Lezioni



CLASSE   III   -   Testi di Storia (2)

 

Gli stati italiani dal '300 al '400

 

 

FONTI

 

 

La pace di Lodi nella riflessione di Niccolò Machiavelli

 

In questa illuminante pagina tratta dalle sue Istorie fiorentine, Niccolò Machiavelli (1469-1527) delinea le varie fasi della trattativa che sfociò nella stipulazione della pace di Lodi (1454). Lo storico fiorentino individua un elemento fondamentale per capire le ragioni che spinsero i sovrani dei principali Stati italiani a siglare l'accordo. Machiavelli pone alla base degli accordi di pace la constatazione del sostanziale fallimento di tutti i tentativi egemonici posti in atto soprattutto da Milano e Venezia. Questo fallimento, testimoniato dalle battaglie di Maclodio e di Caravaggio, inaugurò la stagione della cosiddetta "politica dell'equilibrio".

 

La partita1 del re2 fece che il duca3 volentieri si voltò alla pace; e i Viniziani, Alfonso e i Fiorentini per essere tutti stracchi4 la desideravano; e il papa5 ancora con ogni demostrazione l'aveva desiderata e desiderava: perché questo medesino anno Maumetto Gran Turco6 aveva preso Costantinopoli e al tutto di Grecia insignoritosi7. Il quale acquisto sbigottì i cristiani, e più che ciascuno altro i Viniziani e il papa, parendo a ciascuno già di questi sentire le sue armi in Italia. Il papa pertanto pregò i potentati italiani gli mandassero oratori con autorità di fermare8 una universale pace. I quali tutti ubbidirono; e venuti insieme a' meriti della cosa9, vi si trovava nel trattarla assai difficultà: voleva il re che i Fiorentini lo rifacessero10 delle spese fatte in quella guerra, e i Fiorentini volevano esserne soddisfatti loro; i Viniziani domandavano al duca Cremona, il duca a loro Bergamo, Brescia e Crema; tal che pareva che queste difficultà fussero a risolvere impossibile. Nondimeno, quello che a Roma fra molti pareva difficile a fare, a Milano e a Venezia infra suoi11 fu facilissimo; perché mentre che le pratiche a Roma della pace si tenevano, il duca e i Viniziani a' dì 9 di aprile nel 1454 la conclusono12. Per virtù della quale ciascuno ritornò nelle terre che possedeva avanti la guerra, e al duca fu concesso potere recuperare le terre gli avieno occupate13 i principi di Monferrato e Savoia; e agli altri italiani principi fu uno mese a ratificarla concesso. Il papa e i Fiorentini e con loro i Sanesi14 e altri minori potenti fra il tema15 la ratificarono, né contenti a questo, si fermò fra i Fiorentini, duca e Viniziani pace per anni venticinque.

 

1. la partenza. – 2. si tratta del re di Napoli Alfonso V d'Aragona. – 3. il duca di Milano Francesco Sforza. – 4. stanchi. – 5. Niccolò V (1447-55). – 6. il sultano ottomano Maometto II (1451-81). – 7. si era impadronito dell'intera Grecia. – 8. siglare, ratificare. – 9. a discutere del merito della questione. – 10. lo risarcissero. – 11. attraverso colloqui diretti. – 12. ratificarono. – 13. che gli avevano occupate. – 14. Senesi. – 15. spinti dalla paura.

 

N. Machiavelli, Istorie florentine, in Opere complete, a cura di S. Bertelli - F. Gaeta, Feltrinelli, Milano 1965.

 

La valutazione di Francesco Guicciardini sulla politica dell'equilibrio

 

Un altro letterato e storico italiano, Francesco Guicciardini (1483-1540), nella sua principale opera, la Storia d'Italia, si sofferma ad analizzare le cause e gli effetti che la politica dell'equilibrio, inaugurata dalla pace di Lodi, ebbe per la penisola.
Lo storico a ragione vede in Lorenzo il Magnifico, colui che si preparava a diventare Signore di Firenze, il principale artefice di questa nuova stagione politica, destinata a durare, salvo brevi parentesi di guerre a carattere locale, almeno sino alla calata in Italia (1494) del re di Francia Carlo VIII.
Il Signore di Firenze era titolare dello Stato militarmente più debole e più esposto a eventuali attacchi da parte di Milano o di Venezia; già all'epoca del governo di Gian Galeazzo Visconti (1385-1402), infatti, Firenze era stata sottoposta alla diretta pressione militare milanese. Lorenzo il Magnifico, attraverso la politica dell'equilibrio, cercava di evitare che si stabilisse un forte potere egemonico in Italia, al fine di non diventarne la vittima designata.

 

Perché, ridotta tutta in somma pace e tranquillità, coltivata non meno ne' luoghi più montuosi e più sterili che nelle pianure e regioni sue più fertili, né sottoposta a altro imperlo che de' suoi medesimi1, non solo era abbondantissima d'abitatori, di mercatanzie2 e di ricchezze; ma illustrata3 sommamente dalla magnificenza di molti principi, dallo splendore di molte nobilissime e bellissime città, dalla sedia4 e maestà della religione, fioriva d'uomini prestantissimi nella amministrazione delle cose pubbliche, e di ingegni molto nobili in tutte le dottrine e in qualunque arte preclara5 e industriosa; né priva secondo l'uso di quella età di gloria militare e ornatissima di tante doti, meritamente appresso a tutte le nazioni nome e fama chiarissima riteneva6. Nella quale felicità7, acquistata con varie occasioni, la conservavano molte cagion8: ma tra l'altre, di consentimento comune9, si attribuiva laude10 non piccola alla industria11 e virtù di Lorenzo de' Medici, cittadino tanto eminente sopra '1 grado privato12 nella città di Firenze che per consiglio suo si reggevano le cose di quella repubblica, potente più per l'opportunità del sito, per gli ingegni degli uomini e per la prontezza de' danari, che per grandezza di dominio. E avendosi egli nuovamente congiunto con parentado e ridotto a prestare fede non mediocre a' consigli suoi Innocenzo13 ottavo pontefice romano, era per tutta Italia grande il suo nome, grande nelle deliberazioni delle cose comuni l'autorità. E conoscendo che alla repubblica fiorentina e a sé proprio sarebbe molto pericoloso se alcuno de' maggiori potentati ampliasse più la sua potenza, Lorenzo procurava con ogni studio che le cose d'Italia in modo bilanciate si mantenessimo14 che più in una che in un'altra parte non pendessimo15: il che, senza la conservazione della pace e senza vegghiare16, con somma diligenza ogni accidente benché minimo, succedere non poteva.

