Lezioni



CLASSE   V   -   Sintesi di Filosofia (8)

 

Heidegger: l'analitica del Dasein

 

 

MARTIN HEIDEGGER (1889-1976)

 

 

Dalla Fenomenologia all'Esistenzialismo

 

Martin Heidegger studia teologia (che volgeva in quel tempo all'ermeneutica) e filosofia.
Assistente di Husserl a Friburgo, nel 1927 pubblica Essere e tempo, dedicato al maestro Husserl; vi dichiarava di seguire il metodo fenomenologico. Essere e tempo avrebbe dovuto contenere anche una seconda parte, dal titolo Tempo ed essere, ma questa non apparve, in quanto i risultati ottenuti nella prima ne proibivano lo stesso sviluppo. Succedendo poi sulla cattedra di Husserl nel 1929 tiene la prolusione su Che cos'è la metafisica?. La filosofia di Heidegger, tuttavia, è ben diversa da quella di Husserl. Dello stesso anno è L'essenza del fondamento.
Gli scritti di Heidegger successivi agli anni '30 abbandonano l'impostazione di Essere e tempo, cioè l'analisi dell'esistenza alla ricerca del senso dell'essere, e puntano sull'essere stesso e sulla sua autorivelazione nel linguaggio.
Nel 1933, dopo l'adesione al nazismo, diventa rettore dell'Università di Friburgo, ma poco dopo si dimette. Successivamente scrive Hölderlin e l'essenza della poesia, La dottrina di Platone sulla verità, Lettera sull'umanesimo, L'essenza della verità, Sentieri interrotti, Introduzione alla metafisica, Che cos'è questo – la filosofia?, In cammino verso il linguaggio, Nietzsche.

 

Lo scopo di Essere e tempo è quello di un'ontologia capace di determinare in maniera adeguata il senso dell'essere e in vista di tale obiettivo quello di analizzare chi sia colui che si pone la domanda sul senso dell'essere. Laddove, tuttavia, Essere e tempo si risolve in un'analitica dell'esistenza, gli scritti che vanno dal '30 in poi ne abbandonano l'impostazione per puntare sull'essere stesso e sulla sua autorivelazione.
A proposito di questo mutamento di fronte negli interessi speculativi di Heidegger si è soliti parlare di “svolta” di pensiero e, conseguentemente di un “secondo Heidegger”.

 

L'Esser-ci e l'analitica esistenziale

 

L'intento di Essere e tempo è l'elaborazione concreta del problema del senso dell'essere.
Tale problema, secondo Heidegger, ne implica immediatamente un altro, vale a dire quello dell'individuazione dell'ente da sottoporre a indagine, da interrogare, per coglierne il senso in quanto senso del suo essere.

 

se il problema dell'essere deve venir esplicitamente posto in tutta la sua trasparenza, allora [...] si rende necessaria la messa in chiaro delle maniere di penetrazione nell'essere, di comprensione e di possesso concettuale del suo senso, nonché la delucidazione della possibilità di una retta scelta dell'ente esemplare e l'indicazione dell'autentica via d'accesso a questo ente. Penetrazione, comprensione, delucidazione, scelta, accesso, sono momenti costitutivi del cercare e nello stesso tempo modi di essere di un determinato ente, e precisamente di quell'ente che, noi che cerchiamo, già siamo.

 

L'elaborazione del problema dell'essere, viene dunque a significare il rendersi trasparente di un ente, ovvero consiste nel porre il cercante nel suo essere. In ciò consiste l'analitica esistenziale.
L'ente che si manifesta più adatto, l'ente esemplare che autenticamente fornisca la via d'accesso alla trattazione del problema del senso dell'essere, è quell'ente che noi stessi già sempre siamo, vale a dire l'uomo.
L'uomo, infatti, è quell'ente che si pone la domanda sul senso dell'essere; pertanto, una corretta impostazione del problema del senso dell'essere, richiede un'esplicitazione di quell'ente che si interroga sul senso dell'essere: l'Esser-ci (in tedesco: Da-sein; da = qui/ora, sein = essere).
Noi Ci-siamo, cioè siamo il nostro stesso "Ci", vale a dire, esistiamo sempre in situazione; la nostra è la vera esistenza, in quanto nel nostro esser-ci “ne va” sempre del nostro essere più proprio, il Ci, appunto.
L'Esser-ci, cioè l'uomo, è quell'ente che non si lascia ridurre a quella nozione di essere che può dirsi semplice presenza, come l'essere delle cose che sono; è quell'ente per cui le cose sono presenti.
Il modo d'essere dell'Esser-ci è, dunque, l'esistenza; essa è l'essenza dell'uomo, e l'essenza dell'esistenza (dell'uomo) è la possibilità.
Esistenza significa essere possibile, possibilità da attuare, eventualità da decidere.

