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CLASSE   V   -   Sintesi di Filosofia (7)

 

henri bergson

 

La filosofia di Henri Bergson può venir definita col nome di Evoluzionismo spiritualistico.
Essa costituisce il punto di riferimento del pensiero francese tra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento. In essa si fondono i motivi dello Spiritualismo antico (come quello di Agostino) e quelli della tradizione introspettivo-spiritualistica francese che trova i suoi capostipiti in Descartes e Pascal. Tali elementi convergono, in una sintesi ricca ed originale, con le istanze dell'Evoluzionismo spenceriano e con la critica delle "verità" scientifiche.

 

Bergson nasce a Parigi nel 1859. Negli anni giovanili coltiva studi di matematica e di meccanica. Successivamente decide di dedicarsi alla filosofia e all'École Normale segue i corsi di Ollé-Laprune e di Boutroux. Dopo la laurea insegna per alcuni anni in diversi licei. Nel 1889 pubblica la sua tesi di dottorato alla Sorbona: Saggio sui dati immediati della coscienza. Il libro ottiene un grosso successo. E un successo ancor maggiore arride al suo secondo lavoro Materia e memoria che è del 1896. Nel 1900 Bergson viene chiamato alla cattedra di filosofia al Collège de France, cattedra che terrà sino al 1924. Sempre del 1900 è la raccolta di saggi: Il riso, il cui sottotitolo è: Saggio sul significato del comico. Bergson vi sostiene l'idea che non v'è nulla di comico al di fuori di ciò che è propriamente umano. Parecchi, dice Bergson, hanno definito l'uomo un animale che "sa" ridere, ma avrebbero potuto definirlo un animale che "fa" ridere, giacché se qualche altro animale o qualche altro obietto inanimato vi perviene, è sempre per una rassomiglianza con l'uomo, per l'impronta che l'uomo vi imprime o per l'uso che ne fa.
Nel 1903 esce L'introduzione alla metafisica, succinta e brillante sintesi delle idee di Bergson. L'evoluzione creatrice, che è l'opera più sistematica e di maggior rilievo teoretico di Bergson, esce nel 1907.
Eletto membro dell'Accademia francese, nel 1928 Bergson viene insignito del premio Nobel per la letteratura. Nel 1932 esce la sua ultima opera: Le due fonti della morale e della religione.
Bergson era di origine ebraica, ma negli ultimi anni della sua vita si era progressivamente avvicinato al Cattolicesimo; tuttavia, dato l'antisemitismo dilagante a quell'epoca, egli rinuncia, come poi si è letto nel suo testamento, alla conversione vera e propria:

 

Ho voluto restare — scrive — fra quelli che saranno domani dei perseguitati.

 

Quando i nazisti occuparono Parigi, esonerarono Bergson, famoso e ormai molto malato, dal presentarsi alla schedatura cui venivano sottoposti gli Ebrei. Ma egli non accettò e si recò di persona a farsi schedare.
Morì nel 1941, in Parigi occupata dai nazisti.

 

Lineamenti generali dello Spiritualismo

 

Tra Ottocento e Novecento ha luogo in Europa una reazione al Positivismo che vede in prima fila tutta una schiera di pensatori che ben si possono raccogliere sotto il nome di Spiritualisti.
La preoccupazione più pressante dello Spiritualismo, nelle sue varie manifestazioni, è quella di stabilire — di contro al Positivismo — l'irriducibilità dell'uomo alla natura fisica. Un simile programma ha puntato sulla individuazione di fasci di eventi (valori estetici, valori morali, libertà della persona, finalismo della natura, trascendenza di Dio) costituenti "il mondo dello spirito" e sulla messa a punto di tipiche vie o procedure per indagare e parlare sul mondo dello spirito, vie o procedure irriducibili a quelle proprie delle scienze della natura.

 

Il Positivismo non trascurava i "fatti umani", ma li riduceva, tutti quanti, a natura. Della natura umana e dei suoi prodotti (giuridici, morali, economici, estetici, religiosi, ecc.) si sarebbero infatti occupate con un metodo non differente da quello delle scienze naturali, la sociologia o comunque l'economia o, per es., la storiografia intese quali scienze positive.
In tal modo il Positivismo, mentre da una parte cancellava la pretesa della filosofia tradizionale di porsi come complesso di teorie appunto filosofiche (o metafisiche) non riducibili a quelle della scienza, teorie filosofiche costruibili e giustificabili con metodi diversi da quello della scienza, dall'altra negava proprio quei "fatti" (come la libertà della persona umana, l'interiorità della coscienza, l'irriducibilità dei valori a fatti o la trascendenza di Dio) che, per lo Spiritualismo, sono "fatti" altrettanto ostinatamente reali che quelli naturali; "fatti" di cui bisogna rendere conto per vie indipendenti da quelle della scienza.

