Lezioni



CLASSE   III   -   Testi di Storia (1)

 

dal comune alla signoria

 

 

FONTI

 

 

L'espansione della Signoria viscontea all'epoca del governo di Gian Galeazzo

 

La narrazione del cronista fiorentino Gregorio Dati copre un arco di anni che si estende dal 1380 al 1404: anni che vedono la progressiva espansione della dominazione viscontea, all'epoca della Signoria di Gian Galeazzo Visconti (1385-1402), proprio nell'area toscana e in aperto contrasto con la Repubblica fiorentina, direttamente minacciata dalla vigorosa serie di campagne militari promosse dal Signore di Milano.
Il cronista, dando voce alle ansie e ai timori della classe dirigente fiorentina, ancora formalmente estranea all'esperienza politica del governo signorile, rivela un evidente risentimento nei confronti di Visconti, di cui condanna la spregiudicatezza e la sete di potere. Il disprezzo spinge Gregorio Dati a definire Gian Galeazzo, che era duca di Milano con riconoscimento imperiale sin dal 1395, con il titolo di «Conte di Vertù», che derivava da una piccola contea francese che era stata concessa ai Visconti dal re di Francia Carlo V nella seconda metà del XIV secolo. Il Signore di Milano viene poi presentato come un feroce tiranno, capace di qualsiasi inganno e tradimento pur di espandere la propria autorità ai danni delle città e dei potentati limitrofi al suo.

 

Erano in quel tempo in Lombardia certi altri tiranni e signori de' quali erano massimamente grandi e belle signorie, di buone e magnifiche cittadi1 e di molte castella e ville; quello della casa della Scala2, signore di Verona, e quello da Carrara, signore di Padova, i quali siccome erano insieme vicini, così già lungo tempo avevano conservato buona amicizia con pace e con amore [...]. Questo Conte di Vertù3, sotto specie4 d'amicizia, sottilmente e fraudolentemente corruppe l'animo di ciascuno di loro, in segreto profferendosi5 e ricordando loro antiche nimicizie6 e mostrando a ciascuno che era tempo a vendicare sue ragioni e ciascuno de' detti due Signori si credeva avere il detto Conte dal suo7; e siccome il nimico di Dio dà modi assai che è agevole cosa a cominciare piccola favilla [che] fa poi gran foco8, così l'uno e l'altro venne a ridomandare certe castella di brighe antiche e a poco a poco tanto venne che ciascuno di loro si mise in punto con suo sforzo e sentivansi danari assai9 [...]; non aveva misura la spesa e l'esercito e le carra10 e il carriaggio e gli armamenti, che non si ricordava simili di gran tempo a drieto11. Dalla parte del Padovano erano duchi e capitani dell'oste12 messer Giovanni d'Azo degli Ubaldini13 con molta buona gente d'arme d'Italiani e messer Giovanni d'Aguto14 con tutti buoni Inghilesi15 che erano in Italia, e dalla parte del Veronese erano duchi e capitani tedeschi con molta nobile gente e forti del loro corpo. E venuti al tempo della battaglia il Conte di Vertù, molto segretamente dava aiuto e favore a ciascuna parte per modo che di nicistà16 era che quello che perdesse fusse sanza rimedio disfatto. La fortuna concedette che doppo grande ed aspra battaglia la parte degli Italiani e degli Inghilesi sotto que' due savi duchi vinsono17 più per arte e per sapere che per forza d'arme, e messo in rotta quello di Verona, fidandosi del Conte di Vertù che gli si mostrava amico, si rendé18 nelle mani sue e del suo capitano e raccomandandosi a lui esso lo prese e con false promesse gli tolse la città di Verona, mostrando che la teneva per lui tanto che19 egli vi si vidde forte e quello signore di Verona essendone fuori morì assai miseramente in Romagna, e tennesi che20 gli fusse dato a bere veleno: e così finì la signoria della Scala di Verona e delle sue terre e pervenne nelle mani del Conte di Vertù, il quale, senza indugio, mosse lite e cagioni contro21 il Padovano e trovossi tanto forte e colui stracco22 e senza aiuto che in poco tempo consumò la sua forza e convenne che fusse vinto e perdesse la terra, e fu preso il Signore vecchio e suo figlio messer Francesco si fuggi a Firenze perché erano sempre stati amici.

