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CLASSE   IV   -   Sintesi di Storia (4)

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Terminologia storica

 

La guerra dei sette anni

 

 

Federico II, resosi conto della rete che la diplomazia del Kaunitz stava stringendo intorno a lui e presentendo il pericolo, preferì precedere gli avversari ed improvvisamente nell'autunno del 1756 attaccò la Sassonia, disperdendo l'esercito di Augusto III ed occupando Dresda.
Il conflitto divenne allora generale. Il re di Prussia mantenne dapprima l'iniziativa approfittando dei frequenti disaccordi strategici tra gli avversari, specialmente tra gli Austriaci e i Francesi, e cercando di mantenere il conflitto al di fuori del proprio territorio nazionale.
Affrontò vittoriosamente dapprima i Francesi, assai superiori di forze, in una grande battaglia a Rossbach nella valle del Meno (nov. 1757) e poi rivolgendosi contro gli Austriaci del maresciallo Daun e battendoli a Leuthen presso Breslavia (dicembre 1757).
Negli anni seguenti, tuttavia, la morsa si strinse intorno alla Prussia e sia i Russi, che avevano invaso la Prussia orientale, sia gli Austriaci ottennero diverse vittorie, tra cui quella del maresciallo Daun a Hochkirch (1758) e quella conseguita dai Russi a Kunersdorf sull'Oder (1759).

 

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La Guerra dei sette anni

 

L'esercito prussiano era esausto ed aveva perduto i suoi migliori effettivi; nel 1760, anno veramente critico per Federico II, gli alleati raggiunsero ed occuparono Berlino e la monarchia prussiana parve sull'orlo della catastrofe.
Federico II ebbe invece la forza di resistere e di riconquistare la capitale, anche se gli venne a mancare il soccorso finanziario dell'Inghilterra, dove il nuovo re Giorgio III (1760-1820), entrato in contrasto con il Pitt, aveva indotto il grande statista a dimettersi da primo ministro.
Federico II non era disposto a cedere, né in Slesia né in Pomerania, e gli avversari indugiavano ancora prima di affrontarlo in una battaglia decisiva, finché la morte della zarina Elisabetta (genn. 1762) portò sul trono di Russia Pietro III, che sebbene regnasse solo per pochi mesi (gennaio-giugno 1762) ebbe il tempo di arrestare la guerra contro la Prussia e di proporre anzi a Federico II, di cui era un fervente ammiratore, un'alleanza. Ciò permise all'esercito prussiano di resistere agli attacchi degli avversari inducendoli a trattative di pace.

 

Nel frattempo si era esaurito anche il conflitto coloniale.
Iniziata dapprima con una brillante azione francese contro l'isola di Minorca, possesso britannico, la guerra sul mare e nelle colonie si era a poco a poco volta a favore degli Inglesi, che disponevano di una superiorità navale schiacciante. Essi avevano conquistato la base francese di Saint Louis nel Senegal, occupato le città di Quebec e di Montreal nel Canadà, e cacciato i presidi francesi dalla valle dell'Ohio.
Anche la Spagna che, alleata alla Francia per un Patto di famiglia stipulato tra le Corti borboniche nel 1761, partecipava al conflitto americano, aveva subito dure sconfitte.
In India gli inglesi si erano impadroniti del Bengala; cacciati poi i Francesi anche dalla base di Pondichéry, tutta la penisola indiana era entrata nell'orbita dell'espansione coloniale e commerciale britannica.

 

La pace venne sanzionata nel 1763 dal Trattato di Hubertsburg, tra Federico II e i suoi avversari, confermando la cessione della Slesia alla Prussia (benché dissanguata dalla guerra, ne usciva moralmente vincitrice), e dal Trattato di Parigi, concluso tra Inghilterra e Spagna-Francia e risoltosi a tutto vantaggio dell'Inghilterra che acquistò il Canadà, i territori ad est del Mississippi (parte dell'ex Luisiana francese) e la costa del Senegal. La Spagna, inoltre, dovette cedere all'Inghilterra la Florida.

 

La Monarchia francese era uscita totalmente sconfitta dalla guerra e moralmente screditata: l'impero coloniale era andato in gran parte perduto, la flotta semidistrutta e il bilancio dello Stato era compromesso dalle spese che l'invecchiato sistema finanziario francese non era in grado di sostenere.
Si profilava in Francia quel dissidio incolmabile tra la nazione e il regime monarchico, in gran parte responsabile delle sconfitte, che avrebbe portato poi alla grande crisi rivoluzionaria del 1789.

 

 

 

Dall'Ancien Régime al Dispotismo illuminato

 

 

L'ILLUMINISMO

 

 

L'assolutismo monarchico dell'Antico Regime

 

Un regime di monarchia assoluta si era imposto durante il secolo XVII in quasi tutti gli Stati dell'Europa occidentale e in Russia; esempio tipico di questa forma di governo era stato il regno di Luigi XIV, il Re Sole.
In tale regime politico il monarca, identificando lo Stato con la propria persona e la Legge con la propria volontà (salvo alcune limitazioni imposte dalla morale cristiana e dal rispetto delle fondamentali tradizioni nazionali), si riteneva nel pieno diritto di agire come arbitro assoluto della politica estera ed interna. La prima recava l'impronta di uno spirito di conquista e di prestigio, per cui non venivano risparmiati sacrifici e sofferenze alla popolazione; l'altra consisteva nella valorizzazione delle risorse economiche nazionali e nell'estensione a tutto il Regno di una amministrazione uniforme e centralizzata.
Il fine di conseguire potenza e prestigio per lo Stato e gloria personale per il Sovrano, costituiva l'obiettivo fondamentale al quale ogni atto di governo veniva subordinato.
Un tale assolutismo veniva giustificato facendo appello anzitutto alla legittimità dinastica, al fatto cioè che il sovrano discendeva dalla famiglia regnante nel paese fin dai tempi più antichi; in secondo luogo, considerando la funzione di sovrano come derivante direttamente da una investitura divina, per cui alla persona del re si attribuiva un carattere sacro, una inviolabilità di ordine superiore, e alle sue decisioni il suggello della insindacabilità. Egli doveva rispondere solo a Dio, nell'ambito della propria coscienza, del suo operato; nessuna rappresentanza popolare o di classe poteva essere investita dell'autorità di giudicare la condotta politica del sovrano.

 

Tra le condizioni storiche che avevano contribuito alla realizzazione dell'assolutismo regio aveva avuto grande importanza lo sviluppo crescente del Terzo Stato, del ceto borghese arricchitosi coi traffici, coll'esercizio del credito ed infine con imprese di carattere industriale.
L'accordo stabilito fin dall'inizio dell'età moderna tra la borghesia capitalistica e le monarchie dell'Europa occidentale aveva favorito la formazione di regimi di governo sempre più assoluti, a mano a mano che le antiche aristocrazie feudali venivano indebolite, piegate e umiliate. Obiettivo dei sovrani assoluti, d'intesa con la borghesia, era stata dunque la lotta contro la nobiltà feudale, come forza politico-sociale tendente al frazionamento territoriale e al decentramento dei poteri statali.

 

Il feudalismo politicamente era stato sconfitto ed aveva cessato quasi ovunque (salvo in Inghilterra, dove per altro si era ottenuto un accordo tra aristocrazia terriera e capitalismo cittadino, intesi l'uno e l'altro a limitare a proprio beneficio il potere regio, realizzando così una parabola politica diversa da quella degli stati continentali) di costituire una opposizione effettiva. Tuttavia, politicamente sconfitta, l'aristocrazia del sangue, come del resto l'altro ceto privilegiato, il clero (che nelle più alte gerarchie, salvo qualche eccezione, era formato dai cadetti delle grandi famiglie nobili), conservava un complesso di diritti ereditari, di esenzioni dagli obblighi comuni, di immunità dalla giurisdizione regia (soprattutto grazie al godimento di tribunali speciali o tribunali di classe) che rendevano impossibile l'imposizione di una legge comune a tutti i sudditi, creando sperequazioni e differenze giuridiche e amministrative sempre più palesi e sempre meno tollerabili.
Sopravvivevano zone di giurisdizione feudale, affidate a governatori appartenenti alla nobiltà, accanto ad altre dipendenti direttamente dal sovrano; le due autorità interferivano spesso, esercitandosi sulle stesse persone o sugli stessi territori, causando disordine, malcontento, perdita di denaro e talora (triste risultato di una cattiva amministrazione) creando un doppio aggravio per i sudditi, soggetti agli oneri imposti dal signore feudale e contemporaneamente a quelli richiesti dal governo regio.
Sopravvivevano antichi corpi autonomi, città e regioni storicamente dotate di costituzioni proprie, organismi rappresentativi (Stati) o antichi tribunali (Senato, Parlamento) che cercavano di sfuggire al controllo regio, avanzando diritti propri, immunità ed autonomie secolari.

 

A questo disordine ed a queste sperequazioni giuridiche e amministrative se ne aggiungevano altre che colpivano direttamente gli interessi della popolazione non privilegiata, i ceti rurali e la borghesia cittadina. La nobiltà e il clero, infatti, andavno quasi del tutto esenti dai tributi, pur essendo i maggiori proprietari terrieri e pur godendo essi di speciali appannaggi e pensioni concessi dalla generosità del sovrano. Il carico fiscale era invece sopportato quasi totalmente dalle popolazioni rurali e dalla borghesia mercantile delle città. Particolarmente odiosa era l'imposizione di una tassa comune (in Francia chiamata taglia), che ricadeva sulle persone invece che sugli averi e sembrava colpire il diritto stesso alla vita. Questa differenza nel rapporto con il fisco contraddiceva quell'uguaglianza che le dottrine giusnaturalistiche secentesche (dell'olandese Ugo Grozio e del tedesco Samuele Pufendorf) avevano cominciato a prendere in considerazione.

 

La popolazione rurale, inoltre, aveva da lamentare la persistenza di antichissime consuetudini feudali (ormai del tutto prive di giustificazione) che le imponevano l'adempimento di lavori gratuiti (corvées) per il signore feudale, che spesso essa neppure conosceva, poiché da tempo aveva abbandonato il castello per recarsi a vivere nel palazzo di città o alla corte del sovrano; oltre a ciò, altri innumerevoli diritti feudali (come i diritti di «banno» o diritti di macina del grano, i pedaggi, ecc.) che gravavano sulla vita dei contadini.
Nelle città, invece, mercanti ed imprenditori industriali si sentivano ostacolati e danneggiati dalle antiche Corporazioni di Arti e Mestieri, organismi chiusi che continuavano ad esercitare una sorta di monopolio nel campo della produzione artigiana in un'epoca in cui si chiedeva insistentemente libertà di produzione e facilitazioni di commercio per le nuove industrie tessili e meccaniche, in rapido sviluppo grazie all'impiego di macchine.

 

La fase protezionistica dell'economia, quella in cui i sovrani coi loro decreti protettivi avevano tanto giovato all'arricchimento del ceto borghese, stava per essere superata per la necessità di instaurare una economia liberistica.

