Lezioni



CLASSE   IV   -   Verifiche di Filosofia   -   La logica di Aristotele. Le scuole
ellenistiche

 

1.

 

a) Il rapporto tra felicità e virtù nell'etica aristotelica.

 

Stante la revisione del platonismo, per la quale Aristotele ha escluso che il significato della realtà sia un'idea trascendente, così anche per il fine primario, la felicità, vale che essa non possa trovarsi al di fuori dell'uomo, in un mondo separato, ma che debba inerire intimamente all'uomo e quindi proporsi come fine e bene immanente. Il bene supremo per l'uomo, perciò, il fine felicitante, potrà identificarsi con ciò che gli è primariamente peculiare, cioè con la ragione e con l'attività secondo ragione. Operare secondo ragione, tuttavia, implica l'operare secondo il criterio della virtù, cioè mediante quelle disposizioni che favoriscono la realizzazione dei fini. La felicità, pertanto, consiste in un'attività dell'anima secondo virtù. Benché, però, ogni livello dell'anima abbia una sua peculiare virtù, la virtù veramente umana è quella in cui rientra l'attività della ragione. Ora, mentre la facoltà vegetativa non impegna la ragione, la facoltà sensitiva, pur essendo di per sé irrazionale, partecipa della ragione, nella misura in cui viene temperata nei suoi appetiti propri. Si può allora parlare, a questo livello di “virtù etiche”. Quando poi si prenda in considerazione la facoltà intellettiva, allora questo sarà il campo della virtù più propriamente umana, che prenderà il nome di “virtù dianoetica”. In ordine alla felicità, al primo posto si colloca la vita condotta secondo le virtù dianoetiche, in secondo luogo quella condotta secondo le virtù etiche. La felicità della vita contemplativa, infatti, porta in qualche modo al di là dell'umano, realizzando una sorta di tangenza (non certo disumanizzante) con la divinità, la cui vita può soltanto essere vita contemplativa (pensiero di pensiero). Assimilarsi a Dio significa contemplare il vero così come Dio lo contempla, e anche, contemplare Dio, che è la suprema razionalità.

 

b) La famiglia nella politica di Aristotele.

 

Per Aristotele, invece, lo Stato scaturisce dalla stessa natura dell'uomo in quanto tale. L'uomo è naturalmente socievole. In primo luogo la natura ha distinto gli uomini in maschi e femmine, che si uniscono a formare la prima comunità, vale a dire la famiglia, per la procreazione e per il soddisfacimento dei bisogni elementari. Poiché, tuttavia, le famiglie non bastano a se stesse, sorge il villaggio e poi lo Stato. La famiglia è costituita da quattro elementi: il rapporto marito-moglie, i rapporti padre-figli, il rapporto padrone-servi, l'arte di procacciarsi le ricchezze (crematistica). Circa il terzo elemento, Aristotele ritiene che, al fine di acquisire proprietà e ricchezze, la famiglia debba disporre degli idonei strumenti, tra i quali egli considera indispensabili gli schiavi, che egli ritiene per natura portati esclusivamente a servire. Per quanto concerne il quarto punto, invece, Aristotele distingue tre modi per procurarsi beni e ricchezze: tramite caccia, pastorizia e agricoltura; tramite il baratto, cioè lo scambio di beni equivalenti; tramite un innaturale commercio in denaro, che fa uso di tutti gli strumenti idonei ad aumentare senza limiti la ricchezza. Quest'ultimo modo, detto crematistica, viene considerato pericoloso da Aristotele, in quanto per esso è facile essere portati a scambiare ciò che è un semplice mezzo di arricchimento (il denaro) con il fine dell'arricchimento stesso. Una sana economia è quella che si limita ai primi due modi di arricchimento e che tende a procurare quanto basta a soddisfare i bisogni naturali che hanno un limite fissato dalla natura stessa.

 

2.

 

a) Enuncia due proposizioni contraddittorie e discuti delle loro caratteristiche (qualità, quantità, vero/falsità).

 

«Tutte le A sono b» e «Qualche A non è b» sono due proposizioni tra loro contraddittorie. Stante infatti l'identità di soggetto e predicato, la prima è affermativa ed universale, cioè compone il predicato b con tutti i soggetti A, senza esclusione alcuna, la seconda è negativa e particolare, cioè disgiunge il predicato b da almeno uno dei soggetti A. Se, pertanto, è vero che b si dice di tutti i soggetti A, senza esclusione alcuna, se cioè la prima proposizione è vera, allora la seconda proposizione è falsa, in quanto è vero che, almeno per un caso, b non si può dire di A. Se, invece, è falso che b si possa dire di tutti i soggetti A, se cioè la prima proposizione è falsa, allora la seconda proposizione è vera, in quanto è falso che b non si possa dire di A, almeno in un caso. Stante tale relazione, le proposizioni contraddittorie (universale affermativa e particolare negativa, oppure universale negativa e particolare affermativa) saranno sempre necessariamente l'una vera e l'altra falsa.

 

b) Enuncia due proposizioni contrarie e discuti delle loro caratteristiche (qualità, quantità, vero/falsità).