 

1. città. – 2. la dinastia degli Scaligeri, i Signori di Verona. – 3. è l'appellativo di Gian Galeazzo Visconti, insignito dal re di Francia Carlo V della contea francese di Vertù. – 4. con apparenza. – 5. offrendo il proprio aiuto. – 6. inimicizie. – 7. dalla sua parte. – 8. il diavolo favorisce lo sviluppo di un grande incendio da una piccola scintilla. – 9. avanzò pretese su certi castelli contesi in passato e, a poco a poco, ciascuno di loro si impegnò al massimo nella preparazione della guerra con grande dispendio di denaro. – 10. i carri. – 11. indietro. – 12. esercito. – 13. Giovanni Azzo degli Ubaldini, uomo d'arme al soldo dei Carraresi. – 14. John Hackwood, capitano di ventura inglese al servizio dei Signori di Padova. – 15. Inglesi. – 16. in maniera tale per cui necessariamente. – 17. vinsero. – 18. si consegnò. – 19. fino a che. – 20. si diede per certo che. – 21. avanzò pretesti e accuse per attaccare. – 22. debole.

 

G. Dati, Istoria di Firenze dal 1380 al 1404, L. Pratesi - C. Tonti, Norcia 1904, pp. 24-26.

 

La città di Firenze accoglie con gioia la notizia della morte di Gian Galeazzo Visconti

 

Nei suoi Historiarum Fiorentini populi libri XII, dedicati alle vicende storiche legate alla città di Firenze (con particolare attenzione ai secoli XIV e XV), l'umanista toscano Leonardo Bruni ci ha lasciato anche numerose testimonianze circa la preoccupazione con la quale in Toscana si assisteva all'ascesa inarrestabile di Gian Galeazzo Visconti.
Attento uomo politico e fine conoscitore della diplomazia, anche Leonardo Bruni, al pari di Gregorio Dati, sottolinea della personalità del Signore di Milano la grande disponibilità all'inganno e al tradimento.
Bruni aveva ricoperto negli anni 1427-44 l'incarico di cancelliere della Repubblica fiorentina (una sorta di Ministero degli affari esteri) ed era profondamente legato ai valori della tradizione repubblicana, assai vivi e condivisi a Firenze. Egli vede nel Signore di Milano il nemico per eccellenza delle libere istituzioni che Firenze si era data e tende, quindi, ad attribuire un valore e un significato simbolici alla personalità di Visconti. Il Signore di Milano, per lui, rappresenta l'emblema della tirannide dispotica e feroce, disposta a tutto pur di raggiungere i suoi scopi.
A un simile regime si contrappone la Firenze repubblicana, fiera e orgogliosa della libertà che le sue istituzioni garantivano a tutti i cittadini.

 