 

Le monarchie assolute dell'Antico Regime avevano intrapreso un'opera di livellamento della condizione dei sudditi e di riorganizzazione dello Stato su basi nuove, sia per il migliore funzionamento della giustizia e dell'amministrazione, sia per una più giusta distribuzione dei pesi fiscali. La loro opera, però, era rimasta a metà e l'opposizione creata dai ceti privilegiati, nobiltà e clero, era stata tale da indurre il sovrano ad accontentarsi di ottenere la loro subordinazione politica, senza spingere troppo avanti, nel campo economico e giuridico, le sue innovazioni.
I mutamenti introdotti, per quanto benefici, sembravano il risultato di una volontà personale ed arbitraria del re, imposta con la forza e non richiesta da una vera necessità storica: pertanto sull'Antico Regime cadde l'accusa di essere arbitrario, oppressivo, irrazionale.
Mancava infatti a queste monarchie assolute un accentuato contenuto ideologico, una netta impostazione dottrinale che conferisse all'opera loro il carattere di una necessità superiore, piuttosto che quello di un arbitrio personale; ed inoltre mancava ad esse una vera sistematicità d'azione che, spezzando le resistenze più occulte e più tenaci, portasse ad un rinnovamento radicale dell'intera struttura dello Stato.

 

 

 

Le radici dell'Illuminismo e le sue espressioni

 

 

L'assolutismo (o dispotismo) illuminato

 

Nel secolo XVIII, a partire una volta ancora dalla coincidenza degli interessi del Terzo Stato con i disegni assolutistici dei Principi, venne elaborata a vantaggio di entrambi una serie di dottrine, riguardanti il fine del governo, le classi sociali, la religione, l'educazione, l'economia pubblica, che conferirono un carattere del tutto nuovo al governo monarchico, consentendo di intraprendere, sotto la guida e la sollecitazione di alcuni fondamentali principi teorici, una vasta e radicale opera di riforma, cioè di rinnovamento dello Stato.

 

Il complesso di tali teorie, che ebbero allora, forse per la prima volta nella storia, un influsso determinante sulle azioni di governo, può essere definito come la filosofia politica del Settecento o anche la filosofia politica dell'Illuminismo. Il pensiero filosofico del Settecento volle essere anzitutto «illuminante», ossia tale da costituire una guida morale ed intellettuale per il Principe preposto al governo dello Stato, un mezzo potente per disperdere con la luce della ragione «le tenebre del passato» prodotte dall'ignoranza e dalla superstizione, che avevano permesso il sopravvivere, il moltiplicarsi e l'accumularsi di organismi politici, di istituti giuridici e di forme religiose ritenuti ormai assurdi e anacronistici.

 

Alla base dell'ideologia illuministica stava la nozione che gli uomini siano per natura uguali e tali rimangano sostanzialmente nel corso della storia, benché l'astuzia e la prepotenza di certuni (nobili e preti) abbiano portato alle differenze di classe e alla costituzione di ceti privilegiati. Acquisito il dato dell'uguaglianza originaria, gli uomini possiedono tutti un patrimonio di diritti naturali (teoria del giusnaturalismo), quali la libertà di pensiero e di opinione religiosa, il diritto alla proprietà, l'uguaglianza di fronte alla legge e di fronte al fisco, la possibilità per tutti di accedere alle cariche direttive dello Stato ecc., che non possono essere soppressi e che è compito precipuo del monarca tutelare e realizzare.
L'attività di governo del principe diventa in tal modo azione consapevole e filosoficamente illuminata che si propone come fine il conseguimento della massima felicità per il maggior numero dei sudditi a lui soggetti.

 

Oltre al razionalismo ed al giusnaturalismo, un terzo elemento caratteristico dell'assolutismo illuminato è dato dalla svalutazione della storia, della tradizione, del passato, vicino o lontano, che vengono trascurati o anche violentemente cancellati per la realizzazione (attraverso radicali riforme) dello Stato nuovo; in quest'opera di rinnovamento si ha grande fiducia nelle buone leggi, nei buoni istituti, che si pensa possano da soli, insieme con la diffusione della scienza, sanare tutti i mali ereditati dal passato, modificare i costumi, elevare moralmente gli uomini e garantire loro un cospicuo aumento di «felicità naturale». In ciò consistette l'ottimismo giuridico proprio dell'illuminismo riformatore.

 

Poiché la cultura del tempo aveva assunto un carattere spiccatamente laico, nutrendosi di razionalismo e di naturalismo, essa fu rivolta polemicamente a combattere il contenuto dottrinario del Cattolicesimo, in linea teorica, ed in linea pratica ad avversare la Chiesa come istituzione civile, umana, tanto potente da potersi inserire nello Stato come organismo a sé, dotato di autonomia, di indipendenza giuridica ed economica. L'Illuminismo settecentesco era infatti incline ad escludere o a svalutare ogni elemento extrarazionale, non soltanto i valori sentimentali affettivi propriamente umani, ma anche quelli spiccatamente religiosi, come i miracoli, i misteri e il concetto della Grazia, elemento fondamentale del cattolicesimo.
Il pensiero settecentesco era disposto ad accettare come ipotesi verosimile (ma non dimostrabile) l'esistenza di Dio (deismo), ma respingeva tutto il patrimonio dogmatico del cattolicesimo, accusando anzi la fede religiosa di essere stata nel passato causa di fanatismo, di oscurantismo, di ignoranza popolare.
Invece del dogma definito e indiscutibile i filosofi settecenteschi propugnavano la libertà di coscienza, la tolleranza religiosa ed una vaga concezione di filantropismo universale.
Da ciò derivava il rifiuto ad accettare l'idea di una funzione soprannaturale e mistica (perché apportatrice di Grazia) del clero cattolico e l'inclinazione a valutare positivamente l'opera dei sacerdoti solo quando fosse rivolta all'assistenza dei poveri e degli infermi.

 

Dopo la guerra condotta contro la nobiltà, i sovrani, valendosi degli spunti polemici della cultura laica, elaborata prevalentemente in ambienti borghesi, attaccavano a fondo i privilegi del clero.
Facendo ciò i sovrani rinunciavano in linea di massima al carattere sacro e religioso della loro funzione regale, abbandonando in sostanza la teoria della sovranità per diritto divino, sostituita con l'altra di derivazione giusnaturalistica, per cui essi si sentivano delegati dal popolo a governare per la felicità dei sudditi. A fondamento dello Stato si riteneva ora stesse un patto sociale volontario; per esso il popolo, vero depositario della sovranità, investiva il principe dei sommi poteri. Una volta concessi, tuttavia, questi poteri non potevano più essere ripresi e pertanto l'autorità del sovrano rimaneva assoluta e illimitata nel tempo e nella sua sfera d'azione.
In tal modo, dal contrattualismo, con soluzione ben diversa da quella proposta da John Locke ed attuata in Inghilterra (nel 1689 con la Dichiarazione dei diritti), derivava sul continente la giustificazione teorica dell'assolutismo illuminato.

 

I costumi, i giornali e le scienze

 

In un'atmosfera di comune intellettualismo le differenze nazionali si attenuarono e, nonostante le rivalità politiche e il pericolo continuo di nuove guerre, le aspirazioni dei ceti colti e ricchi si orientarono verso un pacifico cosmopolitismo a cui si univa un sentimento filantropico, dettato da un diffuso senso di umana solidarietà risultante da una riduzione laica del persistente senso della carità cristiana.
I viaggi dei dotti e dei letterati si fecero più frequenti, si moltiplicarono le corrispondenze e gli scambi; sorsero le prime associazioni di carattere extranazionale, tra cui la Massoneria.

 

La Massoneria, associazione cosmopolitica segreta di origine inglese, interpretando alcune delle esigenze fondamentali dell'Illuminismo, si proponeva di combattere l'ignoranza e la superstizione, causate dalle religioni positive e dogmatiche, e di difendere la morale laica fondata sull'idea di un'uguaglianza fraterna e universale.
Gli associati, legati da un vincolo segreto e da un linguaggio convenzionale e simbolico, si raccolsero in gruppi detti "logge", che rapidamente si moltiplicarono in Europa, specialmente in Inghilterra (1717) e in Francia.

 

Il generale risveglio degli interessi culturali e il diffuso spirito di curiosità trovarono appagamento non nelle Accademie tradizionali (ambienti frequentati dai ceti conservatori e privilegiati), ma nei luoghi privati di riunione, i clubs inglesi o i salons francesi, o nelle botteghe del caffè, che divennero amabili centri di conversazione, di pettegolezzo e anche di varia e piacevole divulgazione delle nuove idee scientifiche e filosofiche.
Uno stimolo alla discussione era costituito dai giornali, come il celebre Spectator (1711) dell'inglese Joseph Addison, che periodicamente portavano alla conoscenza del pubblico, con saggi e articoli scritti in forma facile e brillante, le novità letterarie, i problemi attuali di politica o di economia e le forme più appariscenti del costume.
La nota caratteristica della cultura illuministica fu certamente quella della divulgazione; abbandonata dai dotti la consuetudine dei grandi trattati sistematici, si preferirono forme letterarie più agevoli, come il dialogo, la lettera, il saggio. Si diffuse anche il gusto per una poesia didascalica, che insegnasse anche le aride verità scientifiche con l'artificio di immagini piacevoli e col ritmo musicale del verso.
La discussione e la conversazione, specie negli ambienti francesi, assunsero spesso un carattere spregiudicato, attaccando le opinioni religiose e politiche tradizionali, nel nome di un'assoluta «libertà di pensiero», di cui davano esempio i cosiddetti "libertini" francesi dei primi decenni del Settecento, eredi di una secolare tradizione di pensiero criptoepicureo e razionalista, facente capo a certe espressioni del pensiero aristotelico "eterodosso" tardo-medievale e rinascimentale, che traevano argomenti e spunti per la loro critica dagli scritti dell'inglese JohnToland, autore di un Cristianesimo senza misteri (1696), e di Pierre Bayle, che nel suo Dictionnaire historique et critique (1697) aveva analizzato con spirito scettico questioni di carattere teologico e morale, accanto ad altre di argomento scientifico.

 

Gli scienziati europei del secolo XVIII furono anzitutto matematici e fisici, come Leonardo Eulero e Giovanni d'Alembert, autore di un importante Trattato di dinamica (1743), biologi appassionati e grandi naturalisti, come lo svedese Carlo Linneo, che propose la nota classificazione binomia degli animali e delle piante, o come il francese Giorgio Leclerc conte di Buon, autore di una Storia naturale (1788) in cui abbozzava un sistema completo (in parte scientifico e in parte ipotetico) sull'origine e sulle varie trasformazioni della Terra e sulle diverse specie vegetali ed animali che la popolarono fin dai tempi più antichi.
Negli ultimi decenni del secolo si avranno poi le prime fondamentali scoperte nel campo della chimica, ad opera del francese Antonio Lavoisier analizzatore del fenomeno della combustione, e in quello dell'elettricità con le ricerche del francese Carlo Coulomb.

 

I progressi compiuti dalle scienze fisiche e matematiche ebbero una diretta applicazione nella costruzione di macchine, atte a rendere più facile, più regolare e più abbondante la produzione industriale.
Così dalle prime esperienze del medico calvinista francese Dionigi Papin sullo sfruttamento delle forze del vapore acqueo (intorno al 1690), si giunse alla costruzione, nel 1767, della macchina a vapore, impiegata per estrarre l'acqua dalle miniere, ad opera dello scozzese James Watt.
Contemporaneamente, i progressi delle industrie tessili furono assicurati dall'invenzione della macchina per filare di Hargreaves (1764), e del primo telaio meccanico per tessere di Edmund Cartwright (1784).
Per le nuove macchine si sfruttò la forza idraulica e quella del vapore; come combustibile si adoperò in misura crescente il carbon fossile, di cui in Europa erano particolarmente ricchi l'Inghilterra e i paesi renani, il che portò ad un enorme sviluppo delle capacità economiche di questi Stati.
Intanto l'impiego di macchine accelerava la trasformazione dell'industria dalla fase di dispersione artigiana a quella di concentrazione urbana e capitalistica.

