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CLASSE   III   -   Sintesi di Storia (3)

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Terminologia storica


L'Europa orientale nella seconda metà del '400

 

 

I Paesi scandinavi e l'Europa orientale

 

La Danimarca, rimasta a lungo sotto l'influenza dei tedeschi conti di Holstein, si riebbe con Valdemaro IV (1340-75), che aspirava a stabilire la sua egemonia sul Mar Baltico.
I disegni del re di Danimarca, tuttavia, urtarono contro gli interessi delle città anseatiche, riunite in una lega tanto potente da costringere Valdemaro ad accettare la Pace di Stralsunda (1370), che confermava ai negozianti tedeschi del Baltico tutti i loro diritti e le loro franchigie.
La figlia di Valdemaro, Margherita di Danimarca, andò sposa al re di Norvegia e dopo la morte di questi (e del figlio Olav) poté raccogliere sotto la sua reggenza i tre regni di Danimarca, Svezia e Norvegia, realizzando l'Unione di Kalmar (1397-1523). Tale unione non fu però definitiva per il contrasto esistente tra Danesi e Svedesi, mentre il legame dinastico tra Danimarca e Norvegia si conservò fino all'Ottocento con una netta preminenza danese.

 

Per quanto concerne l'Europa orientale, per lungo tempo era stata accettata la colonizzazione tedesca in Polonia, Boemia e Ungheria, quando si manifestò sotto varie forme una reazione antigermanica, determinata sia da una risorgente coscienza slava, sia dall'avversione diffusa in ogni strato sociale contro l'invadenza economica della borghesia tedesca, sia da motivi di dissidenza religiosa.
La Polonia ebbe un sovrano di notevole importanza in Casimiro il Grande (1333-70) ultimo dei Piasti, che promosse una espansione verso nord-est nel Granducato di Lituania; i suoi successori, la dinastia degli Iagelloni, regnarono infatti sopra uno Stato derivato dalla fusione della Polonia e Lituania.
Nel secolo XV, il re Casimiro IV Iagellone (1444-1492) fu impegnato in una lotta contro i Cavalieri dell'Ordine Teutonico, signori feudali della Prussia e della Pomerania orientale, conseguendo successi decisivi, in seguito ai quali la bassa Vistola, compreso il porto di Danzica, venne incorporata nella Polonia (Pace di Thorn, 1466). Ai Cavalieri teutonici restava la Prussia orientale, in condizione di vassallaggio; la loro tradizione antislava e antipolacca tuttavia, sarebbe poi stata raccolta dai margravi tedeschi del Brandeburgo che, agli inizi del secolo XVII, avrebbero ereditato la Prussia orientale.
Ne1 nuovo grande Stato si svilupparono anche gusti e tendenze intellettuali, che ebbero i loro centri nella Corte e nell'Università di Cracovia, in cui furono ospitati dotti umanisti italiani e tedeschi.
In tal modo la Polonia rimase a lungo la potenza marginale dell'Europa verso l'Oriente russo e asiatico.

 

La corona di Boemia, attribuita per qualche tempo all'imperatore Sigismondo, nonostante la violentissima opposizione ussita, passò poi ad un principe di Casa d'Asburgo, la cui autorità fu nulla. Fu pertanto lasciato libero campo a Giorgio Podiebrad, che divenne «Amministratore generale del Regno» e poi ottenne la corona con grande soddisfazione popolare come primo re nazionale boemo (1458).
La Boemia era agitata da una duplice controversia, politica, rappresentata da una forte corrente nazionale che si opponeva all'invadenza germanica, e religiosa, rappresentata da una corrente ussita (cioè dei seguaci di Giovanni Hus), che rivendicava la propria autonomia nei confronti di Roma e chiedeva che i Boemi potessero liberamente beneficiare di un rito particolare relativo alla comunione eucaristica (rito utraquista). Agli occhi del popolo boemo la Chiesa cattolica e l'Impero erano due poteri collegati e la lotta contro l'uno significava anche l'indipendenza dall'altra.
Il Podiebrad, esponente di queste forze nazionali, riuscì a mantenere per qualche tempo la pace all'interno e ad avviare buone relazioni con i paesi vicini; incorse però poi nell'accusa di eresia e nella scomunica di papa Paolo II (1465), che gli suscitò contro il vicino re d'Ungheria, Mattia Corvino.
Negli anni seguenti si cercò di venire ad un accordo per la mediazione di Casimiro di Polonia, ma senza successo, anche perché contro il Podiebrad si levarono alcuni signori boemi e tedeschi, cattolici, suoi avversari (1467). Nonostante le rivalità interne, però, le risorse del paese (miniere di argento) ne conservarono floride le condizioni, permettendo la fioritura di una civiltà elegante, di transizione tra il Medioevo e il Rinascimento.
Morto il Podiebrad nel 1471, la nobiltà ceca proclamò re Ladislao Iagellone, figlio di Casimiro IV di Polonia, a patto che garantisse il mantenimento delle leggi che davano parità di diritti ai cattolici ed agli utraquisti.

 

Un risultato ugualmente favorevole il re di Polonia l'ottenne nei confronti dell'Ungheria.
Anche questo regno abitato dai Magiari, popolazione di lontana derivazione asiatica, era riuscito durante il Medio Evo a crearsi una struttura politica e una civiltà propria, nonostante la continua pressione germanica.
Il Regno di Ungheria non faceva parte dell'Impero, ma era stato unito alla Polonia all'epoca di Luigi d'Angiò, dal 1370 al 1382; alla metà del XV secolo era sotto la reggenza effettiva di Giovanni Hunyadi, valoroso condottiero cristiano nella guerra contro i Turchi, e alla sua morte il figlio Mattia Corvino, ancora in giovane età, fu proclamato re (1458-90).
Mattia Corvino seppe svolgere una vigorosa opera contro i Magnati (grande aristocrazia terriera), che sottopose, con l'appoggio della nobiltà minore, a un rigoroso controllo e ad un severo regime tributario; si distinse, però, anche come principe appassionato della cultura e dell'arte umanistica, di cui si fece protettore e promotore. Seppe anche imporre il rispetto della indipendenza ungherese agli Austriaci ed agli Ottomani e avrebbe voluto farsi riconoscere sovrano di Boemia, appoggiandosi alla parte cattolica, ma il suo disegno fallì per l'intervento di Casimiro di Polonia che sostenne con successo la candidatura del figlio.
Ai Turchi Mattia Corvino strappò una parte della Bosnia e al debole Ladislao di Boemia tolse la Moravia. Attaccò anche l'Austria, mentre era imperatore il poco capace Federico III, occupandone la parte orientale e la stessa Vienna (1485). Non riuscì, tuttavia, a fondare una dinastia e alla sua morte (1490) il re di Polonia fu pronto a cogliere l'occasione, proponendo per la successione al trono ungherese il proprio figlio Alberto. L'alta nobiltà magiara, però, preferì l'altro Iagellone, Ladislao, già sovrano di Boemia, e lo elesse re (1492).
Non molto tempo dopo, nei primi decenni del secolo XVI, l'Ungheria avrebbe perduto l'indipendenza, stretta tra il pericolo turco e la preminenza polacca, e si sarebbe associata all'Austria degli Asburgo.

 

L'espansione del Principato di Mosca

 

Alla fine del XV secolo si realizzò l'unificazione delle semibarbare province centrali russe intorno al Principato di Mosca.
Ivan III il Grande (1462-1505) fu il maggiore artefice di questa opera di conquista: abbatté prima la Repubblica di Novgorod, nel nord, ormai decaduta dagli splendori del passato, poi allargò la sua signoria e la sua influenza in direzione del Mar Nero e del medio Volga.
Nella Russia meridionale si era costituito un dominio tartaro detto Orda d'Oro, che occupava le terre dal Mar Nero al lago d'Aral. Questo dominio ai primi del '400 si era suddiviso in vari Khanati; due di essi, quello di Astrakan, presso il Mar Nero, e quello di Kazan, sul medio Volga, divennero vassalli del principe di Mosca; un terzo, il Khanato di Crimea, fu invece sottomesso dal Sultano.
Approfittando dei contrasti sorti tra Polacchi e Lituani (dopo la morte di Casimiro IV) Ivan riuscì ad occupare anche le terre alla sinistra del fiume Dniepr (1500).
Il despota di Mosca assunse il titolo di Signore (Czar = Caesar) di tutte le Russie, sposò una principessa bizantina, Zoe, erede dei Paleologi di Morea, e chiamò presso la sua corte numerosi artisti e artigiani bizantini e italiani, che lasciarono un'impronta della loro opera nelle sontuose costruzioni del Cremlino.
Nell'insieme però, col trasferimento della preponderanza da Kiew a Mosca, si accentuò il carattere asiatico dei principati russi.

 

 

 

Moventi economici e psicologici dei viaggi oceanici

 

 

viaggi e scoperte geografiche

 

 

L'economia dei nuovi regni

 

L'esistenza di forti monarchie, che avevano posto a sostegno del proprio regime l'alleanza col capitalismo borghese, ebbe le sue immediate ripercussioni in campo economico.
Le condizioni interne di pace e di salda amministrazione garantivano anzitutto una maggior sicurezza delle strade, sottratte alle insidie dei soldati sbandati e dei piccoli nobili affamati e predatori; il traffico, dopo i turbamenti prodotti dalla guerra nella prima metà del secolo, riprese e si intensificò, sollecitato dall'aumento della popolazione e dal bisogno di maggior lusso e comodità sentito dalle classi medie non meno che dall'aristocrazia.
Fu cura di taluni sovrani, come Luigi XI, Enrico VII, Ferdinando il Cattolico, assicurare una buona viabilità entro il loro regno, creare servizi regolari di corrieri, ricostruire ponti semidistrutti e luoghi di posta o di asilo per i viaggiatori: da questi governi di tendenze assolutistiche e centralizzate la rapidità delle comunicazioni era considerata uno strumento essenziale per controllare politicamente l'intero paese, eliminando le zone franche, irraggiungibili e perciò al di fuori della giurisdizione regia.
Il ritorno ad una relativa pace, sicurezza e prosperità nei regni dell'Occidente europeo, Francia, Inghilterra e Spagna, e per riflesso anche in Italia e nell'Impero, spinse ad intensificare le iniziative nel commercio e nell'industria.
L'economia, nelle sue due forme della produzione e dello scambio, apparve come un fatto non più limitato ad una città o ad una regione, ma una questione di importanza nazionale e, di conseguenza, tale da avere il suo peso nei rapporti tra Stato e Stato. I sovrani cominciarono a preoccuparsi della bilancia commerciale, della quantità d'oro e d'argento che usciva dalle frontiere per l'acquisto di materie prime straniere e della quantità che ne entrava per la vendita dei propri prodotti, e cercarono (con provvedimenti spesso occasionali e provvisori) di controllare, favorire e proteggere il lavoro degli opifici nazionali, modificando, quando fosse opportuno, gli statuti delle corporazioni artigiane, incoraggiando le invenzioni e concedendo privilegi e brevetti.
Tale forma di incipiente protezionismo doveva assicurare al fisco un più abbondante afflusso di denaro, richiesto per far fronte alle grandi spese che la monarchia si assumeva armando grossi eserciti e organizzando la numerosa burocrazia necessaria per l'amministrazione delle province e per lo svolgimento della corte.
Per coprire le spese divenne necessario trovare nuove fonti d'entrata, sfruttando con maggiore intensità le capacità produttive del paese.

