Lezioni



CLASSE   III   -   Verifiche di Filosofia   -   La sofistica e Socrate


1.


a) Lo sviluppo teoretico nei tre principi di Talete, Anassimandro e Anassimene

Quando Talete si domanda filosoficamente da dove venga e verso dove confluisca il tutto, non avendo a disposizione un termine adatto, stabilisce un paragone e identifica l' “acqua” come principio: come l'acqua è fonte di ogni vitalità, come l'acqua è l'elemento più pervasivo, così il principio che pervade il tutto e che alimenta la vita di tutto è (come l') acqua. Un'acqua del tutto impalpabile, invisibile, priva di peso, di volume. “Acqua” è il nome del principio per Talete. Con Anassimandro la filosofia raggiunge un nuovo traguardo, consistente nell'impiego del ragionamento negativo. Per Talete, infatti, l'identificazione del principio comporta un lavoro di paragone, che non riesce a staccare del tutto il discorso dalla determinazione. Anassimandro supera questa aporia del discorso filosofico introducendo un principio di valore negativo. L'indeterminato è il frutto di un'operazione razionale di enorme portata, cioè la rimozione del conosciuto in vista della delineazione in negativo dell'incognito. Il principio, così, risulta essere per Anassimandro il “tutt'altro” rispetto a ciò che fa parte dell'esperienza comune, ciò in ragione del quale, tuttavia, ogni cosa comune può manifestarsi. Con Anassimene, apparentemente, si assiste a un regresso. L'aria, infatti, sembra essere, di nuovo, un elemento determinato. A ben vedere, tuttavia, l'aria infatti, si presenta come a-tmo-sfera, che quindi non si può distinguere al proprio interno e non si può delimitare in alcun modo; essa presenta poi una dinamicità che la rende idonea a proporsi come principio, in quanto capace di compressione e di rarefazione. La novità di Anassimene consiste, appunto, nell'applicazione di un fattore dinamico al principio fondamentale della realtà.

b) L'atomo di Democrito

Secondo Democrito, l'atomo è l'unità indivisibile, ciò oltre a cui non si può procedere nella divisione delle cose, pena la contraddizione del non essere. A suo parere, in risposta a Zenone, non si può procedere all'infinito nella divisione della realtà, senza dover sopportare la conseguenza dello svanire di tutto nel non-essere, conseguenza vietata dal principio parmenideo. L'atomo è dunque l'ulteriormente indivisibile (“atomo” deve essere considerato aggettivo, non sostantivo); non si tratta di una cosa, ma di ciò che, in qualsiasi cosa, costituisce la parte irriducibile, il segmento insuperabilmente infrangibile di cui tutte le cose sono fatte. L'atomo non si distingue qualitativamente (come le omeomerie di Anassagora o le radici di Empedocle), ma soltanto quantitativamente, cioè in ragione della forma geometrica o di ciò che fa riferimento, in qualche modo, a quanto può essere misurato. Con Democrito, dunque, compare nella filosofia la distinzione tra qualità cosiddette “primarie” e qualità cosiddette “secondarie”, le une di ordine aritmetico-geometrico, le altre di ordine differentemente sensibile, “oggettive” le prime, “soggettive” le seconde.

 

2.

a) Il relativismo di Protagora

L'uomo, misura di tutte le cose, è per Protagora il supremo giudice del senso della vita, l'istitutore dei costumi e l'arbitro insindacabile delle vertenze legate alla propria natura. Tale umanismo può anche essere considerato fenomenismo, che, a sua volta fa essere il sistema di Protagora un sistema relativista. Qualsiasi acquisizione all'interno dell'orizzonte interpretativo protagoreo, infatti, nega la possibilità di proporsi come assoluto nella misura della sua dipendenza dal criterio centrale, quello dell'uomo-misura, il quale tuttavia sembra assurgere a un'indebita (e contraddittoria) pretesa di assolutezza. In base a tale relativismo il sistema protagoreo proclama l'eterogeneità e la diversità degli ideali che governano la convivenza umana, dichiarando nel contempo l'impossibilità di paragonarli fra loro: ciò, infatti, che presso un popolo è ritenuto sacrosanto, presso un altro popolo può diversamente e senza contraddizione essere ritenuto nefando; ciò che taluni stimano bello è facilmente ritenuto brutto da altri. Lo stesso vale per il giusto e l'ingiusto, il buono e il cattivo, il nobile e il vile, e così via. L'unica istanza che, a parere di Protagora, può assurgere a criterio regolativo dell'agire dell'uomo è il principio “debole” dell'utile, cioè il criterio che individua ciò che favorisce il comodo momentaneo e che, tuttavia, deve rimanere svincolato da qualsiasi considerazione di ordine morale, ma si evince soltanto attraverso l'esercizio retorico applicato alla convenienza pragmatica delle circostanze. Solo l'analisi della storia può insegnare che cosa di fatto abbia promosso l'uomo e che cosa, invece, lo abbia fatto regredire.