 

 

 

Le riforme in campo ecclesiastico

 

 

L'EUROPA NELL'EPOCA DELLE RIFORME

 

 

Nella seconda metà del Settecento gran parte degli Stati europei fu teatro di un'intensa attività di governo esplicata dai sovrani assoluti, che si ispirarono in varia misura ma sempre in modo rilevante ai presupposti dottrinali dell'Illuminismo.
Le innovazioni introdotte in quei decenni nella organizzazione generale degli Stati europei presero il nome di Riforme e furono tutte indirizzate, secondo la giustificazione che ne davano i promotori, al bene dei sudditi. I termini «bene dei sudditi», «felicità del popolo», «utilità sociale» divennero infatti la parola d'ordine dei riformatori e il motivo propagandistico che serviva a rendere accette ai popoli anche le innovazioni che urtavano contro antichi e ancora ben radicati sentimenti ed interessi.
Il Principe illuminato si proclamò «primo servitore dello Stato» ma di fatto ne fu il padrone assoluto; la «Ragion di Stato» costituì ancora la preoccupazione dominante dei governi, ma ora non si volle che essa coincidesse con gli interessi o le ambizioni personali del sovrano ma con il benessere dell'intera popolazione.
Le riforme introdotte dai principi illuministi del Settecento investivano tre settori della vita pubblica:
 - il settore religioso, in cui maggiormente si rivelò la tendenza dei governi illuministi ad annullare i privilegi della Chiesa, assoggettandola interamente al potere civile;
 - il settore giuridico;
 - quello economico.

 

Le riforme antiecclesiastiche

 

Le riforme religiose consistettero soprattutto nella soppressione di Congregazioni religiose ritenute contrarie all'utilità sociale, perché non impiegavano alcuna parte del loro tempo negli studi o nell'assistenza degli infermi, o pericolose per la loro ricchezza e la loro capacità di ingerirsi nel governo dello Stato, esercitando un forte influsso sulla classe dirigente. Questi provvedimenti, che erano fondamentalmente ispirati a motivi di ordine ideologico, erano anche sollecitati da ragioni economiche: i conventi e le congregazioni religiose possedevano infatti ingenti beni terrieri, desiderio di molti borghesi arricchiti, che disponevano di cospicui capitali da investire nelle terre. In questo caso i provvedimenti di chiusura dei conventi e il sequestro delle loro proprietà fondiarie da parte delle autorità civili offrivano la possibilità di soddisfare le aspirazioni terriere della borghesia e nello stesso tempo di arricchire il tesoro dello Stato.

 

 

 

I provvedimenti contro la Compagnia di Gesù; Giuseppe II

 

 

La lotta contro gli ordini religiosi fu anzitutto diretta contro il più potente di essi, la Compagnia di Gesù.
In una regione dell'odierno Paraguay, in territorio spagnolo passato nel 1754 sotto la sovranità portoghese, era stata tentata la costituzione di una comunità indigena di tipo comunistico, che rappresentava un tentativo di attuare le più audaci teorie politiche e sociali della scuola gesuitica.
Proprio da questa colonia-missione dei Gesuiti venne l'occasione per scatenare contro l'Ordine una campagna così violenta da condurre alla sua provvisoria abolizione.
Cominciò il marchese Sebastiano di Pombal, onnipotente ministro del re Giuseppe I (1750-77) del Portogallo, il quale, prendendo pretesto dal fatto che le comunità indigene del Paraguay, dirette dai missionari gesuiti, si mostravano ribelli al governo portoghese, fece cacciare i membri dell'Ordine dal Portogallo e dalle colonie e ne ordinò il sequestro dei beni. In quelle circostanze, un anziano gesuita italiano, il padre Malacrida, subì la pena di morte (1761).
Come ripercussione degli avvenimenti portoghesi, si ebbero in Francia processi contro i Gesuiti e il Parlamento di Parigi (su cui avevano larga influenza i Giansenisti, antichi rivali dei Gesuiti) dichiarò gli statuti dell'Ordine contrari alle leggi dello Stato. Un editto di Luigi XV ordinò quindi lo scioglimento della Compagnia, permettendo però che i padri rimanessero in territorio francese, soggetti alla giurisdizione dei vescovi (1764).
Provvedimenti simili furono presi da Carlo III di Borbone (re di Napoli fino al 1759 e poi succeduto al fratellastro Ferdinando VI sul trono di Spagna, dove regnò fino al 1790), che ordinò ai Gesuiti di abbandonare il territorio spagnolo (1767), e dalle altre Corti borboniche di Napoli e di Parma, al punto che il pontefice Clemente XIV Ganganelli (1769-74) fu indotto a sciogliere la Compagnia di Gesù, con il breve Dominus ac Redemptor noster (1773).
Il problema che si pose ai governi dopo l'abolizione della Compagnia fu quello di provvedere all'istruzione pubblica che, sopra tutto per ciò che si riferiva ai ceti più elevati, era quasi totalmente nelle loro mani; a ciò si pose rimedio in qualche modo, utilizzando tutti i collegi, le accademie e le scuole dell'Ordine sciolto, che divennero proprietà dello Stato.

 

Un'altra serie di provvedimenti fu presa dai governi contro l'organizzazione ecclesiastica e si ebbe l'abolizione dei tribunali dell'Inquisizione, del diritto di foro, ossia dei tribunali privilegiati per gli ecclesiastici, e del diritto di asilo, che permetteva ai delinquenti comuni di sfuggire alla polizia, rifugiandosi presso qualche chiesa o comunità religiosa.
Speciale attenzione rivolsero i principi assoluti ai rapporti fra il clero nazionale (specialmente i vescovi) e la Curia romana: furono imposte limitazioni alla nomina di prelati stranieri e si decretò che la pubblicazione delle bolle papali fosse condizionata dalla concessione di un visto regio.
Tutte queste decisioni furono ispirate al principio dell'uguaglianza dei sudditi di fronte allo Stato e all'intento di escludere la Chiesa da ogni diretta ingerenza nel governo e nell'amministrazione civile; talora si volle subordinare completamente la gerarchia ecclesiastica al potere statale, secondo le dottrine del giurisdizionalismo.
Il più tenace assertore del principio che lo Stato può e deve intervenire a regolare gli affari interni della Chiesa, in quanto essi hanno un rapporto con la vita pubblica e non sono limitati alla pura sfera spirituale, fu l'imperatore Giuseppe II (1780-90), figlio di Maria Teresa, associato alla madre nel governo imperiale fin dal 1765.
I motivi ideologici del gallicanesimo e del giansenismo, che tendevano a combattere l'autorità pontificia e a costituire Chiese di Stato, risultarono riformulati in Giuseppe II dalle teorie più recenti che andavano sotto il nome di Febronismo, perchè esposte nell'opera De Statu Ecclesiae et legitima potestate Romani Pontificis (1763) dal vescovo ausiliare di Treviri, Hontheim, sotto lo pseudonimo di «Febronius». In esse si sosteneva con argomenti nuovi quel principio, che aveva suscitato discordie e polemiche entro la Chiesa fin dal secolo XIV, secondo il quale l'autorità dei vescovi e dei concili deve essere pari se non superiore a quella del pontefice.
Giuseppe II si servì di queste teorie per cercar di staccare tutta l'organizzazione ecclesiastica austriaca da Roma, sottoponendola alla diretta vigilanza dello Stato. A questo scopo rese sempre più difficili i rapporti tra il clero e la Sede apostolica; richiese l'obbedienza dei vescovi e dei parroci cercando di trasformarli in funzionari statali ed emise una serie di decreti riguardanti l'organizzazione del clero, l'istituzione di seminari generali, il matrimonio civile ed anche altre disposizioni specifiche riguardanti il culto cattolico, le processioni, il servizio religioso in assoluto dispregio per le norme del diritto canonico.
Nel 1781 l'imperatore concesse la libertà di culto privato e la parità dei diritti politici e civili ai non cattolici, concessione che attirò negli stati asburgici un numero rilevante di protestanti, i quali portarono ad un aumento della popolazione (il problema demografico stava a cuore a Giuseppe II) e ad un incremento delle attività produttive.
D'altro lato fu condotta una guerra a fondo contro il clero regolare appartenente a quelle congregazioni che il sovrano giudicava inutili ai fini della prosperità generale. Decine di conventi, specie quelli degli ordini contemplativi, furono chiusi o trasformati in caserme e i beni della «manomorta» (proprietà terriera inalienabile dei Corpi religiosi) servirono a soccorrere i curati delle parrocchie povere, ad alimentare commerci ed industrie e ad accrescere il patrimonio terriero della borghesia. Invano il pontefice Pio VI Braschi (1775-99) si recò personalmente a Vienna nel 1782 nella speranza ottenere, con un colloquio diretto con l'imperatore, che fosse in qualche modo posta fine a questa offensiva contro la Chiesa. Il tentativo papale fallì e Giuseppe II, che tuttavia si proclamava sincero e zelante cattolico, continuò a legiferare secondo i suoi piani razionalmente (e astrattamente) prestabiliti.

 

 

 

Le riforme di ordine economico-giuridico in Europa

 

 

Le riforme giuridico-economiche

 

Numerose altre riforme attuate in Europa nell'età dell'assolutismo illuminato ebbero soprattutto di mira:
 - la semplificazione della procedura giudiziaria, che fu resa più umana con l'abolizione della tortura e talora anche della pena di morte;
 - l'estensione a tutto il territorio dello Stato di una amministrazione quanto più possibile semplice, uniforme ed efficiente, con l'eliminazione di molte giurisdizioni particolari degli antichi corpi privilegiati (Senati, «Stati» regionali, governatori di provincia, ecc.);
 - l'abolizione di alcuni privilegi feudali e l'imposizione ragionevolmente uniforme e proporzionata dei carichi fiscali;
 - l'incremento dell'agricoltura, attraverso la parziale riduzione degli obblighi feudali e della servitù della gleba, e la concessione di una maggior libertà nel commercio dei grani, secondo le dottrine fisiocratiche correnti (benché alcuni sovrani illuministi, come Giuseppe II e Federico II, abbiano preferito restare sostanzialmente fedeli al programma mercantilistico-protezionistico).

 

In Spagna, Carlo III di Borbone (1759-90), servendosi dell'opera dei ministri italiani Grimaldi e Squillace, e più tardi dello spagnolo marchese di Aranda, rafforzò l'assolutismo regio, riducendo le autonomie regionali e i poteri delle Cortes, favorì la diffusione dell'istruzione e volse le sue cure al rafforzamento dell'esercito e della flotta. Per ottenere una maggiore sicurezza della vita pubblica, ricorse al curioso espediente di ordinare che fossero accorciate le cappe degli Spagnoli, perché non vi si celassero le armi che rendevano facili le risse e i ferimenti; sperava con ciò di ottenere anche una riduzione del brigantaggio, piaga allora diffusissima in Spagna.
Carlo III prese anche notevoli misure antiecclesiastiche, simili a quelle di Giuseppe II, seppure di forma e ambito molto limitati, allo scopo di diminuire il numero esorbitante dei monasteri.