 

L'essere-nel-mondo e l'essere-con-gli-altri

 

Poter essere significa progettare; l'esistenza è, dunque, trascendenza, oltrepassamento.
Di fronte al progettare costitutivo dell'uomo, il mondo non è più realtà da contemplare (come presente), ma complesso di strumenti, di utensili, di cose che sono alla mano, da utilizzare.
Essere-nel-mondo significa, dunque, originariamente fare del mondo il progetto delle azioni e dei possibili atteggiamenti dell'uomo. La trascendenza istituisce il progetto o l'abbozzo di un mondo; essa è un atto di libertà, anzi, per Heidegger, è la libertà stessa. Tuttavia, se è vero che qualsiasi progetto si radica in un atto di libertà, è pur vero che ogni progetto limita immediatamente l'uomo che si ritrova dipendente da bisogni e limitato dall'insieme di quegli utensili che è il mondo.
Essere-nel-mondo, quindi, vuol dire per l'uomo prendersi cura delle cose che occorrono ai suoi progetti, avere a che fare con una realtà-utensile, mezzo per la sua vita e per le sue azioni.
L'essere delle cose equivale al loro essere utilizzate dall'uomo. L'uomo pertanto è coinvolto nel mondo; trasformando il mondo, egli forma e trasforma se stesso.
L'atteggiamento teoretico e contemplativo dello spettatore disinteressato (la tradizione filosofica occidentale) è solo un aspetto della più ampia, anzi generale, utilizzabilità delle cose.
Le cose sono sempre strumenti: se conviene, potranno essere viste come strumenti che soddisfano un piacere estetico; ma, se lo si ritiene utile, potranno venir viste "obiettivamente", cioè scientificamente, sullo sfondo di un progetto totale.
L'uomo capisce una cosa quando sa che cosa farsene, come capisce se stesso quando sa cosa può fare di sé, quando cioè sa cosa può essere; il conoscere non è dunque il modo originario del rapporto dell'uomo con il mondo.

 

Se l'essere-nel-mondo è un esistenziale, cioè un carattere dell'esistenza, allora lo è anche l'essere-con-gli-altri. Infatti, come non c'è un soggetto senza mondo, così non può esserci un io isolato dagli altri. Parallelamente, come l'essere-nel-mondo dell'uomo si esprime nel prendersi cura delle cose, così il suo essere-con-gli-altri si esprime nell'aver cura degli altri, cosa che costituisce la struttura di base di ogni possibile rapporto tra gli uomini.
Qualora l'aver cura degli altri si dimostri un sottrarre gli altri dalle loro cure, si ha un semplice “essere insieme”, qualora invece si disponga ad aiutare gli altri ad acquistare la libertà di assumersi le loro cure, si ha un autentico coesistere.

 

 

Essere-per-la-morte; il tempo

 

 

L'essere-per-la-morte, esistenza inautentica ed esistenza autentica

 

Fronteggiando la sua situazione, nella misura in cui l'uomo, progettando, rivolge la sua cura al piano ontico, cioè al piano degli enti nella loro fattualità, rimane nell'esistenza inautentica.
Adoperando cose, utilizzando e stabilendo rapporti sociali con gli altri uomini, finisce per essere assorbito da una sorta di modo vorticoso dell'esistenza, che schiaccia al livello dei semplici fatti. L'utilizzazione diventa fine a se stessa, il linguaggio si trasforma in chiacchiera che sottostà a ciò che "si" dice, cioè a ciò che dice quell'impersonale "Si" che consiste nell'opinione senza responsabilità.
L'esistenza di questo tipo, di conseguenza anonima e vuota, si riempie di curiosità, va continuamente alla ricerca di qualcosa di nuovo, e inesorabilmente confonde e annebbia le cose nella fluidità dell'equivoco, cioè di quel colloquio che si sostanzia di doppi sensi e di significati ignoti.
L'esistenza inautentica è l'esistenza del “si fa” e del “si dice” a tutti i livelli.