 

1. ad altra autorità che a quella dei suoi legittimi sovrani. – 2. mercanzie. – 3. resa celebre. – 4. la Sede Apostolica, cuore della cristianità. – 5. nobile. – 6. aveva. – 7. prosperità. – 8. cause. – 9. per comune consenso. – 10. lode. – 11. operosità. – 12. a livello formale Firenze era ancora una Repubblica, quindi Lorenzo era semplicemente un cittadino autorevole. – 13. indotto papa Innocenzo VIII (1484-92) a seguire i suoi suggerimenti. – 14. si mantenessero in equilibrio. – 15. pendessero. – 16. vegliare, sorvegliare.

 

F. Guicciardini, Storia d'Italia, Einaudi, Torino 1971, vol. 1, pp. 3-4.

 

 

 

INTERPRETAZIONI STORIOGRAFICHE

 

 

 

Contrasto di interpretazioni

 

Nell'interpretazione della politica delle Signorie e dei Principati in Italia non c'è accordo.
Alcuni affermano che tali istituzioni politiche rappresentano una trama di avvenimenti così particolari, disordinati e contraddittori che non è possibile riportarli a un sistema; altri vi scorgono il momento della storia d'Italia nel quale le due tendenze, l'unitaria e la regionalistica, si combattono con maggior vigore.
Sostengono la prima tesi coloro che credono necessaria a una storia nazionale l'azione di uno Stato unificatore, cioè organizzatore di tutte le energie particolari e opposte. In Italia, nel Trecento e nel Quattrocento, questo centro non ci fu, pertanto si può legittimamente parlare solo di storie e di politiche dei singoli Stati in funzione dei loro particolari e contrastanti interessi e ambizioni, ma non di una storia d'Italia.
Parla, invece, di processo storico nazionale chi, in tutte le vicende italiane, sente, sia pure in modo molto disordinato e confuso, la formazione lenta, contraddittoria ma continua, di una coscienza italiana, che nel periodo delle Signorie e dei Principati si manifesta nella ricerca polemica dell'organizzazione politica più conveniente all'Italia: l'unità o l'autonomia regionale. I Visconti, Venezia, Firenze, lo Stato pontificio e il Regno di Napoli sono i protagonisti di questa lotta serrata. Scrive Nino Valeri:

 

L'indirizzo impersonato con maggiore autorità ed energia da Firenze, coll'invocazione all'Italia intendeva la conservazione dell'equilibrio delle forze esistenti e la loro fusione soltanto nel campo di combattimento contro ogni tentativo di conquista da parte di qualsiasi formazione statale italiana, provenisse dal Nord o dal Sud... L'altro indirizzo, che potremmo definire monarchico-nazionale, intendeva per l'Italia l'unità della penisola, quale si sarebbe potuta ottenere soltanto mediante la sottomissione degli Stati italiani al più potente di essi.

 

N. Valeri, Le origini dello Stato moderno in Italia, in Storia d'Italia, Eínaudi, Torino 1969, vol. I, p. 462 e passim.

 

È difficile per gli storici dire quale dei due indirizzi convenisse all'Italia, dato che il sistema regionalistico organizzato nell'equilibrio, cristallizzando gli Stati italiani in una molteplicità d'interessi divergenti, comprometteva la formazione di una forza compatta, capace di resistere alle invasioni straniere, e d'altra parte l'unificazione avrebbe richiesto la sottomissione di tutti gli Stati a uno solo e la perdita della libertà, indispensabile condizione del fiorire della civiltà rinascimentale.
Nei fatti prevalse la prima soluzione, che costò all'Italia tre secoli di dominio e di miseria politica ed economica.
D'altra parte, era possibile allora in Italia un'unificazione politica come contemporaneamente avveniva in Francia? La risposta si può dedurre dall'esame critico della politica dei cinque maggiori Stati italiani.

 

La debolezza del Regno di Napoli

 

Particolarmente insufficiente a questa funzione era il Regno di Napoli, paralizzato politicamente e finanziariamente dalla guerra di riconquista della Sicilia, dalle lotte di successione tra Angioini e Aragonesi e, soprattutto, dalla condotta di un baronaggio che, come dice Benedetto Croce, con le sue pretese prepotenti e crescenti paralizzava l'azione della monarchia e impediva la formazione di una robusta classe borghese.