 

In Austria, l'imperatrice Maria Teresa (1740-80) si era preoccupata di riordinare l'amministrazione imperiale e con l'aiuto del ministro Kaunitz aveva fatto della burocrazia austriaca il principale mezzo di collegamento nell'Impero, così eterogeneo per lingua, religione e costumi nazionali. La sovrana aveva fatto abolire il tribunale dell'Inquisizione, ma in questo come in altri provvedimenti aveva mostrato una certa dose di senso della realtà e di prudente moderazione, così da mantenere sempre buoni rapporti col pontefice romano, diversamente da come avrebbe in seguito agito il figlio Giuseppe II (1765-90).
Questo sovrano fu un intransigente propugnatore dell'accentramento burocratico anche in campo amministrativo e politico. Egli soppresse di colpo le autonomie secolari godute dai vari paesi che componevano l'eredità asburgica, attuando una suddivisione territoriale dei suoi domini in «distretti», affidati ad intendenti regi, e imponendo l'uso della lingua tedesca come elemento di coesione e di unità dell'Impero. La Dieta d'Ungheria non fu più convocata e fu tolta alla nobiltà ungherese l'amministrazione delle contee. Molti dei privilegi nobiliari furono soppressi e la stessa sorte subirono le Corporazioni di mestiere, al fine di ottenere una più equa ed uniforme condizione di tutte le classi di fronte al fisco ed un incremento dell'attività lavorativa. Fu attuata anche l'abolizione della servitù della gleba (1781), ancora assai diffusa in alcuni stati tedeschi, ma la formalità del provvedimento non corrispose all'effettiva liberazione dei contadini, i quali, emancipati dal vincolo personale alla terra, non furono esonerati da altri obblighi verso i padroni (lavori gratuiti, contribuzioni in denaro o in natura) e non ottennero un reale miglioramento delle condizioni generali di vita.
Con molti altri provvedimenti imposti alla popolazione dei suoi domini per ottenere un'organizzazione comune e strettamente unitaria dello Stato Giuseppe II finì col suscitare violente ribellioni, specialmente nei Paesi Bassi austriaci e in Ungheria (1789-90); il suo successore, il fratello Leopoldo Il (1790-92), già granduca di Toscana, avrebbe dovuto ridurre di molto la portata e l'estensione di queste riforme, per evitare che il malcontento e l'ostilità suscitati da trasformazioni troppo violente e radicali finissero col recare un danno irreparabile a quell'unità statale che era stata la preoccupazione costante del governo di Giuseppe II.

 

Figura singolare di despota assoluto fu Federico II di Prussia (1740-86), che volle assumere una posizione importante anche nel mondo della cultura illuministica. Fu personalmente amico del Voltaire, che ospitò nel suo castello di Potsdam, presso Berlino, insieme con il matematico e geografo francese Maupertuis (dal re nominato Presidente dell'Accademia di Berlino), con il d'Alembert e il letterato italiano Francesco Algarotti. Federico II ambiva alla fama di filosofo e di poeta (il che gli valse l'ironia del Voltaire, quando questi ebbe rotto i buoni rapporti col sovrano nel 1753) e ammirava la cultura francese al punto di voler scrivere solo in questa lingua.
Il suo governo fu ispirato ai principi di un assolutismo illuminato meno sistematico di quello di Giuseppe II, ma in compenso più aderente alle condizioni storiche del Regno di Prussia.
Sulla base delle idee giusnaturalistiche (il filosofo giusnaturalista tedesco Cristiano Wolff gli dedicò il suo Ius naturae), Federico II era convinto di interpretare la volontà dei sudditi assolvendo nei loro confronti la funzione di guida, di protettore e di giudice al fine di procurare loro tutto il bene e la felicità possibile. In uno scritto giovanile intitolato l'Antimachiavelli (1739) aveva anche criticato «l'immoralità» della dottrina del Segretario fiorentino, pur lasciandosene poi, di fatto, condurre per ambizione personale a scapito dei suoi protetti.
Per ottenere un forte incremento nella popolazione del Regno, che salì da due milioni e mezzo a sei milioni d'abitanti (compresi i territori conquistati, come la Slesia), Federico favorì la produzione agricola, facendo introdurre l'uso della coltivazione della patata, che divenne un prezioso alimento nelle fredde e povere terre prussiane, e sollecitò la colonizzazione dei territori dell'est, secondo una tradizione propria degli Hohenzollern. Con ciò, tuttavia, non volle rinunciare all'appoggio della nobiltà terriera, che costituiva il nerbo dell'esercito e dell'amministrazione prussiana e pertanto ne rispettò quasi completamente i privilegi feudali, mantenendo il ceto contadino nella tradizionale soggezione.
Notevole fu anche l'attività legislativa di Federico II diretta a raccogliere in un unico e ampio Codice le diverse leggi dei suoi stati e altresì a diffondere l'istruzione elementare.

 

Anche la zarina Caterina II di Russia (1762-96), succeduta al marito Pietro III ucciso in una congiura di corte (1762), svolse un'intensa attività riordinatrice del suo vastissimo impero.
Le sue riforme ebbero sopra tutto carattere pratico, rivolte a migliorare l'amministrazione della giustizia, a rivedere gli statuti della nobiltà e delle città, e a secolarizzare una parte dei beni del clero russo. L'ispirazione illuministica da cui partivano (la zarina era in relazione cogli scrittori francesi che ne esaltarono l'opera chiamandola «la Pallade del nord») rimase quindi del tutto superficiale e provvisoria. Fu pertanto abbandonato il progetto di realizzare un grande Corpus legislativo che riunisse le varie costumanze giuridiche dei popoli russi, secondo idee di libertà e di tolleranza religiosa: si rivelò infatti impossibile trovare un terreno comune d'intesa nella grande assemblea di notabili (la Grande Commissione), formata dai rappresentanti dei diversi ceti e delle diverse regioni, che Caterina aveva fatto riunire nel 1767 per questo scopo e dopo due anni di lavori la Commissione fu sciolta senza che avesse concretato nulla.
Più importanti ai fini di un consolidamento dell'impero furono le energiche misure adottate da Caterina II per estendere la colonizzazione russa ai territori del basso Volga e dell'Ucraina: sorsero decine di nuovi villaggi e città, e si iniziò uno sfruttamento più intenso di quelle fertili terre. Ciò però suscitò la rivolta delle popolazioni cosacche dell'Ucraina, cui il governo zarista andava togliendo gran parte delle secolari libertà. La rivolta, condotta dal cosacco Pugacev, fu sanguinosamente repressa e i contadini ucraini furono completamente sottomessi (1773-75).
Nella tristissima condizione di servi della gleba restava per altro anche la gran massa del popolo russo, costituito per il novanta per cento da contadini soggetti ai grandi proprietari terrieri, ai quali, non diversamente da quanto faceva nel suo Stato il re di Prussia, la zarina non tolse i tradizionali privilegi sociali ed economici.

 

 

 

Le riforme in Italia. La crisi della monarchia francese

 

 

Le riforme in Italia: Lombardia e Toscana

 

In questa atmosfera politico-culturale di ambito europeo si inserisce l'attività riformatrice di alcuni governi degli Stati italiani e particolarmente del governo austriaco di Lombardia, dei principi lorenesi di Toscana e delle Corti borboniche di Napoli e di Parma.
Le riforme intraprese da questi governi conseguirono un discreto successo grazie alla collaborazione di piccoli gruppi di riformatori locali, facenti parte rispettivamente del patriziato lombardo, del clero toscano e del ceto intellettuale napoletano.

 

In Lombardia le riforme furono quelle stesse che i sovrani austriaci, Maria Teresa e Giuseppe II, applicarono in tutti i loro domini.
Lo Stato di Milano durante le guerre della prima metà del secolo aveva perduto lungo il Ticino larghe porzioni di territorio ricco e fertile (Novara, Tortona, Vigevano e Voghera) cedute al vicino Regno di Sardegna; compenso non adeguato di questa diminuzione di territorio era stata l'inclusione (1708) del Ducato di Mantova, per l'estinzione della locale dinastia dei Gonzaga. Le guerre, condotte spesso sul territorio lombardo, avevano notevolmente danneggiato le condizioni economiche generali del paese, specialmente quelle dell'agricoltura. Cura particolare del governo austriaco fu pertanto quella di restaurare la prosperità economica della Lombardia, migliorando le condizioni dell'agricoltura, l'amministrazione fiscale, la giustizia e promuovendo il commercio.
Abili esecutori delle direttive di Vienna furono il conte Cristiani e il conte di Firmian, ministri a Milano dell'«Imperial Regio Governo». Un'attiva e intelligente collaborazione venne poi da alcuni nobili milanesi, come Pietro Verri, il marchese Cesare Beccaria, il padre barnabita Paolo Frisi e il conte Gian Rinaldo Carli, originario di Capodistria. Nella società lombarda degli ultimi decenni del secolo XVIII predominava l'aristocrazia cittadina, un patriziato spesso di origine mercantile, trasformatosi in aristocrazia terriera, che, soprattutto nelle generazioni giovani, contribuiva direttamente e personalmente all'incremento della vita economica e produttiva.
Base delle riforme nello Stato di Milano fu la compilazione di un grande censimento della popolazione e dei beni terrieri, redatto sotto la direzione del Carli e condotto a termine nonostante la tenacissima opposizione della frangia conservatrice dell'aristocrazia, che ne scorgeva l'inevitabile conseguenza in una più equa applicazione dei carichi fiscali. Il censimento servì infatti a migliorare e a riordinare tutta l'amministrazione finanziaria, l'amministrazione comunale e l'esazione delle imposte, che furono raccolte direttamente dallo Stato senza l'intermediazione di appaltatori di imposte.
Nel campo economico prevalse la tendenza favorevole all'abolizione dei vincoli feudali (peraltro molto deboli, data la struttura fondamentalmente cittadina e comunale del territorio lombardo), alla soppressione delle Corporazioni, alla concessione della libertà nel commercio del grano, ecc. Da ciò trassero profitto l'agricoltura ed il ceto commerciale borghese, che pose proprio nell'epoca delle Riforme le basi del proprio successivo, straordinario sviluppo.
Anche il clero lombardo, ricco, potente e generalmente stimato dalla popolazione, fu soggetto a provvedimenti di riforma, moderati al tempo di Maria Teresa, che volle l'abolizione dei tribunali dell'Inquisizione e del diritto di asilo, e radicali invece sotto Giuseppe II, che ne attaccò con violenza gli ordinamenti, intimando la chiusura dei monasteri, la soppressione di corporazioni religiose, l'incameramento dei loro beni terrieri e numerose modifiche perfino nel culto.
Nell'ultimo periodo (1780-90) del riformismo, si accentuò il contrasto tra la nobiltà conservatrice locale e il governo centrale, fino alla soppressione da parte dell'autorità austriaca del Senato milanese, suprema magistratura lombarda, dotata di amplissime competenze nel campo della giustizia, dell'economia e delle finanze, e divenuta la roccaforte del ceto conservatore. Le innovazioni imposte con la violenza, però, ruppero la buona intesa con tutta la classe dirigente lombarda, che aveva caratterizzato il periodo teresiano, suscitando ostilità e diffidenze anche negli stessi aristocratici illuminati che avevano collaborato col governo spingendoli, come Pietro Verri, ad auspicare forme di governo meno dispotiche, più aderenti alle condizioni storiche del territorio, e perfino garanzie di ordine costituzionale.