b) L'agnosticismo di Gorgia

Stanti le tre affermazioni fondamentali di Gorgia (nulla è; se anche qualcosa fosse, non sarebbe conoscibile; se anche qualcosa fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile), il messaggio più profondo della sua dottrina può sintetizzarsi in una forma di agnosticismo, vale a dire l'atteggiamento che sospende ogni dichiarazione, ogni giudizio e ogni presa di posizione nei confronti dell'essere e della realtà per la decisa e dichiarata impossibilità della conoscenza, dovuta alla persuasione dell'incapacità delle facoltà conoscitive dell'uomo di fronte al mondo. Volendo temperare la connotazione così negativa del pensiero gorgiano, lo si può eventualmente considerare uno scetticismo metafisico, tenendo presente che il termine “scetticismo” significa la ricerca senza limiti conseguente alla perenne insoddisfazione per i risultati raggiunti nell'ambito di qualsiasi studio. A fronte dell'agnosticismo circa la questione dell'essere, del tutto irrelato dal reale si erge il linguaggio, realtà autonoma e completamente umana, all'interno della quale tutto diviene possibile come il proprio contrario, dichiarando una potenza assoluta che coincide, in ultima analisi con l'impotenza più totale. La retorica, dunque, costituisce l'unica potenza nelle mani dell'uomo.

 

3.

a) La maieutica nel quadro del metodo socratico

Socrate ritiene che la filosofia sia un esercizio dialogico, volto al parto della verità. L'attuazione del suo discorso si articola secondo un metodo a tre fasi: l'ignoranza (non sapere), l'ironia, la maieutica (cioè l'arte ostetricia). Su richiesta dell'interlocutore, ridotto all'ignoranza attraverso le incalzanti richieste della seconda fase del metodo, inizia la terza fase, in cui Socrate, memore dell'arte materna (Fenarete esercitava l'arte della levatrice), conduce l'attonito interlocutore a risposte concise e consequenziali fino al “parto” della verità, cioè la visione finalmente chiara dell'oggetto del contendere che ha costituito la materia del dialogo. Socrate fa rimarcare, tuttavia, la propria sterilità, cioè la strutturale incapacità, da parte sua, di elaborare da sé solo un parto veritativo, ma la necessità, per lui, di trovare qualcun altro per poterlo aiutare nell'atto di produrre la verità.

b) L'intellettualismo etico di Socrate

Per i greci, in generale, virtù stava a significare il meglio della realizzazione di qualsiasi cosa, il vigore, l'essere nel pieno della forza per qualsiasi realtà, l'espressione ottimale di tutte le potenzialità di un qualcosa. Riguardo all'uomo politico, la virtù poteva essere identificata dalla sofistica nell'astuzia, nella capacità di persuadere, nell'appariscenza e nella bellezza piuttosto che nella bravura retorica. Socrate cerca di correggere questo atteggiamento di deriva del significato per trovare la formulazione risolutiva della virtù. Egli ricerca una costante che possa riscontrarsi in tutti gli atti e le qualità umane che possano riconoscersi come virtuosi, trovandola nella consapevolezza, vale a dire nel sapere circa ciò che si fa o ciò che una qualità significa. La virtù, pertanto, è scienza. In quanto scienza, la virtù è un bene che può essere conquistato da tutti e che, di conseguenza, può e deve essere insegnato. La virtù diventa l'obiettivo del vero uomo politico che, pensando al bene comune, pensa prima di tutto all'educazione degli altri uomini, perché possano rendersi partecipi della scienza, la quale costituisce il criterio dell'agire bene. Conseguenza logica, ma paradossale, di tale conclusione è che, per Socrate, nessuno è vizioso (o anche malvagio) a ragion veduta, ma può esserlo soltanto per ignoranza.