 

Non è difficile, allora, fissare alcuni dei pilastri attorno ai quali si articola il programma dello Spiritualismo:
 - la filosofia non può in alcun modo venir assorbita dalla scienza; essa si distingue dalla scienza per i problemi che tratta, per i risultati che ottiene, per le procedure che adotta;
 - questa idea di filosofia ha come presupposto la constatazione della specificità dell'uomo nei confronti di tutta la natura: l'uomo interiorità e libertà, coscienza e riflessione;
 - tale specificità dell'uomo esige uno strumento di indagine sconosciuto ai Positivisti, vale a dire l'ascolto delle voci della coscienza;
 - la realizzazione degli intenti dello Spiritualismo comporta non solo una critica dello scientismo positivistico ma anche l'indagine sulla struttura e i limiti del sapere scientifico vero e proprio;
 - se lo Spiritualismo può venir visto come reazione al Positivismo in nome di insostituibili interessi morali e religiosi, esso si scontra anche con l'Idealismo romantico che identifica l'Infinito con il finito: lo Spiritualismo infatti enfatizza la trascendenza dell'Assoluto (Dio) rispetto alle singole coscienze;
 - parimenti trascendente, per lo Spiritualista, è Dio nei confronti della natura: questa e sì causalmente determinata, ma lo è in base ad un superiore disegno finalistico e provvidenziale;
 - Dio, in quanto spirito assoluto, e l'uomo, in quanto spirito finito, sono i poli di attrazione della filosofia spiritualista; l'uomo è spirito, in quanto, mentre ogni altra attività materiale è causata e subita, esso è attività causante e agente, è sempre libera iniziativa e primo cominciamento di se stesso. Esso si crea da sé in ogni istante e, producendo se stesso, produce anche, non le cose, ma il senso delle cose.

 

L'originalità

 

La filosofia di Bergson fu una "filosofia di moda" e che il suo insegnamento arrivò a diventare talvolta un avvenimento mondano, fino al punto che alcune signore facevano occupare dai loro servi dei posti in aula alcune ore prima della lezione.
J. Chevalier, che scrisse una biografia di Bergson, narra così di quell'avvenimento costituito appunto dalle lezioni di Bergson:

 

La personalità di Bergson non era certamente estranea al suo successo. Il silenzio calava nell'aula, un fremito arcano percorreva gli animi, quando lo si vedeva apparire sul fondo dell'anfiteatro, sedersi sotto la luce di una lampada discreta, le mani libere e di solito giunte, privo di appunti, la fronte enorme, gli occhi chiari come due luci sotto le folte sopracciglia, i lineamenti delicati che esprimevano la potenza spirituale del volto e la forza immateriale del pensiero. La sua parola era calma, nobile e ritmica, al pari della sua prosa; di una straordinaria sicurezza e di una precisione sorprendente, con delle intonazioni cattivanti e musicali, e un difetto di aspirazione che era una sfumatura di civetteria.

 

L'intento di fondo della filosofia di Bergson è la difesa della creatività e dell'irriducibilità della coscienza o spirito, contro ogni tentativo riduzionistico di stampo positivistico. Egli, tuttavia, al fine di intendere a pieno la vita concreta della coscienza, fa suoi i risultati della scienza e non minimizza affatto la presenza del corpo e l'esistenza dell'universo materiale.

 

Il grosso errore delle dottrine spiritualiste — ha scritto Bergson ne L'evoluzione creatrice — è stato quello di credere che con l'isolare la vita spirituale da tutto il resto, con il sospenderla il più alto possibile soprala terra, la ponessero con ciò al riparo da ogni attentato.

 

Sennonché, con tali operazioni, gli Spiritualisti esposero la vita spirituale ad essere scambiata «per l'effetto di un miraggio».
Per Bergson le cose vanno altrimenti: la coscienza o vita spirituale è irriducibile alla materia; essa è un'energia creatrice e finita, continuamente alle prese con condizioni ed ostacoli che possono bloccarla e degradarla.

 

Il tempo spazializzato e il tempo come durata

 