A Bologna dopo la tornata degli usciti1 si crearono certi magistrati2 de' cittadini, che dimostravano forma di libertà e di repubblica; e così aveva promesso il duca Giovan Galeazzo agli usciti. Ma durò questa loro ricreazione o letizia duo o tre dì; perocché3 certi condottieri, accompagnati da una gente eletta, corsono la terra4, e chiamato il nome del duca Giovan Galeazzo, diposono5 il magistrato de' cittadini e presono6 pel duca interamente il dominio. E in questa maniera il popolo insieme cogli usciti furono costretti finalmente chinare i colli sotto il giogo della servitù. I fiorentini, come intesono7 l'esercito essere rotto e preso il capitano, n'ebbono8 grande travaglio9. Ma quando sentirono oltre a questo Bologna ancora essere venuta nelle mani de' nimici, ebbono molto spavento, parendo loro a ogni ora e' nimici essere presenti. Perduto il capitano e le genti, erano gli animi pieni di disperazione: e se i nimici avessero seguito10 la vittoria con prestezza11, la città correva pericolo irrimediabile: ma loro, o per negligenza o per discordia, lasciarono inutilmente passare il tempo [...].
[Firenze cerca di creare una lega con Venezia e con il papa Bonifacio IX, ma il tentativo fallisce perché i veneziani vogliono addossare solo sui fiorentini il costo della guerra. Allora Gian Galeazzo Visconti si rivolge a Venezia per ottenere la sua mediazione in vista delle trattative di pace.]
Essendo la città volta col pensiero a queste cose, sopravvenne la fama12 della morte del duca Gian Galeazzo. Questa novella fu significata13 innanzi a ogni altro da Paolo Guinisi, signore di Lucca, non la prima volta come cosa certa, ma di poi affermata come certa molto secretamente [...]. Finalmente manifestata la verità, s'intese il duca Giovan Galeazzo dopo l'avuta di Bologna14 essere malato, e di poi morto di morbo15 a Marignano, castello del Milanese [...]. Il duca Giovan Galeazzo nella sua infermità aveva sommamente desiderato la pace co' fiorentini [...]: perciocché e' considerava molto bene, che lasciava i figli piccoletti nel mezzo di grandissimi pericoli, e studiava fare la pace prima che passasse di questa vita [...]. Dalla sua morte ne seguì prestamente16 tanta mutazione di cose, che coloro i quali prima a fatica avevano alcuna speranza di salute17 grandemente cominciarono a sperare, e coloro che stimavano aver vinto, perderono ogni speranza di poter resistere.

 

1. il ritorno degli esuli. – 2. magistrature. – 3. di conseguenza. – 4. percorsero l'intero territorio. – 5. deposero. – 6. si impossessarono. – 7. non appena compresero. – 8. ebbero. – 9. dolore. – 10. avessero cercato di ottenere. – 11. rapidità. – 12. notizia. – 13. fu annunciata. – 14. dopo la conquista di Bologna. – 15. malattia. – 16. rapidamente. – 17. salvezza.

 

L. Buni, Historiarum Fiorentini populi libri XII, Le Monnier, Firenze 1860, vol. III, pp. 307-315.

 

 

 

INTERPRETAZIONI STORIOGRAFICHE

 

 

 

In molte città dell'Italia centrale e settentrionale fin dal XIII secolo comparvero le Signorie cittadine: esse erano costituite dal potere eccezionale di cui un Signore veniva investito dagli organismi comunali.
Il Signore poteva essere l'esponente più autorevole di una famiglia prestigiosa, dotata di vasto seguito nella cittadinanza per la sua ricchezza, le sue clientele; oppure poteva essere un podestà che si era conquistato la fiducia dei cittadini più autorevoli; poteva anche trattarsi di un condottiero militare che si era impadronito del governo con un colpo di mano, ottenendo solo in seguito una delega dall'autorità cittadina.
La legittimazione che i Signori ottennero dagli organismi comunali non era che un atto formale; esso non vincolava in alcun modo il loro potere, che era assoluto e che si poneva come mediazione tra gli interessi contrastanti presenti nella cittadinanza.

 

La nascita delle Signorie cittadine corrispose a una cristallizzazione e gerarchizzazione di ordini e ceti.
Ciò significò che, mentre fino al XIII secolo, all'interno dei Comuni, esisteva una certa mobilità sociale per cui era possibile migliorare le proprie condizioni economiche e accedere alle cariche politiche, dalla fine del secolo in poi si verificò una chiusura di ceto che bloccò la mobilità sociale e il ricambio delle classi dirigenti. Le classi sociali si cristallizzarono fino a costituire quei tre ordini (nobiltà, clero, terzo stato) che rimarranno fino alla Rivoluzione francese.

