progressivo imporsi della corona sull'alta feudalità e pertanto profondamente differente da regione a regione. “Geometricamente” la Francia fu suddivisa in 83 Dipartimenti di estensione uniforme, a loro volta divisi in 9 comuni suddivisi al loro interno in 9 cantoni.
Il sistema elettorale fu poi “agganciato” al sistema dipartimentale, distribuendo i rappresentanti in proporzione al territorio, alla popolazione e alle contribuzioni di ciascun dipartimento; i cittadini vennero distinti in passivi (privi di diritto di voto) e attivi (che pagavano un'imposta minima), gli attivi in elettori (che pagavano un'imposta media) ed eleggibili (che pagavano un'imposta considerevole e possedevano una proprietà fondiaria).
Nel luglio del 1790, poi fu introdotta la Costituzione civile del Clero, che prevedeva la suddivisione del territorio francese in 83 diocesi, la designazione delle gerarchie ecclesiastiche per via elettiva e il conseguente giuramento di fedeltà dei prelati alla Nazione, alla Legge e al Re, la regolamentazione del trattamento economico dei ministri del culto a carico dello Stato e rigorosamente definito.

 

L'opera dell'Assemblea costituente, iniziata nell'estate del 1789, veniva a terminare nel settembre del 1791 con l'entrata in vigore della nuova costituzione, che proclamava il principio della “sovranità della nazione”, la quale delegava i suoi poteri all'Assemblea legislativa (potere legislativo), al re e ai suoi ministri (potere esecutivo) e a giudici di elezione popolare (potere giudiziario).
Tale costituzione dava alla Francia la struttura di una monarchia rappresentativa e garantiva la preminenza politica della classe dei borghesi proprietari; essa veniva discussa e approvata in un clima di crescente fermento e di contrasti fra il re, l'Assemblea, i vari partiti che si delineavano al suo interno e le forze extraparlamentari sempre più attive.

 

 

 

La Convenzione, il terrore e il Direttorio

 

L'avvento della Convenzione

 

Forze esterne alla Francia contribuivano ad aggravare la tensione:
 - la Curia romana, condannando la Costituzione civile del Clero, aveva reso più ferma la volontà di resistenza dei preti “refrattari”, i quali non avevano acconsentito ad abbandonare la tradizione;
 - l'emigrazione nobiliare, guidata da Torino dal conte di Artois, svolgeva un'attiva opera di propaganda antirivoluzionaria entro il territorio francese e di propaganda antifrancese all'estero, presso le potenze europee;
 - le potenze straniere mostravano avversione nei confronti dei principi rivoluzionari e ad un tempo cercavano di approfittare della situazione per indebolire una rivale potenzialmente pericolosa come la Francia.
A ciò si aggiunse il tentativo fallito di fuga da parte del re Luigi XVI, preoccupato della sicurezza personale propria e della sua famiglia; travestito, fuggì alla volta della Lorena, dove lo attendevano truppe fedeli, ma fu riconosciuto e quindi fermato (a Varenne) per essere riportato a Parigi (21 giugno 1791).
Nel periodo in cui la costituzione del 1791 veniva portata a termine e accettata dal re (settembre) era tuttavia già in atto un processo di critica e di revisione politica e sociale. Il re era stato reintegrato nella sua posizione, dopo il tentativo di fuga, me in alcuni gruppi politici si parlava ormai insistentemente di repubblica. Ciò accrebbe le rivalità, entro e fuori l'Assemblea, fra gli elementi democratico-repubblicani (Cordiglieri e Giacobini) e gli elementi moderati monarchico-costituzionali (Foglianti o i Girondini).
Ad aggravare il conflitto interno, poi, contribuì anche l'atteggiamento delle grandi potenze, in particolare Austria e Prussia, che nell'agosto 1791, con la Dichiarazione di Pillnitz si dissero pronte ad agire di comune accordo e con le forze necessarie per mettere il re di Francia in condizione di stabilire nella più assoluta libertà le basi di un governo monarchico.

 

Proprio in quel periodo avevano luogo le elezioni per la nuova Assemblea, avendo la prima, secondo la costituzione allora completata, compiuto il suo mandato. Essendo ineleggibili i membri della Costituente, i deputati dell'Assemblea Legislativa furono uomini nuovi e in gran parte giovanissimi, sensibili alla pressione degli elementi estremisti.
Questa nuova Assemblea fu indotta a mostrare il suo spirito intransigente con un'energica politica contro i nobili emigrati e i preti refrattari, che sollecitavano alla controrivoluzione intere regioni; in politica estera, poi, il ministero girondino subentrato nel marzo si pronunciò contro le nazioni che proteggevano e sollecitavano gli elementi controrivoluzionari e, un mese dopo, l'Assemblea decretò la guerra contro l'Austria.
La guerra alle frontiere e la situazione interna incerta favorirono gli elementi più estremi; nel giugno del '92 il Lafayette denunciava l'azione settaria dei Giacobini, mentre gli eserciti stranieri entravano in territorio francese.

 

Proclamato allora lo stato di emergenza, la Commissione dei dodici incaricata di farvi fronte si mosse in due sensi:
 - radicale politica rivoluzionaria per imprimere unità al paese
 - addestramento militare basato su un sistema di volontariato che doveva mutare la struttura sociale dell'esercito.
A questo punto si imponeva il problema della Monarchia: contro la maggioranza moderata dell'Assemblea, un comitato insurrezionale ordinò l'assalto al palazzo delle Tuileries, residenza del re, e fece chiudere Luigi XVI nella prigione del Tempio, imponendo all'Assemblea di dichiararne la deposizione (10 agosto '92).
In effetti l'Assemblea Legislativa si limitò a dichiarare il sovrano sospeso dalle sue funzioni, ma la situazione era praticamente la stessa.

 

La costituzione del '91 aveva fallito e si prospettava la necessità di formulare un nuovo testo costituzionale adeguato ai bisogni del momento.
A un solo anno dall'insediamento della Legislativa, pertanto, si svolsero le elezioni per la nuova assemblea, la Convenzione, incaricata di decidere la sorte dell'istituto monarchico e di elaborare la nuova costituzione.
Il 21 settembre 1792, il nuovo organismo assembleare, la Convenzione, al secondo giorno di attività, dichiarava abolita la monarchia e qualche settimana dopo iniziava a tenersi il processo contro il re, condannato e giustiziato il 21 gennaio 1793.

 

La Repubblica

 

Il colpo di stato Montagnardo
Portare il re sul patibolo significava implicitamente la rottura con l'Europa intera; del resto, fin dal luglio del '92, il comandante delle forze austro-prussiane aveva emanato un proclama che ammoniva i Francesi a non opporre resistenza agli eserciti alleati venuti a liberare il re.
Nel novembre dello stesso anno la Convenzione aveva risposto con un decreto che, promettendo l'aiuto della Francia a tutti i popoli desiderosi di conquistare la libertà politica e nazionale, sanzionava ufficialmente la politica estera di propaganda rivoluzionaria sostenuta dai Giacobini.
Dopo avere riportato anche qualche vittoria, tuttavia, gli eserciti rivoluzionari si trovarono di fronte, con l'entrata in guerra dell'Inghilterra e della Spagna (primavera '93), tutte le principali potenze europee riunite nella cosiddetta Prima coalizione.

 

I rivoluzionari reagirono a questo aggravarsi del pericolo esterno con un inasprimento delle repressioni interne, adottando misure precauzionali nei confronti di tutti i sospetti e gli emigrati, sospendendo l'inviolabilità dei deputati, restringendo la libertà di stampa e istituendo, infine, il Comitato di Salute Pubblica, incaricato di sorvegliare e rendere più sollecita l'azione dell'amministrazione (aprile 1793).
Tutte queste misure, come è chiaro, contraddicevano apertamente i principi dell'Ottantanove e miravano a raggiungere gli intenti della Rivoluzione legittimando il cosiddetto “dispotismo della libertà”.

 

Questo tipo di politica era tuttavia lontana dal riscuotere l'unanimità dei consensi in seno allo stesso campo repubblicano: i Girondini, infatti, si mostrarono in disaccordo nei confronti di Montagnardi e Giacobini e cercarono, nell'aprile del '93, di imporre alla Convenzione la discussione di una nuova costituzione e di ottenere la destituzione dei rappresentanti del Comune di Parigi, base d'azione degli estremisti.
Un nuovo comitato insurrezionale, però, sostenuto dalla capitale in rivolta, si impose alla Convenzione, facendo arrestare diversi suoi membri fra i più compromessi del partito girondino (2 giugno 1793).
I Montagnardi, quindi, stabilivano la loro dittatura; essi però si preoccuparono di ottenere l'adesione delle classi popolari, migliorandone le condizioni di vita e dando loro la costituzione da tempo promessa.
In pochi giorni tale costituzione repubblicana venne elaborata, discussa e approvata (24 giugno).

 

La Costituzione repubblicana
Vero atto rivoluzionario, la Costituzione del 1793 (o Costituzione dell'anno I) dichiarava la Repubblica Francese “una e indivisibile”, modificava il sistema elettorale restringendo il periodo di una legislatura a un anno e affidava il potere esecutivo a un Consiglio di 24 membri, da rinnovarsi per metà ad ogni legislatura.
La portata rivoluzionaria della nuova costituzione era data soprattutto dall'articolo del preambolo, che riconosceva il diritto all'insurrezione, che diventava, quando il potere costituito violava il diritto del popolo, il più sacro e inviolabile dei doveri.
Nel contempo i beni degli emigrati, da tempo confiscati come quelli del clero e in parte venduti come beni nazionali, vennero ora suddivisi in piccoli lotti alla portata, con un sistema di pagamento rateale, dei ceti rurali.

 

L'opposizione, però, sia antirivoluzionaria sia moderata era pur sempre forte, specialmente in provincia, e si manifestava in defezioni di città, in formazioni di corpi armati controrivoluzionari o in gesti clamorosi, come l'uccisione del Marat da parte di Carlotta Corday (13 luglio '93).

 

Il Terrore

 

In questo momento si impose la figura di Massimiliano Robespierre, chiamato alla fine di luglio del 1793 a far parte del Comitato di Salute Pubblica e divenutone presto l'effettivo capo.
Per far fronte al pericolo proveniente dagli Stati esteri, si decretava la leva in massa e si ponevano tutti i Francesi in stato di requisizione permanente al servizio dell'esercito (agosto). Perciò la Convenzione decretò una leva di trecentomila uomini. Ogni dipartimento doveva fornire un contingente in proporzione alla propria popolazione, ma in Vandea scoppiò la rivolta.
I contadini non volevano né potevano lasciare i campi e le famiglie e neppure capivano perché avrebbero dovuto farlo, dato chi il loro re era stato ghigliottinato e la loro Chiesa costretta al silenzio ad opera di una società urbana che li sfruttava. Sulle coste atlantiche, d'altronde, era più facile che altrove ricevere aiuti dalla flotta inglese. I controrivoluzionari, che si preparavano da tempo, organizzarono dei comitati monarchici e proclamarono re di Francia il figlio del sovrano morto, con il titolo di Luigi XVII. Cominciò una guerriglia partigiana fatta di imboscate dopo le quali i contadini nascondevano i fucili e si rimettevano a lavorare la propria terra.
In Vandea si formò un grande esercito cattolico e monarchico, di circa ventimila uomini, che impegnò le armate della Convenzione per tutta l'estate e l'autunno del 1793; gli orrori e le atrocità di questa guerra civile furono senza limiti. Non si facevano prigionieri, che venivano sistematicamente massacrati. nell'agosto del '93 la Convenzione decretò la guerra totale contro la Vandea, il cui esercito monarchico fu distrutto, ma riprese la guerriglia.
Veniva inoltre attuata un'audace politica finanziaria, con la quale gli assegnati erano svalutati e tutti i titoli di credito venivano unificati nel Debito pubblico della Repubblica, con l'intento di legare molti interessi privati alla sorte del regime esistente.

 

Giunta la notizia della presa di Tolone, nel sud della Francia, da parte degli inglesi, i capi rivoluzionari inasprirono ulteriormente la politica di repressione, instaurando il regime che rimase tristemente famoso con nome di Terrore.
Il controllo del Tribunale rivoluzionario di Parigi, istituito nel marzo del '93, si estese fino a togliere al cittadino qualsiasi possibilità di difesa legale contro l'autorità. Ex-aristocratici o loro dipendenti, costituzionali che si erano trovati in dissenso con la politica dei Montagnardi, generali che non avevano saputo riportare vittorie impossibili, venivano sottoposti a giudizio sommario e inviati alla ghigliottina; vennero così giustiziati la regina, il duca di Orleans, che aveva aderito alla Rivoluzione con il nome di Filippo Égalité, e la maggior parte dei deputati girondini arrestati in occasione del colpo di stato del 2 giugno.
Lo stesso feroce rigore venne usato contro le città ribelli (cioè propense a una politica più moderata), come Lione e Bordeaux
Mentre la situazione militare alla frontiera settentrionale veniva “salvata” con la vittoria di Wattignies (ottobre '93), veniva sviluppata dal Robespierre e dai suoi collaboratori una vera e propria teoria del governo rivoluzionario, che ammetteva la necessità di sospendere la libertà per portare a termine vittoriosamente la guerra contro tutti i nemici interni ed esterni della libertà stessa.
Veniva introdotto un nuovo calendario (che veniva fatto iniziare dal giorno successivo all'abolizione della monarchia) e la nuova religione dell'Essere supremo in sostituzione del culto cristiano.

 

Un nuovo tipo di esercito

 

Prima della Rivoluzione, in Francia come in tutti i Paesi europei, quello delle armi era un mestiere come ogni altro.
Ci si arruolava in cambio di uno stipendio e si veniva addestrati alle complicate manovre sul campo, per rimanere inquadrati per molti anni.
Gli ufficiali erano tutti nobili, quasi titolari delle proprie unità. Gli eserciti erano piccoli, ben preparati ma assai poco motivati a combattere.
La Rivoluzione cambiò tutto: in pochi mesi l'esercito regolare fu spazzato via dall'avanzata austriaca e prussiana, mentre gli ufficiali erano in larga misura emigrati.
Per un anno convissero in Francia due eserciti: uno professionista, ancora depositario di un'ottima preparazione, uno volontario, impreparato ma irresistibile nei suoi attacchi alla baionetta.
Con la leva di massa si procedette all'amalgama fra i due eserciti. Nel nuovo esercito francese le promozioni si ottenevano sul campo; non contavano più né la nascita né la preparazione accademica; i nuovi ufficiali provenivano quindi dai ranghi dei soldati e rimanevano vicinissimi alla truppa, con un forte spirito di corpo. Era un esercito immenso, non più con decine ma con centinaia di migliaia di uomini mobilitati, che si fondava sul coraggio individuale e sulla forza d'urto della massa, un esercito di popolo, intimamente appoggiato dalla nazione, che metteva in moto una gigantesca macchina di rifornimenti e faceva girare l'economia.
Gli altri eserciti, soprattutto quello prussiano, si adeguarono al modello francese e si trasformarono anch'essi in eserciti di popolo, in grado di competere con quello francese.