 

In questa linea di condotta sono da riconoscere le iniziative, ad esempio, dei primi Tudor in Inghilterra, i quali  impressero una spinta decisiva alla trasformazione economica dell'isola, che divenne, da paese produttore di lana grezza destinata agli opifici di Fiandra e d'Italia, paese produttore ed esportatore di stoffe. Volta al medesimo fine, fu imposta una limitazione all'acquisto dei vini francesi che, per un'ordinanza di Enrico VII, poterono essere importati solo su navi inglesi o irlandesi.
Non diversamente, d'altronde, si comportò Luigi XI di Francia che, per combattere il monopolio che gli Italiani  di Lombardia e Toscana detenevano nel campo serico, fece sorgere a Lione e poi a Tours nuovi setifici, incoraggiando ovunque la coltivazione del gelso.
Anche i re castigliani si adoperarono, con minor successo però, per proteggere e conservare efficienti le manifatture di seta, che i Mori, emigrati a causa delle persecuzioni religiose, avevano abbandonato in Andalusia.

 

Le correnti commerciali europee

 

Poiché, tuttavia, nessuno Stato poteva ragionevolmente conservare una economia chiusa ed autarchica, se non col rischio di vedersi rapidamente sorpassato nella qualità e quantità dei prodotti dagli Stati vicini, il nuovo orientamento dato all'economia dai governi monarchici dell'Occidente non ostacolò e talora favorì l'aumento del volume degli scambi in tutta Europa.
Agli inizi del Cinquecento, i prodotti di maggior uso e pertanto più frequentemente oggetto di scambi commerciali erano:
 - i cereali, che talune regioni come la Sicilia, l'Impero ottomano e i Paesi baltici esportavano nelle località più densamente popolate come il nord della Francia e i Paesi Bassi;
 - il lino, la canapa, il legname da costruzione prodotti in Russia, Pomerania e Paesi scandinavi e trasportati per via di mare dal Baltico ai porti inglesi, olandesi e francesi;
 - il sale delle miniere austriache, delle lagune venete, della foce del Rodano e delle paludi salate di Bretagna, che era richiesto in ogni luogo, ma particolarmente nel Nord per la salatura del pesce e l'allevamento del bestiame;
 - la lana prodotta in Inghilterra e nella Castiglia;
 - la seta grezza prodotta in Italia e in Francia, non però in grande quantità, poiché per la maggior parte veniva dal Levante;
 - i vini di Francia;
 - l'allume, un prodotto essenziale per l'industria tessile, che nel passato proveniva dall'Asia minore, ma, dopo l'occupazione turca, era stato scoperto in consistenti giacimenti presso Civitavecchia e nel Regno di Napoli, dando origine a una società per lo sfruttamento, costituita sotto la protezione papale, che, dopo un accordo col re di Napoli (1470) inteso ad eliminare i pericoli di una dannosa concorrenza, ne deteneva il monopolio in Europa.

 

Il dilatato volume degli scambi produsse immediatamente un assorbimento della scarsa quantità di denaro in circolazione; pertanto, mentre i prezzi dei generi di commercio restavano bassi, crebbe il valore dei metalli atti al conio delle monete. Oro e argento, peraltro, erano impiegati in larga misura anche nella fabbricazione di oggetti d'arte, di vasellame per uso sacro e profano secondo il raffinato costume del tempo; il rame, poi, trovava largo impiego nell'artiglieria (i cannoni erano di bronzo, lega di rame e stagno), la nuova formidabile arma degli eserciti moderni.
La ricerca di questi metalli si fece allora sempre più intensa e quasi affannosa: le vecchie miniere europee, talora inattive fin dall'età romana, furono rimesse in funzione e in ogni paese, ma specialmente nel centro dell'Europa, risorse e si sviluppò l'industria mineraria.
La Spagna valorizzava i suoi giacimenti di rame e di argento, la Francia quelli di ferro; nel Tirolo, in Sassonia, in Boemia e Ungheria si ricercavano l'argento e l'oro. Questa rinata attività mineraria fece in talune località, come in Austria a vantaggio degli Asburgo, la fortuna della nobiltà feudale che su terre e miniere possedeva diritti di regalia, ma più frequentemente concorse ad arricchire grosse famiglie borghesi che, disponendo dei capitali necessari allo sfruttamento delle miniere, li concedevano in prestito ai principi, traendone una forte percentuale di guadagno proporzionata alla quantità del materiale estratto, salvo poi non assumevano direttamente l'appalto dei lavori di scavo. In questo modo, infatti, agirono i Fugger, in origine tessitori di Augusta, poi commercianti di spezie a Venezia e infine banchieri dell'imperatore Carlo V e appaltatori di miniere; così avvenne per i Thurzo d'Ungheria, che seppero trarre larghi vantaggi finanziari dall'impiego di nuovi congegni meccanici, da essi adottati per prosciugare l'acqua dai pozzi minerari e rimetterli in uso.
Conseguentemente al riattivarsi delle miniere, si sviluppò l'industria siderurgica; per la lavorazione dei metalli si cominciò ad usare in piccola misura nelle fucine di fusione il carbone come combustibile e s'introdussero procedimenti nuovi per separare il metallo dal minerale inutilizzabile.

 

La viva speranza di trovare giacimenti di metallo, specialmente d'oro e d'argento, ben più ricchi di quelli esistenti nel sottosuolo europeo, fu tuttavia tra gli impulsi psicologici che più vigorosamente sollecitarono a compiere le spedizioni oltreoceano.

 

Le cause economiche e morali dei viaggi oltreoceano

 

La speranza di trovare nuovi depositi di metalli preziosi e la necessità di giungere ai paesi produttori delle spezie, eludendo il monopolio veneto-egiziano, furono i principali moventi di quella audace e fortunata serie di viaggi oceanici, che contrassegnò gli ultimi decenni del XV secolo e l'inizio del XVI.

 

Le "spezie" (dal latino species: pepe, zenzero, cannella, garofano, aromi, noce moscata, oppio, aloe) e le altre merci esotiche (sete fini, cotone, zucchero, resine, coloranti, legni pregiati e pietre rare) erano cercate e pagate a peso d'oro sui mercati europei per le esigenze dell'industria tessile, della farmacopea, dell'arte di confezionare cibi e medicine e di soddisfare le ambizioni del ceto aristocratico.
Questi prodotti rari venivano dal lontano Oriente, dal Catai, dalle isole della Sonda, dalle Molucche, da Celebes, dalla penisola di Malacca; di là venivano trasportati ai luoghi di raccolta, ai mercati della costa indiana del Malabar, dove venivano depositati sotto la protezione dei piccoli sultani locali. Poi gli Arabi, con le loro flottiglie e approfittando dei venti periodici, portavano i preziosi carichi attraverso l'Oceano Indiano al Mar Rosso e al Golfo Persico. Giunti alla foce dell'Eufrate o all'istmo di Suez il viaggio proseguiva per via di terra e sui fiumi, fino a giungere ai porti dell'Anatolia, della Siria o dell'Egitto. Qui attendevano i mercanti europei, in gran maggioranza italiani: veneziani, pisani, genovesi, fiorentini. Per lungo tempo la reciproca concorrenza tra questi, cui si aggiungevano anche i catalani, aveva posto un freno al rialzo dei prezzi, ma poi, a poco a poco, ogni concorrenza era stata vinta dai mercanti veneziani; ultima a cedere era stata Genova che, perdute le basi e i fondachi nel Mar Nero per l'avanzata ottomana, impiegava il proprio naviglio nel trasporto di merci dal Mediterraneo alle coste atlantiche dell'Europa, fino ai porti inglesi e olandesi.
Caduta Costantinopoli, il traffico veneziano era stato convogliato ai porti ancora liberi di Beirut in Siria e di Alessandria in Egitto, e si era così formato un insuperabile blocco commerciale veneto-egizio.

 

Per spezzare questo blocco, sovrani, mercanti e marinai dei paesi europei bagnati dall'Atlantico, in primo luogo il Portogallo, concepirono il disegno di raggiungere direttamente per via di mare e senza interruzione i luoghi stessi di origine delle tanto ambite spezie.
La via più breve e più sicura per raggiungere la meta era, date le cognizioni geografiche del tempo, quella di costeggiare il continente africano finché si fosse offerta la possibilità di virare verso oriente, mentre soltanto per un felice errore di calcolo fu scelta da Colombo la via dell'occidente, che lo portò ad attraversare per intero l'Oceano Atlantico.

 

Le cause economiche non furono però le sole a promuovere i viaggi oceanici, a spingere all'esplorazione delle coste dell'Africa Occidentale, tentando di risalirne il corso dei fiumi.
Tutto il fenomeno dei viaggi e delle esplorazioni va visto anche come manifestazione di quella frenesia, di quell'irrequieto bisogno di ricerca, di indagine e di scoperte che si manifestava in ogni campo della vita umanistico-rinascimentale; non si possono poi neppure trascurare i motivi di carattere spiccatamente religioso che spingevano taluni uomini di elevata coscienza a prendere contatto con le popolazioni indigene di luoghi non conosciuti nel passato, agendo: in essi il desiderio di portare il Vangelo alle genti pagane, in modo tale che anche ad esse fosse concessa la possibilità di ottenere la salvezza spirituale.
Tale ultimo scopo ebbe il suo peso, non lieve, nell'organizzazione dei primi viaggi, particolarmente sentito dai navigatori spagnoli per l'incarico espressamente avuto dai loro sovrani, i Re Cattolici.

 

Al felice successo di tali viaggi concorsero infine ragioni politiche e tecniche: le prime consistettero nel fatto che le nuove monarchie nazionali fecero propri i progetti dei geografi, dei marinai e della borghesia commerciale, come parte del loro programma di espansione e di conquista, e ne resero possibile l'esecuzione allestendo flottiglie, fornendo denaro, concedendo privilegi e diritti di priorità e, dopo i risultati incoraggianti dei primi viaggi, assicurando con la forza militare le occupazioni territoriali effettuate; la ragione tecnica fu invece data dai progressi compiuti nell'arte della navigazione (alle grandi galeazze a remi si venivano sostituendo le più piccole, ma più robuste caravelle, che offrivano il vantaggio della trazione eolica consentendo un enorme alleggerimento del carico di vettovagliamenti necessari per gli equipaggi di rematori; uso della bussola, dell'astrolabio e del quadrante, perfezionamento del timone e della velatura) e della scienza cartografica, per merito di geografi in gran parte italiani, tedeschi ed ebrei, che calcolarono le distanze e disegnarono carte nautiche o globi con le approssimative misure e dimensioni della Terra.

 

 

 

Portoghesi e spagnoli: la circumnavigazione dell'Africa e la scoperta dell'America

 

 

Le prime navigazioni e le grandi scoperte

 

Tra i grandi precursori dei navigatori oceanici furono i genovesi Ugolino e Vallino Vivaldi, periti nel tentativo di superare le isole Canarie (1291).
Il merito di aver esplorato sistematicamente la costa occidentale africana penetrando anche verso l'interno, fu però dei Portoghesi, incoraggiati e protetti dai loro sovrani, soprattutto da Giovanni I d'Avis (1383-1433) e dal figlio cadetto Enrico il Navigatore (1394-1460).
L'isola di Madera, le Canarie e le Azzorre furono le prime tappe (1418-1431); poi furono superati il Capo Bianco e il Capo Verde (raggiunto da navigatori italiani al servizio del Portogallo: il genovese Antoniotto Usodimare e il veneziano Alvise Ca' da Mosto), fu attraversato il Golfo di Guinea e, intorno al 1470, oltrepassata la linea dell'Equatore.
I limiti dell'altro emisfero erano stati raggiunti e un nuovo cielo e nuove stelle guidavano i naviganti.
Nelle prime esplorazioni verso l'interno della Mauritania si erano trovate piccole quantità di polvere d'oro che avevano incoraggiato a proseguire; alcune spedizioni genovesi, risalendo il Niger od esplorando il Sahara, avevano riportato in patria oro, pelli e avorio.
Finalmente, nel 1486 o 1487, Bartolomeo Diaz doppiava la estrema punta meridionale del continente africano, il Capo delle Tempeste, e si avventurava in mare aperto verso oriente, verso il paese delle spezie. Contemporaneamente altri esploratori discendevano il Mar Rosso penetrando in Etiopia, dove si diceva esistesse un misterioso regno cristiano, quello di "prete Gianni", che avrebbe dato forse man forte nella lotta contro i musulmani e favorito il collegamento con le località raggiunte per via oceanica.
Nel maggio del 1498 la meta principale veniva raggiunta: Vasco de Gama, spagnolo al servizio del Portogallo, partito con quattro navi, superava il Capo delle Tempeste, ormai chiamato per felice augurio Capo di Buona Speranza, e raggiungeva col soccorso di piloti indigeni le coste occidentali dell'India, gettando l'ancora a Calicut, nel Malabar. Qui trovava le città costiere brulicanti di mercanti indù, persiani, ebrei e musulmani, che esercitavano il commercio delle spezie e, nonostante le insidie tesegli da mercanti arabi, con un prezioso carico poteva ritornare a Lisbona dopo due anni e mezzo di navigazione.