 

Nella costruzione delle Signorie si possono distinguere tre momenti:
 - una fase iniziale (XIII secolo) in cui il Signore si distinse nel mondo cittadino ancora diviso in vari gruppi di potere;
 - il periodo in cui la Signoria si sovrappose con un proprio apparato di potere e propri funzionari alle strutture comunali (XIV secolo);
 - la fase (XIV-XV secolo) in cui la Signoria ottenne una legittimazione imperiale o pontificia e diede vita a un cerimoniale di corte principesco.

 

Il problema della legittimazione del potere e delle prerogative signorili

 

Come era già avvenuto nel lontano XI secolo, in occasione dell'introduzione degli statuti comunali nelle principali città dell'Italia centrosettentrionale, anche per le Signorie si pose il problema della legittimazione. Infatti, quasi sempre l'autorità del Signore era stata imposta con la forza; quasi sempre essa aveva segnato la fine o perlomeno la sospensione degli ordinamenti che la città aveva autonomamente elaborato per il proprio autogoverno.

 

Lo storico Grado Giovanni Merlo sottolinea qui il fatto che il problema della legittimazione era presente fin dall'inizio, e in forma quasi assillante, ai nuovi Signori.
Duplice fu il passaggio attraverso il quale si giunse a una piena stabilizzazione (almeno dal punto di vista dell'aspetto formale) di questa istituzione.
In una prima fase l'autorità del Signore ricevette una legittimazione «dal basso», attraverso una deliberazione ufficiale degli organismi comunali: essi riconoscevano la necessità di conferire un potere pluriennale a una sola persona, abrogando di fatto i precedenti assetti istituzionali, così da superare una situazione interna caotica e turbolenta.
Successivamente i Signori si rivolsero, per una legittimazione «dall'alto» e formale (quindi decisiva per un pieno riconoscimento della loro autorità), alle due sole istituzioni (istituzioni universali e pertanto slegate da un ben definito contesto politico o territoriale) che l'avrebbero potuta concedere: il Papato e l'Impero, le uniche a poter attribuire tale patente di legittimità attraverso il ricorso ai cosiddetti «vicariati» imperiali o apostolici. Lo fecero in modo tale da legare a sé le neonate istituzioni signorili, che spesso s'inserirono nel complesso intreccio degli equilibri e dei contrasti esistenti fra Impero e Santa Sede (soprattutto all'epoca del pontificato di Giovanni XXII e del governo dell'imperatore Ludovico IV il Bavaro).

 

Gli esempi finora fatti non esauriscono la ricca tipologia dei processi attraverso cui le signorie cittadine si formarono. Dappertutto la «signoria» si afferma, quando si rompe la consuetudine della assai breve durata delle alte magistrature ordinarie e straordinarie con l'assegnazione pluriennale o a vita di un supremo potere politico a un magistrato o signore, mettendolo in grado di trasmettere il potere ad altri membri della sua stessa famiglia. Ciò avveniva, formalmente, attraverso una delega data dagli organismi cittadini: una delega che era una legittimazione dal basso. A ciò seguì una legittimazione imperiale o, successivamente, per le terre che la chiesa di Roma voleva sottoporre alla propria coordinazione politica, una legittimazione papale, espressa per mezzo della concessione del «vicariato imperiale» o del «vicariato apostolico». Sul piano formale i «vicariati» stabilivano un raccordo con l'impero o il papato. Di fatto sanzionavano dall'alto forme di potere espressesi in modo autonomo e già ampiamente operanti, favorendo, semmai, il progressivo distanziamento tra esse e la società che inquadravano. La signoria cittadina da espediente straordinario per rispondere ad esigenze di protezione da pericoli interni ed esterni, di collegamento con altre forze (urbane e non), di prevalenza di un gruppo o di una classe, tendeva a ordinare la struttura statuale.