 

Né i lucciconi cavallereschi né l'individuale bravura compensano ciò che a quei feudatari meridionali mancò allora, com'era mancato ai tempi dei Normanni e degli Svevi, quando li abbiamo visti così indisciplinati e turbolenti, benché tenuti a freno dal vigore dei sovrani e delle loro prudenti leggi, e così scarsi di sentimenti pel bene pubblico e per l'onore del Regno. Veramente questa turbolenza e quest'indifferenza, la tendenza anarchica, la lotta di tutti contro tutti e segnatamente contro il tutto, era l'altro lato, il rovescio, dell'ordinamento feudale, la perversione nella quale facilmente si sviava, e che si manifestò dappertutto in Europa. Ma, laddove in altri paesi la forza monarchica cresceva per la crescente estensione territoriale su cui si esercitava e per l'appoggio che si procurava in altre classi della popolazione, da noi il baronaggio era l'elemento preponderante e anzi quello che quasi solo contava. Ai re di Napoli non era dato, come già ai monarchi normanni e svevi, re di Sicilia, duchi di Puglia, imperatori romani, e via dicendo, giovarsi di mezzi che solo l'ampiezza e varietà dei possedimenti offrono, e far leva sulla Sicilia contro la Puglia e adoprare schiere saracene e tedesche per incutere timore e imporre rispetto ai baroni che si ribellavano o si disponevano a ribellarsi. E i baroni non solo acquistavano nel vicendevole rapporto tanto di forza quanto la monarchia ne perdeva, ma altra ancora per effetto di quel distacco della Sicilia e pei nuovi re ai quali questa si era data e che si vantavano legittimi eredi degli Svevi. I re di Sicilia o di Trinacria formavano attrazione e fornivano pretesto ai baroni del regno di Napoli per ribellarsi, e la monarchia napoletana era messa a rischio non solo di non potere condurre la guerra, che per circa un secolo condusse, indirizzata al riacquisto dell'isola, ma di vedersi tolto anche quel che le era rimasto nel continente. Così il regno di Napoli ebbe fin dall'origine, e per il modo della sua origine, che fu per amputazione, il malanno delle contese di pretendenti, che i feudatari alimentavano e che a sua volta alimentava le ribellioni dei feudatari. Agli Angioini di Napoli e agli Aragonesi di Sicilia seguirono le divisioni degli Angioini e dei Durazzeschi, e poi di nuovo degli Angioini di Francia e degli Aragonesi di Spagna, e ancora dei fautori di Francia e di quelli di Spagna, gli uni invocanti come buon diritto la successione angioina e l'investitura papale, e gli altri la storica successione, attraverso i re d'Aragona, dal sangue di Federico svevo, e in ultimo da parte degli Asburgo d'Austria e quella dei Bonboni, eredi degli Asburgo di Spagna.

 

B. Croce, Storia del Regno di Napoli, Latenza, Bari 1925, p. 57.

 

I re di Napoli, quindi, si trovarono contemporaneamente sotto un duplice incubo: all'interno le prepotenze e le ribellioni dei baroni; all'esterno le guerre dei pretendenti al trono. Nella lotta i baroni dimostrarono di non avere il minimo sentimento per il bene pubblico; pur d'imporre i loro interessi particolari non ebbero alcuno scrupolo di schierarsi o di fingere di schierarsi dalla parte dei pretendenti. È ovvio che in queste condizioni il Regno di Napoli, travagliato all'interno e all'esterno, privo dell'appoggio della Chiesa, non poteva fare una politica nazionale, ma tendeva a estraniarsi dalla corrente viva della storia d'Italia.
La natura feudale del Regno di Napoli è messa in evidenza dallo storico Giuseppe Galasso, che delinea l'evoluzione delle strutture istituzionali del Mezzogiorno a partire dalla fine del XIII secolo.

 

È solo dopo il Vespro siciliano, e in particolare a partire da quello di San Martino, in Calabria, nel 1283, che i parlamenti meridionali acquistano un rilievo maggiore e si configurano come grandi assemblee di ecclesiastici, baroni e inviati di città grandi e piccole analoghe a quelle che contemporaneamente si vengono sviluppando in altre monarchie feudali d'Europa. In seguito, e precisamente in periodo aragonese, la partecipazione degli ecclesiastici ai parlamenti napoletani venne meno, evidenziando così — a quel che sembra — lo status eccezionale degli ecclesiastici in un regno che veniva considerato feudo di Roma. Poiché le rappresentanze della città, pur presenti, non riuscirono a prendere adeguato rilievo, i parlamenti napoletani si ridussero ad assemblee feudali, non periodiche e non regolari, aventi ad oggetto soprattutto l'approvazione delle imposte e dei tributi richiesti dal re. Diviso in tre «bracci» (feudale, ecclesiastico e demaniale) appare, invece, il parlamento siciliano, quando esso, alla fine del secolo XIV, diventa regolare e periodico e con competenze e vigore che appaiono più forti di quello napoletano, e danno luogo anche alla istituzione di una «deputazione» permanente. Quanto alla Sardegna, le sue agitatissime vicende fra la rottura del suo storico isolamento nel secolo XI e la sua definitiva unificazione sotto gli Aragonesi nella prima metà del secolo XV, solo a partire da questa epoca rendono possibile un discorso istituzionale unitario valido per tutta l'isola. Ma a quest'epoca l'avvento degli Aragonesi anche sui troni di Napoli e di Palermo conferisce un ancora maggiore parallelismo istituzionale e politico-sociale a quest'Italia che possiamo ormai cominciare a chiamare «spagnola», e che tale diverrà in senso più proprio nel seguente secolo XVI a causa degli avvenimenti europei per cui, oltre la Sicilia, la Sardegna e Napoli, anche Milano sarà posta sotto lo scettro degli Asburgo di Madrid.

