Lezioni



CLASSE   IV   -   Verifiche di Filosofia   -   Aristotele

 

1.

 

a) La causa finale.

 

È ciò in vista di cui (alla luce di cui) una sostanza è pienamente intelligibile, la causa primaria (in senso metafisico, cioè anche ultimativa) che costituisce il senso stesso della causalità degli altri ordini di cause. Il fine, in filosofia, non può coincidere con lo scopo, cioè l'obiettivo dell'azione di una sostanza, pena l'insignificanza di qualsiasi proposizione di senso metafisico. La finalità, quindi, costituisce l'orizzonte di comprensibilità delle cose (che divengono nel mondo), il contesto previo all'interno del quale esse godono di significato pieno, anche a prescindere da una loro singolare ed empirica realizzazione (come nel caso in cui un individuo, per motivi di ordine accidentale, non può realizzare appieno la propria forma). Essa è l'orizzonte di intelligibilità di una sostanza, il panorama entro il quale il suo significato si manifesta, il tessuto di relazioni che costituiscono una sostanza come un elemento integralmente comprensibile nel tutto, la condizione di senso. La finalità è un punto di partenza e, solo in seconda istanza, anche un punto di arrivo. Sulla questione del fine (o della finalità) sta o cade tutta la pregnanza della metafisica.

 

b) La sostanza come forma.

 

Significato analogo della sostanza, è il corrispettivo immanente dell'idea platonica che in Aristotele gioca il ruolo di principio di determinazione e di versante attuale delle cose. È il profilo interiore di tutto ciò che è in quanto è ciò che è, è la causa formale della sostanza, rappresenta la differenza specifica di ogni ente che si esprime nella definizione. Per designare la forma Aristotele usa la formula: “ciò che era l'essere”. Il tempo del verbo che vi compare, l'imperfetto, è il tempo dell'indeterminazione del tempo, cioè quel tempo che esprime un passato non del tutto passato, che continua anche nel presente e che si estende al futuro; si tratta, cioè, di un passato eterno che non ha inizio né ha fine. Peertanto la forma corrisponde alla continuità dell'essere, a ciò che, nelle cose, al di là dei mutamenti di superficie, permane identico al di sotto del tempo. La forma è ciò che l'essere era. L'essere inteso come la permanenza, infatti, non è, ma “era”; la forma, dunque, dice la delineazione fissa di una cosa, ciò che non muta sotto le apparenze.

 

2.

 

a) Le due accezioni di "atto".

 

L'atto, in coppia con la potenza, è uno dei modi dell'essere. Nella lingua di Aristotele, atto si diceva enérgheia, in italiano “energia”, che significa, sottilizzando, “in-ergía”, “in-operatività”, nel senso in cui diciamo: «è in atto un forte temporale», «è in atto un colpo di Stato», ecc.;  inoltre, si diceva entelécheia, intraducibile, ma traslitterabile in “in-finalizzazione”, “in-ottenimento del fine”, cioè lo stato di raggiungimento della piena corrispondenza alla finalità, che non significa lo scopo, ma l'orizzonte di piena comprensibilità della sostanza, la situazione di piena realizzazione dell'essere. In entrambi i significati, l'atto gode sia del primato gnoseologico sia, soprattutto, del primato ontologico (non cronologico) sulla potenza come dimostrano l'essere il carattere primario del primo motore immobile e il significato primo e generico della vita (l'anima) nelle sue diverse manifestazioni sostanziali, vegetale, animale e intellettiva.

 

b) La spiegazione aristotelica del divenire.

 

Aristotele riesce a superare lo scoglio della contraddizione di ciò che è e che trascorre nel non essere e, viceversa, di ciò che non è e che viene all'essere, grazie ai significati ontologici di atto e potenza, in virtù dei quali il passaggio dall'essere al non essere e dal non essere all'essere non implica più la contraddizione del il principio parmenideo secondo cui l'essere è e non può non essere. Mediante i modi di essere dell'atto e della potenza, infatti, Aristotele offre la spiegazione del divenire mantenendosi sul piano esclusivo dell'essere, dal momento che le formule “essere in atto” e “essere in potenza”, relativamente al qualcosa, significano entrambe l'essere del qualcosa, senza implicare alcuna parvenza di non essere. La soluzione aristotelica del divenire, il passaggio dalla potenza all'atto grazie all'innesco di una causa efficiente, permette di spiegare la trasformazione (trans-forma, da una forma all'altra) senza incorrere nel vietato impiego del non-essere. Atto e potenza, infatti, sono modi dell'essere, entrambi, senza ricorso all'inintelligibile nulla.