 

Il Granducato di Toscana, divenuto Stato autonomo nel 1765 sotto Pietro Leopoldo (Leopoldo I), successore sul trono granducale del padre Francesco II (Francesco Stefano di Lorena, imperatore e consorte di Maria Teresa d'Austria), fu un altro grande centro del riformismo illuminato in Italia.
Sotto certi aspetti, Leopoldo I (1765-90) fu il più illuminato dei principi riformatori italiani; il suo spiccato senso pratico unito ad una notevole energia, gli permise di riconoscere le esigenze fondamentali del Granducato e di svolgere, per soddisfarle, un'intensa attività legislativa che si valse della collaborazione di alcuni tecnici e studiosi toscani, come l'economista Pompeo Neri (che già aveva ispirato alcuni importanti provvedimenti liberistici di Francesco II) e il giurista Giulio Rucellai.
Le riforme di Leopoldo I ebbero per oggetto anzitutto la creazione di rapporti uniformi e regolari tra le diverse amministrazioni cittadine della Toscana e il governo granducale, in modo da eliminare le differenze che erano sopravvissute al governo accentratore dei Medici; analogamente scomparvero molti istituti di antica origine medievale e fu in gran parte annullato il predominio monopolistico della città sul contado, residuo esso pure della struttura municipale toscana.
Un'attenzione particolare fu rivolta al miglioramento dell'agricoltura, con la bonifica di regioni paludose in Maremma e Valdichiana, la concessione della libertà di commercio del grano e l'abolizione di taluni vincoli giuridici di origine feudale, come il maggiorascato che attribuiva al solo primogenito l'eredità terriera, spesso con l'obbligo di conservarla e trasmetterla integralmente, e che, conservando il latifondo, impediva il costituirsi di un ceto di medi possidenti.
La formazione di una classe sociale intermedia e il frazionamento della grande proprietà terriera furono tra i vantaggi maggiori che la Toscana ricavò dalle riforme granducali. Fallì invece, sostanzialmente, il proposito di creare una Chiesa episcopale toscana autonoma rispetto alla Santa Sede: in questo programma il granduca avrebbe trovato degli alleati (del tutto occasionali data la ben diversa ispirazione ideologica) in alcuni ecclesiastici toscani, guidati dal vescovo di Pistoia Scipione de' Ricci, che, postisi già sul terreno giansenistico riguardo all'interpretazione di alcuni problemi di ordine schiettamente teologico, pretendevano altresì di affermare la superiore volontà dei Concili (diocesani o regionali) rispetto al pontefice. Il Ricci ottenne un notevole successo nel Sinodo di Pistoia (1786), ma poco dopo, contraddetto dalla maggior parte del clero e dalla popolazione, dovette rinunciare ai suoi propositi di autonomia e sottomettersi al pontefice.
Coll'avvento al trono granducale di Ferdinando III (1790-1801), mentre il padre diveniva imperatore con il nome di Leopoldo II, cadevano del tutto i piani di riforma ecclesiastica.

 

Le riforme in Italia: le Corti borboniche

 

Il Regno di Napoli e di Sicilia era stato assegnato definitivamente a Carlo, III di Borbone-Farnese col trattato di Vienna (1738); questo sovrano, dotato più che altro di tenacia di propositi, aveva iniziato un'intensa attività riformatrice, valendosi dell'opera del toscano Bernardo Tanucci.
Fra l'altro, nel 1741 era stato possibile al re concludere con Benedetto XIV Lambertini (1740-58), pontefice dedito agli studi giuridici e teologici e saggio governante dello Stato della Chiesa, un Concordato per una misurata ed opportuna restrizione delle immunità tributarie e degli altri privilegi di cui godeva il clero napoletano.
Dal 1759 Carlo III passò sul trono di Spagna, lasciando una reggenza per il figlio Ferdinando IV (1759-1825), e per circa un ventennio il Tanucci, arbitro indiscusso del governo napoletano, proseguì energicamente la sua opera riformatrice, favorito anche dalla notevole diffusione della cultura illuministica a Napoli, di cui furono esponenti il Galiani, il Genovesi e poi il Filangieri.
A fronte di uno stato in cui
 - il clero e la nobiltà feudale si dividevano le ricchezze comuni,
 - la legislazione era caotica, sovrapponendosi e confondendosi di continuo la giurisdizione baronale con quella regia e quella ecclesiastica,
 - le industrie di importanza superiore all'artigianato locale erano inesistenti (salvo quella della seta a Napoli e della lana all'interno),
 - il ceto medio era costituito quasi interamente dalle categorie impiegatizie di corte e dagli innumerevoli avvocati e giuristi,
 - il contrasto tra la miseria della stragrande maggioranza della popolazione e la vita fastosa della corte e della nobiltà era quanto mai clamoroso ed urtante (Carlo III di Borbone aveva voluto tra l'altro far iniziare la costruzione di una reggia a Caserta, sul progetto del Vanvitelli, che non fosse inferiore a quella di Versailles e vi aveva speso somme ingenti),
l'opera del Tanucci tornava quindi particolarmente opportuna.
Essa fu necessariamente rivolta a migliorare le finanze e l'economia del Regno e a ridurre le autonomie giuridiche del clero e della nobiltà, che valendosi di privilegi antichissimi si sottraevano alla legge comune. La lotta contro le immunità ecclesiastiche fu condotta sulla base delle idee giurisdizionalistiche elaborate dal pensiero meridionale italiano (specialmente dal Giannone), tendenti a restituire la piena sovranità ai re di Napoli, col respingere sul terreno storico e giuridico qualsiasi dipendenza feudale del Regno dalla Santa Sede.
Il dissidio si protrasse anche dopo la caduta del Tanucci, licenziato nel 1777 dalla regina Maria Carolina, arciduchessa austriaca, e si concluse simbolicamente nel 1788 con il rifiuto della corte borbonica d'inviare a Roma l'omaggio annuale di un cavallo bianco (chinea), riccamente bardato e fornito di una borsa di scudi d'oro, che ricordava l'investitura del Regno concessa dal pontefice a Carlo d'Angiò nel secolo XIII.
Allo scopo di ridurre i privilegi e le giurisdizioni baronali in Sicilia, dove esisteva anche un Parlamento cui apparteneva il diritto di approvare la concessione dei tributi, fu inviato nell'isola nel 1781 Domenico Caracciolo col titolo di Vicerè. Il Caracciolo, ispirandosi ai principi illuministici, tentò di combattere il potere dei baroni, allargando la competenza dei tribunali regi e favorendo le amministrazioni dei comuni nelle loro interminabili contese con l'aristocrazia per il riscatto dei terreni. In seguito però la Corte assunse un contegno sempre più rigidamente conservatore, alienandosi le simpatie del ceto intellettuale e preparando il terreno a quella scissione tra il governo e gli ambienti illuminati che culminerà nelle tragiche vicende della Repubblica partenopea del 1799.

 

Anche nel Ducato di Parma, eredità dei Farnese assegnata con la pace di Aquisgrana (1748) a Filippo di Borbone (1748-65), si avvertirono per qualche tempo le ripercussioni del riformismo illuministico e della cultura francese, portatavi direttamente dal Condillac, precettore dell'erede al trono Ferdinando (1765-1802).
Anima del governo, specie durante la minorità del duca Ferdinando, fu Guglielmo du Tillot, un francese divenuto ministro delle finanze ducali, che si mostrò particolarmente avverso al clero e, imitando le altre corti borboniche, fece espellere dallo Stato i Gesuiti.
La grande maggioranza della popolazione, però, non lo sostenne e continuò le sue tradizionali attività agricole, mantenendosi indifferente o addirittura ostile alle innovazioni in campo sociale ed economico. Quando anche la Corte, in seguito al matrimonio del giovane duca con l'arciduchessa austriaca Maria Amalia, sorella di Maria Carolina di Napoli (entrambe erano figlie dell'imperatrice Maria Teresa), tolse il suo favore al du Tillot e lo licenziò (1771), ogni cosa ritornò allo stato di prima.

 

Negli altri Stati italiani non ci fu veramente un'attività riformatrice ispirata ai principi dell'assolutismo illuminato:
 - lo Stato della Chiesa rimase fedele alle sue forme di governo teocratico, in cui tutti gli uffici pubblici erano tenuti da ecclesiastici;
 - la Repubblica di Venezia continuò ad essere governata da una ristretta cerchia di famiglie aristocratiche tenacemente avverse ad ogni innovazione politica;
 - la Repubblica di Genova vide diminuire la forza dello stato, nonostante la ricchezza delle singole famiglie patrizie, al punto di non essere più in grado di conservare la sovranità sulla Corsica. L'isola, infatti, che era stata soggetta ad uno sfruttamento senza scrupoli da parte dei Genovesi, si trovava da un ventennio in uno stato di continua rivolta, sotto la guida dopo il 1755 di Pasquale Paoli (1725-1807); infine il governo genovese, incapace di aver ragione degli insorti, chiese l'intervento armato della Francia, riservandosi sull'isola una sovranità nominale, che non fu di fatto esercitata (Trattato di Versailles, 1768); la Corsica quindi, dopo la sconfitta subita dal Paoli a Pontenuovo (1769), divenne definitivamente un territorio francese.

 

Lo Stato sabaudo si era ampliamento allargato verso il Ticino durante la prima metà del secolo XVIII, approfittando delle contese tra gli Asburgo d'Austria ed i Borboni di Francia; la monarchia godeva di largo prestigio presso la popolazione rurale e dell'appoggio fedele della nobiltà, quasi tutta di origine feudale, che costituiva la classe dirigente e deteneva le cariche pubbliche ed i comandi militari più elevati.
Vittorio Amedeo Il (1680-1730) durante il suo lungo regno aveva attuato alcune riforme riguardanti soprattutto l'unificazione delle leggi dello Stato, il miglioramento degli istituti di istruzione e la riduzione dei privilegi del clero. Il figlio Carlo Emanuele III (1730-73) preferì conservare buoni rapporti col pontefice, stabilendo un Concordato che limitava in misura lieve i privilegi e le sanzioni ecclesiastiche, e rivolse la sua attenzione allo sviluppo della Sardegna (acquistata nel 1720 in cambio della Sicilia), che versava in condizioni tristissime, dopo la lunga dominazione spagnola, per gli abusi feudali e l'arretratezza economica e culturale della popolazione. Il ministro Giovan Battista Bogino, che aveva fatto parte anche del governo di Vittorio Amedeo II, ottenne qualche miglioramento delle condizioni dell'isola, rendendo più agevoli e sicure le comunicazioni, riattivando l'Università di Cagliari e reprimendo in qualche caso la prepotenza dei feudatari. Sotto il regno di Vittorio Amedeo III (1773-1796), preso dall'ambizione di creare un esercito di efficienza prussiana per il quale spese grosse somme, l'involuzione della politica della Corte sabauda si accentuò: il Bogino fu licenziato, l'opera riformatrice fu completamente abbandonata e il Piemonte si schierò tra gli stati conservatori italiani.