 

G. Galasso, Potere e istituzioni in Italia dalla caduta dell'Impero Romano ad oggi, Einaudi, Torino 1974, p. 60.

 

Il caos dello Stato pontificio

 

Lo Stato della Chiesa fu completamente compromesso dal trasferimento della sede papale ad Avignone e a causa dello Scisma d'Occidente. Il primo rese possibile il pullulare di numerose e riottose Signorie e l'invadenza dei Visconti a Bologna e nelle Romagne, che neanche l'energica azione del cardinale Egidio Albornoz seppe eliminare definitivamente; il secondo suscitò la tentazione degli Stati vicini di mettere le mani su alcune città pontificie.
La successiva restaurazione territoriale di Niccolò V, Pio II e Paolo II non ebbe però duraturi successi a causa della politica nepotista di Sisto IV e di Innocenzo VIII.
Quando poi Cola di Rienzo manifestò il proposito di unire pacificamente tutta l'Italia a Roma, sorsero infinite e insuperabili difficoltà: l'opposizione dei nobili, l'instabilità popolare, l'atteggiamento equivoco del papa e la stessa vanagloria del tribuno.
Grado Giovanni Merlo ricostruisce l'episodio di Cola di Rienzo mettendo in luce l'aspetto più significativo che ne determinò anche l'inevitabile conclusione: il potere della nobiltà romana. Deve, in questo contesto, essere sottolineato il ruolo del cardinale Egidio Albornoz, che diede allo Stato della Chiesa le leggi che furono alla base di questo organismo politico fino all'età napoleonica, le famose costituzioni egidiane del 1357.

 

In Roma stessa il potere papale stentava a imporsi, non solo per la lontananza della residenza pontificia, ma per l'irrequietezza delle consorterie nobiliari e del «popolo», alla quale si intrecciavano le ambizioni di forze esterne attratte dal «mito» della città cristiana e imperiale. Un «mito» che influenzò e travolse la singolare figura di Cola di Rienzo. Questo colto popolano, aperto all'universalismo della cultura classica e ad un tempo dell'esperienza cristiana, nel 1347 con il soggiorno di proprie milizie «popolari» occupò il Campidoglio e con il titolo di «tribuno della libertà, della pace e della giustizia e liberatore della sacra repubblica romana» divenne «signore» di Roma. In pochi mesi, con il consenso della curia avignonese, si adoperò a «pacificare» la città e il territorio. Quando però le sue ambizioni politiche superarono l'ambito locale e si estesero a progetti di inquadramento italiano e «imperiale», il papato lo scomunicò e la nobiltà si impadronì del comune romano. Mentre la fortuna di Cola di Rienzo repentinamente tramontava, nei territori del futuro stato pontificio operava un energico cardinale condottiero, Egidio di Albornoz, che in veste di legato papale intraprese una vasta azione territoriale, costruendo fortezze, imponendo funzionari pontifici, collegando al papato collettività cittadine e signori locali. Nel 1357 emanò un corpo di leggi – le note «costituzioni egidiane» – che stabiliva le linee istituzionali lungo le quali avrebbe preso vita, e si sarebbe mantenuto fino all'età napoleonica, l'organismo statale facente capo al papa.

 

G. Tabacco - G. G. Merlo, Medioevo, Il Mulino, Bologna 1989, p. 558.

 

Il regionalismo di Firenze

 

Mentre Milano, sotto i Visconti, si configura come «il consolidamento di un forte centro politico unificatore dell'Italia», Firenze appare la roccaforte del regionalismo, contraria ai «tiranni», come allora s'indicavano coloro che aspiravano a conquistare gli altri Stati italiani. È il centro del guelfismo, solo se a questo termine si dà il significato non già di un blocco di alleanze attorno al papa, ma di volontà decise a difendere la libertà delle regioni contro il predominio di un solo Stato, anche quando questo fosse quello del papa.
In questo senso Matteo Villani chiamò il guelfismo fiorentino «fondamento e rocca ferma della libertà d'Italia, contrario a tutte le tirannie, per modo che se alcun guelfo diviene tiranno, conviene per forza ch'ei diventi ghibellino».
Per l'inurbamento di molti elementi della campagna, Firenze, nel Trecento, lotta per abbattere il medievale concetto di libertà, come privilegio di pochi intolleranti, per estenderla a tutte le classi, alla piccola borghesia e al proletariato, e perviene a forme di così avanzata democrazia che le danno il diritto al primato politico e morale d'Italia. È vero che la sua vita è travagliata, irrequieta e turbata da forti e sanguinosi contrasti fra popolo e magnati, ma sono lotte che contribuiranno ad accelerare lo sviluppo delle istituzioni e l'evoluzione dello spirito pubblico. In particolare, le principali famiglie patrizie fiorentine (per esempio i Peruzzi, i Bardi, i Pazzi, i Rucellai) si convinsero della necessità di mantenere vive e vitali le istituzioni repubblicane, al fine di scongiurare una deriva signorile.

 

I confusi contrasti sociali che seguirono all'abbassamento della «mercantia» si attenuano fino a diventare momenti continui di un lento processo di ascesa delle arti minori, da lungo tempo preparate e avviate alla vita politica. A fianco di esse, tendono ad emergere altresì gli operai non organizzati, i quali molta somiglianza di condizioni economiche e di aspirazioni avevano con gli artigiani saliti ai posti di comando. Ma le basi costituzionali del Comune rimasero intatte, e nelle magistrature continuarono a prevalere le più cospicue Arti maggiori, assistite dai rappresentanti della vecchia oligarchia magnatizia affiancati, quanto a importanza politica, ai nuovi esponenti degli artigiani minori. Clamorosi colpi di stato dell'una o dell'altra classe sociale, rivolte della plebe, intese segrete di uomini e d'interessi, rapido ascendere e tramontare di fortune individuali, che rendono spesso incomprensibile questa storia interna di Firenze a chi guardi soltanto ai fatti particolari isolati, slegati dal loro nesso storico, acquistano luce quando vengono intesi nella loro interiore continuità, come tappe di una progressiva ascensione alla vita politica di strati sociali sempre più vasti e consapevoli. I tentativi dei Ricci e degli Albizzi, non meno delle labili fortune del duca di Calabria e del duca di Atene, esprimono l'opposta aspirazione a costituire un governo ordinato e pacifico sotto le signorie di un capo o di un ristretto gruppo che avrebbe eliminato lotte di parte, inquietudini, disordini. Tale tendenza era allora in pieno trionfo in molti Stati dell'Italia; ma a Firenze essa si impose soltanto in circostanze straordinarie, come momentaneo ripiego nelle ore più difficili della vita dello Stato. Cessato il pericolo, la volontà della Repubblica, quale si esprimeva nel suo ceto dirigente, stroncò senza difficoltà queste labili forme tiranniche.