 

La caduta di Robespierre

 

In questa atmosfera di fanatismo estremo il terrore colpì gli stessi colleghi e collaboratori del Robespierre: Desmoulin, Hébert, Danton, tutti inviati alla ghigliottina dopo giudizi sommari.
All'inizio di aprile del 1794 il dittatore fece sopprimere il Consiglio esecutivo (il Consiglio dei ventiquattro), sostituito con commissioni particolare soggette al Comitato di salute pubblica e nel maggio i tribunali rivoluzionari provinciali furono assorbiti da quello parigino.

 

L'opposizione contro la dittatura del Robespierre e contro ciò che essa esprimeva era tuttavia sempre più generale e si manifestò in forma improvvisa e vittoriosa quando alcuni esponenti di primo piano dell'attuale regime si resero conto che solo abbattendo il dittatore avrebbero potuto salvare se stessi. Disperati, si opposero al Robespierre in piena Convenzione e riuscirono a farlo mettere in stato d'accusa.
Il dittatore, malgrado l'agitazione in suo favore dei quartieri popolari di Parigi, fu arrestato e subì la medesima sorte che aveva inflitto alle vittime del suo regime (28 luglio 1794).

 

La Costituzione dell'Anno III

 

Gli eventi del 27-28 luglio 1794 (arresto ed esecuzione di Robespierre) segnarono una svolta decisiva nella storia della Rivoluzione. Per la prima volta dalla presa della Bastiglia le forze insurrezionali parigine non avevano avuto l'ultima parola.
La Convenzione (cioè l'organo rappresentativo) riprese ad essere il centro del potere politico e iniziò un'opera di conciliazione degli animi, fatta eccezione per la persecuzione degli ambienti giacobini (novembre '74) che si volgevano alle masse indigenti per ottenerne l'appoggio. Nell'aprile e nel maggio dell'anno successivo i tentativi di riscossa messi in atto dai Montagnardi, vennero repressi con l'aiuto dell'esercito.
In tale atmosfera la commissione incaricata dalla Convenzione di preparare le leggi organiche per mettere in vigore la costituzione del '93 (la Costituzione dell'anno I), mai divenuta operativa per il colpo di stato, si lasciò trascinare a redigere una nuova costituzione, la cosiddetta Costituzione dell'anno III, approvata nell'agosto del 1795.
Questa costituzione ribadiva alcuni principi della costituzione del 1793 (in particolare l'unità e indivisibilità della Repubblica francese), ma in uno spirito molto diverso. Fu in parte ridotta l'estensione del corpo elettorale, permettendo il voto a chi pagasse un tributo, e si ribadì la divisione dei poteri, esclusa dalla costituzione del '93, istituendo un nuovo Corpo Legislativo, formato da un Consiglio degli Anziani e da un Consiglio dei Cinquecento, affidando il potere esecutivo a un Direttorio di cinque membri, nominati dal Corpo Legislativo, ma dotati di poteri relativamente ampi, e istituendo in ambito giudiziario un'Assemblea di revisione delle leggi.

 

Il Direttorio
L'inquietudine popolare, non accennava tuttavia a diminuire e verso l'ottobre del '95, a motivo delle operazioni elettorali per il nuovo Corpo Legislativo, che avevano suscitato proteste, diverse sezioni della capitale insorsero.
La Convenzione, allora, affidò l'incarico di far fronte alla situazione a uno dei Direttori, il Barras, che si valse dell'opera del generale di brigata Napoleone Bonaparte: nello spazio di poche settimane il Bonaparte, che aveva prontamente ristabilito l'ordine nella capitale, era nominato generale di divisione e comandante dell'armata dell'interno. Da allora ebbe inizio la sua brillante ascesa al supremo potere dello Stato.
Le difficoltà maggiori per il nuovo governo direttoriale erano naturalmente quelle di ordine finanziario: dovendo chiedere l'aiuto di potenti interessi bancari, dovette poi sottostare alle direttive degli istituti di credito; per liberarsene, del resto, avrebbe dovuto appoggiarsi ai generali, che pure disponevano di grandi somme, tratte dai paesi conquistati dai rinnovati eserciti della Repubblica, ma i generali, a loro volta, avrebbero imposto la loro volontà al governo, fino ad impadronirsene.

 

 

 

Napoleone Bonaparte: dalla prima campagna d'Italia a Ulm

 

 

La 1ª Campagna d'Italia e la spedizione in Egitto

 

La situazione militare e internazionale volgeva, nel frattempo, a favore della Francia.
La politica estera francese, che con la fine del 1792 aveva rinunciato, al carattere difensivo assunto nella prima fase della Rivoluzione, raccolse il frutto di due anni di febbrile attività sia nel campo militare sia in quello della penetrazione ideologica nei paesi stranieri.
Fin dalla primavera del 1795 la Repubblica francese aveva concluso la pace con la Prussia (trattato di Basilea: evacuazione francese della riva destra del Reno e occupazione temporanea della riva sinistra) e con la Repubblica delle Province Unite (trattato dell'Aia: pagamento di un'indennità di guerra alla Francia e di un'alleanza offensiva e difensiva fra i due paesi).

 

L'Austria e l'Inghilterra, invece, erano irriducibili e il Direttorio organizzò contro quella che appariva la più vulnerabile, l'Austria, un'offensiva generale che portò le armate francesi nella Germania centro-meridionale e in Italia. Il Bonaparte, al comando dell'armata d'Italia, dopo avere ripetutamente battuto sul campo le truppe piemontesi e austriache e dopo avere promosso la nascita di nuovi stati repubblicani, le Repubbliche Transpadana e Cispadana, ottenne dai piemontesi la cessione di Nizza e della Savoia (armistizio di Cherasco e pace di Parigi, aprile 1796) e dagli austriaci, valicate le Alpi a Tarvisio, la Lombardia e il Belgio (abbandonando invece Venezia agli Austriaci), il tutto senza attendere alcuna direttiva dal governo francese, ma agendo di propria iniziativa (preliminari di Leoben, aprile 1797, e trattato di Campoformio, ottobre 1797).
Il Trattato di Campoformio sanciva due cose: a) il crescente potere personale del Bonaparte, che aveva saputo imporre la propria volontà sia agli austriaci sia al governo francese, in merito alle questioni italiane; b) il ripudio della politica dei confini naturali sostenuta dalla Francia repubblicana.

 

Nella primavera del 1798 il Bonaparte interveniva con autorità a indicare quale atteggiamento la Francia dovesse assumere verso i territori stranieri annessi o da annettere in Italia e in Germania. La politica annessionistica da lui ispirata contribuì alla sua popolarità all'interno, ma finì per provocare un nuovo allineamento delle potenze europee contro la Repubblica.
Nell'autunno del '98 si costituiva così la Seconda coalizione (Inghilterra, Russia, Austria e Turchia), con l'intento di liberare la Svizzera, controllata dai Francesi, riconquistare la Lombardia, costituire tra Belgio o Olanda un unico e solido Stato-barriera, ricondurre la Germania all'assetto politico-territoriale del 1792. L'intento di riportare la Francia al suo assetto territoriale del 1792 avrebbe costituito la motivazione di tutte le successive coalizioni europee fino al 1815.
Il Bonaparte fece approvare dal Direttorio un proprio piano strategico che lo avrebbe impegnato contro l'Inghilterra in Egitto, un settore vitale per le comunicazioni della grande potenza coloniale.
Mentre altri generali tenevano vittoriosamente testa in Svizzera e in Olanda ad Austriaci, Russi e Inglesi, il Bonaparte, in Egitto, otteneva una vittoria contro i Mamelucchi alle Piramidi (luglio 1799) e, incurante del fatto che la squadra navale britannica dell'ammiraglio Nelson avesse distrutto la sua flotta (agosto), si lanciava contro i Turchi, sbaragliandoli in Siria e nuovamente in Egitto.

 

La fine della Rivoluzione

 

Il Consolato
Nell'ottobre, abbandonando il proprio esercito privo di navi in Egitto, il Bonaparte ritornava in Francia, dove alcuni tra i personaggi più in vista del regime direttoriale (compresi i fratelli Giuseppe e Luciano, il Talleyrand, il Sieyès, il Barras) lo attendevano per un colpo di stato.
Nel novembre, infatti, veniva posto termine con la forza (le truppe del Bonaparte evacuarono i Cinquecento dalla loro sede) al sistema di governo vigente e veniva ad esso sostituita una provvisoria Commissione consolare esecutiva incaricata di «riorganizzare l'amministrazione, ristabilire la tranquillità interna e procurare una pace onorevole e solida».
Il programma del Consolato corrispondeva pienamente alle esigenze della massa della nazione, la quale, stanca di guerre e di rivolgimenti interni, voleva vedere consolidate le maggiori conquiste della Rivoluzione ponendo fine, nel contempo, all'instabilità e all'incertezza che la Rivoluzione aveva inaugurato.
Nel dicembre del 1799 venne promulgata la quarta costituzione dall'inizio della Rivoluzione, la Costituzione dell'anno VIII, espressione del rigido criterio gerarchico con cui si voleva porre termina al disordine dell'epoca rivoluzionaria.
Il sistema elettorale fu abolito e ai cittadini fu dato un semplice diritto di designazione, mentre il potere era effettivamente conferito dall'alto. A capo del governo stavano tre consoli, nominati per dieci anni; al Primo Console, il Bonaparte, era riservata la nomina dei ministri, degli ambasciatori, dei generali, dei membri delle amministrazioni locali. Il potere legislativo era affidato a un Senato, nominato dal secondo e dal terzo console e dai suoi stessi membri, a un Tribunato e a un Corpo Legislativo. Potevano ricoprire le cariche relative a questi organi soltanto persone i cui nomi figurassero in liste di «notabili» accuratamente vagliate e controllate per escluderne tutti gli elementi ritenuti contrari o pericolosi.
La posizione centrale occupata dal Bonaparte offriva del resto ai più garanzia sufficiente al funzionamento dell'amministrazione all'interno e della difesa all'estero.

 

La 2ª campagna d'Italia

 

Dopo avere introdotto misure atte a produrre la riconciliazione degli animi (anche chiamando elementi dei precedenti regimi, addirittura pre-rivoluzionari, a partecipare al governo, mitigando o abolendo le disposizioni rivoluzionarie contro le varie categorie di proscritti), il Bonaparte, al fine di accrescere il consenso dei francesi nei proprio confronti si impegnò per ristabilire la situazione delle armi francesi, compromessa soprattutto in Italia, dove gli austriaci (coadiuvati dai russi) erano riusciti a riconquistare diversi territori.
Con la vittoria decisiva di Marengo, nel giugno del 1800, il Bonaparte ricostituì la Repubblica Cisalpina, mentre in Germania i suoi generali ottenevano altre vittorie.
L'imperatore Francesco II fu costretto alla pace, firmata a Lunéville nel febbraio del 1801. Con essa la Francia otteneva definitivamente la riva sinistra del Reno, mentre l'Austria riconosceva le repubbliche costituite o riformate sotto influenza francese (Batava [Paesi Bassi], Elvetica, Cisalpina e Ligure), pur conservando il territorio dell'ex Repubblica di Venezia fino al confine dell'Adige.
Seguirono la pace con la Spagna, che cedette la Louisiana, la pace con il re di Napoli, costretto a chiudere i porti agli inglesi, e con l'Inghilerra (dopo diverse vicende, trattato di Amiens, marzo 1802).

 

Le riforme napoleoniche

 

Con la pace di Amiens (marzo 1802) l'Egitto ritornava alla Turchia e Malta, occupata dagli Inglesi nel '99, finiva per divenire definitivamente inglese, mentre alla Francia veniva riconosciuta anche dall'Inghilterra la riva sinistra del Reno.
Ristabilita quindi la pace, il Bonaparte iniziò con il suo governo una vasta opera di riforma:
 - amministrativa (attuata con la nomina dei prefetti a capo dei dipartimenti),
 - finanziaria e tributaria (istituzione della Banca di Francia e di un ufficio per la riscossione delle imposte dirette),
 - giudiziaria (composizione del Codice napoleonico),
 - religiosa (conclusione del concordato con la Chiesa cattolica, sulla base del riconoscimento della religione cattolica come la religione della grande maggioranza dei Francesi e, da parte della Chiesa, del possesso dei beni ecclesiastici posti in vendita dai successivi governi rivoluzionari),
 - educativa (istituzione dei Licei di Stato),
 - culturale (riorganizzazione dell'«Istituto» fondato nel 1795 al posto delle antiche Accademie).
Nell'atmosfera ottimistica, coincidente con il ritorno della prosperità, il Bonaparte poté farsi assegnare da un plebiscito la carica di Console a vita (agosto 1802), facendo modificare la costituzione per accentrare maggiormente i poteri nella sua persona e ponendo, quindi, le basi per la trasformazione della Repubblica consolare nell'Impero napoleonico.

 

L'Impero

 

La scoperta di una congiura preparata da elementi emigrati per rovesciare il regime consolare e restaurare la monarchia – e contemporaneamente la ripresa della guerra contro l'Inghilterra – fornirono al Bonaparte l'occasione favorevole per ottenere, il 18 maggio 1804, la nomina a Imperatore dei Francesi, prospettata al popolo come una garanzia e una conferma solenne delle conquiste politico-sociali della Rivoluzione nonché della potenza raggiunta dalla nazione francese sotto Napoleone.

 

L'Italia dal 1796

 

Con l'armistizio di Cherasco (1796) il Piemonte veniva posto sotto il controllo militare francese. La Lombardia, intanto accoglieva con entusiasmo l'ingresso di Napoleone ed altrettanto entusiastica fu l'accoglienza riservata dagli emiliani ai francesi, tanto che proprio a Bologna furono poste le basi della prima repubblica italiana vassalla della Francia, la Cispadana. Nel 1797, poi, si costituiva la Repubblica Cisalpina, destinata a rappresentare, con le sue successive trasformazioni fino alla costituzione del napoleonico Regno Italico, l'ossatura fondamentale del sistema italiano instaurato dalla Francia in questo periodo.
La Repubblica Cisalpina, con capitale Milano, fu il centro politico e militare da cui i Francesi operarono per ristrutturare il territorio italiano secondo un modello organizzativo più idoneo a favorire gli interessi politici e militari della Francia.
La “tattica” francese faceva appello agli elementi più progressisti presenti nelle diverse zone per creare il consenso necessario tra le popolazioni per un ingresso non ostile degli apparati militari e di governo francesi. Tale tattica venne applicata a Roma, dove la repubblica poté realizzarsi nel 1798 (fuggito il papa Pio VI), in Piemonte, da dove Carlo Emanuele IV fu costretto a ritirarsi in Sardegna, abbandonando i suoi stati di terraferma, annessi integralmente alla Francia (dicembre 1798), in Toscana, dove anche il granduca fu costretto a lasciare i suoi stati, nel Regno di Napoli, dove Ferdinando IV di Borbone, dopo aver tentato di muovere guerra ai francesi insediati in Roma, dovette fuggire e rifugiarsi in Palermo sotto la protezione della flotta inglese, lasciando che a Napoli si costituisse una repubblica democratica partenopea (gennaio 1799).
L'Italia, salvo le isole e i territori della ex Repubblica Serenissima di Venezia, venne organizzata tutta in repubbliche sul modello della Repubblica francese.