 

Alla base del poter essere dell'uomo, tuttavia, nella deiezione (= l'esser caduto dell'uomo sul piano delle cose del mondo), c'è comunque la voce della coscienza che richiama dall'inautenticità ontico-esistentiva all'autenticità ontologico-esistenziale, ovvero richiama alla ricerca del senso dell'essere degli enti.
Ogni progetto riconduce l'uomo alle cose, e i progetti sono, in fondo, tutti equivalenti; se l'uomo considera ultima e definitiva una qualsiasi delle possibilità che gli si aprono innanzi, comunque si decide per l'inautenticità e vi si disperde.
L'unica possibilità che, da questo punto di vista, differisce, è per l'uomo la morte, cui non può sfuggire.
Quando, infatti, la morte diventa realtà, l'esistenza, cioè la possibilità, non è più. Pertanto la morte si configura come la possibilità che tutte le altre possibilità divengano impossibili, e quindi, appare come la condizione stessa di ogni possibilità, la possibilità che rende veramente possibili, e non eventualmente attuali, tutte le altre possibilità.
La morte, come possibilità per l'uomo, non dà niente all'uomo da realizzare, perché si costituisce come possibilità dell'impossibilità di ogni progetto e di ogni esistenza, poiché con la morte non ci sono altre possibilità da scegliere e ulteriori progetti da attuare. La voce della coscienza, dunque, chiama al senso della morte e svela la nullità di ogni progetto.
L'esistenza autentica è, pertanto, un essere-per-la-morte, non già nel senso del suicidio, che sarebbe ulteriormente un abbassarsi dell'uomo a cosa, a semplice presenza da eliminare, ma nel senso dell'anticipante rendersi liberi come assicurazione e affrancamento dalla dispersione nelle possibilità esistentive.

 

Il coraggio dinanzi all'angoscia

 

La morte si rivela come la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile; la morte riguarda l'essenza dell'esistenza, il poter essere dell'uomo; la morte riguarda il singolo, nel senso che nessuno può assumersi il morire di un altro: ogni Esser-ci deve sempre assumersi in proprio la sua morte.
Sperimentando il nulla di ogni progetto, attraverso il senso della morte, l'uomo prova angoscia; l'essere-per-la-morte è essenzialmente angoscia.
Essa pone l'uomo di fronte al nulla di senso, cioè al nonsenso dei progetti umani e della stessa esistenza. Esistere autenticamente implica avere il coraggio di guardare in faccia alla possibilità del proprio non essere, significa accettare la propria finitezza.
L'esistenza inautentica e anonima, invece, non ha il coraggio dell'angoscia e ciò si vede nel fatto che banalizza l'angoscia nella paura: la paura è un'angoscia decaduta al livello del mondo e delle cose. Mentre si ha paura di qualcosa, ci si angoscia di fronte al niente.

 

Il tempo

 

Dato che l'esistenza è possibilità, progetto, trascendenza, tra le determinazioni del tempo, quella fondamentale è il futuro, l'avvenire, il progettarsi-in-avanti in-vista-di-se-stesso.
Tuttavia, la cura, che anticipa delle possibilità, sorge dal passato e lo implica; tra passato e futuro, poi, c'è quell'affaccendarsi con le cose che è il presente.
Queste tre determinazioni del tempo trovano significato nel loro essere “fuori”, esterne: il futuro è un protendere, il passato un ritornare, il presente un essere presso. Perciò la dimensione del tempo è dimensione d'orizzonte, estatica (dal greco ekstatikón), cioè la dimensione avvolgente che sta all'esterno dell'esistenza come suo sfondo di senso.

 

In ogni caso, le tre determinazioni del tempo mutano, ciascuna, in base al fatto che si tratti di tempo autentico o di tempo inautentico, dove il tempo autentico è quello dell'esistenza autentica e quello inautentico è tipicizzato dalla preoccupazione per il successo, è l'attenzione alla riuscita; mentre nell'esistenza autentica, che assume la morte come possibilità qualificante dell'esistenza, il futuro è un vivere per la morte che non permette all'uomo di venir travolto nelle possibilità mondane. Come il passato autentico è non l'accettare passivamente la tradizione, ma un affidarci alle possibilità che la tradizione ci offre e rivivere le possibilità dell'uomo che è già stato, il presente autentico è l'istante, in cui l'uomo ripudia il presente inautentico (dove l'uomo è assorbito senza requie nelle cose da fare) e decide il suo destino.