 

N. Valeri, Firenze e la libertà d'Italia, in La libertà e la pace, Einaudi, Torino 1942, p. 42.

 

Nel XIV secolo il proletariato fiorentino, nella sua tenace volontà di costituirsi in associazione, in arti, per potere difendere i suoi diritti economici e politici, anticipò di secoli il diritto degli operai all'uguaglianza, all'associazione di classe e alla partecipazione al governo del paese.
Il sacrificio dello scardassiere (colui che pettina la lana) Cinto Brandivi (1345), che pagò con la morte il generoso tentativo di costituire una fratellanza di operai della lana, e il tumulto dei Ciompi (1378), cioè dei lavoratori delle arti tessili, nonostante loro manchevolezze, testimoniano un'istanza di morale sociale che non si riscontra in altre parti d'Italia.
Il moto dei Ciompi, dice J. N. Rodolico (Il popolo minuto, note di storia fiorentina, Il Mulino, Bologna 1899; La democrazia fiorentina nel suo tramonto, Il Mulino, Bologna 1905) osserva che la soluzione corporativa del problema dei contrasti fra datori di lavoro e lavoratori, così com'era stata concepita nel Medioevo, nel quale non esistevano veri e propri problemi operai, non corrispondeva più alle trasformazioni economiche, politiche e sociali dei nuovi tempi.
Il suo fallimento maturò a Firenze la necessità di ritornare al regime oligarchico e poi di passare alla Signoria. La causa prima di tale trasformazione istituzionale, tuttavia, è da ricercare nell'incapacità del governo popolare – minato dalle lotte e dalle critiche interne – di prevedere e di resistere alle fulminee aggressioni espansionistiche dei Visconti, che mettevano in grande pericolo l'esistenza stessa del Comune (A. Anzilotti, La crisi costituzionale della Repubblica Fiorentina, Sansoni, Firenze 1912. H. Baron, La rinascita dell'etica statale romana nell'umanesimo fiorentino del Quattrocento, in "Civiltà moderna", III, 1934; Id., Lo sfondo storico del Rinascimento fiorentino, in "Rinascita", I, 1938).
Sembrò che a Firenze si dovesse stabilire una forte oligarchia come a Venezia. Le famiglie degli Uzzano, dei Capponi, dei Valori, degli Strozzi e di altri risolvettero importanti problemi fra i quali la conquista di Pisa e di Livorno, liberarono i fiorentini dalla dipendenza commerciale marittima di Venezia e di Genova, ma fallirono all'interno proprio perché non presero in considerazione i bisogni economici e politici del proletariato, e spianarono la via alla Signoria dei Medici.
Questi ultimi, sostiene il Barbadoro, trionfarono perché capirono che nel Quattrocento non era più possibile governare Firenze senza appoggiarsi a «quelle correnti popolari che erano rimaste sempre escluse dallo Stato, che avevano fatto inutilmente la rivoluzione dei Ciompi e che tuttavia denunziavano la crisi del Comune, incapace di reggersi sul privilegio di pochi partecipanti» (Firenze e i Medici nella storia d'Italia, in Problemi storici e orientamenti storiografici, Como 1942, p. 497).
Un'altra ragione assicurò il successo dei Medici: la capacità di dare alla loro politica un carattere non più fiorentino, come avevano fatto gli oligarchici, ma toscano, sì che tutte le città conquistate si sentirono uguagliate a Firenze.

 

I Medici crearono una comune coscienza di patria nelle terre sottomesse e superarono l'egoismo municipale di Firenze per una più larga concezione statale. È indubbio che la parzialità del ristretto ceto dei reggitori rimaneva insopportabile agli esclusi di dentro e ai sottoposti di fuori: comune e repubblica — e quindi la tanto conclamata libertà — erano parole vuote, rimaste a indicare per forza di abitudine una realtà svanita.

 

B. Barbadoro, Firenze e i Medici nella storia d'Italia, in Problemi storici e orientamenti storiografici, Como 1942, p. 498.

 

La politica estera di Firenze non muta con il cambiare dei governi e degli uomini, resta costante perché s'ispira agli interessi permanenti di tutte le classi e ubbidisce alla sua posizione geografica. Due sono i suoi obiettivi: controllo delle vie commerciali in funzione degli intensi traffici, che portò Firenze a conquistare tutta la Toscana; opposizione alla formazione di grandi Stati che fatalmente avrebbero bloccato le sue comunicazioni. Per queste ragioni Firenze si oppose all'espansionismo di Bertrando del Poggetto e di Egidio Albornoz, degli Scaligeri e dei Visconti, di Ladislao e di Venezia, e si eresse a principale protagonista della politica di equilibrio. In quanto i Medici sostennero e fecero prevalere questa politica, furono considerati i difensori della libertà e della pace italiana de XV secolo.