Proprio per essere fedele alla realtà, negli anni della gioventù, Bergson si entusiasmò per la teoria evoluzionistica di Spencer, che non voleva far altro che perfezionare e consolidare.
Fu, però, proprio attraverso questo lavoro che Bergson si accorse che il Positivismo non mantiene affatto la promessa della fedeltà ai fatti, come appare, per esempio, dalla trattazione del problema del tempo.
Bergson dice che alla meccanica sfugge il tempo dell'esperienza concreta. Per la meccanica, leggiamo nel Saggio sui dati immediati della coscienza, il tempo è una serie di istanti uno accanto all'altro, come emerge dalle successive posizioni delle lancette dell'orologio. Per questo, il tempo della meccanica è tempo spazializzato. Misurare il tempo, infatti, significa controllare che il movimento di un certo oggetto in uno spazio determinato coincide con il movimento delle lancette dentro quello spazio che è il quadrante dell'orologio.
Oltre che spazializzato, il tempo della meccanica è un tempo reversibile, poiché possiamo tornare indietro e ripetere infinite volte lo stesso esperimento. Per la meccanica, inoltre, ogni momento è esterno all'altro, ed è uguale all'altro: un istante si sussegue all'altro, e non c'è un istante diverso dall'altro, più intenso o più importante dell'altro.
Ebbene, tali caratteristiche del tempo della meccanica non riescono minimamente a render conto di quello che è il tempo dell'esperienza concreta.
Se la spazialità è la caratteristica delle cose, la durata è la caratteristica della coscienza. La coscienza coglie immediatamente il tempo come durata.
Durata vuol dire che l'io vive il presente con la memoria del passato e l'anticipazione del futuro. Fuori della coscienza il passato non è più e il futuro ancora non è. Passato e futuro possono vivere soltanto in una coscienza che li salda nel presente.
La durata vissuta non è quindi il tempo spazializzato della meccanica. Nel tempo della meccanica gli istanti sono differenti solo quantitativamente, ma in quello della coscienza un istante può valere l'eternità, o comunque può essere decisivo per una vita: ci sono momenti che non passano mai e giornate e periodi che volano via.
Nel tempo della meccanica i momenti sono uno esterno all'altro; ma nella vita interiore, in quel continuo fluire che è la "durata" della coscienza, un momento compenetra l'altro, si salda all'altro, cresce sull'altro e a questo si avviluppa, come dimostra l'esperienza del rimorso.
Il tempo della meccanica è reversibile, ma per la coscienza e per la vita è vano andare alla ricerca del tempo perduto: l'oggi è diverso da ieri, l'istante successivo presuppone sempre e cresce sull'esperienza dell'istante precedente e di tutto il passato, e quindi, di fronte ad essi, si presenta sempre come irriducibile ed autentica novità.
In breve, il tempo concreto è durata, vissuta, irreversibile e nuova in ogni istante.
L'immagine adatta del tempo concreto della coscienza è quella di un gomitolo di filo che cresce conservando se stesso: nella vita della coscienza, infatti,

 

il nostro passato ci segue e s'ingrossa senza posa col presente che raccoglie lungo la strada.

 

D'altra parte, la concezione spazializzata del tempo può venir capita attraverso l'immagine di una collana di perle tutte uguali ed esterne le une alle altre, e certo, il tempo spazializzato, e quindi quantitativo e misurabile, cristallizzato in una serie di momenti esterni l'uno all'altro funziona bene per le finalità pratiche della scienza che ha per compito quello di costruire teorie utili in quanto ricche di previsioni che si riducono in tal modo a strumenti efficaci per controllare le situazioni che, di volta in volta, sono da fronteggiare.
La realtà, per Bergson, presenta aspetti diversi che, volendo rimanere fedeli all'esperienza, vanno studiati con un metodo proprio. È qui che, a suo avviso, il Positivismo fallisce, nella concezione per cui la natura dei fatti è unica e nella pretesa di giudicare tutti i fatti con lo stesso metodo.

 

Quando seguo con gli occhi, sul quadante di un orologio il movimento della lancetta che corrisponde alle oscillazioni del pendolo, non misuro una durata, come pare si creda; mi limito a contare delle simultaneità, e questa è una cosa molto diversa. Fuori di me nello spazio, c'è soltanto un'unica posizione della lancetta e del pendolo, poiché non resta nulla delle posizioni passate. Dentro di me si svolge un processo di organizzazione e di mutua penetrazione che costituisce la durata reale. Unicamente perché io duro in questo modo mi rappresento quelle che si chiamano oscillazioni passate mentre percepisco l'oscillazione attuale.

 

Il mondo della coscienza e quello delle cose nello spazio sono, quindi, diversi:

 

Nella coscienza noi troviamo degli stati che si succedono senza distinguersi, nello spazio delle simultaneità che si distinguono senza succedersi, nel senso che l'una non esiste più quando l'altra appare. Fuori di noi, esteriorità reciproca senza successione; dentro, successione senza esteriorità reciproca.

 

 

Durata e libertà

 

 

Perché la "durata" fonda la libertà

 