 

 

 

Il linguaggio della poesia. Wittgenstein

 

 

Il “secondo” Heidegger: il linguaggio dell'essere

 

Il risultato della ricerca condotta con Essere e tempo avrebbe dovuto configurarsi come risposta alla domanda circa il senso dell'essere, posta da quell'ente che, propriamente, esiste in ragione del suo essere. La seconda parte dell'opera avrebbe dovuto intitolarsi Tempo ed essere, e avrebbe, appunto, dovuto contenere le conclusioni tratte dall'analitica dell'esistenza. Ma tale seconda parte non è stata scritta, visto il nulla di fatto realizzatosi con l'interpretazione del tempo alla fine della prima.
Il tempo, mostrandosi estatico, si rivela intrascendibile, condizione necessaria di ogni interpretazione dell'esistenza; risulta cioè impossibile, a partire dall'esistenza dell'uomo, he è temporale, trovare risposta alla domanda circa il senso dell'essere.
Il linguaggio dell'uomo può parlare soltanto degli enti, non dell'essere.
Nella sua Introduzione alla metafisica, che si presenta come una critica radicale alla tradizione, la metafisica classica, da Aristotele a Hegel e allo stesso Nietzsche, ha fatto ciò che l'analitica esistenziale ha mostrato essere impossibile: ha cercato il senso dell'essere indagando gli enti. La metafisica ha identificato l'essere con l'oggettività, cioè con la semplice-presenza degli enti. In questo modo essa non è metafisica ma una "fisica" assorbita dalle cose, che ha obliato l'essere, e che anzi conduce all'oblio di questo oblio.
Platone, dice Heidegger, è stato il primo responsabile della degradazione della metafisica a fisica.
I primi filosofi (Anassimandro, Parmenide, Eraclito) avevano concepito la verità come un dis-velarsi dell'essere, come testimonierebbe il senso etimologico di a-létheia, dove lantháno (velare) è preceduto dall'alpha privativo. Platone, invece, ha respinto la verità come "non-nascondimento" dell'essere ed ha capovolto il rapporto tra essere e verità, fondando l'essere sulla verità, nel senso che la verità starebbe nel pensiero che giudica e stabilisce rapporti tra i propri "contenuti" o "idee", e non nell'essere che si svela al pensiero. In tal modo l'essere dovrebbe finitizzarsi e relativizzarsi alla mente umana, anzi al suo linguaggio.

 

Perciò la rivelazione dell'essere non può essere l'opera di un ente, seppure privilegiato come l'Esser-ci, ma può aversi soltanto attraverso l'iniziativa dell'essere stesso.
Qui consiste la cosiddetta “svolta” del pensiero di Heidegger, cioè la rilettura dell'uomo non più come l'ente che svela il senso dell'essere, il padrone dell'essere, ma come il pastore dell'essere.
Bisogna, pertanto, sollevare la filosofia fino all'originario disvelarsi dell'essere, che avviene nel linguaggio della Poesia.
Nella Lettera sull'umanesimo (1947) Heidegger scrive che il linguaggio è la casa dell'essere e che in questa dimora abita l'uomo, e i poeti ne sono i guardiani.
Nella Poesia la parola ha un carattere “sacrale”, perché nominando le cose le fonda nell'essere. Ciò, tuttavia, non è opera dell'uomo, ma è dono dell'essere stesso (Hölderlin e l'essenza della poesia, 1937), di fronte al quale l'atteggiamento dell'uomo deve essere quello dell'ascolto nel silenzio.
L'uomo deve rendersi libero per la verità, concepita come svelamento dell'essere.

 

 

ludwig wittgenstein (1889-1976)

 

 

Il Tractatus logico-philosophicus

 

Le tesi fondamentali del Tractatus (1921-22) sono:
 - Il mondo e tutto ciò che accade (proposizione 1);
 - Ciò che accade, il fatto, è l'esistenza dei fatti atomici (prop. 2);
 - La raffigárizi6fie logica dei fatti è il pensiero (prop. 3);
 - Il pensiero è la proposizione esatta (prop. 4);
 - La proposizione è una funzione di verità delle proposizioni elementari (prop. 5);
 - La forma generale della funzione di verità è: [ñ, ξ, N(ξ)] Questa è la forma generale della proposizione (prop. 6);
 - Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere (prop. 7).

 

Primariamente, pertanto, nel Tractatus troviamo (almeno apparentemente) un'ontologia: il mondo si divide in fatti (prop. 1.1), ma il fatto stesso è divisibile, dal momento che il fatto è l'esistenza di fatti atomici (prop. 2).
I fatti atomici, a loro volta, sono costituiti da oggetti semplici, i quali sono la sostanza del mondo.
«Il fatto atomico è una combinazione di oggetti (entità, cose)» (prop. 2.01); «L'oggetto è semplice» (prop. 2.02); «Gli oggetti costituiscono la sostanza del mondo. Perciò non possono essere composti» (prop. 2.021); «Il fisso, il consistente, l'oggetto, sono una cosa sola» (prop. 2.017); « L'oggetto è il fisso, il consistente; la configurazione è il mutevole, l'instabile » (prop. 2.0271).