 

Con la seconda campagna d'Italia nel 1800, poi, il Bonaparte ripristinò la situazione del '96-98 che si era deteriorata a favore delle forze antirivoluzionarie e antinapoleoniche le quali avevano riguadagnato terreno nella penisola, riprendendo la pianura padana e il napoletano, durante l'assenza di Napoleone impegnato in Egitto.
Nei cosiddetti Comizi di Lione i rappresentanti dei territori italiani furono allora coinvolti nella ristrutturazione della Repubblica Cisalpina che fu trasformata nella Repubblica Italiana (dicembre 1801-gennaio 1802), di cui il Bonaparte divenne il presidente, rappresentato dal vicepresidente milanese conte Francesco Melzi d'Eryl.
Nel 1805, infine, con la trasformazione della Repubblica Italiana in Regno Italico, di cui Napoleone fu il re e di cui fu viceré il figliastro di Napoleone Eugenio di Beauharnais, l'Italia appariva così suddivisa sotto l'influenza francese:
 - Piemonte, Liguria, Toscana e Lazio erano direttamente dipendenti dall'amministrazione francese come parti integranti dell'Impero;
 - dalla Lombardia al Veneto, all'Emilia e alle Marche si estendeva il Regno d'Italia;
 - sotto Gioacchino Murat, cognato di Napoleone (in luogo di Giuseppe Napoleone, destinato a reggere la Spagna) il Regno di Napoli.
Rimanevano escluse dall'assetto napoleonico le isole, la Sicilia sotto i Borboni e la Sardegna sotto i Savoia.

 

Le spartizioni della Polonia

 

Ad oriente dell'Europa tedesca altri paesi, benché lontani dal centro di irradiazione delle ideologie rivoluzionarie e dal centro di forza della Francia napoleonica, subirono in modo intenso gli effetti dei grandi eventi occidentali.
Spicca fra essi la Polonia, giunta all'inizio dell'epoca rivoluzionaria mutilata e umiliata dalla prima spartizione del suo territorio fra Russia, Prussia e Austria, avvenuta nel 1772. Sensibile nei decenni precedenti al movimento illuministico, la Polonia dopo lo scoppio della Rivoluzione francese si diede una nuova costituzione (1791) che poneva riparo ai maggiori difetti della costituzione antica. Fra l'altro:
 - veniva abolito il liberum veto che permetteva a singoli membri della Dieta di paralizzare le deliberazioni parlamentari e in certi casi di far piombare addirittura il paese nell'anarchia;
 - veniva migliorata la posizione giuridica dei contadini e venivano istituite due Camere;
 - l'istituto monarchico veniva reso ereditario e quindi stabilizzato.
Questa costituzione, tuttavia, salutata con simpatia dagli inglesi e dagli elementi moderati fra i rivoluzionari francesi, a offrì a Caterina II di Russia il pretesto per operare, d'accordo con la Prussia una seconda spartizione del paese (1793); secondo la zarina, infatti, la Polonia costituiva un pericoloso focolaio di giacobinismo nell'Europa centro-orientale.

 

Alla spartizione del '93 seguiva l'anno successivo un'insurrezione nazionale, sedata in modo cruento nel 1795 con la terza e definitiva spartizione della Polonia, che veniva cancellata dalla carte geopolitiche d'Europa, in quanto totalmente incamerata da Russia e Prussia. Soltanto nel 1808 il Bonaparte avrebbe ridato un'identità nazionale ai polacchi costituendo il Granducato di Varsavia.

 

La Terza Coalizione

 

L'istituzione dell'impero non incontrò sensibile opposizione all'interno, ma portò, nel 1805, alla formazione della Terza coalizione (Inghilterra, Austria e Russia) per opporsi alla politica di potenza condotta dalla Francia e all'usurpazione del titolo imperiale da parte di Napoleone.
Dopo l'alleanza di Inghilterra e Russia nell'aprile, l'Austria scese in campo più tardi, dopo che Napoleone assunse la corona di re d'Italia e procedette ad annettere Genova alla Francia (maggio-giugno).

 

A fronte di ciò, in un primo momento, l'intenzione di Napoleone fu quella di stroncare l'opposizione inglese, dando seguito allo sbarco sulle coste inglesi; già da due anni, infatti, egli aveva ammassato un consistente numero di uomini nella zona di Boulogne, sulla Manica, pronti a prendere il mare alla volta dell'Inghilterra, ma il piano dovette essere accantonato quando l'ammiraglio inglese Orazio Nelson riuscì a distruggere le flotte francese e spagnola presso capo Trafalgar (Spagna merid.), in modo da rendere impossibile il trasporto delle truppe francesi.
Sconfitto sul mare, il Bonaparte trasferì fulmineamente il suo esercito fino sul Danubio e ottenne due decisive vittorie sui campi di Ulm e di Austerlitz (ottobre-dicembre 1805) ottenendo la pace dall'Austria e il ritiro dal campo delle forze russe.

 

I cambiamenti politico-territoriali in Europa

 

Dopo Austerlitz il trionfo napoleonico fu completo.
A due principi tedeschi suoi alleati, gli elettori di Baviera e del Württemberg, egli «concesse» la corona reale; alla Prussia assegnò la regione dell'Hannover; all'Austria impose la cessione delle regioni del Tirolo e del Vorarlberger, in favore della Baviera, e della Venezia, della Dalmazia e dell'Istria a vantaggio del Regno d'Italia, risultato della trasformazione in regno della Repubblica Cisalpina.
Con tali dure condizioni l'imperatore dei francesi portava a termine la disgregazione del Sacro Romano Impero, tanto che alcuni mesi dopo, in conseguenza delle mutilazioni subite dal suo Stato, Francesco II era indotto ad assumere il semplice titolo di imperatore d'Austria e il nome di Francesco I.
Per sottolineare il suo trionfo personale, Napoleone costituì intorno all'Impero francese una serie di Stati «federativi» di entità diversa, assegnati in sovranità a suoi parenti e collaboratori con titoli di re, principi, granduchi:
 - il Regno di Napoli, tolto ai Borboni rifugiatisi in Sicilia, al fratello Giuseppe;
 - il Regno di Olanda al fratello Luigi;
 - il Principato di Neuchâtel, tolto alla Prussia, al maresciallo Berthier;
 - il Granducato di Berg al Murat;
 - ecc.
Collegata con questa politica familiare fu anche la politica matrimoniale, rivolta soprattutto verso le dinastie tedesche, riunite, sotto la “protezione” dell'Imperatore, nella Confederazione del Reno; si ebbero così le unioni tra il figliastro di Napoleone, Eugenio di Beauharnais, con Augusta di Baviera, quella di Stefania di Beauharnais con il principe ereditario del Baden, quella del fratello Gerolamo con la figlia del re del Württemberg.

 

 

 

Da Austerlitz a Lipsia

 

 

La Russia e l'Inghilterra, favorite dalla loro posizione geografica, poterono non piegarsi alla pace dinanzi al Bonaparte trionfatore in Europa; presto lo zar Alessandro riuscì a sottrarre la Prussia all'imposta alleanza con l'Impero napoleonico e si costituì la Quarta coalizione.
Fu proprio la Prussia a sostenere per prima e da sola il peso della guerra contro la Francia e lo sforzo le riuscì fatale: vinta sui campi di Jena e di Auerstadt, gli eserciti francesi ne occupavano il territorio (ottobre 1806).

 

Il blocco continentale e la pace di Tilsitt

 

Contro l'Inghilterra, in mancanza di una forza navale competitiva, emanò i decreti del “blocco continentale” (novembre 1806), che chiudevano i porti europei alle navi inglesi e proibivano alle navi continentali di recarsi nei porti inglesi.
Sul fronte orientale, dopo aver vinto lo zar Alessandro sul territorio polacco (1807), gli impose la pace di Tilsitt (luglio 1807).
In quell'occasione, l'accordo stabilito dai due imperatori, incontratisi personalmente, avrebbe dovuto imprimere un corso nuovo alla storia d'Europa, basato 1) sul principio della divisione delle sfere di dominazione diretta o d'influenza sul continente europeo fra l'Impero francese a occidente e l'Impero russo a oriente, e 2) sull'opposizione comune al predominio marittimo della Gran Bretagna.
In effetti, tuttavia, chi pagò le spese dell'accordo fu la Prussia, che dovette cedere i territori a ovest del fiume Elba, costituiti in Regno di Westfalia per Gerolamo Bonaparte, e le sue province polacche al nuovo Granducato di Varsavia, posto sotto la sovranità del re di Sassonia, alleato di Napoleone.
La Russia, aderendo all'imposizione di queste condizioni alla Prussia, riconoscendo la Confederazione del Reno e i regni napoleonici di Napoli e d'Olanda e promettendo a Napoleone la sua alleanza contro l'Inghilterra, si rassegnava a vedere l'influenza francese affermarsi in tutta l'Europa continentale.

 

La crisi e la caduta dell'Impero

 

Dopo il trattato di Tilsitt, Napoleone estese ancor più la sua potenza, nello sforzo di coordinare tutti i paesi europei nell'opposizione all'Inghilterra: nel novembre 1807 occupò il Portogallo, nel febbraio 1808 completò l'occupazione dello Stato della Chiesa, nel giugno dello stesso anno insediò il fratello Giuseppe sul trono di Spagna, assegnando il Regno di Napoli al cognato Gioacchino Murat.
L'alleanza con la Russia, però, fondamento della nuova politica napoleonica, pareva avviarsi alla fine; lo zar Alessandro, preoccupato dalla febbre annessionistica dell'alleato, nel Convegno di Erfurt (settembre-ottobre 1808) evitò di impegnarsi a fondo per l'avvenire.
Intanto la Spagna, per prima fra le nazioni europee, iniziò, guidata dalla “giunta” di governo stabilita a Cadice, una guerra insurrezionale contro i Francesi. L'esempio spagnolo incoraggiò i Tedeschi a compiere analoghi, benché isolati, tentativi per liberarsi dal dominio straniero, mentre l'Austria cercava si sollevarsi dall'umiliante posizione cui era stata relegata, scendendo di nuovo in campo contro la Francia, nel medesimo tempo in cui l'Inghilterra sbarcava in Portogallo un corpo di spedizione (Quinta coalizione, aprile 1809).
Napoleone reagì fulmineamente e soltanto un mese dopo entrava vittorioso in Vienna, nonostante una parziale sconfitta subita ad Aspern (maggio). Riportata una nuova vittoria a Wagram (luglio), imponeva la nuova pace di Vienna (ottobre 1809), intimando all'Austria la drastica riduzione degli effettivi del suo esercito, il pagamento di un'indennità, la cessione della Galizia settentrionale, di Salisburgo e della regione illirica rispettivamente al Granducato di Varsavia, al re di Baviera e direttamente alla Francia.
Nel frattempo Napoleone faceva arrestare il papa Pio VII (1809), il quale aveva scomunicato i Francesi conquistatori dei suoi stati (1808) e aveva negato il divorzio di Napoleone dall'imperatrice Giuseppina per il nuovo matrimonio con Maria Luigia d'Austria; il pontefice sarebbe poi stato trasferito a Fontainebleau come prigioniero (1812).

 

Altri avversari di Napoleone, inoltre, sorgevano tra i collaboratori, spaventati dalla politica annessionistica dell'imperatore, oppure anche all'interno della sua stessa famiglia, come il fratello Luigi re d'Olanda, urtato dalla politica accentratrice che rimaneva indifferente agli interessi dei singoli paesi.

 

Il colpo fatale all'Impero francese doveva però venire dal fallimento della colossale impresa di guerra organizzata da Napoleone contro la Russia, operazione che fu decisa dall'Imperatore dei Francesi quando la tensione, provocata dalla sua politica di annessioni, specificamente in relazione all'atto di ricostituzione della Polonia, rese l'urto inevitabile.

 

Nel maggio 1812, alla testa di un esercito di quasi settecentomila uomini, in cui i tedeschi, gli italiani e i polacchi erano in maggioranza, Napoleone mosse contro la Russia.
L'avanzata avvenne in un primo tempo senza cospicua opposizione da parte dei Russi che si ritirarono incendiando, fino ad abbandonare anche Mosca (incendiatasi per cause imprecisate quando già era nelle mani dei francesi), e costringendo gli invasori, privi di rifornimenti a ritirarsi nell'imminenza dell'inverno.
Tale ritirata risultò fatale agli eserciti napoleonici provati dalla mancanza di approvvigionamenti ed esposti ai rigori del clima e agli attacchi di sorpresa dei russi. Napoleone affrettò il suo rientro in Francia, ma intanto austriaci e prussiani defezionarono per unirsi nella primavera del 1813 agli anglo-russi (Sesta coalizione).

 

Gli eserciti della coalizione, dopo alterne vicende, riuscirono a sconfiggere il nuovo esercito napoleonico, fatto di giovani leve inesperte, nella battaglia di Lipsia, tra il 16 e il 19 ottobre 1813.
La Francia, incalzata dagli avversari, fu costretta a battersi alle proprie frontiere, e Napoleone, nel febbraio 1814, incalzato dalla forze dell'alleanza di Chaumont, dovette ripiegare su Parigi, costretto dalla superiorità degli avversari, e fu indotto dalla situazione a rinunciare al trono (6 aprile 1814), mentre il Senato decretava la restaurazione della monarchia borbonica.

 

 

 

Il Congresso di Vienna e la sconfitta definitiva di Napoleone

 

 

La pace con la Francia

 

Ancor prima che Napoleone avesse rinunciato al trono per sé e per i suoi successori (Trattato di Fontainebleau), gli alleati avevano indotto il Senato imperiale a designare un governo provvisorio e a preparare una nuova costituzione. Luigi, fratello del re ghigliottinato e zio del Delfino, che se avesse regnato sarebbe stato Luigi XVII, assumeva la corona, con il nome di Luigi XVIII.
Il 30 maggio del 1814 la Francia stipulava la pace con i suoi avversari (Trattato di Parigi), vedendosi riconoscere il territorio posseduto prima della Rivoluzione, più la Savoia, Avignone ed altri territori: una pace estremamente favorevole alla potenza vinta, soprattutto per volontà dell'Inghilterra, interessata a non infierire su di essa. La Francia, tuttavia, trasformava completamente il proprio assetto.

 

Il Congresso di Vienna

 

Nell'autunno dello stesso anno, a Vienna, si riunivano i delegati di tutte le potenze, grandi, medie e piccole dell'Europa per decidere il nuovo assetto territoriale del continente, ridisegnandone la carta geopolitica.
A Vienna spiccavano per importanza lo zar Alessandro I, accompagnato dal ministro Nesselrode, il principe di Metternich, cancelliere austriaco, il francese Talleyrand, divenuto ministro degli esteri della nuova monarchia francese, i ministri prussiani Hardenberg e Humboldt e il ministro degli esteri britannico lord Castlereagh.