 

Il Ducato di Modena e Reggio continuò la sua tranquilla vita di Stato provinciale sotto il governo di Francesco III d'Este (1737-80).
Mentre avveniva l'annessione del Principato di Massa e Carrara, per il matrimonio (1741) dell'erede dei Cybo Malaspina, signori di quel feudo imperiale, con Ercole Rinaldo d'Este, previsto successore di Francesco III, con un altro matrimonio fra Beatrice, figlia unica di Ercole, e l'arciduca austriaco Ferdinando (1771), si preparava anche l'insediamento di una nuova dinastia parzialmente austriaca nel Ducato.
Questo fatto, unito a quello dei matrimoni dei sovrani di Napoli e di Parma con arciduchesse austriache, contribuì grandemente ad accrescere l'influenza austriaca nella Penisola, influenza che verso la fine del secolo sarebbe divenuta tale da prevalere nettamente su quella borbonica.

 

La crisi della monarchia francese

 

In Francia, meno che altrove, la monarchia corrispose alle aspirazioni riformatrici della borghesia, che era, nondimeno, tra le più ricche e, intellettualmente, tra le più progredite d'Europa.
La dinastia borbonica aveva perduto molta parte del proprio prestigio e, dopo la morte di Luigi XIV, aveva legato la propria fortuna a quella degli ordini privilegiati, ostili a ogni forma di rinnovamento. I privilegi, le immunità, li ingiustizie di carattere feudale tipiche dell'Antico Regime resistevano infatti, in Francia, più che altrove nell'Europa centro-occidentale. Dopo un secolo e mezzo di monarchia assoluta, da Luigi XI a Luigi XIV, lo Stato moderno non era ancora realizzato annullando tali privilegi.
Uscita duramente sconfitta dalla Guerra dei Sette anni, la monarchia francese si era per di più impegnata nella lotta tra l'Inghilterra e le sue colonie d'America. Il bilancio, già fortemente passivo, ne ricevette un aggravio insostenibile e si prospettò una gravissima crisi finanziaria. La monarchia, rappresentata dal debole Luigi XVI (1774-1793), non fu capace di affrontare con energia la situazione e, riordinando l'amministrazione dello stato, di riacquistare quel credito, non solo morale ma anche finanziario, che era necessario per continuare a governare.
La causa fondamentale della situazione di malcontento prevalente in Francia stava nell'ingiusta e antieconomica distribuzione dei carichi fiscali che ricadevano quasi esclusivamente sulla borghesia commerciale e industriale e sui contadini, mentre gli ordini privilegiati, clero e aristocrazia, che pur possedevano larga parte della proprietà fondiaria, ne erano esenti. Vani riuscirono tutti i tentativi di riforma finanziaria intrapresi prima dal fisiocratico Giacomo Turgot (1774-76), chiamato dal re alla carica di Controllore generale delle Finanze, e poi dal liberaleggiante banchiere ginevrino Necker (1776-81). L'uno e l'altro, quando si spinsero sull'unica via che poteva fornire un rimedio alla situazione, quella di imporre una tassazione proporzionata a tutte le classi sociali, incontrarono la resistenza insuperabile degli ordini privilegiati, appoggiati dalla Corte, in cui dominava la regina Maria Antonietta, figlia di Maria Teresa d'Austria.
Essendo quindi impossibile attuare qualsiasi riforma di carattere economico e giuridico che potesse gradualmente risanare la pubblica amministrazione, soddisfacendo almeno in parte alle aspirazioni e alle necessità della borghesia e del proletariato rurale, la Francia si avviò fatalmente verso la crisi rivoluzionaria.

 

L'indebolimento della monarchia francese, alleata tradizionale della Polonia, e il momentaneo disinteresse dell'Inghilterra, assorbita nel conflitto coloniale, per i problemi europei, consentirono alle altre tre maggiori potenze del continente, Prussia, Russia e Austria, di svolgere una politica espansionistica di cui alla fine fu vittima il debolissimo Regno di Polonia.
Alla morte del sovrano polacco Augusto III (1763), infatti, la zarina Caterina II era riuscita a imporre sul trono di Varsavia uno dei suoi favoriti, Stanislao Poniatowski (1764). In seguito Caterina II e il re di Prussia, Federico II, si erano accordati per mantenere in Polonia uno stato di disordine, favorendo le rivendicazioni dei protestanti, riuniti nella Confederazione di Radom contro i cattolici della Confederazione di Bar.
Quando l'ostilità si tramutò in aperta guerra civile, i Russi ne approfittarono per intervenire militarmente contro i confederati cattolici (1768). Sconfitti, gruppi di questi sconfinarono in territorio turco, inseguiti dalle truppe russe. Si creò così il casus belli che provocò un conflitto tra Russia e Turchia.

 

La Guerra russo-turca (1768-1774) fu in realtà una conseguenza inevitabile della lenta ma inarrestabile espansione russa verso il Mar Nero, facilitata dalla decadenza dell'Impero ottomano. Ciò poneva in primo piano per la prima volta nella storia europea la cosiddetta Questione d'Oriente, ossia il problema del possibile crollo dell'Impero turco, del conseguente avvicinamento della potenza russa agli stretti del Bosforo e dei Dardanelli e del suo accesso al Mediterraneo.
Il conflitto, per intanto, si risolse rapidamente a favore dei Russi, che nello scontro navale di Cesmè (presso l'isola di Chio) riportarono una vittoria decisiva (1770).
Il pericolo di una totale distruzione dell'Impero ottomano a vantaggio esclusivo della Russia, tuttavia, suscitò le apprensioni delle altre corti europee e spinse il governo austriaco di Maria Teresa e Giuseppe II a minacciare un intervento a fianco della Turchia. Federico II di Prussia assunse allora la parte di «pacificatore», proponendo in cambio del ristabilimento di uno status quo nei Balcani la spartizione di alcuni territori polacchi.
Dopo molte esitazioni austriache, fu concluso tra Russia, Prussia e Austria, quello che rimane uno degli atti più spregiudicati della politica settecentesca, ossia l'accordo che stabiliva lo smembramento di uno Stato indipendente che non era in guerra con nessuno (Prima spartizione della Polonia, 1772). In base a tale accordo la Russia ebbe la Livonia e la Russia Bianca, l'Austria la Galizia e la Lodomiria, Federico II, artefice del patto, ottenne la Prussia occidentale, acquisto rilevante perché serviva a saldare il territorio della Prussia orientale con il resto del regno.
In seguito a ciò il conflitto russo-turco fu rapidamente composto, con ulteriori vantaggi della Russia che ottenne la città di Azov e la possibilità di navigare nel Mar Nero (Trattato di Kainargi, 1774). Pochi anni dopo la zarina faceva occupare anche la Crimea.
Alla vigilia dell'età contemporanea, pertanto, si prospettava in Europa un nuovo grande problema di politica internazionale che sarebbe stato un focolaio costante di rivalità e di conflitti, vale a dire la sorte della Penisola balcanica e degli Stretti per l'interna e irrimediabile dissoluzione dell'Impero turco.
Il resto dell'Europa sembrava tranquillo ed in pace: l'Inghilterra ripiegava sulla difesa dei propri interessi marittimi e commerciali; l'Austria si rivolgeva soprattutto verso oriente, senza tuttavia che ciò potesse per ora compromettere i rapporti con la Russia; la Prussia, dopo la morte di Federico II (1786), non era più in grado di perseguire la politica di prestigio militare e politico tanto legata alla personalità del sovrano; le Provincie Unite, la Svezia e la Spagna si erano ormai rassegnate ad una posizione secondaria rispetto alle grandi potenze.

 

 

 

I dissidi tra le colonie nordamericane e il governo londinese

 

 

la rivoluzione americana

 

 

 

Un problema notevole per l'amministrazione londinese era costituito dai traffici commerciali che coinvolgevano le colonie americane, traffici che, in parte, erano illegali, perché contravvenivano alle regole del mercantilismo inglese, secondo cui solo la madrepatria poteva commerciare con l'estero e alle colonie era concesso di trafficare solo con i porti inglesi.
Se da una parte l'Inghilterra, di fatto, scendeva a patti con le oligarchie coloniali, dall'altra non poteva transigere sul piano del principio di diritto. A Londra, inoltre, si andava formando un'idea di impero fondato sulla centralità del parlamento, che aveva la rappresentanza di tutti i sudditi, anche quelli delle colonie che non votavano.
In America, peraltro, si voleva ottenere una rappresentanza reale, non soltanto virtuale, e visto che le singole colonie erano dotate di assemblee elettive che trattavano con il governatore nominato dal sovrano, i coloni non erano più disposti ad accettare qualsiasi interferenza da parte del parlamento di Londra, nel quale non erano rappresentati né intendevano esserlo.
Gli americani volevano commerciare liberamente con le Antille e non intendevano subire le misure mercantiliste della madrepatria, volevano controllare i proventi del loro gettito fiscale, volevano espandersi verso ovest e gestire direttamente i rapporti con gli indiani; gli inglesi, invece, volevano mantenere la gestione unitaria dell'impero, ricavare più imposte dagli americani e mantenere il tradizionale impianto mercantilista della centralizzazione commerciale e fiscale.

 

Il deteriorarsi dei rapporti con l'Inghilterra

 

Con la pace di Parigi, conseguente alla Guerra dei Sette anni, l'Inghilterra aveva considerevolmente aumentato i propri possedimenti americani. Questi, consistenti prima della guerra in tredici colonie costituitesi in epoche diverse (New Hampshire, Massachusetts, Rhode Island, Connecticut, New York, New Jersey, Pennsylvania, Delaware, Maryland, Virginia, North Carolina, South Carolina, Georgia), vennero ampliati per l'annessione del Canadà e della Florida. Ma la conseguenza più importante della vittoria fu l'apertura alla colonizzazione inglese del vasto e ricco territorio interno, abitato quasi esclusivamente da tribù indigene, posto tra la Florida, la Luisiana, il corso del Mississippi, il Canadà e le Tredici Colonie.

 

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Le tredici colonie britanniche

 

Ogni singola colonia aveva forme di governo proprie, talora definite dalla Corona, talora sorte e impostesi direttamente per volontà dei coloni e secondo la loro esperienza diretta. In quasi tutti il governatore era di nomina regia e il controllo della politica interna era tenuto da un'aristocrazia locale che dominava nelle assemblee rappresentative.
Il contrasto fra governo inglese e colonie che portò alla Rivoluzione americana, ebbe carattere soprattutto politico, giuridico e ideologico.
Londra era intenzionata a governare direttamente quei territori per amministrare i rapporti con le tribù indiane ed evitare l'espansione caotica e conflittuale. Il problema più difficile cui si trovò di fronte l'Inghilterra all'indomani della Guerra dei Sette anni fu quello di trovare i mezzi finanziari necessari per la difesa dei suoi territori americani, soprattutto quelli ad occidente delle Tredici Colonie, dove in nuovi immigrati dall'Europa erano ansiosi di trasferirsi per disporre di nuove terre da coltivare.
La politica coloniale inglese fu contraddistinta in questo periodo da indecisione e da mancanza di una direttiva uniforme: la fine del governo whig, con l'avvento dei tories, comportò la fine della corruzione ma anche un atteggiamento più decisionista da parte di Londra, determinata ad aumentare il prelievo fiscale dalle colonie, per contribuire a ripianare il debito provocato dalla stessa guerra. Per proteggere i coloni fu proibito loro fin dal 1763 di insediarsi ad occidente di una determinata linea di confine, oltre i monti Appalachi, finché non fossero stati costruiti in territorio indiano i fortini per le truppe di guarnigione; e la misura, rimasta in vigore anche quando le stesse colonie ebbero provveduto direttamente alla difesa, inasprì l'opinione americana.
Fra il 1764 e il 1768, poi, nell'intento di ottenere le somme necessarie alla difesa, il Parlamento inglese votò diverse leggi che o imponevano nuovi tributi ai coloni (Stamp Act, imposta del bollo, 1765) o rendevano più rigoroso il sistema di protezionismo imperiale per cui essi non potevano acquistare merci altro che nell'Impero britannico (Sugar Act, diretto a reprimere il contrabbando della melassa delle Indie occidentali francesi, 1764, e altri provvedimenti successivi). Queste misure stimolarono il senso di libertà dei coloni, nella coscienza politica dei quali agivano due principi, quello dei loro diritti in “inglesi” e quello illuministico del diritto naturale di ogni uomo alla libertà e all'uguaglianza.