 

G. Tabacco - G.G. Merlo, Medioevo, Il Mulino, Bologna 1989, pp. 511-512.

 

La Signoria come strumento di difesa da nemici interni ed esterni

 

Luigi Simeoni ha sostenuto che le origini della Signoria cambiano da città a città, tuttavia hanno un fondo comune nell'insufficienza delle istituzioni comunali a eliminare le discordie, i contrasti e le lotte, che alla fine del Duecento travagliavano la città in conseguenza della penetrazione e dell'ascesa di nuovi ceti, e ad allontanare le minacce di un'invasione esterna, dovuta soprattutto all'opera di fuoriusciti e proscritti.

 

S'inizia così in forma temporanea e suggerita dal bisogno del momento la prima autorità, più di fatto che di nome, di un capo che la esercita in difesa della situazione politica conquistata dalla sua parte, che egli ha per lo più condotto alla vittoria. La pressione dei nemici esterni e l'insidia di quelli interni, quando non riescono a rovesciare la situazione così creatasi, contribuiscono invece a prolungarla, ad allargare i poteri del capo e infine a dare ad essi forma legale con conferimento di un titolo che ne qualifichi le funzioni e con decreti che ne precisino l'autorità per lo più, in diritto, illuminata. Riconosciuta questa origine delle prime e principali Signorie quale funzione pubblica di difesa, l'accusa di violenza e intrigo personale cade da sé, senza per questo credere che il nuovo capo abbia ottenuto la sua posizione speciale per le sole qualità di intelligenza ed energia utili alla sua parte, e non anche per l'abilità ambiziosa con la quale ha saputo emergere; giacché in politica la virtù pura e scrupolosa non ha mai ottenuto successo, e questo meno che mai poteva avvenire in un'epoca di rivalità e di costumi grossolani e violenti. Questa prima Signoria che comincia spesso senza una designazione ufficiale, assume, quando la ottiene, titoli vari, che hanno una mediocre importanza, in quanto, essendovi sola urgenza di tener compatta e perciò forte la parte al potere, essi servono poco più che ad indicare quale è il nucleo organizzativo più forte della città, o meglio della parte sulla quale si fonda la nuova Signoria.

 

L. Simeoni, Signorie e Principati, in E. Rota, Questioni di Storia Medievale, Marzorati, Milano 1956, p. 417.

 

La Signoria come evoluzione costituzionale della città italiana

 

Le Signorie si svilupparono dalle precedenti strutture comunali secondo diversi modi di formazione: il prolungamento della carica di podestà, la legittimazione di un atto di violenza compiuto da un condottiero, il riconoscimento dell'autorità di un cittadino ricco e influente. Non cambiò la sostanza: si trattava di un governo più forte e autorevole in grado di superare la paralisi determinata dal contrasto tra le fazioni politiche presenti nella vita cittadina. Giorgio Chittolini descrive così questa dinamica di rafforzamento del potere che esautorò le magistrature tradizionali:

 