 

Nel frattempo, però, a favore degli Spagnoli, era stata tentata con risultati sorprendenti la via dell'occidente.
La possibilità di raggiungere l'estrema Asia attraversando da est a ovest l'Oceano Atlantico era stata variamente prospettata; questo progetto si fondava su un presupposto esatto, che la terra fosse rotonda, e due errati, che la distanza tra l'Europa e l'Asia, procedendo verso occidente, fosse assai minore di quanto in realtà non sia e che non vi si frapponesse alcun'altra terra. Tale via fu perseguita dal navigatore italiano Cristoforo Colombo (1451-1506).
Figlio di un tessitore genovese e marinaio fin dalla giovane età, Colombo ebbe il suggerimento a compiere tale viaggio forse da una lettera di Paolo Toscanelli, in cui il cartografo fiorentino esponeva ad un canonico portoghese l'ipotesi che si potesse trovare una rotta marittima per il paese delle spezie più breve di quella percorsa dai Portoghesi lungo il Golfo di Guinea. Certamente egli ebbe conoscenza dell'opera intitolata Imago Mundi di Pierre d'Ailly, in cui tuttavia, accettata la sfericità della Terra, era riprodotto un antico errore di calcolo, che stimava la distanza da Lisbona alla costa indiana, verso oriente, di 225 gradi invece di 180 e quindi riduceva di molto la rimanente distanza tra Lisbona e la costa asiatica, procedendo verso occidente, attraverso l'oceano.
Per compiere l'impresa occorrevano i mezzi finanziari; dopo aver cercato inutilmente, tramite il fratello Bartolomeo, di convincere il sovrano portoghese, Colombo si rivolse ai Re Cattolici, allora impegnati nell'attacco a Granata (1491). Isabella di Castiglia concedette l'autorizzazione ad armare tre caravelle, navi solide e adatte a reggere alle grandi ondate oceaniche, e così, grazie ai fratelli Pinzon di Palos, armatori del naviglio impiegato, da questa città si levarono le ancore il 3 agosto 1492.
Ai primi di settembre, lasciate dietro di sé le isole Canarie, Colombo volse la rotta decisamente verso ovest, seguendo all'incirca la linea del Tropico del Cancro. Il 12 ottobre dello stesso anno 1492 egli toccò terra in un'isoletta delle Bahama, che fu chiamata S. Salvador; in seguito raggiunse anche Haiti, detta Hispaniola (Piccola Spagna).
Il ritorno avvenne nella primavera dell'anno successivo, salutato come una grande vittoria in Spagna, mentre si vedeva con crescente preoccupazione il costituirsi di un traffico commerciale per l'Oriente tenuto interamente dai Portoghesi.
Lo scopritore, come riferì nel suo Giornale di bordo, era convinto di aver toccato un'isola antistante al Giappone e la stessa convinzione si diffuse in Europa. In seguito, tuttavia, grazie alle successive spedizioni di Colombo, che aveva avuto il titolo di Ammiraglio e Governatore delle Indie, e di altri, ci si rese conto che non il paese delle spezie era stato raggiunto, ma una terra sconosciuta, che sembrava offrire poche ricchezze in oro e in altri prodotti, costituendo anzi un ostacolo al raggiungimento del vero obiettivo.
Il disappunto si riversò sullo sfortunato navigatore, che nella seconda spedizione (1493-95) aveva esplorato le Grandi e le Piccole Antille, e che durante la terza (1498-99) fu destituito dalla sua carica e per qualche tempo incarcerato.
Poi, Colombo riprese il mare per un ultimo viaggio, il quarto (1502), e dovette convincersi di aver fallito la meta e di essere approdato ad una terra nuova.
La sua vita si chiuse tristemente nel 1506.
Il nome America al "Mondo Nuovo", venne in uso dopo che fu impiegato in un trattato cosmografico del tedesco Martino Waldseemüller, dal nome di Amerigo Vespucci, fiorentino prima al servizio di Colombo e poi autore di due viaggi (1499-1500; 1501-1502) in cui aveva toccato le coste dell'America meridionale.

 

Per garantire alla Corona di Spagna il possesso esclusivo delle nuove terre contro eventuali spedizioni portoghesi, Ferdinando il Cattolico chiese l'arbitrato del papa Alessandro VI ed ottenne che si fissasse una linea di demarcazione a 270 leghe ad ovest dell'ultima delle Azzorre: le terre scoperte o da scoprire a occidente di quella linea spettavano alla Spagna, quelle a oriente al Portogallo (Trattato di Tordesillas, 1494).
Naturalmente tale spartizione a due del mondo coloniale non fu accettata dagli altri sovrani. Intanto però essa servì, per una fortunosa vicenda, ad assicurare al Portogallo il possesso dell'immensa terra del Brasile. Infatti, nell'anno 1500, Pedro Alvarez Cabràl, mentre era diretto con navi portoghesi verso il Capo di buona Speranza, fu deviato dai venti verso occidente e venne ad approdare sulle coste di quella che chiamò l'isola del Brasile dal nome di una pianta tintoria, il legno brasil, che vi aveva trovato, ma che in realtà era una parte dell'America meridionale.
Secondo le clausole del trattato di Tordesillas la nuova terra, non essendo al di là della linea di demarcazione, fu considerata portoghese.

 

Presto però nel duello spagnolo-portoghese per il dominio delle rotte marittime intervennero altri Stati europei, l'Inghilterra e la Francia.
Importanza decisiva ebbero allora i viaggi dell'italiano Giovanni Caboto, che al comando di una nave inglese raggiunse nel 1497 le coste dell'America settentrionale, nel Labrador o nella Terranova.
Il clima di quelle terre era rigido e non vi apparivano tracce di metalli preziosi o di spezie, contro le speranze dei mercanti di Bristol e di Londra fautori della spedizione, ma era stata aperta alla penetrazione europea anche l'America settentrionale e il Canadà, verso cui si orientarono le correnti di emigrazione e colonizzazione inglesi e francesi.

 

 

 

La formazione dell'impero commerciale portoghese; l'amministrazione spagnola in America

 

 

Nei primi due decenni del Cinquecento, infine, furono condotte altre importanti esplorazioni: la prima, quella di Vasco de Balboa che, entrato nel golfo di Darien, attraversò l'istmo di Panama, giungendo al cospetto del "mare del Sud" (1512), l'oceano Pacifico.
In base a questo rilevamento, Ferdinando Magellano (Magalhaes), nobile portoghese non privo di solide nozioni scientifiche sulle dimensioni della Terra e sulle condizioni degli oceani, riprese il disegno di circumnavigazione del globo, ipotizzando la circumnavigazione dell'America meridionale.
Il suo disegno, respinto dal re Emanuele I del Portogallo, fu invece accolto da Carlo V di Spagna, che ne finanziò l'impresa.
Partito nel settembre del 1519, Magellano scoprì il passaggio tra l'estremità meridionale della Patagonia e la Terra del Fuoco, e proseguendo la navigazione attraverso l'oceano, che fu chiamato Pacifico, giunse alle Isole Filippine. Magellano fu ucciso nell'isola di Matan durante una guerriglia di indigeni, ma i suoi compagni proseguirono, toccando le Molucche e le altre isole delle spezie. Poi alcuni di essi, ritornati verso il Pacifico, naufragarono, altri invece, imbarcati sulla nave Vittoria, proseguendo per il Capo, poterono rientrare a Siviglia nel 1522, tra essi il nobile vicentino Antonio Pigafetta, che scrisse la cronaca dello straordinario viaggio.

 

La prima colonizzazione europea

 

L'apertura della via del Capo portò un durissimo colpo al monopolio veneto-egiziano delle spezie.
I Veneziani cercarono di reagire facendo convergere il traffico su Alessandria d'Egitto, che rimase il loro grande emporio anche dopo che i Turchi ebbero occupato questa parte dell'Africa (1516), ma la via Mar Rosso-Alessandria era molto più costosa di quella oceanica: bisognava infatti perdere tempo per aspettare i monsoni favorevoli, poi affrontare la navigazione nel Mar Rosso, irto di scogli, che presentava non pochi rischi anche per le piccole imbarcazioni usate dagli Arabi; occorreva trasbordare i carichi da Suez al Cairo, farli procedere sul Nilo con barche e compiere infine un nuovo trasbordo per raggiungere Alessandria o Beirut.
Presto ci si accorse che sul mercato di Lisbona le spezie venivano a costare molto meno che a Venezia.
La sorte della Serenissima e del commercio mediterraneo era segnata, in quanto l'unica possibilità di sostenere la concorrenza portoghese, sarebbe stata quella di procedere al taglio dell'istmo di Suez, eventualità che a Venezia fu attentamente studiata, ma che l'occupazione turca dell'Egitto fece svanire.

 

Nel frattempo i Portoghesi occupavano tutti i luoghi strategicamente e commercialmente importanti che incontravano sulla via delle Indie.
La nuova rotta fu in breve costellata di scali, fortini e depositi. Varie spedizioni armate ripercorsero la rotta tracciata da Vasco de Gama, cosicché a poco a poco l'isolotto di Socotra all'ingresso del Golfo di Aden, la località di Ormuz all'inizio del Golfo Persico, Goa sulla costa indiana, Malacca presso l'odierna Singapore, ed altre località della Guinea, della regione del Capo di Buona Speranza e del Madagascar furono occupate e fortificate.
Di lì i Portoghesi ingaggiavano battaglia con le navi arabe che commerciavano con i Veneziani, impedendo ad esse di accedere al Mar Rosso e al Golfo Persico. Trattamento simile, essi riservarono alle città costiere dell'India, i cui principi si rifiutavano di offrire loro buone condizioni di commercio. I Portoghesi, sotto il comando degli ammiragli  Francesco de Almeida e Alfonso de Albuquerque, giunsero a impegnare vere e proprie battaglie navali, come nel 1509 quando distrussero presso Diu, a nord di Bombay, una flotta allestita di comune accordo dal governo veneto e da quello egiziano. L'Albuquerque, in qualità di Vicerè (1512-15), inviò poi navi da Goa, sua residenza, nelle Molucche, a Giava ed a Sumatra, e prese contatto coi mercanti cinesi, favorendo la penetrazione commerciale nella Cina e nel Siam.