 

Alla teoria della realtà corrisponde la teoria del linguaggio.
Stando al Tractatus (cioè al "primo" Wittgensteín), esso è una raffigurazione proiettiva della realtà.
«Noi ci facciamo delle raffigurazioni dei fatti» (prep. 2.l); «La raffigurazione è un modello della realtà» (prop. 2.12); «ciò che la raffigurazione deve avere in compine con la realtà per poterla raffigurare — esattamente o, falsamente — secondo la propria maniera, è la forma di raffigurazione» (prop. 2.1.7).

 

A prima vista non sembra che la proposizione — così come ad es. sta stampata sulla carta — sia una raffigurazione della realtà di cui tratta. Ma anche la notazione musicale non sembra a prima vista una raffigurazione della musica, né la nostra scrittura fonetica (o lettere) pare una raffigurazione del nostro linguaggio parlato. Eppure questi simboli si dimostrano, anche nel senso ordinario del termine, raffigurazioni di ciò che rappresentano (prop. 4.011).

 

Il disco fonografico, il pensiero musicale, la notazione, le onde sonore, stanno tutti tra di loro in quell'interno rapporto raffigurativo che intercorre tra lingua e mondo. A tutte queste cose è comune la struttura logica (come nella favola i due giovani, i loro due cavalli, e i loro gigli. Essi sono tutti, in un certo senso, una cosa sola) [prop. 4.014].

 

Pertanto, il pensiero (o proposizione) raffigura proiettivamente la realtà; ad ogni elemento costitutivo del reale ne corrisponde un altro nel pensiero. La realtà consta di fatti che si risolvonono in fatti atomici, composti a loro volta di oggetti semplici. Analogamente, il linguaggio è formato da proposizioni complesse (molecolari), che si possono dividere in proposizioni semplici o atomiche (elementari) non ulteriormente divisibili in altre proposizioni.
Queste proposizioni elementari sono il corrispondente dei fatti atomici, sono combinazioni di nomi, corrispondenti agli oggetti: «Il nome significa l'oggetto. L'oggetto è il suo significato [...]» (prop. 3.203).
Se "Socrate è ateniese" è una proposizione atomica (descrive il fatto atomico per cui Socrate è ateniese), la proposizione "Socrate è ateniese e maestro di Platone" è una proposizione molecolare che riflette il fatto molecolare per cui Socrate è ateniese e maestro di Platone.
La proposizione atomica è la più piccola entità linguistica della quale si possa predicare il vero o il falso. Il fatto atomico è ciò che rende vera o falsa una proposizione atomica. Il fatto molecolare è una combinazione di fatti atomici che rende vera o falsa una proposizione molecolare.

 

 

L'atteggiamento antimetafisico

 

Tra le proposizioni, come tra i fatti, non si riscontra gerarchia alcuna; ci sono soltanto collezioni di proposizioni: l'intera collezione è l'intero sapere.
L'ontologia di Wittgenstein, che di fatto è una pseudo-ontologia, è quindi soltanto funzionale alla sua teoria del linguaggio. Sul suo senso, eventualmente, si può ammettere che essa interpreti la realtà raffigurabile e quindi conoscibile come la realtà empirica, quando Wittgenstein accenna agli oggetti nei termini seguenti: «Spazio, tempo, colore (l'essere colorato), ecc. sono forme di oggetti» (prop. 2.0251). Stando a quanto detto in tale proposizione, si può dunque pensare che per Wittgenstein un fatto dovrebbe essere spazializzato, temporalizzato, colorato, ecc., insomma, dovrebbe essere percepibile fisicamente.
D'altronde, la prop. 4.11 dice che: «la totalità delle proposizioni vere costituisce la scienza naturale totale (o la totalità delle scienze naturali)», la prop. 6.53 afferma che nulla si può dire se non quello che può dirsi, cioè le proposizioni scientifiche».
Del resto, «Il senso della proposizione è il suo accordo o disaccordo con le possibilità dell'esistenza e non esistenza dei fatti atomici» (prop. 4.2), laddove, «la verità o falsità della raffigurazione consiste nell'accordo o disaccordo del suo senso con la realtà» (prop. 2.223).
La realtà raffigurabile dalle proposizioni pare perciò ridursi a quella empirica, dal momento che il linguaggio che è immagine del mondo è quello costituito di proposizioni atomiche, di proposizioni complesse e di tautologie, ovvero il linguaggio delle scienze empiriche.

 

Gli oggetti, più che una consistenza ontologica, dunque, hanno una consistenza logica ed equivalgono agli ultimi elementi che è possibile pensare. È in virtù della forma logica che gli oggetti si connettono tra loro e danno origine ai fatti; perciò la forma logica è anche la condizione per cui i fatti possono essere rappresentati mediante il linguaggio.