Si affermò [...] la tendenza a sostituire alle vecchie forme di governo repubblicane, sempre più paralizzate dai contrasti e prive di autorità – soprattutto dove, accanto agli organi di governo comunali, erano cresciute parallele magistrature di popolo – il potere di uno solo, che avesse per di più autorità maggiore del podestà, e fosse in grado di reggere con energia il comune. Si fece frequente la consuetudine di conferire le più alte cariche di governo (la cui durata era un tempo rigidamente limitata a sei mesi o a un anno) per periodi più lunghi, o di rinnovarla frequentemente alle medesime persone: spesso i capi della fazione dominante, talora uno straniero che si ponesse al di sopra dei partiti locali. Da ripetuti conferimenti della carica di podestà nacquero così le signorie degli Estensi a Ferrara, dei da Romano a Verona. Nei comuni in cui prevaleva l'elemento popolare fu la magistratura di «capitano del popolo» a offrire la prima base costituzionale all'autorità del futuro signore: a Milano per i Della Torre e i Visconti, a Mantova per i Bonaccolsi e i Gonzaga, a Verona per i Della Scala. Ma a poco a poco i signori più forti si fecero conferire queste cariche a titolo vitalizio, si intitolarono domini, ottennero la facoltà di nominare un successore, introducendo così il principio ereditario e fondando le prime dinastie. Era la piena affermazione della signoria: una forma di governo che non ha riscontro altrove in Europa, frutto della particolarissima fisionomia ed evoluzione costituzionale della città italiana. La signoria recò un colpo decisivo alle istituzioni comunali. Formalmente esse non furono completamente cancellate. Quasi dappertutto rimasero i consigli di governo (quello «maggiore», quello ristretto degli «Anziani», dei «Sapienti» o simili), talora anche l'assemblea generale, e gli uffici dell'antico comune. Ma restavano vuota parvenza, subordinati agli organi di governo signorile o erosi all'interno dall'autorità degli uomini del signore. E nemmeno quando la fase signorile, nella maggior parte delle città centro-settentrionali, si esaurì, e quelle medesime città entrarono a far parte di stati più vasti a dimensione regionale, le istituzioni urbane, sotto la rigida tutela dei principi o delle «dominanti», poterono più riacquistare quei caratteri di ampia e libera partecipazione, di vasta espressione di differenti forze sociali, che avevano avuto in precedenza.

 

G. Chittolini, La città europea tra Medioevo e Rinascimento, in Modelli di città, Einaudi, Torino 1987, pp. 384-385.

 

Signoria e nobiltà

 

La formazione della Signoria corrispose, secondo Philip Jones, a un'affermazione di potere da parte della nobiltà, che impedì l'ascesa di altre classi sociali; lo Stato rinascimentale fu il frutto di una nuova alleanza tra nobiltà e principi, destinata a cristallizzare e a mantenere stabile l'articolazione interna della società basso-medievale.

 

La caduta del repubblicanesimo, in qualsiasi modo effettuata, direttamente o indirettamente, attraverso l'azione degli aristocratici o la reazione popolare, fu opera dei nobili. Il loro istinto e i loro interessi facevano preferire loro, fra «democrazia» e «monarchia», la speranza di dividere il loro potere con uno solo piuttosto che la necessità di dividerlo con molti. Le rivolte magnatizie contro i signori non furono azioni contro il principato, ma contro particolari «tiranni» da parte di partigiani delusi (o extrinseci ostili), spinti dall'ambizione di sostituire un capo con un altro che fosse maggiormente di loro gusto. [...] Entro una cornice di istituzioni municipali sempre più formali, la base sociale del governo andava sempre più restringendosi e aristocratizzandosi. Le organizzazioni popolari, con le loro leggi e magistrature di classe, e col tempo la stessa rappresentanza popolare vennero dovunque soppresse; i magnati furono pienamente riabilitati, e la vita politica fu ristretta alla nobiltà: la partecipazione al governo, come pure, entro certi limiti, la resistenza al malgoverno. La decisa opposizione alla signoria e il culto del repubblicanesimo rimasero, nella dottrina come nella pratica, popolari e non aristocratici; i nobili, sempre più unanimemente, si fecero fautori della monarchia, garante e sostegno della gerarchia sociale.

 

P. Jones, La riscossa aristocratica: l'Italia del Rinascimento, in Storia d'Italia, Annali II, Einaudi, Torino 1978, pp. 339; 346.