 

Diverso criterio di insediamento seguì la Spagna nel formare il proprio impero coloniale.
Essa operò una conquista metodica delle Antille e poi della terraferma nella parte centrale e meridionale del nuovo continente.  In generale non si può affermare che gli insediamenti umani fossero cospicui: allora come oggi, vastissime zone interne, soprattutto nell'America meridionale, non conoscevano affatto o quasi la presenza dell'uomo.
Già negli anni immediatamente successivi ai viaggi di scoperta, appena si era intravista la possibilità di sfruttare in qualche modo le nuove terre, vi erano stati inviati numerosi soldati, artigiani e contadini. Ad Haiti (Hispaniola) si introdusse una specie di feudalesimo, poiché lotti di terreno furono assegnati a soldati, per curarne lo sfruttamento e abituare al lavoro gli indigeni, che si dimostravano indolenti. In cambio gli indios ricevevano protezione, nutrimento e vesti.
Conquistatori e coloni europei tuttavia si trovarono con loro stupore a contatto con popolazioni indigene che avevano una loro cultura ora primitiva, come nelle isole caraibiche, ora sviluppata e complessa, come nel Messico degli Aztechi o nel Perù degli Incas. Animati però dalla convinzione di essere giunti in terre ricche di metalli preziosi, essi si preoccuparono soltanto di reperire e rastrellare oro e argento, ricorrendo senza scrupoli alla violenza e all'eccidio.
I metodi violenti furono prima sperimentati nelle isole del mar Caraibico, poi, dal 1518, sul continente: Fernando Cortés, sbarcato con qualche centinaio di uomini sulle coste messicane, intraprese quella leggendaria impresa che lo portò nel giro di pochi anni a impadronirsi di un territorio immenso, il Messico, allora, a quanto pare, abitato da circa 25 milioni di uomini. Era quello il dominio degli Aztechi, popolo di conquistatori venuti dal Nord, e che intorno al XII secolo della nostra era avevano soppiantato i Maya e la loro civiltà. Nel 1520 Cortés e i suoi divennero padroni del Messico e nel decennio seguente la conquista fu completata annettendo alla sovranità spagnola un milione e mezzo di chilometri quadrati di terre dall'istmo di Panama fino alle zone desertiche del Messico settentrionale.
Dopo il 1530 si ebbe la seconda grande fase di conquista, che ebbe per oggetto l'espansione lungo le coste del Pacifico e particolarmente il Perù. Qui dominavano gli Incas che, al pari e forse più degli Aztechi messicani, avevano raggiunto un alto grado di civiltà e una robusta organizzazione sociale e politica.
Bastarono le voci relative alle ricchezze di questo Paese a indurre una spedizione di avventurieri spagnoli guidati da Francisco Pizarro a tentarne la conquista. Profittando del vantaggio imprevisto di discordie interne che laceravano in quel momento l'Impero degli Incas, Pizarro ripeté il successo di Cortés nel Messico. Tra il 1532 e il 1535 gli spagnoli divennero padroni del Paese, inaugurando un'età di distruzioni, di saccheggi, di sfruttamento inauditi.
Ai lavori più faticosi e nelle miniere furono poi impiegati, fin dal principio del secolo XVI, i negri, trasportati dall'Africa da società private che ottenevano dal governo il riconoscimento (detto asiento) di tale traffico disumano.
Ogni colonia era retta da un Governatore (e tenne tale carica anche un figlio di Colombo, Diego), da cui dipendevano altri funzionari; ogni governatore a sua volta era posto sotto il controllo del Consiglio delle Indie, che aveva sede a Madrid.

 

 

 

Carlo VIII: la preparazione e la discesa in Italia

 

 

le lotte per il predominio in italia

 

 

La crisi politica italiana alla fine del secolo XV

 

Le rivalità incessanti tra gli Stati italiani, la mancanza di una coscienza unitaria, il sistema delle leghe per l'equilibrio che aveva impedito ad uno qualsiasi degli Stati della Penisola di compiere una funzione unificatrice, l'atmosfera di diffidenza e di reciproco sospetto creata dal gioco delle diplomazie e dei patti segreti furono le condizioni che resero possibile l'instaurazione del predominio straniero in Italia tra la fine del secolo XV e l'inizio del secolo XVI.
La crisi si determinò quando, nell'ultimo decennio del secolo XV, la situazione politica italiana venne a coincidere con l'aprirsi di una fase espansionistica francese e spagnola.

 

Nell'aprile del 1492 era morto, a quarantaquattro anni, Lorenzo, il Magnifico, signore di Firenze.
Nello stesso anno, nel mese di agosto, fu eletto papa, col nome di Alessandro VI, il cardinale spagnolo Rodrigo Borgia (1492-1503), promotore, per il suo desiderio di creare uno Stato al figlio Cesare, di una diretta intesa con la monarchia francese.
Contemporaneamente si verificò uno spostamento nelle alleanze tradizionali: Ludovico il Moro, desideroso di liberarsi del nipote Gian Galeazzo Sforza, che era il signore legittimo del Ducato di Milano, ruppe l'amicizia con i sovrani di Napoli (re Ferrante fino al 1494 e poi il figlio Alfonso II) coi quali il duca Gian Galeazzo era imparentato, avendo sposato Isabella, figlia di Alfonso.
Rottasi l'alleanza Milano-Firenze-Napoli, che era stata l'asse dell'equilibrio italiano nella seconda metà del Quattrocento, si ebbe un avvicinamento di Venezia a Milano, dal momento che la città marinara, impegnata contro i Turchi, non sembrava più in grado di allargarsi verso il territorio milanese e questo fatto eliminava il principale motivo di antagonismo tra i due Stati.
Il papa Alessandro VI, a sua volta, si accostò a Ludovico il Moro e a Venezia, stabilendo con essi una lega che per diversi motivi aveva un carattere nettamente ostile agli Aragonesi di Napoli:
 - per l'inimicizia già accennata tra Lodovico il Moro e gli Aragonesi,
 - per il contrasto tra Venezia e Napoli (la Serenissima possedeva alcuni scali portuali nelle Puglie),
 - per gli incerti rapporti tra il papa e il re di Napoli, dovuti al fatto che Rodrigo Borgia era stato eletto pontefice contro la volontà di re Ferrante.

 

Sul Regno di Napoli potevano vantare diritti sia il sovrano spagnolo Ferdinando il Cattolico, che apparteneva alla stessa famiglia aragonese del cugino Ferrante, sia il re di Francia Carlo VIII, succeduto a Luigi XI nel 1483, che aveva raccolto le pretese dinastiche degli Angiò, famiglia estintasi da poco tempo.
Mentre però Ferdinando il Cattolico era impegnato ancora nell'assedio di Granada, Carlo VIII era libero da impegni sul territorio nazionale, dopo che le guerre del padre Luigi XI avevano distrutto la potenza della Casa di Borgogna, e poteva contare, per una spedizione in Italia, sulla favorevole accoglienza della Lega antiaragonese e dei baroni napoletani.
Il giovane re di Francia, pertanto, appena uscito di minorità nel 1491, intraprese la prima spedizione straniera nell'Italia del Rinascimento, spedizione che, sebbene non ottenesse risultati durevoli, tuttavia aprì la strada a successive invasioni.

 

La spedizione di Carlo VIII

 

Dalla discesa in Italia Carlo VIII si riprometteva grandi cose, ma aveva concepito disegni superiori alle sue capacità: obiettivo immediato sarebbe stato certamente la conquista del Regno di Napoli, ma poi, a partire di lì, egli si sarebbe imbarcato per compiere una nuova grande crociata nel Vicino Oriente, a Gerusalemme o a Costantinopoli.
Voleva condurre una guerra di prestigio più conforme alla tradizione angioina (che dal XIII secolo in poi aveva mirato ad ottenere un primato nel Mediterraneo centro-orientale) che alle direttive nazionali seguite dai Valois, Carlo VII e Luigi XI; per realizzare i suoi intenti egli disponeva di larghe risorse finanziarie, tra cui i consistenti prestiti ottenuti dai banchieri di Lione, e di un solido esercito.

 

Prima di intraprendere la guerra, Carlo VIII volle assicurarsi contro eventuali tentativi di aggressione alle frontiere francesi, concludendo con gli Stati confinanti alcuni importanti trattati, che sono tra i primi della storia diplomatica europea:
 - con il Trattato di Étaples (1492), si assicurò anzitutto la neutralità di Enrico VII d'Inghilterra, mediante il pagamento di un'ingente somma di denaro;
 - con il Trattato di Barcellona si accordò con Ferdinando il Cattolico di Spagna, a cui cedette le provincie pireneiche del Rossiglione e della Cerdagna;
 - con il Trattato di Senlis (1493), infine, riconobbe a Massimiliano d'Austria, sposo di Maria di Borgogna, il possesso dell'Artois e della Franca Contea (parte dell'eredità di Maria che era oggetto di contesa tra Francia e Impero).

 

Dall'Italia Ludovico il Moro sollecitava la venuta dei Francesi poiché il momento sembrava particolarmente favorevole. Nel gennaio del 1494, infatti, era morto Ferdinando I (Ferrante) e sul trono di Napoli gli era successo il figlio Alfonso II, inviso alla nobiltà napoletana, capeggiata da Antonello Sanseverino, principe di Salerno.
Da Lione, dove l'esercito francese si era riunito nell'autunno del 1494, Carlo VIII valicando il Monginevro raggiunse i possessi dei Savoia, suoi alleati, poi proseguì rapidamente per Pavia, dove lo venne ad incontrare Ludovico il Moro. Pochi giorni dopo, la morte di Gian Galeazzo Sforza, che faceva sorgere il sospetto di avvelenamento, permetteva a Ludovico di farsi riconoscere come duca di Milano.
Quasi ovunque le accoglienze fatte ai Francesi furono favorevoli: mentre però a Pisa, Carlo VIII fu accolto come un liberatore, più fredda e quasi ostile si dimostrò invece Firenze, dove la signoria di Piero II era stata abbattuta per il contegno incerto e remissivo dimostrato dal Medici e un governo repubblicano, in cui si distinse il nobile Pier Capponi, controllava la città, mentre si sviluppava l'azione politico-religiosa del frate domenicano Gerolamo Savonarola (costui, sentendosi investito della missione di sanare la corruzione pagana della Firenze medicea, nelle sue appassionate prediche si mostrava favorevole alla venuta del re di Francia che, quale inviato della provvidenza, avrebbe fatto cessare lo, scandalo del malcostume; il frate nutriva la speranza che Carlo VIII avrebbe convocato un concilio per far deporre Alessandro VI, giudicato simoniaco e causa prima della decadenza morale della Chiesa romana).
Proseguendo nella sua facile marcia, Carlo giungeva in breve tempo a Roma (fine di dicembre), mentre i Colonna, suoi alleati, occupavano Ostia e la fazione degli Orsini, a lui avversa, si sbandava. Il pontefice, dal canto suo, rifugiatosi in Castel S. Angelo, la poderosa rocca presso il Tevere appena ricostruita, riusciva ad eludere la richiesta del re di Francia di ottenere una regolare investitura dalla Chiesa prima di intraprendere la conquista del Regno di Napoli.
Il re lasciò presto Roma, dirigendosi velocemente verso Napoli e il 22 febbraio 1495 entrava nella capitale aragonese senza colpo ferire, mentre la fatica maggiore della «conquista», si disse, fu per i francesi quella di segnare col gesso gli alloggiamenti dei soldati.

 

 

 

La sconfitta dei francesi

 

 

Alfonso II aveva preferito abdicare in favore del figlio Ferdinando II detto Ferrandino, che mantenne viva la resistenza fortificandosi nell'isola d'Ischia.
In breve il soggiorno dei Francesi a Napoli provocò malcontento e desiderio di rivolta. I baroni furono delusi nelle loro ambiziose speranze ed il popolo, tra gli altri guai, ebbe anche un notevole aggravio fiscale.
Ad un certo momento giunse a Carlo la notizia che alle sue spalle si era costituita una Lega ostile, promossa da Ludovico il Moro, che ora temeva le possibili rivendicazioni sul Ducato milanese dei discendenti francesi di Valentina, figlia di Gian Galeazzo Visconti e sposa di un duca d'Orleans (1387). Alla lega aderirono Venezia, Alessandro VI, Massimiliano d'Asburgo e Ferdinando il Cattolico che, dalla Sicilia, osservava lo sviluppo degli avvenimenti.
Carlo VIII dovette rapidamente riprendere la via del nord per non essere chiuso in una trappola. Da Roma venne a Pisa, ma, superate le strette appenniniche, si incontrò con l'esercito della Lega comandato da Francesco Gonzaga presso Fornovo sul Taro (luglio 1495). Attaccato, evitò il disastro salvandosi con una ritirata e abbandonando le' salmerie ed i carriaggi. A Napoli, protetto dallo spagnolo Consalvo di Cordova detto il «Gran Capitano», rientrava re Ferrandino, ricostituendo il regno con la sola perdita di alcuni porti pugliesi ceduti a Venezia.