 

Su questa base diviene comprensibile l'attacco che Wittgenstein muove contro la metafisica:

 

La maggior parte delle proposizioni e delle questioni, che sono state scritte in materia di filosofia, non sono false ma insensate. A questioni di questo genere perciò non possiamo affatto rispondere, ma soltanto stabilire la loro insensatezza. La maggior parte delle questioni e proposizioni di filosofia derivano dal fatto che non comprendiamo la logica del nostro linguaggio. (Sono del tipo della questione se il bene sia più o meno identico che il bello). E non c'è da meravigliarsi che i più profondi problemi non siano propriamente dei problemi (prop. 4.003).

 

Dunque, unicamente la scienza ha senso, ma «la filosofia non è una scienza naturale» (prop. 4.111). «La filosofia non è dottrina, ma attività. Un'opera filosofica consiste essenzialmente in elucidazioni» (prop. 4.112).
Si fa attività filosofica mostrando la capacità dei simboli di rappresentare il simboleggiato e chiarificando le combinazioni dei simboli tra loro. La filosofia, allora, si trasforma da dottrina in attività chiarificatrice degli asserti delle scienze empiriche, delle tautologie logiche e degli asserti matematici, e in attività dissolutrice degli pseudo-asserti della metafisica.

 

Wittgenstein, tuttavia, si rende conto che, anche qualora la scienza rappresenti proiettivamente il mondo, al di là della scienza e del mondo, «c'è veramente l'inesprimibile. Si mostra; è ciò che è mistico » (prop. 6.522).
Allora:

 

Il senso del mondo deve trovarsi al di fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e avviene come avviene: in esso non v'è alcun valore — e se ci fosse non avrebbe alcun valore [...] (prop. 6.41).

 

Non come il mondo sia, è ciò che è mistico, ma che esso sia » (prop. 6.44).

 

Noi sentiamo che se pure tutte le possibili domande della scienza ricevessero una risposta, i problemi della nostra vita non sarebbero nemmeno sfiorati. Certo, non rimane allora alcuna domanda; e questa è appunto la risposta (prop. 6.52).

 

Il problema della vita si risolve quando svanisce (prop. 6.521).

 

In tali asserti consiste la parte cosiddetta mistica del Tractatus.

 

La questione del senso del Tractatus

 

Nel 1919 Wittgenstein scrisse una lettera a Ludwig von Ficker con il quale era in trattative per la pubblicazione del Tractatus; tra l'altro vi si può leggere:

 

Forse Le sarà di aiuto, se Le scrivo un paio di parole sul mio libro: dalla lettura di questo, infatti, Lei, e questa è la mia esatta opinione, non ne tirerà fuori un granché. Difatti, Lei non lo capirà; l'argomento Le apparirà del tutto estraneo. In realtà, però, esso non Le è estraneo, poiché il senso del libro è un senso etico. Una volta volevo includere nella prefazione una proposizione, che ora di fatto lì non c'è, ma che io adesso scriverò per Lei, poiché essa costituirà forse per Lei una chiave alla comprensione del lavoro. In effetti, io volevo scrivere che il mio lavoro consiste di due parti: di quello che ho scritto, ed inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante.

 

Ciò che non è scritto, che non è detto perché indicibile scientificamente è dunque la parte più importante; essa consiste nell'etica e nella religione. Solo così si riconciliano in un tutto consistente la "logica" e la "filosofia" del Tractatus con la "mistica" dello stesso Tractatus.
Il positivismo sostiene — e questa è la sua essenza — che ciò di cui possiamo parlare è tutto ciò che conta nella vita. Wittgenstein, invece, crede che tutto ciò che conta nella vita umana è proprio ciò su cui, secondo il suo modo di vedere, dobbiamo tacere.

 

Il ritorno alla filosofia

 

Nella Prefazione al Tractatus, Wittgenstein scriveva: «la verità delle idee qui comunicate è intoccabile e definitiva»; in tal modo pensava «di avere nell'essenziale risolti definitivamente i problemi».
Di conseguenza, Wittgenstein tacque. Il 4 luglio 1924 scriveva a J. M. Keynes (che insieme al matematico F. P. Ramsey si preoccupava di far ritornare il filosofo a Cambridge):

 

Lei mi chiede se può far qualcosa per rendermi di nuovo possibile il lavoro scientifico. No, per questa faccenda non c'è più nulla da fare; infatti, io non ho più nessun forte impulso interno per una simile occupazione. Tutto quello che avevo realmente da dire, l'ho già detto e con ciò la sorgente si è inaridita. La cosa può suonare strana, ma è così.