 

 

 

La dichiarazione di indipendenza

 

 

Nascevano, allora, le prime organizzazioni volte alla difesa dei diritti dei coloni, come i “Figli della libertà” di New York e del Massachusetts; l'opposizione alla politica della madrepatria si mostrò particolarmente decisa nelle più antiche e solide colonie del Nord e del Sud, il Massachusetts e la Virginia, inducendo il governo di Londra allo scioglimento delle loro assemblee rappresentativa (1768). Ciò, naturalmente, non fece che aggravare la tensione, ma di fronte alla decisione londinese di ritirare il provvedimento sanzionatorio, i rapporti fra madrepatria e colonie subirono un netto miglioramento.
Tre anni dopo, tuttavia, la concessione britannica alla Compagnia delle Indie di una posizione di monopolio nel commercio del tè per le colonie d'oltre Atlantico, stabilì una nuova solidarietà fra i radicali american i e i potenti interessi commerciali della colonia della Nuova Inghilterra.
Nel dicembre 1773 un gruppo di uomini travestiti da pellirosse gettò in mare il carico di casse di tè che si trovavano su navi della Compagnia delle Indie nel porto di Boston: il dissidio tra madrepatria e colonie entrò in fase rivoluzionaria. Il Massachusetts, esposto a sanzioni economiche da Londra, ottenne la solidarietà delle altre colonie, e tutto il continente, con a capo la Virginia, stabilì la convocazione di un congresso, a Filadelfia, nel settembre 1774. Fu il primo congresso “continentale”, cioè la prima assemblea dei rappresentanti delle colonie inglesi d'America (con l'astensione della sola Georgia).
Il 4 luglio 1776, in seno a quel congresso, fu emanata la Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti. Opera soprattutto di Thomas Jefferson, la Dichiarazione proclamava l'indipendenza dei coloni inglesi d'America richiamandosi a principi di diritto naturale e di contratto sociale tipici della cultura illuministica.
La teoria del contratto sociale ricalcava tra l'altro le iniziative di alcuni gruppi di coloni associatisi per procedere insieme a costituire insediamenti in particolari regioni, come nel caso, risalente al 1620, del Patto del Mayflower, la nave che trasferiva nel nuovo continente i Padri Pellegrini (un gruppo puritano), con il quale si dette origine alla colonia del Massachusetts.
La Dichiarazione si presentava come il primo documento pubblico, in cui il diritto naturale degli uomini «alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità» sostenuto da tutti gli spiriti illuminati del secolo, veniva solennemente proclamato.

 

Il conflitto con gli inglesi

 

Si trattò di una guerra civile. Sia in Inghilterra sia in America gli animi erano divisi: molti americani sostennero le forze inglesi, ma molti inglesi parteggiarono per le libertà americane. Gli inglesi dovettero ricorrere a forze mercenarie soprattutto tedesche, ma gli americani stentarono a nutrire il concorso dei volontari. George Washington, comandante in capo delle forze americane, non poté usufruire di grandi contingenti, ma seppe ugualmente risolvere la situazione a favore dell'America.
La guerra, combattuta con alterne vicende nei primi due anni, entrò in una nuova fase dopo la vittoria americana di Saratoga, nell'ottobre 1777; tale vittoria indusse gli inglesi a cercare un accordo con le colonie, proponendo a) la rinuncia alla tassazione delle colonie da parte del Parlamento britannico, b) la rinuncia a tenere truppe nelle colonie senza il consenso degli americani, c) l'abrogazione di tutte le leggi “imperiali” cui il Congresso americano si fosse dichiarato contrario, d) il riconoscimento, in cambio della completa autonomia, della sovranità inglese.
Tali concessioni, tuttavia, giunsero troppo tardi, perché nel frattempo gli Americani avevano stretto una vantaggiosa alleanza con la Francia, la quale aveva seguito con soddisfazione il movimento americano, che essa aveva favorito fornendo armi ai coloni e stabilendo intensi rapporti commerciali, nell'intento di provocare il crollo dell'impero coloniale della rivale Inghilterra e nello stesso tempo di procurarsi un vantaggioso mercato commerciale. Nel 1776 l'offerta di alleanza fatta a Parigi da Benjamin Franklin fu accettata, ma già da tempo la causa americana era molto popolare a Parigi; l'adesione a tali istanze libertarie si manifestò anche sotto la forma di un'effettiva partecipazione alla Guerra d'indipendenza da parte di numerosi gentiluomini francesi, accorsi ad offrire il proprio braccio e in diversi casi anche la propria competenza militare al generale Washington: il più illustre di essi fu il marchese di Lafayette.
L'alleanza con la Francia ebbe la conseguenza di rendere la Guerra d'indipendenza americana un evento internazionale di primaria importanza, tanto più che accanto ai Borboni di Francia scesero in campo anche i Borboni di Spagna. La partecipazione militare e navale della Francia, che coincise con un periodo di crisi della potenza marinara inglese, si rivelò decisiva.
IL 17 ottobre 1781 con la vittoria di Yorktown gli americani ottennero la resa degli inglesi. Dopo lunghe e laboriose trattative la pace fu firmata a Versailles il 3 settembre 1783. Per l'evidente volontà dell'Inghilterra di liquidare una politica perdente, fu nettamente favorevole agli Americani; anche la Spagna fu favorita, riottenendo la Florida e vedendo riconosciuto il possesso dei territori nordamericani a ovest del Mississippi. La Francia, invece, uscì ulteriormente indebolita anche da questo conflitto.

 

 

 

La Costituzione federale degli Stati Uniti

 

La Costituzione federale

 

Subito dopo l'indipendenza, nelle colonie si sviluppò un intenso dibattito su come organizzare le relazioni fra i vari stati del continente fra due opposti partiti, “repubblicano”, sostenitore della sovranità di ciascun singolo Stato, e “federalista”, sostenitore della necessità di creare un'autorità centrale capace di assicurare unità alla nascente nazione americana attraverso un programma politico comune.
Prevalsi i federalisti, nel 1787 un'assemblea costituente redasse la Costituzione degli Stati Uniti d'America (approvata il 17 settembre 1787 ed entrata in vigore nel 1789), che istituiva un solido centro federale caratterizzato da una rigida divisione dei poteri.
L'esecutivo è affidato a un presidente molto forte, eletto dal popolo e in carica per quattro anni, con facoltà di nominare un governo che non chiede la fiducia del parlamento e di opporre un veto sospensivo ai disegni di legge approvati in sede parlamentare. Il potere legislativo appartiene a un Congresso (parlamento) bicamerale, formato dai Rappresentanti, eletti in numero proporzionale alla popolazione di ciascuno Stato, e dal Senato, composto da due rappresentanti per ogni stato, indipendentemente dalla consistenza demografica. Il potere giudiziario è governato dalla Corte suprema, i cui giudici sono in carica a vita, nominati dal presidente con l'assenso del Congresso, i quali hanno anche la funzione di controllo della legittimità costituzionale delle leggi.

 

 

 

La Rivoluzione: gli Stati generali

 

 

La rivoluzione francese

 

 

Dall'Antico Regime alla Costituente

 

Nel 1788 Luigi XVI volle fare appello al paese perché lo aiutasse a riassestare le finanze pubbliche.
La monarchia giunse così alla convocazione degli Stato Generali del Regno, corpo rappresentativo in cui accanto ai deputati dei due Stati privilegiati, Nobiltà e Clero (rappresentanti di un totale 200.000 persone) stavano quelli del Terzo Stato (rappresentanti di tutto il resto della nazione, cioè circa 25 milioni di persone).
La convocazione degli Stati Generali, che non avveniva dal 1614, si presentava come il miglior mezzo per ovviare alla crisi, ma corrispondeva pure ai desideri della nobiltà, che lamentava la perdita dell'importanza politica goduta un tempo e che aspirava a riottenerla con la crisi del potere centrale. Ma il clima generale era mutato, e ciò si rese palese nell'importanza assunta dal Terzo Stato ancor prima della riunione degli Stati Generali, sottolineata da un'intensissima pubblicistica che vi contribuì in modo decisivo.
Quando si giunse alla riunione degli Stati Generali, dunque, la vittoria era già nelle mani del Terzo Stato, i cui rappresentanti erano in numero superiore a quelli degli altri due ordini messi insieme (5 maggio 1789). Inoltre, i rappresentanti di Nobiltà e Clero erano di fatto divisi tra loro, dal momento che tra essi c'erano, da una parte, numerosi elementi che esprimevano aperture liberali (come il Lafayette, che aveva partecipato alla lotta di indipendenza americana), dall'altra, un congruo numero di curati di campagna che erano solidali con il popolo loro affidato. Nel Terzo Stato, poi, era ormai chiara la coscienza di non costituire più uno “stato” della nazione, ma la nazione stessa.
Sfuggendo al tentativo della corona di tenere separate le diverse componenti della rappresentanza, definendo i limiti e le funzioni dei tre Stati, il 20 giugno del 1789 tutto il corpo rappresentativo si riunì presso la sala della Pallacorda e stabilì di non separarsi mai e di riunirsi ovunque le circostanze lo esigessero finché la costituzione del Regno non venisse stabilita e consolidata (Giuramento della Pallacorda).
Gli Stati Generali, allora, si trasformarono di propria iniziativa in Assemblea Nazionale Costituente, dotata dei poteri sovrani conferiti dalla stessa nazione.

 

 

 

La presa della Bastiglia. La Costituzione del '91

 

 

La presa della Bastiglia

 

Il quadro politico francese del 1789, tuttavia, non si esaurisce nei tre Stati radunati dalla monarchia; entra in scena, infatti, un altro elemento, nuovo nel modo di agire e nella maturità dimostrata, con l'intenzione di assumere un ruolo di primo piano nella vita politico-sociale del paese, il popolo, che sollecita una stretta collaborazione con i rappresentanti del Terzo Stato nell'Assemblea.
Nel frattempo, l'ambiente di corte, sotto l'egida del Conte di Artois, uno dei fratelli del re, concepisce piani di restaurazione del potere assoluto della monarchia attraverso un colpo di stato militare. Vengono concentrate truppe (in genere svizzere, più affidabili al momento) e viene allontanato il Necker, sostenitore di misure moderate e di opportune concessioni; ma queste manovre finiscono per inasprire l'Assemblea e suscitare diffidenza nell'opinione popolare, creando l'atmosfera favorevole alla rivoluzione municipale di Parigi, che si manifesta con l'assalto e la conquista del carcere politico della Bastiglia (14 luglio), luogo simbolico del regime.
Da quel momento la rivoluzione è in atto e i suoi esponenti operano per darle una struttura organizzata: si costituisce la municipalità rivoluzionaria della metropoli parigina, si forma una milizia, chiamata poi Guardia Nazionale, cui viene posto a capo il Lafayette, si costringe il re a venire a Parigi per riconoscervi pubblicamente, al Palazzo di Città, il nuovo stato di cose, mentre il Necker viene in tutta fretta richiamato.
Il re, dal canto suo, cede ora alla municipalità parigina, come aveva poco prima ceduto all'Assemblea, mentre il partito aristocratico lo abbandona, e dà vita, con i suoi membri più rappresentativi a un movimento di emigrazione oltre frontiera verso i Paesi Bassi austriaci, la Germania, il Piemonte (dove si rifugia il Conte di Artois), che dall'estero continua l'opera di opposizione al nuovo regime.