 

Mentre si concludeva l'avventura di Carlo VIII, a Milano si stabilivano gli accordi per un matrimonio tra l'arciduca Filippo il Bello d'Austria, figlio di Massimiliano, e Giovanna Infanta (principessa ereditaria) di Castiglia, figlia di Ferdinando il Cattolico; dal matrimonio, celebrato l'anno seguente (1496) a Lilla, nasceva Carlo, erede della corona spagnola e designato ad ottenere il titolo imperiale.
Si profilava per la Francia, con questa alleanza tra Aragonesi di Spagna ed Asburgo, il pericolo dell'accerchiamento, che sarebbe divenuto minaccioso un ventennio più tardi.

 

In Italia tutto era tornato come nel 1494, salvo che a Firenze persisteva la Repubblica, instaurata dopo la cacciata di Piero II Medici.
La vita fiorentina fu dominata dal 1494 al 1498 dalla potente personalità del Savonarola che, appoggiandosi alla parte popolare detta dei Piagnoni, voleva realizzare una duplice riforma : una riforma religiosa e morale che risanasse i costumi corrotti e riportasse veramente in Firenze il regno di Cristo ed una riforma politica che desse alla città una costituzione su base popolare. Il programma del Savonarola aveva un carattere fortemente teocratico per la posizione dominante che veniva ad assumere l'elemento ecclesiastico nella vita cittadina; era però anacronistico e destinato al fallimento. Inoltre il Savonarola, del quale non si poteva mettere in dubbio l'onestà personale, la forza morale e la rigidezza dei costumi, intendeva purificare la vita pubblica, combattendo il neo-paganesimo rinascimentale con metodi violenti e con un fastidioso controllo della vita privata. Infine, il frate aveva contro di sé la Curia romana per le accuse che egli aveva coraggiosamente lanciato contro Alessandro VI.
Nel maggio del 1497 il papa decretava la scomunica contro il Savonarola, con la proibizione di predicare in pubblico e con la conseguente minaccia di interdetto alla città se tale condizione non fosse stata osservata. Il timore delle sanzioni religiose si aggiunse alle preoccupazioni e al malcontento suscitati dai gravami fiscali che il governo dei Piagnoni aveva dovuto imporre per far fronte alla guerra contro Pisa, liberatasi dalla dominazione fiorentina durante la discesa dei Francesi. Per queste ragioni alla fine del 1497 Gerolamo Savonarola perse gran parte dei suoi sostenitori e la fazione avversa, detta degli Arrabbiati, prese il sopravvento. Il frate domenicano, catturato e processato per eresia e falsità, fu impiccato ed arso il 23 maggio del 1498.
Firenze, dominata dai grandi mercanti e dai banchieri che cercarono di rendere stabile il governo cittadino creando un Gonfaloniere a vita, rimase libera repubblica fino al ritorno dei Medici nel 1512.

 

 

 

Luigi XII e l'Italia

 

 

Luigi XII e l'Italia

 

Il problema italiano entrava in una fase in cui sarebbe divenuto problema europeo.
Nel 1498 successe a Carlo VIII il cugino Luigi XII, duca di Orleans (1498- 1514). Egli, come lontano discendente di Valentina Visconti, poteva vantare diritti sul Ducato di Milano, tenuto da quel Ludovico il Moro che veniva giudicato un usurpatore. Il vecchio programma di conquista di Carlo VIII, pertanto, incluse ora anche questa parte dell'Italia settentrionale e la sua realizzazione fu facilitata dall'accordo stretto tra il papa Alessandro VI e Luigi XII, intesa cui aderì anche Venezia.
Secondo il patto, Cesare Borgia, figlio del pontefice, ebbe dal sovrano francese l'investitura del Ducato di Valentinois, onde il nome a lui attribuito di « Duca Valentino », e la mano di Carlotta d'Albret, sorella del re di Navarra.
Con Venezia il re di Francia stipulò invece un accordo di spartizione del Ducato di Milano (1499).

 

Così preparata, la spedizione di Luigi XII ebbe inizio nel luglio del 1499; il re di Francia aveva assoldato un forte numero di mercenari elvetici ed aveva affidato l'esercito al condottiero milanese Gian Giacomo Trivulzio, nemico degli Sforza.
In breve tempo Milano fu alla mercè degli invasori e Ludovico il Moro dovette fuggire presso Massimiliano d'Austria; ritornato nella primavera dell'anno seguente, egli pure con l'aiuto di fanterie svizzere, fu vinto e fatto prigioniero nella battaglia di Novara (aprile1'500), che decise le sorti del ducato. Dopodiché i Veneziani ottennero Cremona e la Ghiara d'Adda (territorio tra il Serio e l'Adda); gli Svizzeri ebbero la Contea di Bellinzona (Canton Ticino), mentre il rimanente del ducato passava alla Francia.

 

Con l'appoggio del padre e con l'aiuto francese, in quei primi anni del Cinquecento, Cesare Borgia cercò di realizzare nell'Italia Centrale un vasto programma di conquiste per crearsi un solido e moderno principato. Da Alessandro VI era stato fatto Gonfaloniere della Chiesa e poi, nel 1501, Duca di Romagna al posto dei signorotti locali che il papa giudicava decaduti dai loro titoli; in breve tempo, dal 1499 al 1502, il Borgia si impadronì di Forlì, Faenza, Rimini, Pesaro, Urbino, Camerino e Senigallia.
Sventata una congiura tramata dai suoi nemici personali, egli ne attirò alcuni con promesse di amicizia in un convegno a Senigallia (dic. 1502) e poi, impadronitosi di loro, li fece trucidare. Il Valentino pensava di allargare il suo dominio verso la Toscana, quando per la morte improvvisa del padre (agosto 1503), proprio in un periodo in cui egli giaceva infermo per violenti febbri malariche, tutta la sua costruzione politica crollò; non gli rimase che rifugiarsi in Navarra, dove morì in un oscuro fatto d'arme (1507).

 

Nel frattempo altri importanti avvenimenti erano accaduti nell'Italia meridionale.
In un accordo segreto stipulato a Granada nel 1500 tra Luigi XII e Ferdinando di Spagna era stata decisa una spartizione del Regno di Napoli; il pontefice Alessandro VI non si era opposto, sollecitando però in cambio l'organizzazione di una crociata antiturca che arrestasse lo slancio aggressivo dei musulmani, usciti vincitori dai recenti scontri navali contro Venezia. Gruppi di armati turchi, infatti, dalla Dalmazia penetravano nel Friuli, spingendosi oltre il Tagliamento, fino alle porte di Vicenza, e massacrando o conducendo in schiavitù la popolazione cristiana.
L'invito del papa fu accettato e una flotta veneto-spagnola ottenne qualche successo rioccupando Santa Maura (isola a nord di Cefalonia; poi i Turchi, minacciati ad oriente dai Persiani, rallentarono la loro offensiva e la crociata si sciolse (1503).
Il piano di conquista del Regno di Napoli fu attuato facilmente; il re Federico III d'Aragona, successo nel 1496 a Ferdinando II, vistosi attaccato da due parti rinunciò alla corona e si ritirò in Francia (1501).
Presto, però, i vincitori vennero a contrasto tra di loro per la divisione delle terre conquistate e il dissidio si tramutò in aperta guerra.
I Francesi, comandati dal duca di Nemours, sostennero brillantemente alcuni scontri, ma gli Spagnoli, condotti da Consalvo di Cordova, si dimostrarono superiori vincendo due battaglie decisive a Cerignola e sul Garigliano (1503). Fu in questa occasione che avvenne la cosiddetta Disfida di Barletta, in cui alcuni cavalieri francesi furono battuti da un ugual numero di cavalieri italiani al servizio della Spagna e guidati da Ettore Fieramosca.

 

 

 

La pace di Blois, Giulio II e le leghe

 

 

Alla guerra tra Francia e Spagna pose termine il Trattato di Lione, seguito dalla Pace di Blois (1504) con cui veniva sancito il dominio francese su Milano e quello spagnolo sul Regno di Napoli.

 

Negli anni immediatamente seguenti, il centro della politica europea rimase ancora l'Italia ed in particolare Roma, dove era salito al soglio pontificio, dopo il breve papato di Pio III, il cardinale Giuliano della Rovere col nome di Giulio II (1503-1513), il più temibile avversario dei Borgia.
Uomo dal temperamento appassionato, dotato di volontà imperiosa anche se non costante, Giulio II si propose di restaurare lo Stato pontificio, facendone una grande potenza, non a vantaggio di qualche principe particolare, fosse o no suo parente, ma esclusivamente della Chiesa.
Tolse Perugia ai Baglioni e Bologna ai Bentivoglio, spingendosi verso nord; venne però a urtare contro la Repubblica di Venezia, che si rifiutava di restituire Cervia e Faenza, occupate dopo il crollo del dominio di Cesare Borgia.
Con l'adesione di Giulio II si costituì allora la Lega di Cambrai (1508-9) contro Venezia, dichiarata nemica della cristianità perché, a varie riprese, si era alleata coi Turchi. Alla lega che assunse il carattere di una intesa per dividere il dominio veneto di terraferma, parteciparono l'imperatore Massimiliano, cui i Veneziani avevano recentemente tolto Trieste e Fiume, Luigi XII, che voleva ricuperare le terre oltre l'Adda cedute ai Veneziani, Ferdinando il Cattolico, che rivendicava i porti pugliesi in possesso di Venezia, Alfonso d'Este, Francesco II Gonzaga e Carlo III di Savoia.

 

Il papa lanciò nell'aprile del 1509 la scomunica contro Venezia che, in risposta, chiese la convocazione di un concilio ecumenico.
Le operazioni di guerra erano state iniziate e i Francesi vincevano i Veneziani ad Agnadello sull'Adda (maggio 1509), mentre gli Imperiali invadevano il Friuli penetrando fino a Padova, che resistette.
Venezia riuscì però a concludere paci separate, soddisfacendo le richieste dei suoi maggiori avversari, cioè il papa, la Francia e la Spagna; dopodiché gli Imperiali furono costretti ad abbandonare il territorio veneto.
Quando Giulio II, accordata l'assoluzione alla città ribelle, cominciò a rendersi conto che, indebolita la Repubblica, aumentava minacciosamente la potenza francese in Italia, la situazione si rovesciò: non soltanto la Lega di Cambrai fu disciolta, ma si costituì un nuovo fronte che proclamò la cacciata dei «barbari», ossia la liberazione dell'Italia dai Francesi.
Luigi XII in risposta fece convocare a Pisa un concilio per deporre il Pontefice (1511), ma questi trovò alleati in Venezia, nei Cantoni Svizzeri (che cominciarono in quella occasione a militare sotto la bandiera pontificia), nel re di Spagna e nel re d'Inghilterra. Forte di tali appoggi Giulio II costituì la Lega Santa (1511-13). L'imperatore Massimiliano, invece, rimase neutrale.
Luigi XII si avvalse di un abile condottiero, Gastone di Foix, che movendo con sorprendente rapidità le sue truppe riuscì a sconfiggere i confederati, tra cui erano principalmente soldati spagnoli, in una grande battaglia presso Ravenna (1512); la vittoria tuttavia costò la vita al Foix e la situazione per le armi francesi si aggravò per l'afflusso in Italia di cospicui contingenti di Svizzeri, venuti in soccorso del papa.
I Francesi perdettero Milano, dove poté rientrare Massimiliano Sforza, figlio di Ludovico il Moro.