All'idea di durata, quale fondamentale caratteristica della coscienza, Bergson lega la sua difesa della libertà e la sua critica al determinismo quando questo presume di poter spiegare la vita della coscienza. In realtà, se gli oggetti non portano il segno del tempo trascorso, se cioè essi esistono uno esterno all'altro in un tempo spazializzato, allora la determinazione di un evento successivo per mezzo di un evento precedente, distinto da esso, è possibile: primi eventi identici (le cause) spiegano successivi eventi identici (gli effetti).
Ciò che è possibile (ed utile) nell'ambito degli oggetti spazializzati, si rivela subito impossibile per la coscienza.
La coscienza conserva le tracce del proprio passato; in essa non esistono mai due eventi identici, per cui la determinazione di successivi eventi identici risulta impossibile. La vita della coscienza non è divisibile in stati distinti, l'io è una unità in divenire: e dove nulla vi è di identico, niente vi è di prevedibile.
Sia i deterministi sia i sostenitori della dottrina del libero arbitrio sono, secondo Bergson, in errore poiché applicano alla coscienza le categorie tipiche di quel che, invece, è esterno alla coscienza. I deterministi cercano le cause determinanti dell'azione, e non si accorgono che l'unico motivo profondo è la coscienza tutt'intera con la sua storia; e parimenti si comportano i sostenitori del libero arbitrio che pongono la causa della libertà nella volontà. In sostanza, sia i sostenitori che i detrattori della libertà della coscienza presuppongono un'idea di coscienza come una somma di atti distinti, mentre l'io è un'unità in divenire, per cui

 

siamo liberi quando i nostri atti emanano dalla nostra personalità intera, quando la esprimono.

 

Quando si afferma che i nostri atti dipendono dal nostro carattere, non si dice altro che essi dipendono da noi, da quel che siamo, o meglio da quel che siamo diventati. Se coincidiamo con quel che siamo, allora siamo liberi. È vero che i nostri atti non sempre scaturiscono dalla radice profonda del nostro io; spesso essi sono abitudini, e in quanto tali essi risultano meccanizzati e prevedibili come i fenomeni esterni. Quindi in essi non siamo liberi. Se tuttavia i nostri atti scaturiscono dal profondo di noi stessi, se esprimono la totalità della nostra persona, la loro libertà è indubitabile.
Quanto più andiamo in superficie e assomigliamo alle cose, tanto più le nostre azioni diventano prevedibili; più scendiamo nel profondo, più siamo noi stessi e più le nostre azioni sono imprevedibili. Tutto questo ci dice che occorre andare al di là del dilemma in cui il determinismo si fronteggia con il libero arbitrio. La disputa, così importante, è irresolubile perché le premesse sono mal poste.
L'analisi del tempo ci ha rivelato che la coscienza non è una cosa come le altre, una cosa tra le altre cose; per questo sia il linguaggio sia i metodi adatti per lo studio delle cose, falliscono quando li si applica alla coscienza.

 

L'io, infallibile nelle sue costatazioni immediate, si sente libero e lo dichiara. Ma non appena cerca di spiegare a se stesso la propria libertà, non si percepisce più se non per mezzo di una specie di rifrazione attraverso lo spazio; da qui un simbolismo di natura meccanicistica, ugualmente incapace di provare la- tesi del libero arbitrio, di farla comprendere e di confutarla.

 

 

Materia e memoria; memoria, ricordo e percezione

 

Materia e memoria

 

Nel Saggio sui dati immediati della coscienza il tempo spazializzato della scienza si oppone alla durata della coscienza, o tempo dell'esperienza concreta. Tale opposizione si ripercuote nell'altra contrapposizione tra una realtà esterna, meccanica, mai nuova in quanto sempre ripetitiva, e una realtà interna, fusa nell'unità dell'io, sempre creativamente nuova.
Bergson non poteva quindi evitare il problema del rapporto o, meglio, del passaggio tra le due realtà. Tale problema si imponeva anche per la ragione che egli nella coscienza aveva visto la possibilità di questa di solidificarsi e quasi pietrificarsi in situazioni di ripetitività meccanica.
La questione del passaggio tra la realtà esterna (la materia) e quella interna (lo spirito) è affrontata da Bergson nel libro Materia e memoria.
Alcuni pensatori, dice Bergson, sostengono la teoria del parallelismo psicofisico secondo cui gli stati mentali e gli stati cerebrali sono due diversi modi di parlare della stessa cosa o dello stesso processo. L'evoluzionismo materialistico, invece, afferma che gli stati mentali (cioè la coscienza) sono un epifenomeno (ovvero una semplice funzione) del cervello.
Bergson avversa ambedue queste dottrine e reputa la prima di esse sostanzialmente equivalente alla seconda.
Contro la riduzione dello spirito a materia, invece, Bergson propone e ribadisce l'idea che il cervello non spieghi lo spirito e che in una coscienza umana c'è infinitamente di più che nel cervello corrispondente.
Per illuminare la propria tesi, Bergson, assumendo i dati delle scoperte di psico-fisiologia effettuate in quell'epoca, compie una approfondita analisi dell'attività della coscienza distinguendo tre distinti momenti di essa, e cioè la memoria, il ricordo e la percezione.
 - La memoria coincide e si identifica con la coscienza stessa, ed è proprio per e nella memoria che «il nostro passato ci segue tutto intero, in ogni momento» e quello che «abbiamo sentito, pensato, voluto fin dalla prima infanzia è là, chino sul presente, che esso sta per assorbire in sé, incalzante alla porta della coscienza».
 - Da questa memoria spirituale, che è la "durata" della coscienza si distingue il ricordo. Il nostro essere più vero e più profondo sta nella memoria spirituale, ma la vita ci impone di porre attenzione al presente e ripesca dal passato unicamente quanto serve perché ci si possa orientare appunto nel presente. Questa opera di selezione del ricordo utile e dell'oblio di quanto al presente non serve viene effettuata dal corpo e dal cervello: questi tirano fuori dal flusso anche abissale della coscienza quei ricordi che sono funzionali all'inserimento — attraverso le percezioni — del nostro organismo nella situazione del presente. Nel cervello, in breve, passa solo una parte, una parte molto piccola, di quello che è il processo della coscienza, ci passa unicamente quanto può tradursi in movimento:

 

Chi potesse guardare all'interno di un cervello in piena attività — egli scrive — saprebbe di certo qualcosa di quel che avviene nella coscienza, ma ne saprebbe ben poco; di essa conoscerebbe solo quello che è esprimibile in gesti, atteggiamenti, movimenti del corpo [...], il resto gli sfuggirebbe; egli sarebbe, rispetto ai pensieri e ai sentimenti che si svolgono nell'intimo della coscienza, nella situazione di uno spettatore il quale vedesse distintamente tutto ciò che gli altri fanno sulla scena ma che non capisse una parola di quello che dicono.

 

La memoria spirituale, per realizzarsi, ha bisogno dei meccanismi legati al corpo giacché è attraverso il corpo che noi agiamo sugli oggetti del mondo — ma essa è dal corpo indipendente, tanto che una lesione del cervello non colpisce la coscienza, quanto piuttosto il collegamento fra la coscienza e la realtà: la coscienza resta intatta anche se perde il contatto con le cose.
 - Per Bergson, il corpo, sempre orientato all'azione, ha come funzione essenziale quella di limitare, in vista dell'azione, la vita dello spirito. Fa questo tramite la percezione che è l'azione possibile del nostro corpo sugli altri corpi. La percezione è il potere d'azione del nostro corpo che si destreggia tra le "immagini" degli oggetti. Il ricordo, come immagine del passato, orienta la percezione presente, per il fatto che noi agiamo sempre in base alle esperienze passate. Così, tutto il passato della persona si trova aperto sino all'estremo che è l'azione nel presente. In ogni istante della nostra vita, pertanto, si ha un legame tra memoria e percezione, in vista dell'azione:

 

Tutto dunque deve accadere come se una memoria indipendente raccogliesse le immagini lungo il corso del tempo via via che esse si producono, e come se il nostro corpo, con quanto lo circonda, non fosse che una di queste immagini, l'ultima, quella che si ottiene ad ogni momento effettuando un taglio istantaneo nel divenire in generale.

 

In tal maniera, la memoria e la percezione si identificano rispettivamente con lo spirito e con il corpo.
La memoria fonde in una totalità la vita vissuta; la percezione consiste nel distaccare, nell'insieme degli oggetti, l'azione possibile del mio corpo su di essi. La percezione non è quindi se non una selezione; la percezione è propria di un essere assorbito nel presente e capace di conseguire, per mezzo dell'eliminazione della memoria in tutte le sue forme, una visione della materia nello stesso tempo immediata ed istantanea.
La libertà della coscienza trova, di conseguenza, le sue limitazioni nella percezione. La percezione, a sua volta, rientra nel flusso della vita dell'io, fondendosi nella memoria o coscienza.
Dunque, il vero rapporto tra spirito e materia (anima e corpo) consiste, da una parte, la memoria che assume il corpo di una qualche percezione in cui esso si inserisce, dall'altra, la percezione viene riassorbita dalla memoria e si fa pensiero. Il corpo ha sì la funzione di limitare, in vista dell'azione, la vita dello spirito; ma lo spirito travalica da ogni parte i limiti del corpo. La percezione ci assorbe nel presente, ma lo spirito, che cresce di continuo, ci spinge verso il futuro. La vita è crescita dello spirito attraverso le sue contrazioni materiali, contrazioni che lo spirito riassorbe nella propria durata.

 

 

L'evoluzione; istinto, intelligenza e intuizione

 

 

Slancio vitale ed evoluzione creatrice

 