 

Nell'intento di ostacolare un'eventuale ripresa espansionistica della Francia, gli alleati si preoccuparono di formare intorno al suo territorio una catena di Stati sufficientemente solidi ed ampi per sostenere il primo urto di quella che rimaneva, nonostante tutto, la prima potenza militare del mondo: un forte Regno dei Paesi Bassi, un nucleo compatto di territori tedeschi lungo il Reno sotto sovranità prussiana e chiamati “Prussia renana”, una Confederazione Elvetica ampliata per l'aggiunta di Ginevra, del Vallese e di Neuchâtel, e protetta da un particolare status internazionale, un ricostituito Regno di Sardegna, rafforzato con l'annessione dei territori dell'ex Repubblica di Genova.

 

Su questa parte del nuovo assetto europeo gli alleati si trovarono sostanzialmente d'accordo, ma l'assetto della parte centrale del continente rivelò le gravi divergenze d'interesse esistenti fra le quattro potenze vincitrici.
Inghilterra ed Austria aspiravano a far trionfare la politica dell'equilibrio europeo; Russia e Prussia aspiravano invece a mutare a proprio vantaggio l'equilibrio europeo, attraverso una politica di egemonia. Questo contrasto consentì al Talleyrand, sostenitore del principio di legittimità, secondo il quale ad ogni Stato dovevano essere riconosciuti i confini e i sovrani che aveva avuto prima della Rivoluzione, di insinuarsi fra i dissidi dei vincitori, restituendo alla Francia la sua posizione di grande potenza.

 

Il ritorno di Napoleone

 

Durante lo svolgimento del congresso, il Bonaparte, allontanatosi dall'Elba (ove era stato confinato) e sbarcato nella Francia meridionale, muoveva trionfalmente verso Parigi, ma veniva sconfitto definitivamente dagli eserciti della rinsaldata alleanza di Chaumont, riunitisi in Francia in tutta fretta, nella battaglia di Waterloo, il 18 giugno 1815.

 

Il 9 giugno, intanto, era stato comunque firmato l'atto finale del Congresso che definiva l'assetto dell'intero continente europeo.

 

 

 

Il Congresso di Vienna. Legittimità e nazionalità. La Restaurazione

 

 

La Santa Alleanza e la Quadruplice Alleanza

 

L'assetto europeo del giugno 1815 aveva sanzionato soprattutto la posizione di preminenza delle grandi potenze vincitrici:
 - la Russia, pur ostacolata dalle potenze fautrici dell'equilibrio, era pur sempre la più temibile aspirante all'egemonia europea;
 - la Prussia era riuscita nell'intento di appoggiare l'ambizione di essere leader del movimento nazionale tedesco a una solida base territoriale;
 - l'Austria era riuscita a riconfermare il proprio primato in Germania, assumendo la presidenza della Confederazione germanica e a stabilire il suo controllo sull'Italia;
 - l'Inghilterra aveva visto la sua potenza accresciuta da un predominio marittimo mondiale che nessuna singola potenza poteva osare contestarle e da un impero coloniale che, insieme con la sua attrezzatura industriale e commerciale, le procurava un'immensa ricchezza.

 

Sebbene la Prussia avesse considerevolmente rafforzato la sua posizione in Germania, mentre il pericolo di un'egemonia europea della Russia non poteva ritenersi scomparso, si può dire che in complesso le due potenze aspiranti a conseguire posizioni egemoniche avessero visto frustrate le loro ambizioni, e che le due potenze fautrici dell'equilibrio europeo fossero prevalse.
L'Austria, d'altra parte, malgrado il suo primato in Germania e il suo predominio in Italia, non poteva aspirare, come un tempo, all'egemonia europea, perché la sua particolare situazione e struttura interna non le consentivano altro che una prudente politica di conservazione: tale primato e tale predominio dovevano insomma servire sia a impedire i tentativi egemonici di altre grandi potenze più ambiziose, sia addirittura a conservarle la sua posizione di grande potenza.
Contro questa situazione cercò di agire la Russia soprattutto con quell'iniziativa dello zar Alessandro I che ha dato il suo nome a tutta la politica europea della Restaurazione, la Santa Alleanza (26 settembre 1815), che si presentava come un'intesa fra le nazioni cristiane atta a impegnarle ad una mutua collaborazione per il benessere e la felicità dei popoli e per l'eliminazione della guerra come mezzo per risolvere le vertenze internazionali.
La Santa Alleanza rispondeva a certi impulsi mistici e umanitari dell'animo dello zar, incline in quest'epoca a simpatie liberali, quelle stesse che l'avevano indotto a concedere una costituzione ai propri sudditi polacchi (giugno 1815); peraltro essa serviva assai bene gli scopi della politica russa, perché la Santa Alleanza risultava aperta a tutti gli stati cristiani e poteva in tal modo procurare allo zar degli alleati negli stati marittimi dell'Europa occidentale per la sua politica di opposizione al predominio marittimo mondiale dell'Inghilterra, mentre risultava preclusa al Sultano, contrapponendogli tutte le potenze europee e isolandolo di fronte alle mire espansionistiche russe nei Balcani.

 

Non è strano, pertanto, che l'Inghilterra non abbia aderito alla Santa Alleanza, e che il principe di Metternich vi abbia procurato l'adesione dell'Austria nel solo intento di controllare da vicino l'iniziativa dell'intraprendente zar e cercando, in seguito, di sfruttare tale struttura internazionale ai fini dell'atteggiamento di conservatorismo sociale propri della politica austriaca.
All'iniziativa dello zar, di fatto, la diplomazia britannica riuscì a contrapporre un rinnovamento del sistema diplomatico che era stato stabilito da lord Castlereagh con l'alleanza di Chaumont (1 marzo 1815) e fondato sulla stretta intesa delle quattro grandi potenze della coalizione antifrancese. Il 20 novembre 1815 veniva rinnovata la Quadruplice Alleanza fra Inghilterra, Austria, Prussia e Russia, la quale impegnava le potenze dell'ultima coalizione antinapoleonica a un'intesa in tempo di pace contro un'eventuale ripresa espansionistica francese, mentre, nell'intendo del Castlereagh intendeva impedire alla Russia di legarsi alla Francia e alle potenze occidentali dell'Europa sia per affermare la propria supremazia sul continente, sia per contrastare la supremazia britannica sui mari.

 

Così, il sistema diplomatico della Restaurazione, sotto un'apparente compattezza, si articolava in due sistemi sottilmente rivali, La Santa Alleanza, di iniziativa russa, e la Quadruplice Alleanza, di iniziativa inglese, destinati il primo a trasformarsi nello strumento della restaurazione secondo i criteri del Metternich, il secondo a scomparire con la riammissione della Francia fra le grandi potenze e con il raffreddamento dei rapporti austro-britannici.

 

Legittimità e nazionalità

 

Nel definire la struttura politico-sociale del continente europeo, le potenze vincitrici di Napoleone rivelarono nel complesso la tendenza a riportare l'Europa alle condizioni politico-sociale in cui si trovava prima dell'epoca rivoluzionaria.
Salvo alcune innovazioni istituzionali comunque conservate dal periodo rivoluzionario (la conferma dell'abolizione delle rimanenze di legislazione feudale, la semplificazione della struttura interna della Germania con l'abolizione implicita del Sacro Romano Impero, l'introduzione in Francia di un regime costituzionale), infatti, il fatto che in molte parti del continente venissero restaurate dinastie che avevano dovuto far luogo a parenti o luogotenenti di Napoleone, comportò un ritorno implicito ed esplicito al passato, in quanto queste dinastie tendevano naturalmente ad appoggiarsi sulle forze e sui ceti sociali cui erano state legate prima della loro estromissione, in odio alle innovazioni portate dai regimi napoleonici e agli stessi elementi locali che vi avevano aderito.

 

In contrasto con i tempi, laddove uno dei punti fondamentali della propaganda di guerra francese era stato la rivendicazione dei diritti dei popoli contro regimi che ne impedivano il libero sviluppo nazionale, i plenipotenziari della restaurazione si dimostrarono del tutto insensibili ai problemi nazionali, applicando integralmente i criteri della diplomazia dell'Antico Regime con le sue assegnazioni e i sui scambi indiscriminati di territori a seconda della convenienza dei sovrani, degli interessi delle potenze maggiori e delle esigenze strategiche.
Tale insensibilità per i problemi nazionali fu tanto maggiore in quanto i paesi d'Europa dove questi problemi erano più attuali, la Germania e l'Italia, erano stati posti sotto il controllo dell'Austria, cioè della potenza che, per la sua stessa struttura multinazionale, si trovava nella necessità di impedire che venissero riconosciute e soddisfatte le aspirazioni dei popoli privi di indipendenza o di struttura nazionale adeguata.

 

La Restaurazione in Francia

 

Luigi XVIII aveva subito «concesso» (in francese: octroyé, da cui il termine italiano “ottriato”, cioè concesso per graziosa benevolenza di Sua Maestà) una costituzione (1814), caratterizzata da estesi poteri della corona e da un corpo elettorale assai ristretto, che si ispirava più o meno fedelmente alla costituzione britannica (Parlamento bicamerale: Camera dei Pari, ereditaria, Camera dei Rappresentanti, a suffragio censitario).
Questo pur timido indirizzo costituzionale, che dagli ambienti liberali francesi rea stato considerato il punto di partenza di un più fecondo sviluppo, fu peraltro sottoposto all'opposizione sorda e intransigente dell'estrema destra (degli Ultras, i monarchici puri, gli ultra-realisti) in gran parte rappresentata da emigrati di ritorno in Francia pieni di rancore e di spirito di vendetta, che facevano capo allo stesso fratello del re, conte di Artois, il futuro Carlo X.
Il governo a capo del quale fu posto nel 1815 il duca di Richelieu, di tendenze moderate, faticò a mantenere la pace interna opponendosi alle pretese degli Ultras, che avrebbero voluto imporre la restituzione agli antichi proprietari aristocratici di tutte le terre passate ormai da una ventina d'anni ai nuovi proprietari provenienti dalle classi agricole o borghesi. Comunque, il Richelieu poté mantenere la politica del paese su una linea prudentemente moderata fino al pagamento dell'indennità di guerra e alla conseguente evacuazione del territorio francese dalle truppe occupanti alleate. Tale risultato fu ottenuto alla conferenza di Aquisgrana (autunno 1818), la prima delle riunioni fra ministri e sovrani previste dalla Quadruplice Alleanza fra le potenze vincitrici di Napoleone.
La Francia, pur rimanendo esclusa dalla Quadruplice, riacquistava, con la completa libertà d'azione, la sua posizione di grande potenza.

 

La restaurazione in Germania

 

In molti stati tedeschi, con la restaurazione, furono riconfermati sui troni i sovrani appartenenti alle dinastie dell'Antico Regime che nell'epoca napoleonica si erano piegati alla supremazia francese; ciò rese l'impatto delle decisioni del Congresso di Vienna meno sensibile rispetto a quanto accaduto in Francia.
Anche in Germania si pose il problema dell'introduzione del regime costituzionale. Nella stessa Prussia vi erano favorevoli alcuni uomini di governo, ma di parere contrario erano il re e molti ministri, per timore che tale regime potesse rendere più difficoltosa la coesione tra le antiche e le nuove province del regno.
Nella parte occidentale della Germania, invece, data la stessa struttura della società caratterizzata da un maggiore sviluppo del ceto borghese, si offrivano maggiori possibilità di introduzione di regimi rappresentativi, come avvenne nel Württemberg, nel Baden e nella Baviera.
Peraltro, esisteva già in Germania un movimento studentesco universitario che esprimeva un relativo liberalismo, intendendo liberalismo e nazionalità come concetti affini e inseparabili, sintetizzabili nel desiderio del superamento delle divisioni esistenti fra i tedeschi dei diversi stati del Reich come unità federativa.

 

Tale movimento preoccupava soprattutto l'Austria (che deteneva la presidenza della Confederazione germanica), cioè la potenza che più di ogni altra avrebbe sofferto la disgregazione dal progresso in corso dei movimenti nazionali. Il Metternich, approfittando dell'unico incidente verificatosi in seno al movimento, l'uccisione del giornalista russo Kotzebue, un informatore dello zar Alessandro (che in quel periodo manifestava simpatie per certi atteggiamenti liberali), invitò i nove maggiori stati tedeschi a una conferenza, che si riunì nell'agosto del 1819 a Carlsbad, e fece in modo di imporre ad essi, escluse a questo punto le interferenze di Alessandro I, la propria linea conservatrice, facendoli impegnare per un rigido controllo delle università e della stampa.
Con il successivo Atto di Vienna, del principio del 1820, lo statuto della Confederazione germanica veniva interpretato in modo tale da assegnare alla Dieta, presieduta dall'Austria, il diritto di intervenire in diversi casi sugli affari interni degli stati membri, proclamando così solennemente il diritto di intervento ai fini della conservazione del regime stabilito al Congresso del 1814-15.

 

La restaurazione in Italia

 

In Italia, invece, come in Francia, la restaurazione comportò significativi cambiamenti rispetto alla situazione creatasi nel periodo napoleonico.

 

Organizzando i propri domini diretti, l'imperatore d'Austria pose a capo del Regno Lombardo-Veneto un viceré, residente a Milano, che per altro non ebbe alcuna autonomia. L'amministrazione fu affidata in buona parte a una burocrazia austriaca onesta, scrupolosa, ma estranea alla popolazione come le truppe imposte come presidio, i cui effettivi provenivano da altre parti dell'impero. Opprimente, poi, si mantenne costantemente l'atteggiamento della polizia austriaca, cui era di fatto affidato il compito di mantenere la situazione nelle condizioni di immobilità politica e sociale che erano ritenute a Vienna la condizione necessaria per la sopravvivenza stessa dell'Impero.

 

Nel Regno di Sardegna, dove era ritornato Vittorio Emanuele I di Savoia, rifugiatosi in Sardegna durante il periodo napoleonico, i quadri dell'amministrazione e dell'esercito vennero ricostituiti seguendo criteri di intransigente epurazione, di quanti avevano aderito al regime filofrancese, o di gretta discriminazione sociale, anteponendo gli elementi di estrazione aristocratica a quelli di provenienza borghese, specialmente tra gli ufficiali dell'esercito.

 

Nel Ducato di Parma e nel Granducato di Toscana prevalse una linea di mitezza paternalista che avrebbe incoraggiato lo sviluppo economico e che tollerava le attività di iniziativa culturale, anche se improntate da un moderato liberalismo.

 

Nel Ducato di Modena, al contrario, Francesco IV di Asburgo Este si rivelò un reazionario miope e ambizioso nello stesso tempo, instaurando un ferreo regime poliziesco.

 

Ancora più retrograda fu la razione nello Stato della Chiesa, diviso in quattro Legazioni e quindici Delegazioni, tutte governate da prelati, e oppresso da una potente e insidiosa polizia.

