Lezioni



CLASSE   III   -   Verifiche di Filosofia   -   I presocratici naturalisti


1.


a) L'ápeiron di Anassimandro rispetto all'acqua di Talete

Con Anassimandro la filosofia fa uso del ragionamento negativo. Per Talete, infatti, l'identificazione del principio comporta un lavoro di paragone, che non riesce a staccare del tutto il discorso dalla determinazione, il principio, cioè, fa comunque riferimento a un “determinato” elemento naturale. Anassimandro supera questa aporia del discorso filosofico introducendo un principio di valore negativo. Se, infatti, in natura tutto è determinato, se tutto si manifesta allo sguardo nel dettaglio del proprio profilo determinato, allora un principio che voglia veramente essere alla radice di tutto, senza confondersi con alcuna determinazione, deve venire descritto come la negazione di qualsiasi determinazione, cioè come l'indeterminato. L'indeterminato è il frutto di un'operazione razionale di enorme portata, cioè la rimozione del conosciuto in vista della delineazione in negativo dell'incognito. Il principio, così, risulta essere per Anassimandro il “tutt'altro” rispetto a ciò che fa parte dell'esperienza comune, ciò in ragione del quale, tuttavia, ogni cosa comune può manifestarsi.

b) Il numero per i pitagorici

I Pitagorici si dedicano allo studio del cosmo (cioè dell'armonia nella realtà) a partire da una prospettiva aritmologica, cioè relativa al numero. Per i Pitagorici il principio della realtà è, dunque, il numero. Numero che non deve essere inteso secondo la nostra mentalità formalistica, come cifra simbolica (numero arabo o lettera algebrica), frutto di astrazione, ma come qualcosa che ha una forma, un contorno, una figura, una realtà geometrica. Il numero pitagorico è il calcolo, nel senso più antico del termine, cioè il “sassolino” che serve per la computazione, e con il quale è possibile tracciare delle figure schematiche che interpretano le cose. Il numero è il cosmo insito nelle cose, è l'armonia sorpresa nei ritmi delle cose e nelle loro relazioni. Il numero sta alla base di ogni cosa e ogni cosa trova la propria ragione nel numero, cui essa può essere ricondotta. Tutta una serie di realtà e di fenomeni naturali, infatti, sono traducibili in rapporti numerici e sono rappresentabili in modo matematico. La musica è traducibile in proporzione numerica; sono precise leggi numeriche che determinano l'anno, le stagioni, i giorni; sono precise leggi numeriche che regolano i tempi dell'incubazione del feto, i cicli dello sviluppo e i vari fenomeni della vita.

 

2.

a) Il divenire in Eraclito.

Per Eraclito, il divenire è il significato dell'essere; è il divenire l'essere delle cose. “Divenire”, allora, significa essere, nel senso che le cose, a suo modo di vedere, non “sono”, ma “divengono”. Delle cose non si può predicare l'essere, ma si deve predicare il divenire. «Non è possibile scendere due volte nello stesso fiume, né toccare due volte la stessa sostanza mortale». Risulta chiaro: la realtà è un flusso, una corrente in continua trasformazione all'interno della quale non è possibile individuare alcunché di fisso e di solido: tutto scorre, “il” tutto scorre (panta réi). Tutto “è e non è”, cioè diviene; volendo, si potrebbe dire che soltanto il divenire permane “come l'essere”. Tra filosofia e mentalità degli uomini, secondo Eraclito, corre lo stesso rapporto che c'è tra verità ed errore. È errore prendere per buona la stabilità delle cose, come se esse “fossero” quello che sono; è invece verità considerare le cose divenienti, in perenne trasformazione, travolte in un incessante flusso che non può permettere di fissarne l'identità essenziale. C'è una rappresentazione, un'immagine che Eraclito sceglie per dare forma al suo divenire: è quella del fuoco, l'elemento che appare irreprensibile, ma che tutto consuma. Il fuoco non è certo quello che riscalda, un fuoco sensibile e concreto, ma un fuoco del tutto intelligibile, concettuale. Esso è il corrispettivo del “principio” (arché).

b) La via della verità in Parmenide

Attraverso la filosofia di Parmenide trova espressione il principio di non-contraddizione, sul quale si incardina qualsiasi discorso filosofico (classicamente inteso): l'essere è e non può non essere, il non essere non è e non può essere. Tale principio ha valenza logica e ontologica, vale, cioè, come legge fondamentale del pensiero e dell'essere. Essere e pensiero, pertanto, si sovrappongono nella mentalità di Parmenide. Davanti all'uomo, secondo Parmenide, si aprono due sentieri, quello della verità, basato sulla ragione, che percorre la via dell'essere, e quello dell'opinione (erronea), basato sui sensi, che percorre la via del non essere. Parmenide intende sostenere che soltanto l'essere esiste e può essere pensato, mentre il non-essere, che risulta tanto indicibile quanto impensabile, non può esistere. Essere e non-essere nel discorso parmenideo sono presi nel loro significato integrale e univoco: l'essere è il puro positivo, il non-essere il puro negativo. L'essere di Parmenide, così concepito, finisce però per immobilizzare qualsiasi possibilità di formulare un discorso, dal momento che il dettato del principio di non contraddizione, non permette di affermare se non l'identità dell'essere stesso con se stesso. L'essere, infatti, è concepito come cosa, l'unica cosa, comprensiva di tutta la realtà. La concezione di Parmenide immobilizza la speculazione senza possibilità di eccezione.