 

Poco più tardi, in seguito ad un riavvicinamento di Venezia alla Francia, Luigi XII volle nuovamente tentare l'attacco al Ducato di Milano, ma di nuovo fu battuto dalle fanterie svizzere a Novara (1513), mentre gli Inglesi, partendo dalla loro base di Calais, battevano i Francesi a Guinegatte in Fiandra (1513). Per il momento la partita era chiusa, ma la situazione nella Penisola appariva notevolmente mutata rispetto a quella stabilita soltanto nove anni prima dal trattato di Lione (pace di Blois):
 - a Milano erano tornati gli Sforza (ma vi sarebbero rimasti solo due anni);
 - a Firenze era stato restaurato, con l'appoggio della fazione dei Palleschi, la signoria medicea;
 - i Francesi ritirandosi avevano abbandonato anche Asti e Genova, e in tutta la Penisola si era notevolmente rafforzato il predominio spagnolo.
Nello stesso anno 1513 era morto Giulio II e gli era successo, con il nome di Leone X, il cardinale Giovanni de' Medici (1513-21), di temperamento diverso dal suo predecessore, mite, amante delle lettere e protettore delle arti.

 

 

 

Francesco I e Carlo V: la pace di Cambrai

 

 

La prima fase del duello franco-asburgico

 

La guerra si riaccese nuovamente nell'Italia settentrionale, quando, morto Luigi XII, salì al trono di Francia Francesco I di Valois-Angouléme (1515-47), figlio di Luisa di Savoia e genero del sovrano scomparso. Egli intraprese subito la riconquista del Ducato di Milano.
Concentrato a Lione un esercito di circa 30.000 uomini, passò le Alpi conducendo con sé grosse artiglierie ed affrontò gli Svizzeri, che erano i protettori di Massimiliano Sforza, nella battaglia di Melegnano (o Marignano) presso Milano nel settembre del 1515.
Si combatté ininterrottamente per due giorni, mentre i cannoni francesi seminavano la strage tra le schiere della fanteria svizzera, finché l'arrivo di un contingente veneziano, alleato ai Francesi, decise la battaglia.
Milano tornò una volta ancora francese e il duca Massimiliano fu inviato prigioniero in Francia. I mercenari svizzeri, sconfitti per la prima volta in battaglia campale, si ritirarono verso le Alpi occupando definitivamente il Canton Ticino, che da quella data entrò a far parte della loro Confederazione.
Dopo la battaglia di Melegnano il papa Leone X, che dapprima aveva perseguito la stessa politica antifrancese di Giulio II, volle riconciliarsi con la Francia ed ebbe un incontro amichevole con Francesco I, ottenendo in cambio, il riconoscimento del ritorno dei Medici a Firenze. Alla pace generale si giunte l'anno seguente, 1516, col Trattato di Noyon, stipulato tra Francesco I e il nuovo sovrano di Spagna Carlo I d'Asburgo, erede del nonno materno Ferdinando il Cattolico.
A Noyon veniva ripristinata una situazione non dissimile da quella del trattato di Lione di dodici anni prima:
 - alla Spagna restava l'Italia meridionale e insulare,
 - verso la Francia, da cui dipendeva direttamente il Ducato di Milano, gravitavano Firenze, gli Estensi e i Savoia.
La pace di Noyon ebbe tuttavia validità provvisoria, in quanto a destabilizzarla giunse ben presto (1519) l'elezione ad imperatore del Sacro Romano Impero di Carlo d'Asburgo, già re di Spagna (1516) ed erede, alla morte del nonno Massimiliano (1519), dei possessi borgognoni ed asburgici. Questa serie di circostanze, che attribuirono al giovane sovrano un potere grandissimo ed il dominio sopra territori addirittura immensi, se si considerano anche le colonie spagnole d'oltreoceano, creò per la monarchia francese una situazione insostenibile e la Francia, nella persona del suo re Francesco I, dovette impegnarsi in una guerra a fondo per difendersi dalla morsa che da nord, da est e da sud minacciava di soffocarla nel suo stesso territorio nazionale.

 

All'elezione imperiale del 1519, fatto di eccezionale importanza nella storia europea del secolo XVI, presentarono la propria candidatura, oltre a Carlo d'Asburgo, anche Francesco I e Federico il Saggio duca di Sassonia. Ma a convincere i principi elettori che il 28 giugno elessero a Francoforte Carlo V, influì in modo decisivo l'appoggio dato all'Asburgo dai banchieri tedeschi (in primo luogo da Iacob Fugger di Augusta) che si impegnarono a pagare, attraverso le loro lettere di credito, migliaia di fiorini se l'elezione fosse stata favorevole. Contro questa decisiva operazione creditizia, resa possibile solo dalla potenza finanziaria delle case bancarie di Anversa e di Augusta, nulla poté il tentativo di Francesco I di comperare a sua volta il voto degli elettori col denaro fornitogli dalle case bancarie lionesi.

 

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I possedimenti europei di Calo V

 

L'Impero di Carlo V per la sua vastità aveva risorse certo di gran lunga superiori a quelle francesi, specialmente dopo che si cominciarono a sfruttare le miniere d'oro e d'argento dell'America spagnola, ma era indebolito dalla sua posizione geografica, poiché era composto da provincie spesso lontane, diverse per istituzioni, tradizioni e interessi ed unite solo nella persona del sovrano, mentre la monarchia francese poteva far ricorso alle risorse che le provenivano dall'essere uno Stato unitario e accentrato.
Durante lo svolgimento del conflitto, che con varie pause e riprese si protrasse sino alla metà del XVI secolo, intervennero però anche altri fatti a diminuire la potenza imperiale, in particolare la situazione creata dalla Riforma evangelica in Germania, che oppose all'imperatore gran parte dei principi tedeschi, e l'avanzata turca in Ungheria ed in Boemia, che impegnò considerevoli forze militari asburgiche sul confine orientale.

 

Fino al 1530 l'Italia fu ancora il principale campo di battaglia in cui si scontrarono le ambizioni imperialistiche di Carlo V e la disperata resistenza francese; dopo quella data invece essa divenne un settore di minore importanza ed altre regioni europee furono teatro del duello.
Le ostilità cominciarono nel 1521 ed ebbero come loro centro la Lombardia, al cui possesso mirava ancora Francesco I.
Gli Imperiali, condotti dal marchese di Pescara, sconfissero l'esercito svizzero-francese, comandato dal Lautrec, nella battaglia della Bicocca presso Milano (1522) e il Ducato di Milano andò momentaneamente perduto per i Francesi. Nel frattempo Carlo V e Enrico VIII (che aveva sposato Caterina d'Aragona, sorella della madre di Carlo) avevano preso accordi segreti (l'Inghilterra, cui interessava che la costa fiammingo-olandese non cadesse nelle mani della Francia, cominciò allora ad esercitare una funzione equilibratrice nella politica europea, spostandosi dalla parte ora dell'uno ora dell'altro contendente).
Soldati inglesi attaccarono i Francesi in Piccardia, d'intesa con Margherita d'Austria, reggente dei Paesi Bassi per conto del nipote Carlo V. Contemporaneamente l'imperatore venne favorito da altre due circostanze: Carlo di Borbone, Gran connestabile di Francia, abbandonò il suo sovrano alleandosi con gli Spagnoli (1523) e sul soglio pontificio salì, alla morte di Leone X, il papa Adriano VI (1522-23), precettore ed amico dell'imperatore.

 

Francesco I non si perse d'animo e riprese l'iniziativa attaccando nuovamente in Lombardia; rioccupata Milano, assediò Pavia, presso la quale si affrontarono i due eserciti nemici: gli Svizzeri, alleati ai Francesi, abbandonarono il campo e la giornata si risolse in un disastro per la Francia; lo stesso re fu fatto prigioniero e condotto in Spagna.
Il giorno della battaglia di Pavia, 24 febbraio 1525, l'imperatore compiva il suo venticinquesimo anno.
L'anno seguente, in prigionia, Francesco I fu costretto a firmare una pace (Madrid, 1526), con cui prometteva di rinunciare ai suoi diritti su Milano, su Napoli e sulla Borgogna.
Le difficoltà sorte in Francia per la prigionia del re furono intanto affrontate con abilità dalla madre, Luisa di Savoia, che tenne la reggenza. Una intensa attività diplomatica salvò la corona a Francesco I contro le insidie del partito borbonico e dello, stesso Parlamento di Parigi: Venezia, il nuovo pontefice Clemente VII Medici (1523-34) e il sovrano d'Inghilterra si resero conto della necessità di soccorrere Francesco I per evitare che la supremazia imperiale si trasformasse in un assoluto dominio europeo.

 

Dalla Lega di Cognac alla Pace di Cambrai

 

Appena riavuta la libertà, Francesco I denunciava la validità del patto firmato in prigionia e favoriva la formazione della Lega di Cognac (1526), cui aderirono molti Stati italiani, il papa Clemente VII, Venezia, Firenze e Francesco II Sforza, secondogenito di Ludovico il Moro.
La Lega aveva lo scopo di ristabilire l'equilibrio italiano attraverso la pace generale e l'esclusione sia dei Francesi, sia degli Spagnoli dalla Penisola.
A capo dell'esercito della Lega fu posto Giovanni Maria, della Rovere, duca di Urbino; con lui operava pure il condottiero Giovanni dei Medici, detto «Giovanni dalle Bande Nere» perché aveva listato a lutto le proprie insegne dopo la morte del papa Leone X.
Ripresa la guerra in Italia in seguito alla formazione della Lega di Cognac, un esercito imperiale comandato dal connestabile di Borbone, ricevuti in rinforzo a Milano consistenti bande di lanzichenecchi tedeschi, condotti da un cavaliere luterano (la Riforma evangelica data al 1520) animato da sentimenti antipapali, Giorgio di Frundsberg, si diresse verso Roma. Debolmente ostacolati dalle truppe del duca di Urbino, gli Imperiali giunsero a Roma e, sfuggendo al controllo dei loro capi, saccheggiarono per otto giorni la città, compiendo numerose uccisioni ed atti sacrileghi (maggio 1527).
Il papa, impotente di fronte a tanta rovina, rimase chiuso entro Castel S. Angelo, finché decise di abbandonare la Lega, ritirandosi dalla lotta. La Chiesa romana cominciava ad avere altre preoccupazioni che non quelle politiche, visto che da un decennio era in corso, nei territori germanici, il movimento luterano, che suscitava quella avversione contro il Papa e la Curia romana di cui il «sacco di Roma» compiuto da soldati luterani, certo contro la volontà dell'imperatore, era stato una minacciosa manifestazione.