 

La Signoria come premessa dello Stato moderno

 

La costruzione della Signoria comportò una differenziazione e specializzazione delle funzioni del potere.
La finanza pubblica assunse un aspetto centrale nella riorganizzazione dello Stato. Si chiamarono esperti a ricoprire cariche pubbliche in campo amministrativo e diplomatico e anche nella gestione economica dell'apparato militare.
Il carattere fastoso della corte servì inoltre a creare un'immagine dell'autorità che si impose ai sudditi con la maestosità della costruzione, la bellezza architettonica degli edifici.
A questo proposito John Law scrive:

 

Si possono individuare [...] importanti aree di cambiamento nelle burocrazie statali e nella corte. Non solo sono sopravvissuti molti documenti dell'attività di governo per il periodo del Rinascimento, ma anche la sfera degli affari sembra essersi estesa e il grado di specializzazione appare più alto. In connessione a questi fatti, si possono individuare anche una proliferazione delle cariche pubbliche e uno sviluppo del grado di professionalità nell'ambito diplomatico e (come appurato più recentemente) nell'amministrazione militare. Uomini di particolare competenza potevano essere incaricati di occupare delle cariche nel governo, [H.] molti Stati italiani curarono sempre di più la formazione degli impiegati, per assicurarsi in particolare che la corrispondenza ufficiale venisse scritta in un buon latino classico. Ciò consente di comprendere l'utilizzazione sempre crescente degli umanisti da parte di vari regimi, dalla «signoria» dei Carrara a Padova alla corona di Napoli. Infine viene la corte, che benché sia più difficile da definire come istituzione, fatto sociale o evento, generalmente si considera come il riflesso della nuova autorità e delle più ampie ambizioni del principe del Rinascimento. I palazzi urbani e le ville suburbane e rurali edificati da dinastie quali quelle dei da Varano, degli Este e dei Montefeltro non ebbero solo una funzione pratica e sociale, ma sembrano essere serviti come specchi adulatori del principe e come strumenti della sua propaganda.

 

J. Law, Il principe del Rinascimento, in L'uomo del Rinascimento, a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 35-36.

 

Nello Stato rinascimentale si verificò un bisogno crescente di entrate soprattutto perché aumentarono le spese militari. Si cercò così di dare un carattere di regolarità al sistema di tassazione, di trovare modi sempre più sicuri di prelievo fiscale.
Questo aspetto è molto importante per comprendere i principi di funzionamento dello Stato moderno di cui la Signoria ci offre un primo approccio: man mano che si creava lo Stato come apparato (esercito, impiegati, diplomatici), amministrativo e militare, aumentavano le spese necessarie a mantenere questa struttura; l'incremento della spesa, a sua volta, poneva la necessità di un aumento dei tributi e del prelievo fiscale.
John Law sottolinea, attraverso alcune esemplificazioni, il rilievo di questo tema.

 

Quello della finanza pubblica è un argomento centrale per lo studio dello Stato del Rinascimento, ma anche se la domanda di entrate crebbe nel corso del periodo (in gran parte per via dell'incremento delle spese militari), le principali fonti di entrate a disposizione dei governi erano già state stabilite tempo prima nel Medioevo. Alcune di esse derivavano da antichi diritti rivendicati dallo Stato. Per esempio le comunità ebree erano sottoposte a una tassazione particolare. Le proprietà dei ribelli erano soggette alla confisca. La vendita del sale veniva generalmente considerata un monopolio di Stato, mentre altri diritti di regalia erano più specifici ad alcuni Stati particolari. La corona di Napoli, ad esempio, così come quella di Castiglia, rivendicava il diritto di concedere una licenza per massicce transumanze di bestiame e di pecore. Il papato tentò di dar vita a un monopolio per la produzione dell'allume dopo la scoperta delle miniere di Tolfa nel 1462. Più comuni e più importanti per la finanza pubblica'erano le imposte indirette, ma il loro valore tendeva a scendere proprio quando il governo ne aveva maggior bisogno: in tempo di guerra, epidemia o carestia. Sicché si doveva far ricorso a dei metodi di esazione che, una volta considerati «straordinari», si affermarono sempre di più nel corso del Rinascimento. La tassazione diretta venne imposta dai regimi dell'Italia centrale e del nord, mentre nel principato feudale del Piemonte-Savoia e nei regni di Napoli, Sicilia e Sardegna si seguiva la procedura di sottomettere le tasse al consenso del parlamento. Davanti all'assemblea parlamentare le richieste di tasse potevano venir giustificate in termini tradizionali di tributo feudale (anche se, mano a mano, e con sempre maggior frequenza, ci si cominciava ad appellare anche a motivazioni concernenti la sicurezza del regno).