 

Comunque, nel gennaio del 1929 Wittgenstein era di nuovo a Cambridge e il ritorno a Cambridge corrispondeva al ritorno alla filosofia; i problemi filosofici non erano stati definitivamente risolti.
Diversi eventi avevano riportato Wittgenstain ad aprire di nuovo la sua ricerca, ma soprattutto la riflessione sulla matematica intuizionista e il contatto con il linguaggio dei bambini, dato dall'esperienza di maestro elementare, che spinsero Wittgenstein ad assumere una nuova prospettiva teorica nell'interpretazione del linguaggio.

 

Dalle Osservazioni filosofiche (1929-1930) — attraverso la Grammatica filosofica (1932-1934), Il libro blu e il libro marrone (1933-1935), le Osservazioni sui fondamenti della matematica (1957-1944) e Della certezza (1950-1951) — alle Ricerche filosofiche (Parte I, 1945; Parte II, 1948-1949), Wittgenstein si allontana dalle soluzioni del Tractatus e realizza la sua nuova prospettiva filosofica.

 

 

I giochi linguistici

 

 

Le Ricerche filosofiche e la teoria dei "giochi linguistici"

 

Le Ricerche iniziano con una serrata critica allo schema interpretativo tradizionale che considera il linguaggio come un insieme di nomi denominanti o designanti degli oggetti, nomi di cose e di persone uniti dall'apparato logico-sintattico costituito da termini quali "e", "o", "se... allora", ecc.
Qualora il linguaggio sia così concepito, il comprendere si riduce al solo dare spiegazioni che si risolvono in definizioni ostensive, le quali postulano tutta la serie di atti e di processi mentali che dovrebbero rendere conto del passaggio dal linguaggio alla realtà.
Teoria della raffigurazione, atomismo logico e mentalismo sono strettamente congiunti.
In realtà, tuttavia, il gioco linguistico della denominazione (Benennungssprachspiel) non è primario. Se infatti si dica, indicando una persona o un oggetto: «è Tizio», o «questo è rosso», rimarrà sempre, per chi ascolta, una certa ambiguità, non sapendo costui a quale proprietà della persona o dell'oggetto ci si stia riferendo.

 

Dicendo che ogni parola del linguaggio designa qualcosa, a giudizio di Wittgenstein, non si dice proprio niente (Osservazioni sopra i fondamenti della matematica).
Si pensa che l'apprendere il linguaggio consista nel denominare oggetti, cioè uomini, forme, colori, dolori, stati d'animo, numeri, ecc. Denominare sembra simile all'attaccare a una cosa un cartellino con un nome, ma ciò è soltanto una preparazione all'uso della parola.
La teoria della raffigurazione, pertanto, sostiene che, con il nostro linguaggio, noi facciamo una sola cosa: denominiamo.
Wittgenstein, invece, è a questo punto persuaso che con le nostre proposizioni faacciamo le cose più diverse. Ad esempio, dicendo:
 - Acqua!
 - Via!
 - Ahi!
 - Aiuto!
 - Bello!
 - No!
Tali parole non sono "denominazione di oggetti".
Con il linguaggio, secondo Wittgenstein, facciamo le cose più varie; "i giochi linguistici" sono innumerevoli, innumerevoli tipi differenti d'impiego di tutto ciò che si chiama "segno", "parola" e "proposizione".
Tale molteplicità non è poi qualcosa di fisso, dato una volta per tutte, ma nuovi tipi di linguaggio, cioè nuovi giochi linguistici, sorgono mentre altri invecchiano e vengono dimenticati.

 

L'anti-essenzialismo

 

Parlare un linguaggio fa dunque parte di una attività, o di una forma di vita.
I "giochi di lingua" sono introdotti non allo scopo di una eventuale ulteriore regolamentazione del linguaggio, ma come funzioni linguistiche alternative che attraverso"somiglianze e dissomiglianze" descrivono e mostrano l'uso delle parole in una forma di vita, in un contesto di istituzioni e di comportamenti umani.
Insieme con l'atomismo logico, cioè l'idea che ogni proposizione esprima un fatto in modo rigoroso e preciso come nel linguaggio matematico, esce di scena l'idea che alla denominazione corrisponda un atto dello spirito:

 

non potendo indicare una azione fisica, che chiamiamo indicare la forma (in contrapposizione, per esempio, al colore), diciamo che a queste parole corrisponde un'attività spirituale. Dove il nostro linguaggio ci fa supporre l'esistenza di un corpo, e non c'è alcun corpo, là, vorremmo dire, c'è uno spirito (par. 36).