 

Come ripercussione degli avvenimenti romani si ebbe a Firenze una nuova sollevazione contro i Medici, che furono allontanati dalla città, dove venne restaurata la repubblica (maggio 1527).
Intanto Francesco I tentava un'azione di larghissima portata contro Carlo V, facendolo attaccare alle spalle dai Turchi. L'imperatore, cattolico, era d'altronde alleato dello scià di Persia, musulmano, per cui non sembrò disonorevole al «Re Cristianissimo» di richiedere l'aiuto del sultano Solimano il Magnifico, già vittorioso nella grande battaglia di Mohacs (1526) contro Luigi II Iagellone, re d'Ungheria.
I Turchi, però, preferirono premere verso la pianura ungherese e la Boemia, difese da Ferdinando, fratello di Carlo V, piuttosto che verso l'Italia, e poiché le ultime spedizioni francesi nella Penisola, dopo il sacco di Roma, non avevano avuto successo e Genova con la sua flotta, comandata da Andrea Doria, insoddisfatta dell'alleanza con i francesi, era passata dalla parte imperiale, Francesco I non meno di Carlo V sentiva il bisogno di porre termine alla guerra.
Un primo accordo fu concluso a Barcellona tra il papa Clemente VII e Carlo V; con esso veniva assicurato al pontefice il ristabilimento dei Medici a Firenze e il recupero di molte terre tolte al papa dai Ferraresi o dai Veneziani, in cambio Clemente VII avrebbe solennemente offerto a Carlo V la corona imperiale.
Poi si giunse alla pace generale, stipulata a Cambrai per iniziativa di Margherita d'Austria e di Luisa di Savoia, e perciò chiamata anche la Pace delle due Dame (agosto 1529); per essa la Francia abbandonava al suo destino l'Italia, l'imperatore rinunciava ai diritti sulla Borgogna e Enrico VIII d'Inghilterra, che recentemente aveva partecipato alle ostilità a fianco del re di Francia, riceveva una grossa somma a titolo di risarcimento.
L'anno seguente si attuò il programma stabilito dal papa e dall'imperatore a Barcellona: durante un Congresso tenuto a Bologna, tra il novembre del 1529 e il febbraio del 1530, con grandi feste e cerimonie Carlo V fu incoronato dal papa Clemente VII Re d'Italia e Imperatore del Sacro Romano Impero. Contemporaneamente un esercito imperiale, comandato da Filiberto d'Orange riportò a Firenze la signoria di Alessandro de' Medici. La Repubblica fiorentina difese la propria indipendenza dal febbraio all'agosto del 1530. Un mercante, Francesco Ferrucci, assunse il comando di una parte delle milizie cittadine, impegnando gli Imperiali fuori della città, finché cadde in uno scontro a Gavinana sull'Appennino; Michelangelo Buonarroti diresse i lavori di fortificazione e, tra i difensori si fecero notare molti degli ex seguaci di Gerolamo Savonarola. Alla fine, durante l'estate, anche per la condotta equivoca del comandante supremo, il perugino Malatesta Baglioni, la città dovette cedere (12 agosto 1530). Alessandro, sposo di Margherita, figlia naturale dell'imperatore, fu creato duca l'anno seguente e poté restaurare la signoria, ormai definitiva e riconosciuta, dei Medici.

 

Dopo il 1530 l'Italia si venne sistemando sotto la dominazione spagnola, ormai senza più contrasti. Venezia si chiuse in una stretta neutralità; i pontefici romani furono assorbiti dalla preoccupazione di arginare lo scisma protestante; il duca di Savoia, Carlo III (che aveva ottenuto, in premio della sua neutralità, la città di Asti), il marchese di Mantova, il duca di Milano Francesco II Sforza manifestarono la loro amicizia per l'imperatore. Era inoltre previsto che, alla morte dello Sforza, il Ducato di Milano sarebbe stato devoluto all'imperatore, da cui già dipendevano il Regno di Napoli, la Sicilia e la Sardegna; guarnigioni spagnole erano state poste nelle Repubbliche di Lucca e di Siena.

 

 

 

Le cause della Riforma evangelica

 

 

La Riforma evangelica

 

 

Le cause: la giustificazione e i coefficienti storici

 

La Riforma evangelica fu un fatto eminentemente religioso.
Ecclesiologicamente parlando, la riforma appartiene alla natura stessa della Chiesa, peccatrice nonostante la presenza vivificante dello Spirito santo, e quindi bisognosa, senza tregua, di una continua conversione al suo Signore. La riforma è in atto nella Chiesa nella misura in cui la Chiesa è vivace e consapevole di sé.
La Riforma evangelica luterana prese però piede come un movimento ereticale che creò un profondo scisma e segnò la crisi definitiva dell'unità dei cristiani europei.

 

Il merito teologico della questione che costituì l'asse della separazione della Chiesa tedesca dalla Chiesa romana riguarda il cuore del cristianesimo nella sua prospettiva dottrinale.
Mentre, infatti, il cristianesimo, dal punto di vista dell'esistenza pratica, è la sequela di Cristo, cioè il percorso di assimilazione nel pensiero e nei gesti che il credente battezzato compie sulla scia del Maestro Gesù, per divenire testimone partecipe della sua natura divina, dal punto di vista puramente dottrinale esso consiste nella “giustificazione dell'uomo”.

 

Decaduto dall'originaria condizione di familiarità con Dio nel giardino dell'Eden, l'uomo, inorgoglito nel peccato, è separato dalla vita divina e condannato a un esilio terreno che culmina nella morte.
Di sua iniziativa, Dio creatore richiama l'uomo dall'interno della storia, costituendolo in seno a una comunità di eletti (Israele) come propria eredità in base a un'alleanza ripetutamente ripristinata nelle generazioni (vicenda ebraico-giudaica).
Definitivamente e metastoricamente, infine, lo stesso Dio decide l'incarnazione nel Cristo Gesù, volendo offrire all'uomo, finora giustificato nella storia dall'osservanza della Legge, una giustificazione definitiva che lo riabiliti all'antica familiarità con Lui mediante l'associazione nella fede al proprio Figlio immolato come vittima di espiazione sul patibolo della croce.
Attraverso l'incarnazione di Dio nell'uomo, l'uomo vede se stesso riabilitato alla natura divina nel Figlio, cui attribuisce la propria fede.
Gesù il Cristo, il nuovo Adamo che ha vissuto da Dio, indica dunque all'uomo la strada per essere di nuovo adottato da Dio come figlio.
L'uomo risulta dunque giustificato in Cristo in base alla fede.

 

Il primo teorico della giustificazione fu Paolo di Tarso, l'apostolo.
Nelle sue lettere, soprattutto quella ai Romani e quella ai Galati, egli afferma a chiare lettere che l'uomo è giusto (cioè giustificato) in virtù della fede in Cristo, non delle opere, che sono piuttosto “causa di peccato” per l'uomo.
Paolo, tuttavia, ex-Fariseo convertito sulla via di Damasco, usa il termine “opera” facendo riferimento alle “opere dell'osservanza”, cioè all'adempimento dei doveri religiosi che nella mentalità giudaica ottemperano ai complicati precetti della Legge di Mosé.
Paolo non parla, invece, delle “opere della carità”, cioè degli atti di amore, ispirati al Cristo, che costituiscono l'anima stessa e la vitalità della fede cristiana e senza le quali la fede risulta essere parola vuota e priva di significato esistenziale.
Secondo Paolo, dunque, il giusto vive (in Dio e di Dio) per la sua fede, la quale è sostanziata di carità operativa, la vita stessa di Gesù tra gli uomini, di cui il credente si fa imitatore.

 

Storiograficamente parlando, invece, la Riforma è una categoria, un concetto che individua nel corso del '500 un contesto processuale che si staglia per la sua significatività storica.
In tal senso, al manifestarsi della Riforma concorsero diversi fattori di rilevanza storica:
 - la cupidigia da parte dei principi tedeschi di impossessarsi delle grandi proprietà terriere della Chiesa (causa economica);
 - l'opposizione dei principi tedeschi alla politica accentratrice di Carlo V (causa politica);
 - il disordine morale e disciplinare della Chiesa (causa etica);
 - la diffusa avversione alla potenza temporale della Chiesa e al fiscalismo papale.

 

Preparazione della Riforma

 

Durante il papato del mite Leone X, amico degli artisti e dei letterati, si avviò una serie di avvenimenti politico-religiosi che portarono alla rottura del corpus cristiano della società europea, fondato sull'unità teologica della fede e sulla comune sottomissione al pontefice romano; in questo modo si venne rafforzando il particolarismo nazionale dell'Europa moderna, di fronte al decaduto universalismo medievale.

 

Alla Chiesa romana si rivolgevano da tempo accuse e critiche di ordine morale, di ordine disciplinare-organizzativo e di ordine teologico. Dal periodo della «cattività avignonese» in poi le accuse al decaduto costume del clero si erano fatte più insistenti e precise. La rilassatezza dei frati, la fiscalità della Curia romana che, attraverso un sistema di colletterie diffuso in tutta Europa, raccoglieva grandi somme di denaro, ricavandole dalle decime ordinarie, dai contributi straordinari, dalla tassa sui benefici vacanti o assegnati, e che di tale denaro sembrava fare un impiego non corrispondente alla missione apostolica e caritativa propria della Chiesa, le manie nepotistiche e le ambizioni politiche dei papi, il disinteresse dei vescovi per le loro diocesi, nelle quali spesso neppure avevano la residenza, distratti altrove dal cumulo delle cariche e dei benefici, furono un insieme di fattori che ingenerarono un forte scadimento della vita religiosa nelle masse cristiane, attirate da pratiche superstiziose e grossolane e inclini a nascondere sotto l'apparenza delle «opere» (preghiere, digiuni, atti di culto esterno) un deplorevole vuoto nella coscienza e nell'intimità profonda della fede.

 

La necessità di una riforma in capite et in membris, tale cioè da investire la Chiesa in ogni sua parte, era stata riconosciuta durante il Concilio di Costanza (1414-18); qualche provvedimento risanatore era poi stato preso dai pontefici nel corso della seconda metà del XV secolo e, sopra tutto, avevano ottenuto buoni risultati gli sforzi isolati di alcune personalità del mondo ecclesiale. Nell'insieme, però, era mancata un'azione organica e concorde, che avesse l'appoggio incondizionato della S. Sede.
Gli ultimi pontefici non avevano dato un esempio edificante di vita cristiana: Alessandro VI era stato violentemente accusato, tra gli altri anche dal Savonarola, di condurre una vita licenziosa e di ricorrere alla simonia, Giulio II, suo successore, era apparso più come un guerriero collerico ed un politicante che un pastore della Chiesa e Vicario di Cristo, Leone X, infine, rappresentava il tipo di pontefice amante del lusso e degli ozi letterari e assai poco preoccupato della propria missione apostolica.
Da queste censure di ordine genericamente morale si passava facilmente ad un'altra serie di attacchi che colpivano, invece, la struttura gerarchica della Chiesa.
Sulla traccia delle critiche esposte dall'inglese Giovanni Wycleff (1324-1384) e tradotte nella pratica dal boemo Giovanni Hus ( 1415), si contestava l'origine apostolica del Papato, la sua supremazia sulla gerarchia ecclesiastica ed il suo magistero dottrinale nella comunità cristiana. Tale posizione aveva ottenuto per lungo tempo l'appoggio delle monarchie occidentali, specie di quella francese, che desideravano sottrarre a Roma l'attribuzione dei benefici e delle supreme cariche ecclesiastiche, eliminare l'appello al pontefice nei giudizi contro i sacerdoti ed infine far cessare l'invio di denaro, sotto forma di decime, alla Curia romana.

 

Le popolazioni germaniche in particolare continuavano a lamentare i gravami fiscali imposti dalla Curia romana e nell'accentramento pontificio vedevano la causa dei mali che affliggevano la Chiesa e provocavano la decadenza delle tradizioni religiose un tempo fiorenti.

 

Se però la critica morale e la ribellione disciplinare costituivano la preparazione prossima dello scisma, fu l'opposizione dottrinale, in campo dogmatico, a dare allo scisma una solida ed insuperabile base teorica. Sulla traccia delle idee esposte da Wycleff nella seconda metà del XIV secolo, si asseriva infatti che il patrimonio vero della dottrina cristiana fosse da ricercare esclusivamente nella Sacra Scrittura, negando effettivo valore di rivelazione al rimanente insegnamento cattolico, fondato sulla tradizione conciliare e sulle definizioni papali. Da questa tesi rivoluzionaria del teologo inglese si deducevano conseguenze altrettanto radicali, quali l'abolizione di taluni sacramenti, del culto dei santi, delle indulgenze ed altre simili innovazioni.