 

J. Law, Il principe del Rinascimento, in L'uomo del Rinascimento, a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 33-34.

 

Il passaggio dalla Signoria al Principato

 

Decaduta l'ipotesi, o meglio la propensione, a rintracciare nel Principato, considerato sotto il profilo formale e istituzionale, l'antesignano di quell'ideale di unificazione che avrebbe dovuto realizzarsi in capo a un processo snodatosi nel corso dei secoli successivi, l'attenzione della storiografia si è spostata, e si è rivolta a vagliare essenzialmente il mutamento intervenuto nei rapporti di forza e il diverso ruolo assunto da figure sociali ed entità politico-geografiche in occasione di questa svolta fondamentale.
Giuseppe Galasso, esaminando l'evolversi delle istituzioni e il modificarsi delle gerarchie sociali dal Medioevo all'età contemporanea, ha riassunto come segue i punti nodali di tale passaggio:

 

Il mutamento di titolo del potere del signore, con le correlative implicazioni giuridico-istituzionali, era allo stesso tempo effetto e causa, segno e realtà, forma e sostanza di svolgimenti per nulla superficiali. Esso stava, innanzitutto, a significare il distacco ormai prodottosi fra il signore e la base puramente comunale e cittadina del suo potere, da un lato, e l'esaurirsi delle forze — classi e partiti — che al potere signorile avevano dato origine. Se già la signoria è, o tende ad essere un conglomerato intercomunale; se già, tra le ragioni di fondo che la promuovono, hanno un grande ruolo le necessità della difesa dei comuni minori contro l'espansione di quelli maggiori e le emergenze militari in cui gli stessi comuni maggiori spesso si ritrovano; se già la corte e il partito del signore riuniscono uomini e gruppi di città e comuni diversi sotto il segno dello stesso interesse di parte, sul quale e grazie al quale la signoria è venuta e viene crescendo; nel momento del passaggio dalla signoria al principato tutto ciò non solo diventa pienamente chiaro, ma riceve un suggello definitivo ed un impulso ulteriore.

 

G. Galasso, Le forme del potere, classi e gerarchie sociali, in Storia d'Italia,vol. I: I caratteri originali, Einaudi, Torino 1972, pp. 447-448.

 

Come fa ancora notare il Galasso, queste trasformazioni hanno investito in modo inevitabile il ruolo della città, non più centro dal quale si irradia il potere signorile; si chiude così per la città italiana una storia esemplare, protrattasi nel corso di un periodo lungo quanto proficuo in termini di progresso civile e culturale.
Le libere istituzioni cittadine, infatti, avrebbero presto lasciato il posto all'autorità indiscussa del Signore, che avrebbe promosso un rapido processo di accentramento del potere al fine di coordinare con mano ferma ogni ambito di vita sociale all'interno dei suoi domini.

 

La città non costituisce più con il suo territorio il quadro geografico del potere del signore, né fornisce, con il suo popolo e i suoi organi sovrani variamente atteggiati nell'esperienza signorile, la base politico-giuridica della signoria. Le più larghe formazioni territoriali riunite sotto lo stesso signore non sono più l'unione casuale e personale di diverse e distinte signorie nella medesima persona; viene invece reso possibile modificare l'estensione di antiche o recenti circoscrizioni (feudali o comunali), che non corrispondono alle direttrici di espansione dei comuni e delle signorie e alla realtà dei nuovi potentati che emergono dal pulviscolo particolaristico del periodo precedente.

 

G. Galasso, Le forme del potere, classi e gerarchie sociali, in Storia d'Italia,vol. I: I caratteri originali, Einaudi, Torino 1972, p. 448.