 

Cosimo dei Medici fu il massimo artefice di quella pace di Lodi (1454) che avviò al sistema dell'equilibrio; in questo modo egli impersonò la funzione di Firenze nella storia d'Italia, in piena coerenza coi postulati della vecchia politica guelfa. Appunto per la difesa fiorentina contro la minaccia di un primato, che non veniva più da Milano ma da Venezia, Cosimo partecipò, senza personali ambizioni, alla guerra accesa per la successione viscontea, spostandosi dalla tradizionale alleanza veneziana ed unendosi a Francesco Sforza. E dello Sforza rese possibile il consolidamento nel ducato milanese; ma il nuovo signore di Lombardia recedeva dalla politica espansionistica del precedente periodo visconteo e diveniva presidio dell'equilibrio contro le non sopite ambizioni veneziane. Invertite le parti nel Settentrione d'Italia, il rivolgimento di Cosimo, nonché provvedere alle necessità del momento, preparò il sistema degli stati italiani dopo un secolo e mezzo di lotte senza proporzionali risultati. Pertanto la politica medicea s'informò a rapporti di buon vicinato con altri potentati della Penisola per salvaguardare l'autonomia fiorentina e la pace d'Italia.

 

B. Barbadoro, Firenze e i Medici nella storia d'Italia, in Problemi storici e orientamenti storiografici, Como 1942, p. 500.

 

L'unitarismo dei Visconti

 

Fra i protagonisti della politica italiana di questo periodo, Milano, senza dubbio, rappresenta «più continuatamente e più energicamente di ogni altra forza politica, il senso ultimo della esigenza unitaria che stava rivelandosi in mezzo al disordine della penisola» (N. Valeri, L'Italia nell'età dei Principati, Mondadori, Milano 1949, p. 95).
Sotto la signoria dei Visconti, conquistò le città, le vie e i mercati della Lombardia, organizzò un forte Stato accentrato e cercò di estendere con Gian Galeazzo e Filippo Maria il suo dominio nell'Italia settentrionale e centrale. Il punto di partenza di questa politica è la situazione interna della città: essa conta più di 200.000 abitanti e ha bisogno di un territorio di sfruttamento molto più vasto delle altre città, che hanno appena un decimo della sua popolazione; deve garantire materie prime, mercati e vie di comunicazione a industriali e commercianti; deve troncare i continui tentativi autonomistici delle città sottomesse o minacciate, attratte dalle Leghe antiviscontee.
Lo Stato forte e accentrato, capace di garantire la pace all'interno e gli interessi dell'intraprendente borghesia, la conquista di strade, mercati e porti, trovano l'interprete più geniale in Gian Galeazzo Visconti, «la personalità più originale e vigorosa del secolo XIV». La sua grandezza, dice Valeri a partire dalla sua discutibile prospettiva unitaristica, consiste nel fatto che, mentre gli altri Stati italiani contemporanei agirono come «centri di vita politica specifica e differenziata» e costituirono «una somma di storie locali», nell'opera di Gian Galeazzo si delinea chiaramente «il prologo della grande gesta unitaria».

 

Nella storia d'Italia, cioè nella storia degli sforzi che per varie vie cooperarono alla costituzione di uno Stato unitario, gli altri Stati italiani rientrano per quell'aspetto della loro attività che contribuì, in qualche modo, allo sviluppo dello Stato dei Visconti, in cui già si delineava chiaramente il prologo della grande gesta unitaria. Vi entrano, cioè, solo mediatamente, come materiali incoerenti che la forza espansiva dei signori di Milano seppe plasmare e assimilare. Ma anche come oppositori ad essi. Vale a dire come forze del vecchio mondo, ancora ben vive e vigorose, costituenti quasi le ombre del quadro necessarie a dar risalto alle luci o, per dirla in termini dialettici, come il limite contro il quale lottando la dinamica signoria dei Visconti acquistò consapevolezza sempre maggiore del suo destino. Vi entrano, quindi, le città che alimentarono successivamente di sé l'organismo visconteo, quali Verona, Vicenza, Padova, Asti, Messandria, Genova, Pisa, Siena, Perugia, Bologna; le formazioni politiche che si opposero all'ascesa del biscione — Firenze, il dominio della Chiesa, e seppure in misura minore, i Savoia e Venezia — i grandi Stati, come la Francia, Napoli, l'Impero, che a quel processo contribuirono col gioco alterno delle alleanze e delle ostilità; le classi so- ciali e le famiglie e gli individui costituenti il nucleo del dominio visconteo, che vi collaborarono col favore ai dominatori e sollecitando, con la resistenza, la loro virtù politica. Tutte queste forze, pur agendo sotto l'impulso di preoccupazioni assai diverse, esaltarono l'inventiva dei capi, disciplinarono la energia militare, armarono l'orgoglio dei sudditi, vinti, nel loro eroismo o nella loro indifferenza o consapevolezza, dall'irresistibile fascino della guerra e della vittoria: accelerarono in una parola, quel processo di accentramento e di fusione delle anarchiche energie, che culminò, alla fine del secolo, col tentativo del primo duca di unificare l'Italia settentrionale e centrale sotto il suo dominio.

 

N. Valeri, L'Italia nell'età dei Principati, Mondadori, Milano 1949, p. 96.

 

Il programma unitario dei Visconti, per quanto bene avviato, non fu coronato da successo, fallì con Gian Galeazzo non solo per la sua immatura morte ma soprattutto per la tenace e irriducibile resistenza delle città conquistate e minacciate. Il Ducato si reggeva solo per l'abilità e l'energia di un uomo eccezionale ma non per la coscienza di una compenetrazione d'interessi delle città sottomesse. Fallì anche con Filippo Maria non perché al duca difettassero capacità e mezzi ma soprattutto per la decisa e forte opposizione di Venezia, proiettata ormai alla conquista della terraferma. La sconfitta di Maclodio e la pace di Ferrara segnarono la definitiva fine della politica unitaria dei Visconti.

 

Alla metà del XV secolo Milano, passata agli Sforza, in conseguenza delle mire espansionistiche veneziane e delle pretese francesi, rinunzia all'espansione e sarà la sostenitrice della conservazione dello status quo. Tale scelta era strategica per la nuova dinastia, che aveva bisogno di stabilità per consolidare il proprio controllo sul Ducato.