 

Nel Regno delle Due Sicilie, nuovo nome dell'antico Regno di Napoli, sotto la restaurata monarchia borbonica si ebbe uno sconfortante regresso rispetto al regime napoleonico di Giuseppe Bonaparte e soprattutto di Gioacchino Murat.
Benché Ferdinando I di Borbone, per gli impegni contratti prima di riottenere il regno, conservasse gran parte della legislazione introdotta durante il periodo napoleonico, nonché il personale civile e militare dello stato murattiano, l'inadeguata applicazione delle leggi, dovuta alle deficienze del governo e all'inerzia e alla corruzione diffuse in tutta l'amministrazione civile, rese intollerabile il clima della restaurazione, gravemente compromesso, anche qui, dalla presenza di un'onnipotente polizia diretta da figure di fanatici esponenti di una setta reazionaria.

 

 

 

La Santa alleanza e il principio dell'intervento. Le insurrezioni e le repressioni tra 1820 e 1825

 

 

L'opposizione alla Restaurazione in Italia

 

Le forze di opposizione all'assetto del 1815 erano rappresentate da minoranze esigue, formate in prevalenza da uomini che avevano partecipato nel settore civile o in quello militare agli eventi di cui l'Italia era stata partecipe negli ultimi decenni. Gli sconvolgimenti sociali portati dalla Rivoluzione, le prospettive di unità nazionale fatte balenare da Napoleone, rendevano l'Austria e i sovrani italiani della Restaurazione assai meno illuminati e disposti a incoraggiare e consentire il progresso economico e civile di quanto non fossero stati l'Austria e i sovrani italiani della seconda metà del secolo XVIII.
Se, ad esempio, l'iniziativa prerivoluzionaria del Caffè, periodico di ispirazione liberale animato dall'opera dei milanesi fratelli Verri, aveva goduto di un certo clima di tolleranza, pochi anni dopo la Restaurazione, l'atteggiamento assunto dal governo di Federico I verso il Conciliatore, organo dell'opinione illuminata milanese fondato per iniziativa del Confalonieri e del Pellico, fu radicalmente diversa e portò presto alla sua chiusura (1819).

 

In tale clima le sette si diffusero intensamente nell'Italia della Restaurazione sia tra i fautori della reazione sia fra gli oppositori.
Tra le filiazioni della Massoneria, apertamente favorita e diffusa da Napoleone, la Carboneria fu quella che ottenne lo sviluppo maggiore, differenziandosi dal movimento massonico, teorico, francofilo e universalistico, per i suoi caratteri pratico, italianeggiante e tendenzialmente cattolico.
Accanto ad essa sorsero altre associazioni, che mantennero di necessità il carattere della segretezza, senza invece assumere particolari linguaggi in codice, come il movimento dei Federati piemontesi, che penetrò anche in Lombardia.

 

La rivoluzione napoletana e le conferenze di Troppau e di Lubiana

 

La parte d'Italia in cui la Carboneria fu più diffusa e potente, dato il permanere nell'amministrazione civile e nell'esercito di elementi già ad essa affiliati fin dai tempi napoleonici, fu il Regno delle Due Sicilie. Qui essa giunse praticamente ad identificarsi con le tendenze riformatrici che volevano la prosecuzione dell'opera intrapresa nel periodo napoleonico e arrestata dalla monarchia borbonica; i liberali meridionali aspiravano a riprendere, con l'introduzione del regime costituzionale il ritmo di sviluppo assunto dal regno nel periodo appena trascorso.
Sotto l'impressione del movimento insurrezionale scoppiato in Spagna nel gennaio del 1820, nel luglio dello stesso anno ebbe inizio la rivoluzione nel Regno delle Due Sicilie.
Subito il movimento si diffuse nell'esercito per l'adesione di molti ufficiali superiori, così che il re fu costretto a scendere a patti, accettando la formazione di un ministero costituzionale e l'introduzione della costituzione spagnola del 1812.
Nell'ottobre, tuttavia, il principe di Metternich convocava a Troppau, in Slesia, una conferenza delle grandi potenze che doveva decidere la soppressione del costituzionalismo nel Regno delle Due Sicilie. La conferenza emise un dichiarazione in cui veniva ufficialmente formulato il principio dell'intervento, da applicarsi a tutti gli stati dell'Alleanza europea, cioè a quelli che avevano sottoscritto l'Atto finale del congresso di Vienna.
L'anno successivo, per risolvere il problema specifico del Regno delle Due Sicilie, venne convocata nel gennaio una nuova conferenza, a Lubiana, ove fu invitato Ferdinando I di Borbone, che il governo costituzionale di Napoli lasciò partire dopo averne ottenuto la solenne promessa di restare fedele al giuramento costituzionale e di sostenere presso le grandi potenze il nuovo assetto politico del regno. Il re, tuttavia, a Lubiana si guardò bene dal farlo e non ritornò che al seguito dell'esercito austriaco.
Rientrato a Napoli, Ferdinando si abbandonò a una repressione crudele, che alienò definitivamente alla monarchia borbonica le simpatie della classe progressiva. L'esercito napoletano venne sciolto e sostituito dalle forze d'occupazione austriache fino al 1827.

 

I moti piemontesi del 1821

 

All'interno del movimento costituzionale piemontese prevalsero i Federati aristocratici.
La tradizionale devozione per la monarchia sabauda si manifestò qui nella ricerca di una previa intesa con la corona, stabilendo contatti diretti con il principe Carlo Alberto di Savoia Carignano. Egli avrebbe dovuto fare da intermediario fra i liberali e Vittorio Emanuele I, evitando ai Federati di assumere atteggiamenti di opposizione rivoluzionaria alla monarchia e inducendo d'altra parte il re a rendersi conto delle esigenze di progresso di quella parte della classe dirigente subalpina.
Il principe, però, non fu all'altezza del compito, del resto assai difficile, e dopo aver dato quella che ai liberali parve un'adesione all'inizio del movimento, all'ultimo momento cercò di farlo sospendere.
L'insurrezione, tuttavia, ebbe luogo e si diffuse da Alessandria a Torino (12 marzo).
Vittorio Enanuele I, troppo mite per ordinare la repressione militare, ma troppo devoto ai principi legittimistici per accettare il nuovo ordine di cose che i liberali volevano imporgli, preferì abdicare; in assenza dell'erede al trono Carlo Felice fu nominato reggente Carlo Alberto di Carignano, cha sanzionò la costituzione di Spagna (del 1812) prima di riparare a Novara, per ordine del sovrano legittimo, dove le truppe erano rimaste fedeli al re.
Ben presto le forze lealiste, supportate da 15.000 austriaci inviati dal Metternich, poterono reprimere facilmente il costituzionalismo piemontese.

 

L'ambiguo atteggiamento di Carlo Alberto aveva creato il diffidente disappunto delle potenze reazionarie, ma aveva d'altra parte creato una barriera di rancore fra il principe sabaudo e i liberali italiani, che avrebbe avuto ripercussioni notevoli sullo svolgimento futuro degli eventi. La reazione alle rivoluzioni del 1820-21 si era dunque attuata sotto la direzione dell'Austria, nello spirito della politica della Santa Alleanza.

 

L'intervento in Spagna del 1823

 

La più importante delle rivoluzioni europee del 1820-21 aveva preceduto i moti italiani; la sua repressine, nel 1823, coincide don il periodo di apogeo della Santa Alleanza in cui il principio dell'intervento venne applicato ai fini specifici di impedire l'evoluzione costituzionale degli stati europei.
La restaurazione di Ferdinando VII di Borbone, rientrato nel paese nel 1815 per merito de proprio popolo, che era stato il primo a iniziare la lotta delle nazionalità contro la dominazione napoleonica e aveva espresso nella costituzione del 1812 la sua volontà di associare all'indipendenza nazionale un regime di libertà, ne deluse le aspettative.
La monarchia restaurata aveva abolito la costituzione e aveva fatto imprigionare indiscriminatamente collaboratori del regime napoleonico e liberali che contro tale regime avevano combattuto. Tale politica di ripristino della situazione prerivoluzionaria, poi, avrebbe dovuto essere completata, nelle intenzioni del re, dalla restaurazione del dominio spagnolo nei territori del Centro e del Sud America.
Proprio tra le truppe riunite a Cadice per essere trasferite oltre Atlantico, tuttavia, scoppiava, il 1° gennaio 1820 un movimento insurrezionale che, diffusosi presto in altre province, costrinse il re, il 7 marzo, a formare un governo costituzionale e ad accettare la costituzione del 1812.

 

La rivoluzione spagnola pose l'Europa di fronte a un problema di complessa gravità.
La Spagna era il primo paese europeo dove si fosse manifestata un'aperta e vittoriosa opposizione all'assetto della Restaurazione, ma aveva affidato la direzione del nuovo assetto agli stessi uomini che avevano guidato la lotta antinapoleonica.
Non si sapeva, d'altra parte, fino a che punto il nuovo regime trovasse rispondenza nel paese né a quale potenza affidare l'eventuale compito di repressione, visto che la Francia (l'unica potenza europea confinante con la Spagna) sembrava nel 1820 poco disposta a porsi al servizio delle potenze che le avevano imposto la pace del 1815.
Tutto ciò portò ad un accantonamento del problema spagnolo, fino a quando il Metternich, a Troppau e a Lubiana, non ebbe definito meglio i principi del sistema dell'intervento, sentendosi in grado di applicarli o di farli applicare in un ambito più vasto rispetto alle zone di diretta influenza austriaca, come l'Italia.
Nel 1822, tuttavia, la posizione della Francia, cui per motivi logistici doveva necessariamente essere affidato l'intervento in Spagna, era mutata a motivo del desiderio di restituire al paese una posizione di prestigio in Europa; pertanto, la coincidenza fra gli intenti della politica della Santa Alleanza e quelli della politica francese venne sanzionata dalle decisioni della Conferenza di Verona (autunno 1822), in esecuzione delle cui deliberazioni, l'anno seguente, un esercito francese entrava in Spagna, infrangeva la resistenza dei costituzionali, soprattutto a Cadice (agosto 1823), e restaurava la monarchia assoluta.

 

A Ferdinando VII non restava che ristabilire l'ordine in Spagna, ma i territori americani risultavano ormai irrimediabilmente perduti.
Alla Conferenza di Verona, del resto, l'Inghilterra risultava ormai defilata dalle posizioni dei suoi alleati continentali, in procinto di abbracciare la politica del cosiddetto «splendido isolamento». Già diversi mesi prima che la conferenza di Troppau emanasse la solenne dichiarazione sul principio dell'intervento, infatti, l'Inghilterra si era contrapposta alla Santa Alleanza con il principio del non intervento, secondo il quale essa si avviava a sostenere tutte quelle realtà insurrezionali che la Santa Alleanza avrebbe voluto contrastare. L'allontanamento dell'Inghilterra dai suoi alleati continentali, si accentuò poi nel 1822, quando a lord Cstlereagh, morto tragicamente, successe come ministro degli esteri George Canning. Questi, oltre a rendere più intransigente e più manifesto il ripudio della politica dell'intervento contro i movimenti liberali, cercò di opporsi in concreto all'azione della Santa Alleanza in Portogallo, al quale Ferdinando VII avrebbe voluto estendere la propria sovranità, e soprattutto nei territori americani che costituivano di diritto l'impero coloniale spagnolo.

 

Gli Stati Uniti

 

Intorno agli anni venti dell'Ottocento la politica degli Stati Uniti si svolse secondo due direttive principali:
 - portò a un'espansione nell'America settentrionale che ebbe per oggetto le regioni già facenti parte dell'Impero coloniale spagnolo;
 - aspirò ad assumere la protezione dell'intero continente contro la politica d'intervento della Santa Alleanza.
Nella questione dell'indipendenza delle colonie spagnole la politica statunitense fu contraddistinta da un graduale irrigidimento di posizioni, reso possibile sia dalle difficoltà sempre più palesi della Spagna di imporre nuovamente il proprio controllo sul suo antico impero coloniale sia dall'aiuto decisivo dell'Inghilterra.
Nel 1819 il governo di Washington affermava la sua posizione di neutralità fra la Spagna e le sue colonie; nel 1821 esprimeva la “speranza” del riconoscimento da parte della Spagna dell'indipendenza delle sue colonie, nel 1822 riconosceva di fatto i nuovi stati e infine, al principio del 1823, consigliava ufficialmente ai nuovi stati la forma repubblicana, la sola conforme ai principi americani, formulando in seguito la cosiddetta dottrina di Monroe, secondo la quale qualsiasi iniziativa di potenze europee per sottoporre nuovamente a regime coloniale i territori del continente americano che avessero proclamato la loro indipendenza, sarebbe stata considerata un atto di ostilità verso gli Stati Uniti (discorso del 2 dicembre 1823).

 

Il movimento di indipendenza nell'America latina

 

I creoli, formanti una casta dominante ricca e autoritaria, conservavano i tratti d'orgoglio degli antichi dominatori spagnoli, ma i contatti stabiliti da successive generazioni con un ambiente fisico e umano assai diverso da quello della madrepatria e il senso di antagonismo che spesso li contrapponeva a funzionari e ufficiali provenienti dall'Europa nonché l'educazione liberale ricevuta da molti di essi soprattutto in Francia, li resero sensibili alle idee di libertà politica e di indipendenza nazionale di ispirazione nordamericana o francese.
Il sistema di protezionismo imperiale stabilito dalla Spagna, inoltre, obbligava i creoli a vendere i loro prodotti alla madrepatria in quantità minore di quella che avrebbero potuto facilmente ottenere e ad un prezzo inferiore rispetto a quello che avrebbero potuto realizzare in altri mercati.
A partire dal 1808, in concomitanza con l'occupazione napoleonica della Spagna, i territori latinoamericani iniziarono a organizzare un movimento, dapprima disordinato, di indipendenza che, intorno al 1825, poteva considerarsi realizzata in forma repubblicana, salvo che nelle Antille, che rimanevano dominio spagnolo, e in Brasile, che per vicende legate all'influenza inglese in Portogallo, si sarebbe proclamato indipendente in forma monarchica e solo in un secondo tempo si sarebbe trasformato in repubblica federale.

 

 

 

L'indipendenza greca

 

 

La penisola Balcanica e l'indipendenza greca

 

Già nell'epoca napoleonica, per l'influenza delle idee occidentali di libertà individuale e di indipendenza nazionale, si erano avuti nei Balcani movimenti di violenta opposizione alla dominazione turca: in Serbia, nel Montenegro e nei principati danubiani di Moldavia e Valacchia, attigui all'impero russo e all'impero asburgico, e quindi sensibili all'influenza delle due grandi potenze.

 

Il primo dei popoli balcanici ad ottenere l'indipendenza, tuttavia, fu quello greco, per un complesso di fattori storici e geografici legati alla situazione internazionale del tempo.
L'opposizione alla dominazione turca era guidata in Grecia dall'Etería, una società segreta costituitasi sul modello di quelle dei paesi occidentali d'Europa. Essa contava sia su un'azione insurrezionale sia sull'appoggio dello zar Alessandro I, che si pensava avrebbe dato seguito a una direttiva ormai consolidata della politica estera russa, vale a dire l'influenza nei Balcani ai danni dell'impero turco.
I greci insorsero nel 1821 e con il congresso di Epidauro (1822) chiesero ufficialmente l'aiuto delle potenze europee e cristiane convenute nella conferenza di Verona.