Bergson non vede l'universo alla maniera di Descartes come diviso tra la res cogitans e la res extensa. Lo spirito e la materia, l'anima e il corpo, sono due poli della medesima realtà, e non due realtà distinte:
Proprio  ne L'evoluzione creatrice (del 1907) Bergson passa dall'analisi dei dati immediati della coscienza alla elaborazione di una visione globale della vita e della realtà, proponendo l'idea di un evoluzionismo cosmologico.
Le teorie dell'evoluzione si distinguono in due grandi classi, quelle meccanicistiche e quelle finalistiche.
L'evoluzionismo meccanicistico è ben rappresentato dalla teoria di Darwin: un fatto come una mutazione casuale favorisce, nella lotta per la sopravvivenza, un individuo piuttosto che altri; la mutazione vantaggiosa, trasmessa per ereditarietà ai discendenti, permette la sopravvivenza dei più adatti. Nell'evoluzione darwiniana, cioè, la trasformazione delle specie non segue nessun fine, è una evoluzione ateleologica, senza ordine prestabilito; date le mutazioni, essa prosegue sulla via della necessità.
Anche l'evoluzionismo finalistico, però, per il quale l'evoluzione seguirebbe un piano determinato e funzionale al raggiungimento di un fine, è una teoria deterministica e quindi meccanicistica. L'evoluzionismo meccanicistico spiega l'evoluzione nei termini della causa efficiente, quello finalistico in base alla causa finale; l'uno in base a ragioni che determinano l'evoluzione per mezzo del passato, l'altro in base a ragioni che determinano l'evoluzione per mezzo del futuro.
Bergson sostiene che, al pari della vita e della coscienza, la vita biologica non è una macchina che si ripete sempre identica a stessa; bensì è continua ed incessante novità, è creazione, imprevedibilità, è vita sempre nuova che, inglobando e conservando l'intero passato, cresce su se stessa. L'idea di evoluzione creatrice permette di andare al di là delle difficoltà e delle falsità del meccanicismo e del finalismo, giacché la vita è una realtà che si stacca nettamente al di sopra della materia bruta.
La vita (e non solo la coscienza) è un soggetto di durata, perché anch'essa è un processo irreversibile, in cui il passato si accumula in una specie di memoria organica, per cui non si può pensare di riportare il vivente a una situazione identica a quella di un qualsiasi momento del suo passato.
La vita, insomma, è evoluzione creatrice, creazione libera ed imprevedibile, è "slancio vitale" il quale non ha che da distendersi per estendersi.
La materia non è altro che il momento dell'arresto di questo slancio vitale. La vita è quello slancio per il quale essa tende a crescere in numero ed in ricchezza per moltiplicazione nello spazio e complicazione nel tempo; si tratta di una continua creazione di forme, dove quel che viene dopo non è affatto una semplice ricombinazione degli elementi che c'erano prima; essa è azione che di continuo si crea e si arricchisce, mentre la materia è azione che si dissolve e si logora, che progressivamente si depotenzia e si degrada, cosa questa attestata anche dal secondo principio della termodinamica.
Per Bergson, non ci sono cose, ma soltanto azioni. Ciò significa che le cose o oggetti sono isolabili all'interno di un'unica evoluzione e sono isolabili in quanto è possibile rappresentarli come gesti creatori che si disfanno:

 

pensiamo a un gèsto come quello del braccio che si solleva; poi, supponiamo che il braccio, abbandonato a se stesso, ricada, ma che tuttavia permanga in esso, sforzandosi di risollevarlo, qualche cosa della volontà che lo ha animato. Questa immagine di un gesto creatore che si disfà verrà a darci una rappresentazione più esatta della materia.

 

La materia è slancio vitale degradato, slancio che ha perduto di creatività e che in tal modo diventa un ostacolo per lo slancio successivo, come l'onda del mare che, rientrando, si trasforma in ostacolo per l'onda che incalza. La vita, invece, è corrente che attraversando i corpi che essa ha via via organizzato e passando di generazione in generazione si è divisa tra le specie e sparsa tra gli individui.
La materia è per Bergson un riflusso dello slancio vitale che, a partire da una originaria unità, si irraggia e ricade in una molteplicità di elementi, il cui slancio e creatività vanno spegnendosi.
L'evoluzione, pertanto, non descrive una traiettoria unica, paragonabile a quella di una palla di cannone piena:

 

al contrario, noi ci troviamo dinanzi ad una granata scissasi improvvisamente in frammenti che, essendo essi stessi granate, sono scoppiati a loro volta, dando luogo a frammenti destinati a scoppiare ancora, e così di seguito, per moltissimo tempo. Noi ci accorgiamo dei frammenti più piccoli: da essi, quindi, dobbiamo risalire, di grado in grado, al movimento originario. Quando la granata scoppia, il suo frammentarsi si lega ad un tempo con la forza esplosiva della polvere e la resistenza che il metallo vi oppone. Lo stesso vale per il frammentarsi della vita in individui e in specie. Esso è prodotto, pensiamo, da due serie di cause: la resistenza che alla vita oppone la materia bruta, e la forza esplosiva, dovuta a un equilibrio instabile di tendenze, che la vita reca in sé.