 

«Tutte le A sono b» e «Nessuna A è b» sono due proposizioni tra loro contrarie. Stante infatti l'identità di soggetto e predicato, la prima è affermativa ed universale, cioè compone il predicato b con tutti i soggetti A, senza esclusione alcuna, la seconda è negativa e universale, cioè disgiunge il predicato b da tutti i soggetti A, senza eccezione alcuna. Se, pertanto, è vero che b si dice di tutti i soggetti A, senza esclusione alcuna, se cioè la prima proposizione è vera, allora la seconda proposizione è falsa, in quanto pretende in negativo la medesima universalità. Se, invece, è falso che b si dica di tutti i soggetti A, senza eccezione alcuna, se cioè la prima proposizione è falsa, allora la seconda proposizione può essere vera o falsa, in quanto nell'un caso vale quanto detto in precedenza, benché nel segno opposto, nell'altro, invece, può essere vero che in alcuni casi, ma non in tutti, b si possa dire di A mentre in alcuni casi, ma non in tutti, b non si possa dire di A. Stante tale relazione, le proposizioni contrarie (universale affermativa e universale negativa) saranno sempre necessariamente o l'una vera e l'altra falsa o entrambe false (nel caso in cui il predicato non esprima l'essenza del soggetto, ma un attributo contingente).

 

3.

 

Il cosmopolitismo e la crisi dell'animo greco.

 

La spedizione di Alessandro Magno e la conquista dell'Oriente (334-323 a. C.) produssero una svolta radicale nella vita dello spirito dei Greci. Morto improvvisamente Alessandro nel 323, il potere politico passò ai nuovi regni di Egitto, di Siria, di Macedonia e di Pergamo, e le poleis cessarono definitivamente di fare storia. I monarchi accentrarono tutto il potere nelle loro mani, si identificarono con lo Stato in modo pressoché totale e per conseguenza cancellarono ogni forma di libertà politica. Di colpo veniva distrutto il valore fondamentale della vita spirituale della Grecia classica, la polis come l'orizzonte unico della vita morale. Ora, l'uomo si trasformava improvvisamente da cittadino in suddito; l'uomo singolo non aveva più alcuna voce e assumeva un atteggiamento di neutrale disinteresse, quando non di avversione, a fronte di decisioni ormai prese senza il suo contributo. La filosofia, negata la polis, si rifugiava in un atteggiamento cosmopolita (l'uomo “cittadino del mondo”). Conseguenza di tale sforzo di appartenenza astratta al mondo fu il rifugiarsi in una prospettiva individualistica ed egoistica, di introflessione del singolo in se medesimo, alla ricerca di energie interiori capaci di offrire un nuovo scopo di vita; l'individuo apparve l'unico artefice del proprio valore e del proprio destino, signore di se stesso; la morale si costituì in modo assolutamente autonomo. La filosofia perse in vigore speculativo, ma guadagnò in estensione, nel senso che un considerevole numero di uomini poté ora rendersene partecipe.

 

4.

 

a) I criteri di verità nella Canonica epicurea.

 

“Canonica” significa l'insieme delle regole di base del sistema; più che di una logica vera e propria, si tratta di una gnoseologia che ha il compito di determinare i criteri di verità in modo propedeutico rispetto alla fisica e all'etica. Essi sono tre: la sensazione, l'anticipazione (prolessi) e i sentimenti di piacere e di dolore. Epicuro rivendica con energia la certezza e la validità oggettiva della sensazione, della quale proclama il valore di assolutezza: i sensi non ingannano; essa è tale in quanto affezione, cioè passione, che non si produce da sé, ma deve essere prodotta da ciò di cui è effetto e, quindi, ad esso corrispondente. Dalle cose, infatti, emanano complessi di atomi che costituiscono le immagini o simulacri nell'anima; il loro carattere di registrazione, pertanto, fa sì che le sensazioni posseggano tutte lo stesso valore di verità. Le cosiddette anticipazioni o prenozioni, non sono altro che rappresentazioni mentali delle cose, concetti materiali risultanti dal ripetersi delle medesime percezioni e dalla loro conservazione nella memoria; esse rimangono nella mente come un'impronta delle sensazioni passate e permettono di riconoscere in anticipo forme e caratteri delle cose senza bisogno di un contatto diretto; precedono e condizionano ogni forma di riflessione, di ragionamento e in genere ogni attività razionale: ad esse fanno riferimento i nomi. I sentimenti di piacere e di dolore sono oggettivi per le stesse ragioni per cui sono oggettive le sensazioni; oltre a discriminare il vero dal falso, essi costituiscono il criterio assiolgico per discernere il valore dal disvalore, il bene dal male, e, quindi, costituiscono l'essenziale criterio di scelta.

 

b) L'edonismo individualistico epicureo.

 

Il fondamento dell'etica epicurea è il piacere. Coerentemente con i principi materialistici, bene e male coincidono con piacere e dolore: il piacere in quanto tale è il valore, il bene e il fine. Esso può essere: stabile (catastematico) o in movimento. Il vero piacere è quello nella prima forma, quello naturale, che si presenta come assenza di dolore. Il piacere non può mai essere, di necessità, un male, perché male è soltanto il dolore. Ora, siccome numerosi piaceri (del secondo tipo) arrecano dolori, o nei mezzi necessari per procurarseli oppure negli effetti “collaterali” che essi producono, visto che il vero piacere consiste nella aponía la ragione si presenta come criterio capace di regolamentare la fruizione del piacere stesso in modo da evitare la cessazione della felicità. Sotto la forma del calcolo ragionato e della commisurazione dei piaceri, pertanto, la saggezza (phrónesis) è la virtù suprema; essa consiste nel sapersi accontentare nella soddisfazione piena del primo tipo di piaceri (naturali e necessari) e nella limitazione dei secondi (naturali e non necessari). Epicuro, in tal senso, manifesta una presa di posizione quasi ascetica di fronte alla svariata molteplicità dei piaceri. L'edonismo individualistico epicureo porta a una stima dell'amicizia, piacere essenziale alla vita felice, e alla più completa disistima della vita politica, foriera di sofferenza. L'ideale epicureo è quello di vivere nel nascondimento, lontano dal contatto con il potere, con l'ambizione, con la fama e con la gloria.