 

L'espansionismo di Venezia

 

Fino al XV secolo Venezia non prende parte attiva alle vicende degli Stati italiani, non s'interessa delle lotte tra guelfi e ghibellini, tra Papato e Impero, vive e cresce su se stessa e di se stessa; non è neanche agitata da ondate rivoluzionarie di classi e di partiti, ma, organizzata attorno a un robusto patriziato omogeneo, è assorbita completamente dalle lucrose attività mercantili e marinare.
Grande – dice Volpe – fu in quel periodo l'opera del patriziato: creò robuste strutture di uno Stato che doveva durare tanti secoli, frenò gradatamente, metodicamente ogni ambiziosa velleità dei suoi membri, annullò nel Dogado ogni traccia di antiche prerogative familiari, definì e limitò i poteri del doge, si premunì del pericolo che egli diventasse esponente di un partito popolaresco e si facesse una base propria come altrove (G. Volpe, L'Italia e Venezia, in La civiltà veneziana nel Trecento, Sansoni, Firenze 1956, p. 41).
La "Serrata del Gran Consiglio" al principio del Trecento volle significare la difesa di questo robusto e virtuoso patriziato da ogni arbitraria infiltrazione che ne potesse menomare l'integrità e l'efficienza. Fu un atto che provocò reazioni e congiure ma che per lunghi secoli mise al sicuro Venezia da tutti i pericoli dal basso e dall'alto e le procurò benessere, potenza ed espansione. Machiavelli rese omaggio alla saggezza di questo patriziato che seppe governare con leggi che armonizzavano gli interessi pubblici e privati, il cittadino e lo Stato.
Nel Trecento Venezia inizia a dar vita a un dominio territoriale in Italia allargando la sua protezione dai centri dell'alto Adriatico (tranne Trieste), a Spalato, a Sebenico e a quasi tutta la Dalmazia, mentre sul mare, nel Mediterraneo orientale, era impegnata in una lunga guerra con Genova per il problema della supremazia, guerra che si concluse nel 1381 con la pace di Torino, nella quale, sebbene vinta, trovò la forza per risorgere.

 

La pace di Torino, sebbene trovasse la Repubblica sanguinante di ferite, non fu tuttavia, per essa, pace da vinti. Non segnò un declino, come per Genova, ma l'inizio di nuova e maggiore ascesa. Essa aveva riserve di forze e possibilità assai maggiori che non avesse la rivale, rinserrata tra monti e mare, lacerata spesso da fazioni e oscillante tra libertà e Signoria, premuta ai fianchi e alle spalle da Stati, più forti di essa, cioè il Regno di Aragona, il Regno di Francia e i Visconti di Milano, malferma anche in Oriente dove non aveva le solide basi insulari, che vi aveva Venezia. Venezia era un'isola: ma quanto spazio alle sue spalle, quante vie al suo commercio col retroterra che andava fino al Danubio, quale frammentarietà e quindi debolezza politica nella regione vicina, o almeno facilità di manovra per utilizzare le forze favorevoli, contenere, debellare quelle contrarie. Si vede tutto questo tra il '300 e il '400.

 

G. Volpe, L'Italia e Venezia, in La civiltà veneziana nel Trecento, Sansoni, Firenze 1956, p. 50

 

Durante il XIV secolo, in cui l'Italia settentrionale è oggetto delle mire espansionistiche degli Asburgo, degli Scaligeri, dei Carraresi e dei Visconti, Venezia fece una politica di vigilante astensione, ma con la ferma volontà di difendere i suoi interessi nel retroterra. Non aderì ad alcuna delle numerose Leghe pro o contro i Visconti, non prese impegni definitivi con nessuno, non si alleò con i Visconti contro i suoi nemici veneti perché temeva il loro ingrandimento, e neanche con Firenze perché questa proteggeva i Carraresi padovani e coltivava rapporti di amicizia con l'Ungheria, sua nemica mortale nell'Adriatico; non fece una politica di principi ideologici ma si fece guidare dal realismo e dal calcolo politico.
S'interessò alle cose della terraferma quando s'accorse che l'ingrandimento degli altri poteva soffocarla, ma lo fece indirettamente, larvatamente, esercitando pressioni economiche, poiché aveva il monopolio di alcuni commerci.
Venezia passò da una politica di vigilante difesa all'espansione territoriale al principio del XV secolo, dopo la morte di Gian Galeazzo Visconti, occupando Verona, Vicenza e Padova; la causa si deve ricercare nella necessità di difesa e nell'avanzata turca, che minacciava di toglierle i rifornimenti di grano. Il raggiungimento dell'Adda e di Ravenna, sia pure per ragioni difensive, segna la terza fase della politica di terraferma veneziana, quella offensiva e unitaria, che alla morte di Filippo Maria Visconti la spinse a occupare Milano ma che non si poté realizzare a causa dell'alleanza tra i Medici e gli Sforza.
È stato posto il problema se a Venezia convenisse di più curare la sua potenza marittima che intraprendere l'espansione in Italia; in realtà, secondo il Volpe, questa alternativa non c'era.

 

Certo Venezia aveva attinto dal mare la sua forza e la sua ricchezza; ma il mare si faceva all'orizzonte minaccioso. Il raggio dell'azione veneziana da quella parte si accorciava. Bisognava allungarlo dall'altra parte. Non solo: come la forza e la ricchezza attinte dal mare furono utili per creare lo Stato di terraferma, così lo Stato di terraferma fu utile per conservare quel che si poté del dominio del mare. Venezia dové all'uno e all'altro se poté mantenersi liberissima nel tempo che tutta Italia crollò in signoria o tutela straniera. Mare e terra si condizionavano. Fu questo il giudizio anche di scrittori politici posteriori, come il piemontese Botero, fra il '500 e il '600: se le forze acquistate in terra non avessero sostenuto le forze di mare, difficilmente avrebbero i Veneziani conservato le isole.