 

L'evoluzione creatrice, dunque, non è un processo uniforme. Essa somiglia ancora ad un fascio di steli, ognuno dei quali rappresenta una via diversa dell'evoluzione, una delle biforcazioni in cui lo slancio vitale disperde la sua originaria unità. L'evoluzione, in altri termini, si sventaglia in direzioni divergenti, dove vediamo che i viventi si specializzano in specifiche e precise funzioni.
La prima, fondamentale biforcazione è quella che si ha tra le piante e gli animali. Le piante, ingabbiate nella notte dell'incoscienza e dell'immobilità, immagazzinano energia potenziale; gli animali, mobili, vanno alla ricerca del cibo, e la coscienza nasce proprio da questa ricerca. Gli animali, a loro volta, si biforcano o "esplodono" in ulteriori direzioni, una delle quali conduce alle forme più perfette di istinto, come negli imenotteri (le api), mentre un'altra, quella dei vertebrati, porta, con l'intelligenza umana, oltre l'istinto.
Il rapporto tra slancio vitale e materia, dunque, è analogo a quello esistente tra memoria e percezione. L'importante è comprendere che vita e materia sono tutte e due alla base dell'evoluzione. La storia di tale evoluzione è la storia della vita organica nei suoi sforzi continui e tentativi incessanti per liberarsi della passività ed inerzia della materia. La vita organica tenta di risalire su per quella china che la materia è incline a ridiscendere. Infatti, la vita organica, ad opera della fotosintesi clorofilliana, ripesca la dispersione dell'energia solare, assorbe così energia potenziale che gli animali sfrutteranno per muoversi e per agire. È questo il modo in cui la materia ritorna nel flusso dello slancio vitale. Lo slancio vitale, per mezzo della vita, risale appoggiandosi sulle sue dispersioni e cadute.

 

Istinto, intelligenza, intuizione

 

La vita animale non si è sviluppata in un'unica direzione. E in alcune di queste direzioni, come quella in cui sono finiti i molluschi, essa ha incappato in vicoli ciechi. Tuttavia,in rapporto alla mobilità e alla coscienza, essa ha trovato il successo più grande negli artropodi e nei vertebrati. L'evoluzione degli artropodi manifesta la sua espressione migliore negli insetti e specialmente negli imenotteri; mentre quella dei vertebrati la manifesta nell'uomo. Mentre nella linea degli artropodi l'evoluzione porta a forme sempre più perfette di istinto, nella seconda conduce verso l'intelligenza. Ciò, anche se una qual certa "frangia d'intelligenza" accompagna l'istinto e un "alone d'istinto" resta attorno all'intelligenza.

 

L'istinto è la facoltà di utilizzare e anche di costruire strumenti organici, l'intelligenza è la facoltà di fabbricare e impiegare strumenti inorganici [...]. Istinto e intelligenza rappresentano pertanto due soluzioni divergenti, ma parimenti eleganti dello stesso problema.

 

È il problema della vita. L'istinto funziona per mezzo di organi naturali, l'intelligenza crea strumenti artificiali. L'istinto è ereditario, l'intelligenza no; l'istinto si rivolge ad una cosa, l'intelligenza è invece conoscenza dei rapporti tra cose; l'istinto è inconsapevole, l'intelligenza consapevole; l'istinto è ripetitivo, l'intelligenza è invece creativa.
L'istinto è appunto ripetitivo, rigido, è abitudine; esso offre soluzioni adeguate, ma per un solo problema; l'istinto è incapace di variare. L'intelligenza, da parte sua, non conosce le cose stesse, ma i rapporti tra le cose; per questo essa conosce, attraverso i concetti, le "forme" e, distaccandosi dalla realtà immediata, può prevedere quella futura.
Per ragioni pratiche, dunque, l'intelligenza analizza ed astrae, classifica e distingue, e frantuma la durata reale — come in una pellicola cinematografica — in una serie di stati. Mille fotografie di Parigi, però, non sono Parigi.
Dunque, né l'istinto né l'intelligenza (e la scienza che essa produce) ci danno la realtà. Tuttavia, l'intelligenza, che mai è separata completamente dall'istinto, può tornare consapevolmente all'istinto. Quando ciò accade, abbiamo l'intuizione che è istinto divenuto disinteressato, cosciente di sé, capace di riflettere sul proprio oggetto e di ampliarlo indefinitamente.
L'intelligenza gira intorno all'oggetto, prende su di esso dall'esterno il maggior numero possibile di vedute, ma non entra in esso; all'interno della vita condurrà, invece, l'intuizione.
L'intelligenza produce analisi, e spezza il divenire; l'intuizione, invece, procede attraverso la simpatia e questa trasporta nell'interno stesso di un oggetto per coincidere con ciò che- tale oggetto ha di unico e quindi di inesprimibile attraverso i simboli e i concetti dell'intelligenza.
L'intuizione è la visione dello spirito da parte dello spirito: essa è immediata come l'istinto e consapevole come l'intelligenza. Che l'intuizione sia un processo reale, poi, è dimostrato dall'intuizione estetica dove le cose appaiono prive di tutti i legami con i bisogni quotidiani e le urgenze dell'azione.
L'intuizione svela la durata della coscienza e il tempo reale; rende consapevoli della libertà. L'intuizione è l'organo della metafisica: la scienza analizza, la metafisica intuisce e così ci fa entrare in contatto diretto con le cose e con quell'essenza della vita che è la durata.