 

3.


a) Lo schema della dimostrazione della sostanza soprasensibile.

 

Se tutte le sostanze fossero corruttibili (ipotesi per assurdo) non esisterebbe assolutamente nulla di incorruttibile. Il tempo e il movimento, però, sono incorruttibili, visto che, per il tempo, anteriormente alla sua generazione, avrebbe dovuto esserci un “prima” e posteriormente alla sua distruzione avrebbe dovuto esserci un “poi”, cioè tempo (analogamente, poi, ciò vale per il movimento, perché il tempo non è altro che una determinazione del movimento). Un movimento eterno non può esistere se non in ragione di un principio primo eterno. Tale principio, tuttavia, non può essere, a sua volta, in movimento, ma deve essere immobile, perché un ricorso infinito a motori in movimento di realtà in atto di movimento risulta assurdo, in quanto non sarebbe possibile, a partire dall'infinito, constatare l'attualità del movimento esistente nell'oggi. Se immobile, il principio non può che essere un puro atto, senza margine alcuno di potenzialità, che implicherebbe il ricorso necessario a un motore anteriore. Ora, un principio eterno, immobile e puramente attuale non può che essere una sostanza soprasensibile, del tutto priva di materia, cioè di potenzialità, come volevasi dimostrare.

 

b) I quattro tipi di movimento

 

La seconda scienza teoretica per Aristotele è la fisica (o “filosofia seconda”), la quale ha come oggetto di indagine la realtà sensibile, intrinsecamente caratterizzata dal movimento. Il movimento è un dato di fatto originario, per Aristotele, e non può essere messo in dubbio da alcuna considerazione di tipo ontologico (nel senso parmenideo del termine); esso è il passaggio dall'essere in potenza all'essere in atto. Le categorie secondo le quali avviene il mutamento sono: sostanza, qualità, quantità, luogo; quindi, secondo ciascuna di esse avremo il mutamento: di generazione/corruzione, di alterazione, di aumento/diminuzione, di traslazione. Aristotele distingue la realtà sensibile in due sfere fra loro nettamente differenti: da un lato il mondo cosiddetto sublunare e dall'altro il mondo celeste. Il mondo sublunare è caratterizzato da tutte quante le forme di mutamento, fra le quali predomina quella di generazione/corruzione; i cieli, invece, sono caratterizzati dal solo movimento traslazionale. Mentre il movimento caratteristico dei quattro elementi è rettilineo (dal basso verso l'alto quelli leggeri o dall'alto verso il basso quelli pesanti), quello dell'etere è invece circolare (perfetto) perché l'etere non è né pesante né leggero ed è incorruttibile.

 

4. Il tempo.


Aristotele nota che il tempo sembra non esistere. Una parte di esso, infatti non è più: il passato; un'altra parte non è ancora: il futuro; l'istante tra le due parti, poi, l'ora presente, non ha dimensione alcuna, è soltanto un limite, una soglia tra l'una e l'altra (tra il futuro e il passato). Dunque, il tempo è fatto di nulla e, pertanto non esiste. Per parlare di tempo, quindi, occorre parlare di anima e di mutamento, i due termini imprescindibili della manifestazione del tempo. Quando infatti non mutiamo nulla all'interno del nostro animo, o non avvertiamo nessun mutamento, ci pare che il tempo non sia trascorso. Diciamo, invece, che il tempo compie il suo percorso quando abbiamo percezione del prima e del poi nel movimento. Il tempo, pertanto, si può definire come il numero (numerazione) del movimento secondo il prima e il poi (cioè secondo le fasi del divenire). Se si esclude il numero numerante (l'anima) il numero numerato (il tempo categoriale) non è dato.