 

L'appello alle grandi potenze e soprattutto la più o meno esplicita inclinazione della Russia a intervenire fecero assumere al movimento d'indipendenza greco un'importanza internazionale eccezionale, che ne fece un elemento di indebolimento e di crisi della Santa Alleanza.
Il movimento greco si presentava alle potenze della Santa Alleanza come un tentativo rivoluzionario contro un sovrano legittimo, il sultano turco, e pertanto, per coerenza ideologica, avrebbe dovuto essere condannato come gli altri movimenti di natura affine sorti in altri settori dell'Europa; in quanto movimento di una popolazione cristiana contro la dominazione turca, tuttavia, esso si prestava a interpretare un'istanza ammissibile per la Santa Alleanza, legata al riscatto dell'Europa dalla dominazione degli infedeli.
Nella posizione più imbarazzante era la Russia, la quale vedeva la più forte delle sue direttive politiche, quella della protezione dei cristiani dei Balcani contro la Turchia, paralizzata da quella stessa Santa Alleanza che essa aveva creato. Tale situazione, però, non impedì al Alessandro I e, dopo la sua morte nel 1825, al fratello Nicola I, di seguire tale direttiva, che portava l'Impero zarista a espandersi nell'Europa orientale balcanica fino a stabilire il proprio controllo sugli Stretti.
Indubbiamente, peraltro, ciò indebolì il blocco delle potenze della Santa Alleanza, consentendo all'Inghilterra di avere una parte di primo piano nella sistemazione della questione greca e ponendo dall'altra parte l'Austria in una difficile posizione.

 

Nel 1824 l'Inghilterra si opponeva al progetto russo di convocare una conferenza europea sulla questione greca e proponeva la propria mediazione fra il sultano e i greci, che intanto avevano conquistato quasi tutto il Peloponneso (Morea); nel 1825 Alessandro I manifestava l'intenzione di muovere guerra alla Turchia, ma moriva prima di avere iniziato l'impresa; nel 1826 Inghilterra e Russia si accordavano impegnandosi a seguire una politica comune in caso di fallimento della mediazione.
Il sultano, tuttavia, chiamando in proprio aiuto Mehemed Alì, pascià d'Egitto, capovolgeva la situazione militare in Morea, respingeva la mediazione britannica e costringeva le potenze europee a confrontarsi nella conferenza di Londra (luglio 1827), in cui Inghilterra, Russia e Francia decidevano l'intervento armato.
Fra le squadre navali delle tre potenze convenute nelle acque greche e la flotta turco-egiziana, avveniva, nella rada di Navarino, un incidente, che provocava un furioso cannoneggiamento in seguito al quale le forze turco-egiziane venivano completamente distrutte (ottobre 1827).
Navarino veniva a costituire un disastro per la Turchia e un fortunatissimo incidente per lo zar, che poteva iniziare la guerra (1828) invadendo la penisola balcanica, mentre l'Inghilterra cercava l'appoggio francese per opporsi all'azione espansionistica russa e risolvere nello stesso tempo la questione greca.
Solo nel settembre del 1829, quando l'esercito russo già minacciava Costantinopoli, si giungeva alla pace di Adrianopoli fra la Turchia, che accettava la costituzione di uno stato greco, di cui l'anno seguente avrebbe dovuto riconoscere la piena indipendenza, e la Russia, che veniva indotta, per il momento, a rinunciare alla vagheggiata spartizione dell'Impero ottomano e si limitava a ottenere la costituzione nei principati danubiani di Moldavia e di Valacchia di un governo nazionale sotto la sovranità della Turchia, ma sotto la propria "garanzia", cioè sotto il proprio effettivo controllo.

 

Il neonato Regno di Grecia fu posto sotto un principe della casa di Baviera, Ottone di Wittelsbach.

 

 

 

Carlo X, la rivoluzione del luglio 1830, la rivoluzione belga e polacca

 

 

La politica di Carlo X in Francia

 

La situazione politco-sociale della Francia della Restaurazione si era fatta più difficile dopo l'evacuazione delle truppe alleate (1818).
Lo spirito pieno di rancore e di intransigenza degli Ultras (estrema destra aristocratica), che il moderato ministro duca di Richelieu era riuscito a contenere con l'appoggio delle stesse potenze alleate, dominò la vita pubblica francese dopo il 1820. Nuove elezioni da parte del ristrettissimo corpo elettorale, infatti, portarono alla Camera una maggioranza di estrema destra che provocò la caduta del ministero Richelieu e la formazione di un ministero reazionario Villèle.
La volontà di ristabilire la situazione interna, politica e sociale, dell'Antico Regime si accentuò poi ulteriormente con la morte di Luigi XVIII e l'assunzione al trono, con il nome di Carlo X, del conte di Artois, deciso a ridare al potere regio i caratteri e le forme della monarchia di diritto divino (1824).

 

Cresceva, intanto, in questa situazione di evidente distacco dal regime dominante del corpo della nazione, l'opposizione, soprattutto liberale, che si appoggiava alla media e alta borghesia che, dal tempo della Rivoluzione, aveva man mano consolidato la propria posizione economica.
Nel 1829 il re affidò il potere al reazionario principe di Polignac; la Camera protestò, ma il re la sciolse, contando, per offrire un diversivo all'eccitazione che serpeggiava nel paese, sul proseguimento e sull'intensificazione dell'ambiziosa politica estera, iniziata con l'impresa di Spagna del 1823, che avrebbe dovuto riconciliare con la Monarchia tutti i Francesi memori della gloria, della potenza e del prestigio dell'Impero. A questi fini di politica interna, pertanto, fu legata l'attiva politica di conquiste coloniali nell'Africa settentrionale iniziata con l'occupazione dell'Algeria nella primavera del 1830. Carlo X era convinto che la spedizione in Algeria, annunciata mentre si attendevano e si svolgevano le nuove elezioni seguite allo scioglimento della Camera dopo la brusca imposizione del ministero Polignac, influisse sull'elettorato in senso favorevole alla sua politica.
Alla nuova Camera, tuttavia, si venne costituendo un'opposizione più forte, ma il re non seppe tenere conto dell'implicito ammonimento. Continuando ostinatamente a credere che la fortunata impresa africana avesse creato nel paese un'atmosfera a lui favorevole, in concomitanza con l'annuncio della conquista di Algeri emanò le cosiddette Ordinanze del 26 luglio, per cui:
 - la convocazione della nuova Camera era rinviata,
 - il già esiguo corpo elettorale era ristretto ulteriormente,
 - la stampa veniva sottoposta a severo controllo.

 

La rivoluzione di luglio e l'Europa

 

Il tentativo di colpo di stato perpetrato da Carlo X, effettuato nel momento stesso in cui il paese, sebbene il regime rappresentativo fosse limitato ai ceti più alti, aveva espresso chiaramente la propria opinione contraria all'indirizzo politico seguito dal re e dal suo governo, fece immediatamente prorompere il movimento rivoluzionario nelle tre giornate parigine del 27, 28 e 29 luglio 1830, favorito dal contegno indeciso, se non favorevole, dell'esercito, in cui gli elementi bonapartisti erano pur sempre presenti e attivi.
Il problema più difficile per i capi della rivoluzione, vista la fuga all'estero di Carlo X, fu quello di conciliare i bonapartisti, che pensavano di restaurare sul trono il figlio del grande imperatore, il duca di Reichstadt, i repubblicani (tra cui il vecchio Lafayette), pronti a ritentare l'esperienza della prima rivoluzione, e i liberali, più o meno moderati, che di fatto si rivelarono capaci di assumere il controllo della situazione.
La chiave della soluzione fu individuata nel duca Luigi Filippo d'Orleans, di sangue nobile e nel contempo figlio di Filippo Égalité, antico combattente delle guerre rivoluzionarie, capace di impedire alla situazione di imboccare la strada radicalmente rivoluzionaria e nel contempo garante anche per i sentimenti dei democratici.
Luigi Filippo accettò dalla Camera la corona reale e con essa una nuova costituzione che, in realtà, conservava buona parte degli articoli della carta di Luigi XVIII (con Parlamento bicamerale: camera dei Deputati, a suffragio censitario, e camera dei Pari, a nomina regia). Il corpo elettorale veniva ampliato, benché di poco, la Francia tornava ad assumere come bandiera il tricolore rivoluzionario e napoleonico, il sovrano assumeva il titolo di re dei Francesi, a ribadire il ripudio dell'antica mentalità dello stato patrimoniale.
La rivoluzione si concluse rapidamente e il regime costituzionale assunse carattere prudentemente moderato.

 

La formazione della Monarchia di luglio, come fu chiamata la monarchia costituzionale francese sotto Luigi Filippo d'Orleans, fu salutata con entusiasmo dai liberali europei, che videro in essa la prima felice applicazione delle loro concezioni politiche, mentre venne accolta con sospetto, ma senza una precisa e solidale volontà di assumere una posizione contraria da parte delle potenze della Santa Alleanza, trattenute dall'intervenire sia da difficoltà interne sia dalle grandi possibilità militari della stessa Francia sia dall'atteggiamento prudente, ma in sostanza favorevole, dell'Inghilterra di fronte al nuovo regime costituzionale francese.
La Francia del 1830, dal canto suo, non intraprese il cammino della Francia del 1793, ma fondò la sua politica internazionale sul principio del non intervento, cioè il monito alle potenze della Santa Alleanza a non intervenire contro qualsiasi eventuale mutamento dello stato istituzionale e territoriale europeo, di fronte al quale la Francia stessa si sarebbe riservata la possibilità di intervenire con un controintervento a favore degli ipotetici insorti. Il principio del non intervento, peraltro, sarebbe stato applicato di fatto a seconda delle possibilità specifiche della politica francese, sulle quali avrebbero influito molto sia considerazioni di carattere geografico-strategico sia i calcoli personali da parte di Luigi Filippo sia le tendenze dell'opinione pubblica interna.

 

La rivoluzione belga

 

Il settore d'Europa i cui la politica della Monarchia di luglio poté ottenere rapidamente i maggiori successi fu la regione che oggi corrisponde al Belgio, facente parte, tra il 1815 e il 1830, del Regno dei Paesi Bassi, voluto dalle grandi potenze al congresso di Vienna come l'unione delle antiche Province Unite olandesi degli antichi Paesi Bassi austriaci.
In questa nuova compagine statale le differenze di lingua (olandese e francese) e di religione (protestante e cattolica), stante il predominio della parte olandese, non avevano permesso l'integrazione delle popolazioni, e ben presto un consistente movimento di opposizione al governo centrale si era sviluppato nelle Fiandre, la parte meridionale del regno, dove i liberali avevano potuto trovare un accordo con i cattolici.
L'opposizione, trasformatasi in una serie di manifestazioni nella città di Bruxelles, consolidò la propria configurazione di movimento indipendentista tra l'ottobre e il novembre del 1830, con la formazione, in Bruxelles, di un governo provvisorio e di una Assemblea costituente, che decise un assetto istituzionale monarchico costituzionale. Nel frattempo, però, il sovrano legittimo, Guglielmo I di Orange Nassau aveva fatto ricorso alle grandi potenze, conferendo al problema belga un carattere internazionale.
Ciò dimostrò quanto la rivoluzione parigina di luglio avesse cambiato la fisionomia dell'Europa: Francia e Inghilterra, infatti, si opposero unite alla politica delle potenze dell'Europa centro orientale, rimaste fedeli alla politica di intervento della Santa Alleanza. Prevalse, quindi, per iniziativa inglese, l'idea di una conferenza internazionale per la soluzione del problema belga, che venne tenuta a Londra fra il dicembre 1830 e il gennaio 1831.
Venne così proclamata la neutralità del Belgio, riconosciuto indipendente, e si convenne che il sovrano sarebbe stato scelto al di fuori delle famiglie regnanti delle grandi potenze.
I Belgi, dal canto loro, ritenendo troppo angusti i confini dello stato loro riconosciuto, facevano appello a Luigi Filippo, offrendo la corona belga a uno dei suoi figli, ma il sovrano francese, declinando l'offerta, per il timore dell'opposizione britannica e generalmente delle potenze europee alla formazione di un paese che sarebbe naturalmente gravitato nell'orbita francese e che avrebbe costituito una minaccia per la sicurezza dell'Inghilterra, convinse i belgi, nel giugno del 1831, ad accettare la volontà delle grandi potenze e a offrire la corona a Leopoldo di Sassonia Coburgo, che divenne re Leopoldo I re dei Belgi, adottando la formula che, come in Francia, implicitamente ripudiava il principio della patrimonialità dello stato.

 

Il 1830-31 in Polonia, Italia, Germania e Svizzera

 

Il Regno di Polonia, costituito nel 1815 sulla base del napoleonico Granducato di Varsavia e posto sotto la sovranità dello zar, aveva ricevuto da Alessandro I una costituzione, che riservava l'amministrazione dello stato ai Polacchi, attribuiva la potestà legislativa a una Dieta elettiva, stabiliva la formazione di un esercito separato da quello russo e garantiva la libertà individuale, di stampa e del culto cattolico.
Malgrado alcune restrizioni, intervenuto soprattutto dopo il 1820, il regime esistente in Polonia era più liberale sia di quello del resto dell'Impero zarista sia di quello cui erano sottoposte le minoranze polacche in Prussia e in Austria.
Nell'autunno 1830, tuttavia, sotto l'influenza degli eventi dell'Europa occidentale, i polacchi allontanarono il viceré e formarono un governo provvisorio, chiedendo allo zar la riconferma della costituzione del 1815 e l'estensione dei confini fino a comprendere i territori già posseduti dalla Polonia prima della spartizione del 1772.
Il rifiuto opposto da Nicola I indusse la Dieta a proclamare l'indipendenza (gennaio 1831) e a richiedere nel contempo il sostegno delle potenze occidentali, in particolare della Francia, la quale, invece, proprio in questa occasione, si espresse limitando l'estensione della validità del principio del non intervento esclusivamente alle regioni ad essa limitrofe, lasciando così libero campo allo zar, il quale, con ingenti forze, riuscì dopo circa sette mesi a riportare la Polonia all'interno della sua completa sovranità.

 

 

 

L'Inghilterra dal 1815 al 1832. L'Europa assolutista e l'Europa liberale

 

 

In Italia una serie di moti insurrezionali, conseguenti ai movimenti francesi e ottimisticamente legati alla speranza di un sostegno da parte della Monarchia di Luglio, furono repressi dall'intervento militare austriaco tra il Mantovano e lo Stato Pontificio.

 

In Germania, più che veri e propri movimenti insurrezionali, le ripercussioni degli avvenimenti francesi si tradussero in un consolidamento delle forze di opposizione all'assetto del 1815.