 

3.

a) Il paradosso di Achille e della tartaruga.

Zenone di Elea, discepolo di Parmenide, si impegna a confutare (cioè a portare a contraddizione, assumendole per valide) le tesi dei detrattori del maestro. A tal fine, formula alcuni argomenti contro la molteplicità e contro il movimento. Tra questi ultimi, nel contesto di una gara di velocità, rappresenta Achille che, partendo anche solo leggermente arretrato rispetto a una tartaruga, pur essendo il leggendario piè veloce, non riuscirebbe mai a raggiungere l'animale, perché nella frazione di tempo da lui impiegata per raggiungere il punto di partenza della tartaruga, essa si sarebbe comunque mossa, benché di poco, e così via, all'infinito, senza mai poter giungere alla pari. L'argomento “tiene”, benché nel paradosso, perché la logica considera entità puntuali ed inestese (nella fattispecie, Achille e la tartaruga), non sostanze concrete; in tal modo, la divisione all'infinito dello spazio, coerente nel quadro di una disciplina razionale, comporta la plausibilità di un'estensione all'infinito di qualsiasi quantità, sebbene minima, con la conseguente infinitizzazione di qualsiasi ordine di distanze.

b) Gli elementi e il mondo in Empedocle.

Empedocle individua quattro "radici" delle cose: terra, acqua, aria e fuoco, i quattro elementi, che rimarranno fissi nella tradizione filosofica fino alla tarda età moderna. I quattro elementi (in greco: rizómata, cioè radici) obbediscono ciascuno al principio parmenideo: il fuoco, infatti è fuoco e non può non essere fuoco; l'aria è aria e non può non essere aria; ecc. Il divenire delle cose, tuttavia, cioè il loro apparente nascere, trasformarsi e morire, è dovuto all'incessante aggregarsi e disgregarsi degli elementi ad opera di due forze cosmiche antagoniste, Amore e Contesa, di origine divina, l'uno aggregante, l'altra disgregante. Nella fase in cui domina totalmente l'Amore, tutti gli elementi sono unificati e legati nella più completa armonia (lo “Sfero”); la Contesa, però, incrina questo perfetto equilibrio e produce unità parziali, cioè le cose del mondo come appaiono nel divenire. Il tutto è riassorbito in un ciclo senza fine con alterne vicende di Amore e di Odio.

 

4.

a) L'idea di atomo in Democrito

Secondo Democrito, l'atomo è l'unità indivisibile, ciò oltre a cui non si può procedere nella divisione delle cose, pena la contraddizione del non essere. A suo parere, in risposta a Zenone, non si può procedere all'infinito nella divisione della realtà, senza dover sopportare la conseguenza dello svanire di tutto nel non-essere, conseguenza vietata dal principio parmenideo. L'atomo è dunque l'ulteriormente indivisibile (“atomo” deve essere considerato aggettivo, non sostantivo); non si tratta di una cosa, ma di ciò che, in qualsiasi cosa, costituisce la parte irriducibile, il segmento insuperabilmente infrangibile di cui tutte le cose sono fatte. L'atomo non si distingue qualitativamente (come le omeomerie di Anassagora o le radici di Empedocle), ma soltanto quantitativamente, cioè in ragione della forma geometrica o di ciò che fa riferimento, in qualche modo, a quanto può essere misurato. Con Democrito, dunque, compare nella filosofia la distinzione tra qualità cosiddette “primarie” e qualità cosiddette “secondarie”, le une di ordine aritmetico-geometrico, le altre di ordine differentemente sensibile, “oggettive” le prime, “soggettive” le seconde.

b) Le omeomerie nel pensiero di Anassagora

“Omeomeria” è termine greco che significa letteralmente “parte simile”. È il temine con cui Aristotele denominò i semi (spérmata) di cui Anassagora parlava. Le omeomerie sono per Anassagora parti infinitesimalmente piccole di ciascuna qualità materiale: di tutto, cioè, ci sono omeomerie, di legno, di pietra, di acqua, di vapore, di carne, di oro, ecc. Le omeomerie obbediscono al principio di Parmenide, in quanto, viste in sé, osservano la non contraddizione, non trasformandosi in alcunché d'altro da sé. Le cose che appartengono al mondo dell'esperienza si differenziano per la densità o la prevalenza di una omeomeria rispetto alle altre, sempre e comunque presenti in tutto. In tutto, dunque, c'è di tutto, ma sempre secondo un ordine di prevalenza, in modo tale che la prevalenza determina, almeno apparentemente, la qualità di una cosa. In ordine alla prevalenza delle omeomerie nelle cose, si spiega la loro conoscenza: è infatti l'assenza di tutto il resto che determina il riconoscimento di una determinata qualità (riconosco l'oro, in quanto nella cosa che mi si presenta mancano o sono rare le omeomerie di tutte le altre qualità).