 

La Dichiarazione dei diritti

 

Il temporaneo favore di cui gode il re di fronte all'opinione popolare non placa affatto, tuttavia, i timori di una cospirazione aristocratica.
La cosiddetta “grande paura” si diffuse quindi a diverse province francesi, estendendo il moto popolare parigino, creando in tutta la Francia una situazione sociale ed economica confusa e precaria.
Lo stato di agitazione delle campagne indusse l'assemblea a pensare all'abolizione del regime feudale, un passo fondamentale per il superamento dell'Antico Regime (agosto 1789), benché realizzata solo parzialmente per la complessità insita nel problema e per le resistenze e le difficoltà sollevate da non pochi degli stessi membri dell'Assemblea. Il dibattito sull'abolizione della feudalità, tuttavia, comportò la sua generalizzazione nella discussione sui diritti naturali dell'uomo vivente in società, conseguenza logica della mentalità razionalistica dell'Illuminismo, già peraltro sperimentata nella Dichiarazione americana del 1776.
Nasceva la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino (26 agosto 1789), in 17 articoli, che intendeva porre le basi di una nuova società fondata su principi di libertà e di uguaglianza, di cui affermava sentenziosamente la validità universale e perenne.
Tipica espressione della mentalità razionalistica e generalizzatrice francese, la Dichiarazione doveva acquistare il significato di fondamento solenne della vita etico-politica di tutta un'età.

 

Proseguiva intanto, al di fuori dell'Assemblea, la rivoluzione municipale avente come suo centro Parigi.
Cominciarono ad imporsi le figure che avrebbero avuto importanza determinante negli anni seguenti, il Marat, il Desmoulins, e altri pubblicisti che si facevano portavoce dei clubs rivoluzionari e democratici della grande città, che diffidavano dell'Assemblea, che ne reclamavano lo scioglimento e chiedevano il ritorno del re a Parigi.
Il 5 ottobre un corteo di parecchie migliaia di donne dei quartieri popolari parigini giunse a Versailles, la residenza del re, ed ottenne dal re in persona assicurazioni di rispetto per la costituzione che si veniva votando.
Luigi XVI dovette ritornare a Parigi, questa volta per rimanervi, mentre l'Assemblea lo seguiva: i rivoluzionari tenevano ormai sotto controllo sia la Corona sia l'Assemblea.

 

La Costituzione del '91

 

Nei due anni circa che seguirono, fino al settembre 1791, l'Assemblea assolse il suo compito di riorganizzazione dello Stato.
Anzitutto operò una radicale riforma della legislazione penale, garantendo all'accusato un'ampia e sicura salvaguardia dei diritti, fra cui quello di essere interrogato entro ventiquattro ore dall'arresto e il diritto all'assistenza di un avvocato.
La discussione del problema finanziario, poi, nella ricerca di una contribuzione straordinaria che colmasse il disavanzo, giunse, non senza opposizione, a deliberare la confisca dei beni ecclesiastici, che formavano circa un quinto della proprietà terriera francese. Sulla base della garanzia offerta da questo ingente patrimonio, che doveva essere venduto a poco a poco per non deprezzarne il valore, vennero emessi i cosiddetti assegnati, che avevano il duplice carattere di titoli di stato (con un interesse) e di cartamoneta per qualsiasi pagamento.
In terzo luogo venne affrontata la riorganizzazione territoriale, che veniva sostituendo la struttura esistente, formatasi nei secoli con il progressivo imporsi della corona sull'alta feudalità e pertanto profondamente differente da regione a regione. “Geometricamente” la Francia fu suddivisa in 83 Dipartimenti di estensione uniforme, a loro volta divisi in 9 comuni suddivisi al loro interno in 9 cantoni.
Il sistema elettorale fu poi “agganciato” al sistema dipartimentale, distribuendo i rappresentanti in proporzione al territorio, alla popolazione e alle contribuzioni di ciascun dipartimento; i cittadini vennero distinti in passivi (privi di diritto di voto) e attivi (che pagavano un'imposta minima), gli attivi in elettori (che pagavano un'imposta media) ed eleggibili (che pagavano un'imposta considerevole e possedevano una proprietà fondiaria).
Nel luglio del 1790, poi fu introdotta la Costituzione civile del Clero, che prevedeva la suddivisione del territorio francese in 83 diocesi, la designazione delle gerarchie ecclesiastiche per via elettiva e il conseguente giuramento di fedeltà dei prelati alla Nazione, alla Legge e al Re, la regolamentazione del trattamento economico dei ministri del culto a carico dello Stato e rigorosamente definito.

 

L'opera dell'Assemblea costituente, iniziata nell'estate del 1789, veniva a terminare nel settembre del 1791 con l'entrata in vigore della nuova costituzione, che proclamava il principio della “sovranità della nazione”, la quale delegava i suoi poteri all'Assemblea legislativa (potere legislativo), al re e ai suoi ministri (potere esecutivo) e a giudici di elezione popolare (potere giudiziario).
Tale costituzione dava alla Francia la struttura di una monarchia rappresentativa e garantiva la preminenza politica della classe dei borghesi proprietari; essa veniva discussa e approvata in un clima di crescente fermento e di contrasti fra il re, l'Assemblea, i vari partiti che si delineavano al suo interno e le forze extraparlamentari sempre più attive.

 

L'avvento della Convenzione

 

Forze esterne alla Francia contribuivano ad aggravare la tensione:
 - la Curia romana, condannando la Costituzione civile del Clero, aveva reso più ferma la volontà di resistenza dei preti “refrattari”, i quali non avevano acconsentito ad abbandonare la tradizione;
 - l'emigrazione nobiliare, guidata da Torino dal conte di Artois, svolgeva un'attiva opera di propaganda antirivoluzionaria entro il territorio francese e di propaganda antifrancese all'estero, presso le potenze europee;
 - le potenze straniere mostravano avversione nei confronti dei principi rivoluzionari e ad un tempo cercavano di approfittare della situazione per indebolire una rivale potenzialmente pericolosa come la Francia.
A ciò si aggiunse il tentativo fallito di fuga da parte del re Luigi XVI, preoccupato della sicurezza personale propria e della sua famiglia; travestito, fuggì alla volta della Lorena, dove lo attendevano truppe fedeli, ma fu riconosciuto e quindi fermato (a Varenne) per essere riportato a Parigi (21 giugno 1791).
Nel periodo in cui la costituzione del 1791 veniva portata a termine e accettata dal re (settembre) era tuttavia già in atto un processo di critica e di revisione politica e sociale. Il re era stato reintegrato nella sua posizione, dopo il tentativo di fuga, me in alcuni gruppi politici si parlava ormai insistentemente di repubblica. Ciò accrebbe le rivalità, entro e fuori l'Assemblea, fra gli elementi democratico-repubblicani (Cordiglieri e Giacobini) e gli elementi moderati monarchico-costituzionali (Foglianti o i Girondini).
Ad aggravare il conflitto interno, poi, contribuì anche l'atteggiamento delle grandi potenze, in particolare Austria e Prussia, che nell'agosto 1791, con la Dichiarazione di Pillnitz si dissero pronte ad agire di comune accordo e con le forze necessarie per mettere il re di Francia in condizione di stabilire nella più assoluta libertà le basi di un governo monarchico.

 

Proprio in quel periodo avevano luogo le elezioni per la nuova Assemblea, avendo la prima, secondo la costituzione allora completata, compiuto il suo mandato. Essendo ineleggibili i membri della Costituente, i deputati dell'Assemblea Legislativa furono uomini nuovi e in gran parte giovanissimi, sensibili alla pressione degli elementi estremisti.
Questa nuova Assemblea fu indotta a mostrare il suo spirito intransigente con un'energica politica contro i nobili emigrati e i preti refrattari, che sollecitavano alla controrivoluzione intere regioni; in politica estera, poi, il ministero girondino subentrato nel marzo si pronunciò contro le nazioni che proteggevano e sollecitavano gli elementi controrivoluzionari e, un mese dopo, l'Assemblea decretò la guerra contro l'Austria.
La guerra alle frontiere e la situazione interna incerta favorirono gli elementi più estremi; nel giugno del '92 il Lafayette denunciava l'azione settaria dei Giacobini, mentre gli eserciti stranieri entravano in territorio francese.

 

3

 

L'Europa alla vigilia della rivoluzione

 

 

 

La Convenzione e il colpo di stato montagnardo

 

 

Proclamato allora lo stato di emergenza, la Commissione dei dodici incaricata di farvi fronte si mosse in due sensi:
 - radicale politica rivoluzionaria per imprimere unità al paese
 - addestramento militare basato su un sistema di volontariato che doveva mutare la struttura sociale dell'esercito.
A questo punto si imponeva il problema della Monarchia: contro la maggioranza moderata dell'Assemblea, un comitato insurrezionale ordinò l'assalto al palazzo delle Tuileries, residenza del re, e fece chiudere Luigi XVI nella prigione del Tempio, imponendo all'Assemblea di dichiararne la deposizione (10 agosto '92).
In effetti l'Assemblea Legislativa si limitò a dichiarare il sovrano sospeso dalle sue funzioni, ma la situazione era praticamente la stessa.

 

La costituzione del '91 aveva fallito e si prospettava la necessità di formulare un nuovo testo costituzionale adeguato ai bisogni del momento.
A un solo anno dall'insediamento della Legislativa, pertanto, si svolsero le elezioni per la nuova assemblea, la Convenzione, incaricata di decidere la sorte dell'istituto monarchico e di elaborare la nuova costituzione.
Il 21 settembre 1792, il nuovo organismo assembleare, la Convenzione, al secondo giorno di attività, dichiarava abolita la monarchia e qualche settimana dopo iniziava a tenersi il processo contro il re, condannato e giustiziato il 21 gennaio 1793.

 

La Repubblica

 

Il colpo di stato Montagnardo
Portare il re sul patibolo significava implicitamente la rottura con l'Europa intera; del resto, fin dal luglio del '92, il comandante delle forze austro-prussiane aveva emanato un proclama che ammoniva i Francesi a non opporre resistenza agli eserciti alleati venuti a liberare il re.
Nel novembre dello stesso anno la Convenzione aveva risposto con un decreto che, promettendo l'aiuto della Francia a tutti i popoli desiderosi di conquistare la libertà politica e nazionale, sanzionava ufficialmente la politica estera di propaganda rivoluzionaria sostenuta dai Giacobini.
Dopo avere riportato anche qualche vittoria, tuttavia, gli eserciti rivoluzionari si trovarono di fronte, con l'entrata in guerra dell'Inghilterra e della Spagna (primavera '93), tutte le principali potenze europee riunite nella cosiddetta Prima coalizione.