 

In Svizzera, soprattutto per impulso dei Cantoni di religione protestante, si iniziò la campagna per la trasformazione del paese da Confederazione di Stati in Stato federale, che si sarebbe chiusa nel decennio successivo non senza il ricorso alla guerra civile (1847).

 

L'Inghilterra dal 1815 al 1832

 

La politica estera inglese aveva assunto un atteggiamento progressivamente ostile alla Santa Alleanza e un carattere relativamente liberale.
All'interno, la situazione dell'Inghilterra dell'età della Restaurazione era contraddistinta da un rigido conservatorismo sociale e, nelle classi popolari urbane, da un miseria impressionante.
Il grave disagio economico di una parte del popolo inglese era dovuto soprattutto alla rivoluzione industriale in corso ormai da qualche decennio; accanto alla formazione di un'industria su ampie basi capitalistiche, essa aveva provocato la formazione di un proletariato industriale non ancora fornito di adeguati mezzi di difesa sindacale contro lo sfruttamento degli imprenditori, mentre il costo della vita era mantenuto elevato dalla preminenza in Parlamento dei proprietari terrieri, che tenevano all'imposizione di forti tariffe doganali sui prodotti agricoli per poter ottenere alti profitti.
Tale situazione portò a gravi incidenti e addirittura a una cospirazione contro i membri del governo.
Per reprimere il malcontento il governo tory ricorse a rimedi eccezionali, sospendendo o limitando alcune delle tradizionali “libertà inglesi”, quali la libertà di stampa e di riunione.

 

Tra il 1820 e il 1830, tuttavia, la situazione complessiva poté migliorare grazie all'intervento di William Huskisson, fautore di una politica economica liberistica e soprattutto di Robert Peel, ministro degli Interni, che si adoperò per restituire ai cattolici gli stessi diritti politici goduti dagli altri cittadini britannici (1829).
Sul fronte whig, invece, si sosteneva la necessità di una strutturale riforma elettorale, problema che si rese particolarmente emergente intorno al 1830: alle elezioni generali dell'agosto, la maggioranza whig-radicale poté rovesciare il governo tory e, nella persona di lord Gray, trovò il leader capace di attuare, nell'arco di due anni, il Reform Act, la grande riforma elettorale.
Con la riforma del 1832 veniva completamente ridistribuito il numero dei seggi di rappresentanza, sottraendone molti al controllo che singoli proprietari terrieri esercitavano sui cosiddetti borghi putridi (rotten boroughs), città decadute e spopolate in conseguenza delle mutate condizioni socio-economiche, per formare nuove circoscrizioni elettorali soprattutto nelle città industriali sviluppatesi nel corso degli ultimi decenni. Inoltre, veniva abbassato il censo necessario per essere elettori, aumentando notevolmente il corpo elettorale con l'includervi gran parte delle classi medie.

 

L'Europa occidentale costituzionale

 

I mutamenti sopravvenuti nella struttura interna degli stati dell'Europa occidentale portarono a significative conseguenze nel campo della politica internazionale.
Il nuovo ministro degli esteri inglese nel governo Grey, lord Palmerston, intese impostare la politica internazionale del paese sul principio secondo il quale gli stati costituzionali erano in naturali alleati dell'Inghilterra.
Dal canto suo il cancelliere austriaco Metternich, allarmato dall'indirizzo liberale della politica delle due grandi potenze occidentali, volle rinsaldare i vincoli fra le potenze rimaste fedeli allo spirito della Santa Alleanza: Austria, Russia e Prussia strinsero così gli accordi di Münchengrätz, che diedero vita alla Nuova (o Seconda) Santa Alleanza (1833).
In Europa si delinearono così due blocchi di potenze, divisi oltre che da interessi diversi, da ideologie politico-sociali opposte e contrastanti, che si riflettevano nelle rispettive istituzioni: nell'Europa centro-orientale dominava incontrastato l'assolutismo monarchico, nell'Europa occidentale predominava il costituzionalismo moderato. Tale contrapposizione assunse carattere più esplicito quando Inghilterra e Francia, dopo avere favorito la formazione del Regno costituzionale dei Belgi (sulla base della prima Entente cordiale [Intesa cordiale]) vollero certificare con un trattato l'appoggio alle tendenze costituzionali affermantisi in Spagna e Portogallo.
Con la Quadruplice Alleanza del 1834, Francia e Inghilterra si impegnarono a sostenere i regimi costituzionali di Isabella di Spagna e di Maria del Portogallo contro le tendenze reazionarie attivamente sostenute dalla Nuova Santa Alleanza.

 

 

 

Correnti politico ideologiche nella prima metà dell'Ottocento: il Liberalismo moderato

 

 

Liberali e democratici

 

Nella prima metà dell'Ottocento l'aspetto più influente del liberalismo fu il costituzionalismo, che, da un lato, in polemica con i regimi legittimistici e assolutistici, dall'altro, con le tendenze democratico-repubblicane, si poneva come programma l'introduzione o la conservazione del regime monarchico costituzionale.
Tale fu il programma dei liberali francesi dell'età della Restaurazione (e poi della Monarchia di luglio) e dei moderati italiani, da Cesare Balbo a Massimo d'Azeglio, al Cavour.
Caratteristica concreta del liberalismo moderato (soprattutto italiano) era quella di voler attuare le necessarie trasformazioni politiche senza che ciò comportasse trasformazioni o anche soltanto turbamenti dell'ordine sociale. Il tentativo era quello, ove possibile, di trovare l'accordo con i sovrani legittimi e assoluti, così da ottenere una ragionevole e pacifica trasformazione delle istituzioni politiche, ma nello stesso tempo di controllare le tendenze estreme, democratiche e repubblicane.
I liberali moderati, inoltre, erano favorevoli all'introduzione di un suffragio elettorale ristretto alle classi più elevate, per sfiducia nella classe popolare, ritenuta strumento cieco dei reazionari, e per resistenza a cedere alle classi inferiori le prerogative sottratte all'aristocrazia privilegiata e gelosamente fatte proprie.

 

Accanto al liberalismo moderato nacque a metà del secolo il cattolicesimo liberale, che caldeggiava l'impegno della Chiesa a favore delle tendenze costituzionaliste.
Condannato da papa Gregorio XVI, il cattolicesimo liberale ottenne una notevole diffusione in Belgio, Francia, Polonia, Irlanda, Prussia renana e stati tedeschi del sud; in Italia, con il successore di Gregorio XVI, Pio IX, giunse addirittura, sotto l'aspetto neoguelfo, ad assumere, tra il '46 e il '48, la direzione del movimento nazionale.

 

 

 

Liberalismo, democrazia, radicalismo e socialismo

 

 

Legate al liberalismo dalla comune opposizione allo stato e alla società della Restaurazione, e tuttavia ben distinte da esso dall'ampiezza e all'intransigenza dei loro programmi riformistici, quando non dai loro programmi rivoluzionare, appaiono in questo periodo le tendenze democratiche.
Il liberalismo moderato sovrapponeva ai principi dell'Ottantanove, vale a dire quelli della Dichiarazione dei diritti, un più accentuato individualismo e un riformismo ridimensionato in base all'esperienza della Rivoluzione; i democratici in genere, invece, tendevano a rimanere fedeli alla concezione giacobina della collettività egalitaria che deve imporre a tutti e a qualunque costo la propria volontà sovrana.
I democratici europei, quindi, indicavano nella repubblica la forma ideale dello stato, in cui la sovranità popolare avrebbe potuto esprimersi totalmente, cioè in cui vigesse il suffragio elettorale universale.
La composizione sociale dei movimenti democratici risultava soprattutto dall'apporto della borghesia media e piccola dei professionisti, dei pubblicisti e degli intellettuali.

 

Radicalismo e socialismo

 

Accanto alle posizioni liberali e a quelle democratiche, all'interno delle quali emergevano personalità o gruppi di più spiccato tono radicale, cioè determinati ad atteggiamenti più incisivi e drastici, emergevano, in concomitanza soprattutto con le trasformazioni sociali apportate dalla rivoluzione industriale le nuove correnti socialiste.

 

Solo molto grossolanamente si può collocare il radicalismo in posizione intermedia fra il liberalismo e la democrazia. In linea generale si può dire che i radicali partecipavano alla tendenza del liberalismo ad attuare il progresso attraverso riforme e avevano in comune con i liberali l'individualismo. La stessa ampiezza e profondità delle riforme auspicate dai radicale tendeva, tuttavia, ad avvicinarli ai democratici, con i quale avevano in comune la concezione razionalistica della vita e dell'umanità, di derivazione illuministica.
Il termine “radicale” pertanto viene attribuito a tendenze e a personalità del tempo in se stesse molto diverse, ma vicine per il rilievo dato innanzitutto ai problemi sociali ed economici a preferenza che a problemi propriamente politici.

 

La più antica e significativa forma di radicalismo è costituita dal cosiddetto radicalismo filosofico sorto in Inghilterra alla fine del secolo XVIII per impulso di Jeremy Bentham. Sempre in Inghilterra viene considerato radicale il movimento promosso e capeggiato da Richard Cobden, volto all'introduzione del sistema liberistico. In Francia, invece, il radicalismo tende a confondersi con le correnti democratiche repubblicane, mentre in Italia si ha il liberalismo radicale di Carlo Cattaneo, l'economista milanese che sostenne una soluzione federalistica del problema italiano.

 

Accanto alle tendenze radicali e democratiche bisogna poi ricordare il crescente movimento del socialismo, ancora configurato secondo una prospettiva umanitaria e “utopistica”, destinata a scomparire per fare spazio alla successiva tendenza “scientifica” intrapresa dal socialismo marxiano.
Anche rispetto a questo movimento la Rivoluzione francese ha esercitato il suo influsso; essa infatti ha ispirato una iniziale coscienza di classe nei ceti popolari (il quarto stato) o quantomeno nei rappresentanti più qualificati di esso, i quali si erano resi conto che la lotta del terzo stato contro i privilegiati era stata condotta a vantaggio della sezione più ricca e più elevata di esso, ossia della borghesia, la quale tendeva a sostituire ai privilegi giuridici dell'antico regime criteri di discriminazione economica che dividevano la società non più in privilegiati e non privilegiati, ma in ricchi e poveri.
Peraltro, la Rivoluzione aveva anche radicato un sentimento di avversione e di timore per le soluzioni violente ed estreme, e aveva stimolato l'aspirazione a trovare soluzioni pacifiche ai problemi sociali, che, tra l'altro, divenivano sempre più gravi a motivo delle mutate relazioni tra i ceti (soprattutto borghesia e proletariato) dovute allo sviluppo industriale.
In tale atmosfera psicologica, sociale e politica nacquero e si svilupparono le teorie socialistiche, filantropiche, umanitarie e utopistiche che precedettero la nascita del socialismo scientifico marxiano. Il socialismo umanitario aspirava a riforme della società, da attuarsi pacificamente e senza forme di lotta aperta, tali da migliorare radicalmente le condizioni di vita delle classi popolari.

 

 

 

Il socialismo utopistico

 

 

Diversi furono gli esponenti delle nuove tendenze socialiste:
 - Robert Owen divenne famoso, fin dall'epoca napoleonica, per l'efficienza con cui seppe organizzare a New Lamark, in Scozia, una fabbrica modello in cui gli operai erano trattati molto più umanamente che non nelle altre industrie britanniche del tempo. Visto il successo, Owen si lanciò a formulare piani di ricostruzione comunistica della società che urtarono contro l'ovvia incomprensione delle classi dirigenti del tempo, grazie anche al loro carattere di inverosimiglianza; inoltre egli cercò di organizzare la National Consolidated Trades Union (1833), che raccogliesse i lavoratori dell'industria e dell'agricoltura, e tentò negli Stati Uniti un esperimento analogo a quello di New Lamark, che però si chiuse in un totale fallimento in cui l'Owen perse tutti i beni.
Owen esercitò probabilmente anche una certa influenza sul movimento radicale del Cartismo, attivo intorno alla metà del secolo, così chiamato perché si proponeva di far accettare una “Carta del popolo” (definita nel 1838) che conteneva le rivendicazioni politiche delle classi lavoratrici: suffragio universale, legislature annuali (cioè brevi), segretezza del voto, abolizione delle restrizioni censitarie per i candidati al Parlamento.
 - Henri de Saint Simon auspicava una ricostruzione della società da attuarsi sotto la guida di una classe di scienziati e di industriali (da qui il nome di “industrialismo” assegnato alla sua dottrina) capace di assicurare, con il proprio vantaggio, anche il progresso sociale ed economico del proletariato.
 - Charles Fourier concepiva una forma di cooperativa fra i lavoratori compartecipanti agli utili, che avrebbero dovuto vivere in comune in edifici appositi, detti falansterii (abitazioni delle falangi), specie di comunità socio-economiche autonome.
 - Pierre-Joseph Proudhon riconosceva la proprietà privata come mezzo e incentivo al lavoro, ma sosteneva l'abolizione, attraverso l'istituzione di una banca centrale che agisse a vantaggio della società senza percepire interessi, delle rendite dei capitali mobili e immobili che consentivano a una parte della comunità di vivere improduttivamente e nell'ozio.
 - Louis Blanc riteneva possibile che lo stato, entro la struttura capitalistica della società, potesse progressivamente costruire una nuova struttura politico-economica di tipo socialistico, capace ad un certo punto di sostituirsi all'antica. Egli ebbe modo di cominciare ad attuare questo programma di intervento quando, membro del governo provvisorio della Seconda Repubblica francese (febbraio 1848) poté far decretare l'istituzione degli ateliers nationaux (opifici nazionali), una specie di industrie di stato destinate a scomparire dopo la repressione dei movimenti socialistici parigini nel giugno dello stesso anno. A quest'epoca era comunque ormai nato il socialismo marxistico, che nel mese di febbraio del 1848 aveva pubblicato il Manifesto dei Comunisti.

 

 

 

La rivoluzione industriale; il liberoscambismo

 

 

La Rivoluzione industriale

 

Il passaggio dell'industria da un tipo di produzione in gran parte fondato sull'attività manuale e artigiana a un tipo di produzione essenzialmente fondato sull'impiego sempre più esteso di macchine, con un'ampia serie di conseguenze economiche e sociali, prende il nome di Rivoluzione industriale. Il termine “rivoluzione” sottende l'idea di un drastico cambiamento dei rapporti tra gli uomini, una radicale ristrutturazione della vita, dell'economia e della politica delle nazioni.
Iniziata in Inghilterra nell'ultimo scorcio del XVIII secolo, la Rivoluzione industriale prende piede sul continente europeo (innanzitutto nelle province belghe dei Paesi Bassi, poi in Francia e nella Germania centro-occidentale) in concomitanza con la Restaurazione, vale a dire immediatamente dopo il 1815.