 

In conseguenza di ciò Wittgenstein respinge ogni l'essenzialismo, che dietro a concetti rigidi presuppone sostanze eterne, così come respinge l'idea di una a purezza cristallina della logica:

 

invece di mostrare quello che è comune a tutto ciò che chiamiamo linguaggio, io dico che questi fenomeni non hanno affatto in comune qualcosa, in base al quale impieghiamo per tutti la stessa parola — ma che sono imparentati l'uno con l'altro in molti modi differenti. E grazie a questa parentela, o a queste parentele, li chiamiamo tutti "linguaggi" (par. 65).

 

Il concetto, pertanto, designa una "famiglia di somiglianze", mentre dobbiamo abbandonare l'immagine essenzialistica del linguaggio; concetti quali "proposizione", "parola", "prova", "deduzione", "verità", ecc. non sono super-concetti che stabiliscono nessuun super-ordine.
Se tali parole hanno un uso, esso deve essere terra terra, come quello delle parole "tavolo", "lampada", o "porta" (par. 97). In sostanza,

 

riconosciamo che ciò che chiamiamo "proposizione", "linguaggio", non è quell'unità formale che immaginavo, ma una famiglia di costrutti più o meno imparentati l'uno con l'altro. Che ne è allora della logica? Qui il suo rigore sembra dissolversi... Il pregiudizio della purezza cristallina della logica può essere eliminato soltanto facendo rotare tutte quante le nostre considerazioni. (Si potrebbe dire: La considerazione deve essere ruotata, ma attorno al perno del nostro reale bisogno) (par. 108).

 

Il principio di uso e la filosofia come terapia linguistica

 

Il linguaggio è un insieme di giochi linguistici; il significato di una parola è il suo uso; l'uso ha regole.
D'altra parte, «seguire una regola è analogo a: obbedire a un comando. Si viene addestrati a ubbidire al comando» (par. 206). « Seguire una re- gola, fare una comunicazione, dare un ordine, giocare una partita a scacchi sono abitudini (usi, istituzioni)» (par. 199).
Le regole che si apprendono attraverso l'addestramento, poi, sono pubbliche: «Nel senso in cui esistono processi (anche processi psichici) caratteristici del comprendere, il comprendere non è un processo psichico» (par. 154).
Tuttavia, un'immagine che ci teneva prigionieri ha fatto sì che il mondo della nostra mente si popolasse di spettri, cioè di problemi filosofici:

 

questi non sono naturalmente problemi empirici, ma problemi che si risolvono penetrando l'operare del nostro linguaggio in modo da riconoscerlo: contro una forte tendenza a fraintenderlo. I problemi si risolvono non già producendo nuove esperienze, bensì assestando ciò che da tempo ci è noto. La filosofia è una battaglia contro l'incantamento del nostro intelletto, per mezzo del nostro linguaggio (par. 109).

 

I problemi filosofici, infatti, sorgono «quando il linguaggio fa vacanza» (par. 38); si risolvono dissolvendoli.

 

Quando i filosofi usano una parola "sapere", "essere", "oggetto", "io", "proposizione", "nome" — e tentano di cogliere l'essenza della cosa, ci si deve sempre chiedere: Questa parola viene mai effettivamente usata così nel linguaggio, nel quale ha la sua patria? Noi riportiamo le parole, dal loro impiego metafisico, indietro al loro impiego quotidiano » (par. 116).

 

Il linguaggio, allora, «fa parte della nostra storia naturale, come il camminare, il mangiare, il bere, il giocare» (par. 25). Il linguaggio opera su uno sfondo di bisogni nella determinatezza di un ambiente umano. Dal momento, poi, che «il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio» (par. 43), il compito della filosofia è puramente descrittivo.
Analogamente alla psicoanalisi, la diagnosi è già terapia: il filosofo tratta una questione filosofica «come una malattia» (par. 255).

 

In filosofia non si deve cercare il significato, ma l'uso:

 

In filosofia, uno si sente costretto a guardare a un concetto in un determinato modo. Quel che io vi faccio è di proporre o addirittura inventare altri modi di considerarlo. Suggerisco possibilità alle quali non avevate mai pensato. Credevate che esistesse una possibilità o al massimo due. Ma io vi ho fatto pensare ad altre possibilità. Per di più ho mostrato che era assurdo aspettarsi che il concetto si adeguasse a possibilità così ristrette. Così vi ho liberato dal vostro crampo mentale e ora potete guardarvi intorno nel campo dell'uso dell'espressione e descrivere i suoi diversi tipi d'uso. [...] Qual è il tuo scopo in filosofia? — Indicare alla mosca la via d'uscita dalla bottiglia (par. 309).

 

La filosofia, in breve, è la terapia delle malattie del linguaggio.