 

Fattori storici favorevoli

 

Fu innanzitutto il movimento umanistico a sollecitare e ad insegnare l'indagine critica dei testi della Bibbia e dei Padri della Chiesa.
Lorenzo Valla fu autore delle Adnotationes in Novum Testamentum, e Erasmo da Rotterdam di una edizione critica del Nuovo Testamento, edita a Basilea nel 1516 con un'importante introduzione sul metodo migliore di esegesi biblica. D'altra parte, una viva corrente umanistica, che faceva capo ancora ad Erasmo e al francese Lefèvre d'Étaples, auspicava forme purificate del culto cattolico, in nome di una fede più interiore, libera da preoccupazioni mondane e politiche; si chiedeva, da parte questi umanisti, che erano assai numerosi in Europa e di grande prestigio culturale, un cristianesimo meno sacerdotale e più evangelico.
Nessuno degli umanisti, del resto, intendeva rompere l'unità del mondo cristiano provocando lo scisma e neppure attaccare il dogma e le tradizionali istituzioni cattoliche. Furono infatti altre concomitanti ragioni politiche e sociali a portare nel movimento riformatore tutto il peso della loro forza materiale, suscitando l'adesione appassionata dei principi tedeschi e delle classi popolari.

 

I grandi principi di Germania, tradizionalmente indipendenti, aspiravano a divenire padroni assoluti del loro territorio, secondo concezioni giuridiche tratte dal diritto romano, che anche nell'Europa centrale andava sostituendo l'antico diritto consuetudinario tedesco; non volevano più tollerare l'ingerenza di forze estranee entro i loro confini, opponendosi sia alle esenzioni ed ai privilegi di cui godevano vescovi ed abati, sia alla intromissione fiscale della Curia romana che faceva ordinarie e straordinarie raccolte di denaro.
L'opposizione dei principi tedeschi a Roma li portò ad accogliere con entusiasmo le teorie luterane che sottraevano i paesi tedeschi alla supremazia religiosa romana, inducendoli a combattere in campo aperto contro l'imperatore Carlo V d'Asburgo, che manifestava la volontà di attribuire nuovamente all'Impero un carattere sacro e cattolico. Tale concezione, infatti, avrebbe riaffidato al papa il privilegio di assegnare la corona del Sacro Romano Impero, mentre la Bolla d'Oro di Carlo di Boemia (1356) aveva conferito ai Principi elettori poteri determinanti ed autonomi nella scelta dell'imperatore.

 

Nelle terre germaniche poi i contrasti di classe si esasperavano nel contesto una grave crisi economica (provocata in parte anche dalla iniziata svalutazione del denaro in seguito all'aumento di circolazione dell'oro e dell'argento di provenienza coloniale) che infieriva sul ceto contadino, su cui si erano inaspriti i gravami feudali, e sulla classe dei cavalieri (piccola nobiltà di campagna) impoverita e insoddisfatta.
Entrambe queste categorie di persone, che componevano la grande maggioranza della popolazione tedesca, si rivolsero con rinnovata speranza alle predicazioni, spesso apocalittiche, dei riformatori, nell'illusione di ottenere, da un rinnovamento radicale della società da ricostituirsi sul modello evangelico, una parte almeno di quei beni e di quella prosperità che erano riservatri allora ai soli grandi signori laici, agli abati e ai vescovi cumulatori di benefici, e all'abile e intraprendente borghesia cittadina, che nel breve volgere degli anni aveva accumulato grandi ricchezze col prestito ad usura, col monopolio e lo sfruttamento delle risorse minerarie nazionali.

 

 

 

Lutero

 

Lutero

 

Nato ad Eisleben in Sassonia da una famiglia di minatori arricchiti, Martin Lutero (1483-1546) ricevette una educazione severa; dal 1501 al 1505 fu studente di diritto all'Università di Erfurt, in Turingia, poi, dopo una violenta crisi spirituale dell'estate del 1505, entrò nel convento degli Agostiniani di Erfurt, ordine di frati mendicanti che era ancora soggetto ad una severa disciplina.
Seguì i corsi di filosofia e teologia, divenne sacerdote nel 1507 e negli anni seguenti insegnò teologia all'Università di Wittenberg, centro di studi di recente costituzione.
Dal dicembre 1510 al gennaio 1511 fu inviato in missione a Roma per conto dell'Ordine e conobbe l'ambiente indifferente e mondano della Curia papale, pur non rimanendone eccessivamente turbato.
Al suo ritorno in Germania continuò le lezioni a Wittenberg, dove, nel 1515-16, tenne un importante corso commentando la lettera di S. Paolo ai Romani.
Lutero dimostrava un forte temperamento dialettico, un intelletto robusto ed una parola abile e appassionata; la sua coscienza era però tormentata dall'idea della perdizione: il terrore della morte e della dannazione eterna lo teneva in una ansia tormentosa, da cui cercava di liberarsi dedicandosi con profondo impegno alle pratiche di mortificazione ed alle preghiere.
Sulla sua formazione spirituale agirono diversi fattori: le dottrine degli occamisti tedeschi, la lettura dei mistici medievali come S. Bernardo e Gerson, la rielaborazione del pensiero di Sant'Agostino sulla grazia e sulla predestinazione. Per quanto non ignorasse gli autori latini, come Virgilio e Orazio, e conoscesse il greco, Lutero non ebbe mai simpatia per gli studi umanistici, che ispiravano un ideale di vita troppo diverso da quello che intimamente sentiva; ne applicò però il metodo critico nello studio della Bibbia e degli scritti dei Padri della Chiesa.

 

 

 

La giustificazione e le principali tesi di Lutero

 

 

Influenzato dalla lettura della mistica medievale, che inclinava verso una prevalenza della teologia mistica su quella speculativa, impressionato dalle dottrine di Gugielmo di Ockham sulla volontà libera di Dio e suggestionato dalla lettura di Agostino nelle sue opere antipelagiane concernenti i temi del peccato, della grazia e della predestinazione, Lutero interpreta l'apostolo Paolo equivocando sul termine “opere”, estendendone il significato a tutta l'attività umana, indifferentemente dettata dal dovere o dall'amore, l'osservanza e la carità.
Persuaso della corruzione irreversibile che ha travolto l'umanità dopo il peccato di Adamo, egli ritiene che la volontà umana sia stata ridotta in una condizione di schiavitù tale da non potersi risollevare dal peccato se non per l'esclusiva opera della grazia divina, indipendentemente da qualsiasi sforzo della volontà dell'uomo.
Secondo Lutero, il genere umano, di per sé considerato, ossia privo dello Spirito di Dio, è il regno del diavolo, è un caos confuso di tenebre; l'arbitrio dell'uomo è sempre e solo “schiavo”, o di Dio o del Demonio. Lutero paragona la volontà umana a un cavallo che sta fra due cavalieri, Dio e il Demonio: se ha sul dorso Dio vuole andare e va dove Dio vuole, se ha sul dorso il Demonio vuole andare e va dove va il Demonio. Essa non ha nemmeno la facoltà di scegliere fra i due cavalieri; sono i cavalieri che disputano fra loro per impossessarsene.
Se questa condizione, poi, sembrasse “ingiusta”, per Lutero la risposta dovrebbe essere che Dio è Dio proprio perché non deve rendere conto di quel che vuole e che fa, ed è ben al di sopra di ciò che appare giusto o ingiusto al diritto dell'uomo. Natura e grazia sono radicalmente scisse, come ragione e fede.
Quando l'uomo agisce secondo natura, per Lutero, non può far altro che peccare, perché quando pensa con il proprio intelletto non può far altro che errare.
Per Lutero, dunque, l'espressione paolina “il giusto vive per la sua fede” significa che, a prescindere dalla buona volontà umana e dalle opere di qualsiasi tipo che l'uomo si proponga di compiere, la giustificazione avviene esclusivamente tramite la gratuita iniziativa di Dio che salva sulla base dell'istanza umana della professione di fede in Cristo.

 

I capisaldi della dottrina di Lutero sono sostanzialmente tre:
a) la dottrina della giustificazione radicale dell'uomo attraverso la sola fede.
Lutero si sentì a lungo profondamente frustrato e incapace di meritare la salvezza con le proprie opere, che gli parevano sempre inadeguate, e l'angoscia di fronte alla problematicità della salvezza eterna, di conseguenza, lo tormentò senza posa. La soluzione che adottò affermando che basta la fede per salvarsi, era tale da liberarlo completamente e radicalmente da tale angoscia. Gli uomini sono, a suo parere, creature fatte dal niente e, in quanto tali, non possono fare nulla di buono che valga agli occhi di Dio, nulla, cioè, che valga per diventare quelle nuove creature di cui si parla nel Vangelo. Ma Dio, che ha creato l'uomo dal nulla, lo rigenera con analogo atto di libera volontà completamente gratuito. L'uomo, dopo il peccato di Adamo, è decaduto al punto che da solo non può fare assolutamente nulla; tutto ciò che deriva dall'uomo di per sé considerato è concupiscenza, cioè egoismo, amore esclusivo di sé che contrasta con l'amore di Dio. Pertanto, la salvezza dell'uomo non può se non dipendere dall'amore divino, che è dono assolutamente gratuito. La fede consiste nel comprendere questo e nell'affidarsi totalmente all'amore di Dio. La fede giustifica senza opera alcuna.
b)
la dottrina dell'infallibilità della Scrittura, considerata come sola fonte di verità.
Tutto ciò che si sa di Dio e del rapporto uomo-Dio è contenuto nella Scrittura, che deve essere intesa con rigore assoluto e senza l'intrusione di ragionamenti e di commenti metafisico-teologici. La sola Scrittura, sostiene Lutero, costituisce l'autorità infallibile di cui si ha bisogno ai fini della salvezza: il papa, i vescovi e i concili e tutta la tradizione teologica e magisteriale della Chiesa non solo non giovano all'uomo, ma ostacolano e compromettono la retta comprensione del testo sacro.
c) la dottrina del sacerdozio universale in connessione con la dottrina del libero esame delle Scrittura.
In conseguenza di quanto sopra, Lutero sostiene che la dignità sacerdotale acquisita dal cristiano tramite il battesimo e l'adesione alla fede in Cristo è tale da renderlo dispensatore sufficiente della grazia nei propri confronti e in quelli degli altri, senza alcuna necessità di riconoscere valore a una gerarchia sacerdotale temporale che voglia interporsi nel rapporto diretto Dio-uomo. Ciascun battezzato, in quanto dotato dello spirito di Cristo, è perfettamente in grado, secondo Lutero, di leggere la Scrittura e di interpretarla nella propria vita senza bisogno di un'autorità estrinseca che imponga significati e valutazioni. Ogni cristiano è perfettamente autonomo nel suo rapporto con Dio.

 

La questione delle indulgenze

 

Le tesi di Lutero sarebbero rimaste probabilmente nell'ambito delle questioni disputate dai maestri universitari, se in concomitanza con esse non si fossero innestate sull'altra questione, più canonica che teologica, delle indulgenze, l'evento clamoroso che determinò l'irrigidimento dell'atteggiamento di Lutero e la crisi nel clero tedesco.
Dovendosi raccogliere i fondi per la ricostruzione della Basilica di S. Pietro a Roma, il pontefice Leone X, come il suo predecessore Giulio II, emise una bolla che concedeva determinate indulgenze in cambio di offerte in denaro. In Germania soprattutto la concessione delle indulgenze assunse l'aspetto scandaloso e simoniaco di una vera transazione commerciale, grazie al metodo rozzo e alla rumorosa pubblicità usata, nella divulgazione della bolla papale, dal domenicano Giovanni Tetzel, il quale, trascurando di accennare alle disposizioni spirituali richieste per ottenere le indulgenze, poneva l'accento sull'effetto straordinario che ogni versamento di denaro avrebbe avuto per la liberazione delle anime dei defunti dalle pene del Purgatorio.
Indignato, Lutero ritenne suo dovere opporsi pubblicamente a questo sfruttamento dei sentimenti religiosi popolari e nell'ottobre 1517 pubblicò il programma delle tesi che avrebbe sottoposto al dibattito nel prossimo anno accademico, contenente i principi della sua dottrina della giustificazione e l'impugnazione della sostanza stessa delle indulgenze, a suo parere inutili sia per i vivi sia per i defunti.

 

Ne seguì una polemica che si trascinò fino al 1519, quando, dopo una pubblica disputa tenuta a Lipsia con il teologo Giovanni Eck, la rottura con Roma divenne definitiva.