 

G. Volpe, L'Italia e Venezia, in La civiltà veneziana nel Trecento, Sansoni, Firenze 1956, p. 27.

 

Per il Valeri Venezia fallì nell'unificazione italiana per l'intima e irriducibile contraddizione che era alla base della sua politica.

 

Venezia non poteva effettivamente appartenere in modo permanente all'indirizzo che patrocinava l'equilibrio, perché essendo essa la più forte formazione italiana, non poteva costantemente rinunciare ad allargare il suo dominio in modo proporzionale alle sue effettive forze, ogni qualvolta le si presentava l'opportunità. E non all'indirizzo monarchico, perché Venezia non avrebbe mai consentito né di farsi assorbire da un potente stato che avesse unificato la penisola, né di costruire, essa, una monarchia italiana, perché era una libera repubblica e fioriva come tale, e godeva – come riconobbe Machiavelli – «l'inclinazione dei popoli», governandoli piuttosto mediante il prestigio e il rispetto che con la forza, come pur sarebbe stato necessario se avesse conquistato tutta l'Italia o una notevole parte di essa.

 

N. Valeri, Venezia nella crisi italiana del Rinascimento, in La civiltà veneziana del Quattrocento, Le Monnier, Firenze 1957, p. 32.

 

Le analogie fra Stati regionali italiani e monarchie nazionali europee

 

Lo storico britannico John Law, particolarmente attento all'evoluzione delle forme istituzionali e alle sperimentazioni del potere fra XV e XVI secolo, imposta un collegamento e un confronto tra monarchie nazionali europee e Stati regionali italiani.
In particolare, egli ridimensiona l'opinione dello storico svizzero Jacob Burckhardt (1818-97), il quale riteneva che gli Stati italiani del Quattrocento fossero di gran lunga all'avanguardia nell'opera di rafforzamento dell'autorità del sovrano e della sua capacità di controllo di ogni aspetto della vita dello Stato stesso.
Secondo il Law, la realtà italiana non era differente rispetto a quella dell'Inghilterra, della Francia o delle monarchie iberiche: ciò che cambiava era l'estensione territoriale degli Stati della penisola che, essendo assai più esigua di quella delle altre monarchie nazionali europee, consentiva l'esercizio di un'autorità più capillare. Per il resto, lo storico britannico vede nel comportamento del monarca italiano la stessa tendenza al rafforzamento dell'autorità della corte e del potere centrale presente anche negli altri Stati nazionali europei.

 

Da questo punto di vista si ritiene anche che il principe del Rinascimento abbia sfidato le libertà "medioevali" godute dalla nobiltà, dalla Chiesa e dalle corporazioni, per sviluppare più organicamente i suoi scopi imponendo la propria autorità attraverso una burocrazia più sviluppata e professionale. Questa interpretazione deve molto delle sue origini a Burckhardt, che aveva descritto lo Stato italiano dei secoli XV e XVI come il «risultato della riflessione e del calcolo»: lo Stato era «un'opera d'arte». Secondo Burckhardt, i signori del Rinascimento, come gli artisti e i letterati contemporanei, sarebbero stati liberi dalle restrizioni loro imposte nel mondo medievale: i governanti avrebbero potuto impegnarsi meglio nel perseguimento dei loro scopi e la loro autorità sarebbe stata meno limitata e più centralizzata; essi inoltre avrebbero dato prova di una crescente padronanza delle tecniche e degli strumenti di governo e si sarebbero fatti più accorti nella valutazione dell'importanza della propaganda politica e del cerimoniale pubblico di corte. Ma dei dubbi sulla validità di queste tesi sorgono quasi immediatamente quando si considera la trattazione che Burckhardt fa delle signorie dell'Italia del Rinascimento, che tende ad essere prevalentemente aneddotica e a privilegiare le singole personalità sulle scelte politiche; tuttavia delle ricerche più recenti sembrano aver confermato almeno alcune delle conclusioni di Burckhardt, anche se nell'opera dello storico svizzero gli sviluppi nella forma statuale non sono attribuiti soltanto ai principati ma anche ai governi repubblicani. Nel XV secolo, ad esempio, i governanti potevano introdurre delle disposizioni di legge, istituire magistrati e aiutare i loro sudditi negli sforzi di combattere le minacce della carestia e delle malattie. Alfonso V favorì la costruzione di un grande ospedale a Palermo nel 1429, come del resto fece anche Francesco Sforza a Milano nel 1456 [...]. Per molti osservatori contemporanei, come Machiavelli e Castiglione, e per le generazioni successive, i primi anni del XVI secolo hanno costituito per l'Italia un periodo catastrofico politicamente e militarmente, un periodo che ha segnato la fine del Rinascimento. Non è così per la Francia, l'Inghilterra, la Spagna e per tutto l'impero asburgico. Gli storici di queste monarchie hanno considerato tradizionalmente questo come un periodo di recupero e di espansione in termini di autorità e di frontiere (interne ed esterne) dello Stato. Le corti e la propaganda che si incentrano attorno a una generazione di governanti – sovrani come Isabella di Castiglia o Enrico VIII di Inghilterra – sono state studiate assiduamente e persino ossequiosamente. In certi casi (e senz'altro in Gran Bretagna) l'idea che qui si siano verificati dei cambiamenti decisivi in direzione della modernità è entrata nei manuali scolastici per ogni grado di studi e sembra destinata a restarvi per generazioni.

 

J. Law, Il principe del Rinascimento, in L'uomo del Rinascimento, a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 30-31; 40-41.