 

Al rapido sviluppo delle industrie (tessile, in primo luogo, poi mineraria, come conseguenza della crescita del fabbisogno di carbone e di minerali ferrosi, e quindi siderurgica, per l'estensione del trasporto su rotaia, e chimica, a causa della domanda di grossi quantitativi di prodotti di sintesi) si accompagnò ben presto quello degli istituti di credito, intimamente legati alla sempre maggiore circolazione di denaro e alla necessità di prestiti ingenti per l'attività imprenditoriale.
Il commercio, poi, subì uno sviluppo vertiginoso, da una parte, nel cercare nuovi mercati come sbocchi sempre più necessari per collocare la produzione in continua crescita, dall'altra, per rendere più veloce e quantitativamente più significativo l'acquisto delle materie prime indispensabili alla stessa produzione.
Il tutto avveniva all'interno di una specie di circolo virtuoso, almeno sotto l'aspetto del profitto, che faceva crescere tutti i settori, chiamati a soddisfare reciprocamente i bisogni gli uni degli altri.

 

Alla Rivoluzione industriale si accompagnò anche una collaterale, ma indispensabile, Rivoluzione dei trasporti, che si attuò soprattutto nel nuovo settore ferroviario.
Anche in questo campo il primato spettò all'Inghilterra: intorno al 1830, circa quindici anni dopo l'invenzione della locomotiva a vapore (1814) in tutt'Europa non c'erano che 316 Km. di tracciato ferroviario, 279 dei quali sul suolo inglese. Dieci anni dopo i chilometri erano cresciuti a più di 3.500, e intorno al 1850 in tutta Europa ammontavano a 14.000. In Italia la prima ferrovia venne inaugurata nel 1839, la Napoli-Portici; nel decennio seguente vennero costruiti altre brevi tronchi nel Lombardo-Veneto (Milano-Monza) e in Piemonte (Torino-Moncalieri).
Meno sensibili, in questo periodo, furono le conseguenze dell'applicazione della macchina a vapore ai trasporti marittimi, perché le navi a vela erano ormai giunte a un alto grado di perfezione tecnica, per velocità e per capacità di trasporto, e il costo del combustibile finiva per annullare il vantaggio della velocità.

 

La conseguenza forse più importante della Rivoluzione industriale fu comunque la nascita di un proletariato urbano, legato all'industria, di entità numerica sempre più cospicua. Alle misere condizioni del proletariato industriale faceva riscontro le condizioni di crescente prosperità degli imprenditori, costituenti la borghesia industriale e commerciale. A ciò, poi, veniva aggiungendosi un'aristocrazia del denaro sempre più potente, che poteva ormai paragonarsi all'antica aristocrazia di sangue, con analoghi privilegi.

 

Il sistema del libero scambio

 

Il clima della Rivoluzione industriale incentivò l'instaurarsi di un nuovo sistema economico, il liberismo o liberoscambismo, teorizzato da Richard Cobden. Ad esso si lega la Anti-Corn Law League (Lega contro la legge sul grano) che si batté in Inghilterra per l'abolizione delle forme di protezionismo che colpivano con diritti doganali più o meno elevati il grano e altri prodotti soprattutto alimentari di importazione estera, a vantaggio dei grandi proprietari terrieri britannici che controllavano così i prezzi e mantenevano di conseguenza elevato il costo della vita.
Da movimento economico qual era, il liberoscambismo si trasfuse senza difficoltà nel movimento liberale, improntandolo e determinando la sua particolare inflessione economica per certi aspetti antecedente a quella politica.

 

 

 

Idea di nazione e principio di nazionalità. Il programma nazionale tedesco e lo Zollverein

 

 

Idea di nazione e principio di nazionalità

 

Il movimento liberale trovò un validissimo alleato nella nazionalità.

 

Verso la fine del XVIII secolo si definì e si affermò l'idea di nazione, cioè l'idea della significatività dell'esistenza di un complesso di elementi (lingua, razza, tradizione culturale, religione) capaci di distinguere e identificare un corpo sociale in senso unitario.
Il concetto della nazionalità, coltivato dalle élites intellettuali nelle diverse regioni dell'Europa, divenne di fondamentale importanza quando, attraverso il secolo XIX, il pensiero politico europeo giunse a indicare in esso il principio stesso dell'esistenza, o la ragion sufficiente, di un'entità statale, identificando sostanzialmente nazione e Stato.
Nasceva così il principio di nazionalità (che non si deve confondere con il nazionalismo, che ne è un'esasperazione ideologica).

 

Genericamente si può dire che mentre i democratici avrebbero voluto l'applicazione rigorosa del principio di nazionalità, il che avrebbe comportato la necessità di ridisegnare la carta geopolitica dell'Europa, più realisticamente i liberali pensavano che in un'Europa in cui si fossero gradualmente sostituiti a regimi monarchici assoluti regimi rappresentativi sotto monarchie costituzionali, anche se non si fosse potuto applicare bruscamente il principio di nazionalità, si sarebbero per lo meno offerte alle nazionalità che non costituivano stati a sé maggiori possibilità di ottenere opportune autonomie e garanzie.

 

I programmi nazionali

 

Il movimento nazionale tedesco, nato in ambiente essenzialmente intellettuale nell'epoca romantica, giunto a tradursi in azione politica e militare durante la campagna di liberazione dal dominio napoleonico, andò poi arricchendosi di altri elementi intellettuali (ad esempio i contributi dello storico L. von Ranke e del filosofo G. W. F. Hegel), di elementi economici e politici che ne facilitarono l'accettazione e lo sviluppo in settori diversi dell'opinione tedesca.
A partire dal 1818 si ebbe un progressivo sforzo di coordinamento delle attività economiche che si rivolgeva principalmente all'eliminazione delle barriere doganali che separavano i vari stati della Confederazione e che portò, nel 1834, alla formazione di una unione doganale (Zollverein). È l'epoca in cui soprattutto nella Germania occidentale e in Prussia nasce e si afferma l'industria, destinata ad avere nei decenni seguenti un'impressionante sviluppo. A rendere più stretti i vincoli spirituali e politici, contribuiscono gli stessi motivi economici; in particolare, nel quinto decennio del secolo, lo Zollverein adotta una politica rigidamente protezionistica che, mentre lega maggiormente l'uno all'altro i paesi tedeschi, rende più difficili i rapporti con i paesi esteri. I legami interni, poi, sono accresciuti dal rapido sviluppo delle ferrovie, che rendono più agevoli gli scambi, i viaggi e i contatti personali fra i tedeschi dei vari stati.
I progressi del movimento intellettuale e del movimento economico portano nel 1846 a due iniziative di chiaro significato nazionale: la fondazione a Mannheim di un Giornale tedesco (Deutsche Zeitung) che si rivolge a tutta la nazione tedesca e la riunione a Francoforte di un'assemblea di studiosi che, oltre la discussione culturale, affronta apertamente questioni di politica attuale.

 

Altri movimenti nazionali si svilupparono in Europa.
Sicuramente quello polacco è tra i più significativi, sia perché si rifà a una tradizione nazionale ben definita sia perché è rivolto contro tre grandi potenze (Russia, Austria, Prussia), che esercitano la loro sovranità su porzioni più o meno estesi di territorio nazionale, sia perché l'elemento polacco, dopo il fallimento della rivoluzione del 1830-31 costituisce un connotato costante e importante dei vari movimenti nazionali europei.

 

 

 

I programmi nazionali italiani: Mazzini, Gioberti, D'Azeglio

 

 

Per l'Italia, dopo il 1830, il Mazzini predica il principio di associazione, secondo il quale, soltanto attraverso l'adesione a una armonica opera di collaborazione tra tutti gli uomini appartenenti a una nazione è possibile rendere concreto il principio della nazionalità.
A tale scopo egli si fa promotore della Giovine Italia (e poi della Giovine Europa), vale a dire un'ideale alleanza di tutte le forze della società, in una specie di cooperazione fondata sul mutuo soccorso e pervasa da un afflato morale e deista.
La scarsa aderenza all'immediata realtà della situazione italiana del programma mazziniano e il doloroso fallimento di numerosi tentativi ispirati a quegli ideali (celebre l'episodio dei Fratelli Bandiera del 1844) favorì, tuttavia, l'imporsi all'attenzione degli ambienti progressisti e nazionali del programma più modesto e limitato dei liberali moderati, che si scontrava, però, con due fondamentali problemi di ordine contingente: il potere temporale dei papi e la dominazione austriaca.

 

Le risposte liberali furono sostanzialmente due, il programma neoguelfo di Vincenzo Gioberti e quello albertista di Massimo d'Azeglio.
Il primo intravedeva la possibilità della realizzazione di una sorta di confederazione di Stati sotto l'egida del pontefice romano, figura di indiscutibile prestigio in Italia, che avrebbe potuto a livello politico e a livello economico, attraverso una progressiva trasformazione interna dei singoli stati portare a poco a poco all'unificazione della penisola.
Il secondo, invece, sempre muovendosi all'interno dell'idea federalista del Gioberti, sostituiva la figura di orientamento generale del progetto dal papa a Carlo Alberto, sostenendo l'idea che egli avrebbe potuto gestire meglio del pontefice, la progressiva trasformazione delle amministrazioni locali nella direzione dell'unità nazionale.

 

 

 

Pio IX e le costituzioni in Italia. Il rovesciamento della Monarchia di luglio

 

 

 

Pio IX e le costituzioni in Italia

 

Il programma neoguelfo, peraltro con la variante albertista che andò guadagnando terreno alla vigilia degli eventi del 1848, si impose decisamente all'opinione nazionale italiana dopo l'elezione a pontefice del giovane cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti (16 giugno 1846), che assunse il nome di Pio IX.
Senza dubbio sensibile alle esigenze di riforma amministrativa e di progresso della società che nello Stato della Chiesa apparivano particolarmente urgenti, fu coinvolto dagli eventi fino ad assumere un ruolo sproporzionato ai suoi effettivi intendimenti, tanto da diventare, alla fine del suo pontificato, l'emblema della reazione e del conservatorismo. Il solo fatto della sua elezione, cui il governo austriaco aveva cercato di porre il veto, e della mancata elezione del candidato favorito, il cardinale Lambruschini, il reazionario segretario di Stato di papa Gregorio XVI, fu accolto dagli ambienti liberali italiani ed europei come un lieto auspicio. L'amnistia eccezionalmente ampia concessa subito da Pio IX ai condannati politici fu considerata come la conferma dell'avvento del pontefice liberale auspicato dal neoguelfismo.
In realtà Pio IX, pur desiderando porre riparo alle più evidenti deficienze del governo del suo predecessore, non pensava a una vera politica liberale; tuttavia, rinfrancato dal consenso crescente, procedette a diverse riforme: lasciò che si costruissero ferrovie, permise che in Roma si costituisse un'amministrazione comunale regolare, promosse una riforma giudiziaria, accettò che si costituisse un ministero formato in parte da laici e una Consulta di Stato formata dai delegati della amministrazioni provinciali, che venisse introdotta una relativa libertà di stampa e istituita la guardia civica.
Tali riforme conferirono al papa un prestigio eccezionale, tanto da costringere altri sovrani italiani a seguirne l'esempio.

 

Il processo riformatore culminò nella promulgazione di diverse costituzioni, a partire da quella napoletana (11 febbraio 1848), poi toscana (17 febbraio) poi piemontese (Statuto Albertino, 4 marzo), poi pontificia (14 marzo).

 

Il '48 in Europa

 

Dopo l'insurrezione siciliana del 12 gennaio 1848, è la Francia, ancora una volta, a conservare l'iniziativa di quella serie di rivolgimenti che caratterizzarono l'anno rivoluzionario per eccellenza, il '48, appunto, con le giornate parigine del 25, 26 e 27 febbraio, durante le quali fu rovesciata la Monarchia di luglio e instaurata la Seconda Repubblica.
Le cause della Rivoluzione di febbraio sono da ricercarsi essenzialmente nelle manchevolezze del regime instaurato nel '30 in seguito alla Rivoluzione di luglio.
La monarchia costituzionale di Luigi Filippo d'Orleans si era irrigidita progressivamente su posizioni conservatrici. Tale involuzione era stata favorita dalla politica personale del re, preoccupato soprattutto si conservare il trono per sé e per la sua famiglia, anche a costo di contraddire le richieste dell'opinione pubblica allineandosi a posizioni reazionarie e legate allo status quo. Difficoltà interne, inoltre si registrarono per l'estendersi della protesta sociale, guidata dai movimenti socialisti, che aveva portato alle prime grandi manifestazioni di massa (come lo sciopero degli operai del comparto tessile lionese nel 1833).

 

 

 

Le rivoluzioni in Germania, in Austria e in Italia; le cinque giornate di Milano

 

 

Fra gli stessi liberali moderati che avevano favorito l'instaurazione della Monarchia di luglio si era verificata una scissione, finché il governo Guizot, con una spregiudicata politica elettorale, non ebbe creato una profonda spaccatura tra paese legale e paese reale.

 

Alcuni disordini popolari repressi dall'esercito (dopo che la Guardia nazionale aveva rifiutato di obbedire agli ordini) furono l'occasione delle dimissioni del Guizot, mentre Luigi Filippo, vista l'opposizione di tutte le correnti politiche del paese, riparava in Inghilterra.
Si impose a quel punto la tendenza democratica, portando alla proclamazione della Repubblica (la seconda dopo quella del 1793) e alla formazione di un governo provvisorio, presieduto da Alfonso Lamartine (25-27 febbraio).

 

Le ripercussioni degli eventi francesi fecero precipitare, in diversi settori d'Europa, una situazione già matura per la crisi.

 

In Svizzera, dove già dal 1847 si consumava la guerra civile tra i cantoni protestanti favorevoli alla Federazione e i cantoni cattolici desiderosi di mantenere il modello confederativo, più rispettoso delle autonomie locali, si ebbe una recrudescenza della lotta.

 

In Germania, dove Federico Guglielmo IV di Prussia era stato indotto dal movimento liberale a istituite sulla base delle preesistenti assemblee provinciali, un Parlamento unito, la rivoluzione di febbraio convinse il sovrano a introdurre una vera e propria costituzione; siccome tuttavia un incidente verificatosi mentre ne veniva dato l'annuncio al popolo berlinese, il 18 marzo, aveva spinto la popolazione della capitale prussiana a sollevarsi, le istituzioni costituzionali apparvero una conquista della rivoluzione e non una volontaria concessione del sovrano, mentre la fama di Federico Guglielmo IV ne usciva alquanto scossa.
Avutesi conseguentemente le elezioni per il Parlamento nazionale tedesco, che si riunì a Francoforte il 18 maggio, si procedette alla costituzione di un governo di quella che venne chiamata la “Potenza centrale tedesca” e all'elezione di un supervisore del Reich.

 

In Austria, la rivoluzione scoppiava il 13 marzo, costringendo il Metternich alla fuga (perché non sostenuto dalla corte asburgica, la quale si era illusa di poter così risolvere la situazione) e imponendo la libertà di stampa, l'istituzione della guardia nazionale e la convocazione di un'assemblea che avrebbe dovuto definire le istituzioni costituzionale che l'impero avrebbe d'ora innanzi adottato (nel frattempo la corte si era rifugiata a Innsbruck). L'Ungheria, da parte sua, costituiva sotto la guida di Luigi Kossuth un governo nazionale con aspirazioni separatistiche, affermatesi decisamente l'anno seguente.