 

Il fiume della vita

 

L'intelligenza, dunque, gira attorno agli oggetti in cui essa spezza la durata; essa spazializza il divenire in momenti successivi ciascuno immobile, talché, come asserì Zenone nel paradosso — per esempio — della freccia,  si trova costretta a negare il movimento.
L'intuizione, invece, immerge nel fiume della vita, svela la memoria e la durata, fa avvertire la libertà, fa penetrare nello slancio vitale. È grazie all'intuizione che ci rendiamo conto che la vita è come

 

un'onda immensa che si sia propagata a partire da un centro e che, su quasi tutta la sua circonferenza, si sia arrestata: in un punto solo l'ostacolo è stato forzato e l'impulso è passato liberamente; dappertutto fuor che nell'uomo, la coscienza ha finito con l'arrestarsi in un vicolo cieco; soltanto con l'uomo ha proseguito il suo cammino; l'uomo pertanto continua, indefinitamente, il movimento vitale, sebbene non trascini con sé tutto ciò che la vita racchiudeva in se medesima.

 

Grazie all'intuizione capiamo che

 

tutti gli esseri viventi sono congiunti insieme e tutti obbediscono al medesimo formidabile impulso; l'animale ha il suo punto d'appoggio nella pianta, l'uomo nell'animalità, e l'umanità intera, nello spazio e nel tempo, è come uno sterminato esercito che galoppa al fianco di ciascuno di noi, avanti e dietro a noi, in una carica travolgente, capace di rovesciare tutte le resistenze, e di superare moltissimi ostacoli, forse anche la morte.

 

 

Le sorgenti della morale e della religione

 

 

Società chiusa e società aperta

 

Lo slancio vitale che si arresta nelle altre specie viventi, concretandosi nella ripetizione di comportamenti sempre identici, nell'uomo supera gli ostacoli esprimendosi nell'umana attività creatrice, le cui principali forme sono l'arte, la, filosofia, la morale e la religione.
Nell'ultima opera, Le due fonti della morale e della religione (1932), Bergson concentra la sua attenzione sul tema della creatività morale e religiosa dell'uomo, concludendo con una teoria dei valori (morali e religiosi).
Le norme morali, a suo avviso, hanno due fonti: la pressione sociale e lo slancio di amore.
Nel primo caso le norme esprimono le esigenze della vita associata dei diversi gruppi umani, così come questi si sono dati e si danno nella storia. La storia, infatti, insegna che l'individuo si trova nella società in modo analogo a quello in cui una cellula è nell'organismo o una formica nel formicaio. L'individuo, in genere, segue la via che trova già battuta dagli altri e codificata nelle norme, si adegua alle regole, esalta gli ideali della società cui appartiene e cerca di conformarvisi. Alla base della società c'è solo l'abitudine a contrarre abitudini e questo, ad una analisi approfondita, risulta essere l'unico fondamento dell'obbligazione morale.
La morale dell'obbligazione e dell'abitudine è la morale della società chiusa, dove l'individuo agisce come parte del tutto e questo tutto è un gruppo determinato come la nazione, la famiglia o il club.
Esiste però anche la morale assoluta, che è la morale della società aperta. Questa è la morale del Cristianesimo, dei saggi della Grecia e dei profeti d'Israele. Tale morale è l'opera creatrice di valori universali, di eroi morali quali Socrate o Gesù, i quali vanno al di là dei valori del gruppo o della società cui appartengono per guardare all'uomo in quanto uomo, all'intera umanità.
La morale della società chiusa è statica; quella della società aperta è dinamica. La morale della società chiusa è impersonale e conformistica poiché ripete abitudini acquisite e diventate tabù; quella della società aperta fa appello alla originalità e alla profondità della persona.
Le società finora esistite, secondo Bergson, sono state società chiuse, ma è quella società aperta costituita da tutta l'umanità che la morale aperta o assoluta prende in considerazione. Per questo non c'è continuità tra la morale della famiglia o della nazione e quella che istituisce i doveri verso l'umanità:

 

fra la nazione, per quanto grande, e l'umanità, c'è la stessa distanza che esiste tra il finito e l'infinito, il chiuso e l'aperto.

 

Il fondamento della morale aperta è la persona creatrice; il fine ne è l'umanità; il suo contenuto è l'amore verso tutti gli uomini; la sua caratteristica è l'innovazione morale, capace di rompere con gli schemi fissi delle società chiuse.
La moralità aperta non si insegna: è la morale dei grandi mistici e rivelatori e di quanti seguono l'ispirazione che li induce a seguirli.

 

Religione statica e religione dinamica

 

Come nella vita morale, così anche nella vita religiosa Bergson distingue tra religione statica e religione dinamica.
La religione statica, intessuta di miti e di favole, è l'esito di ciò che Bergson chiama funzione fabulatrice, che si sviluppa durante l'evoluzione per scopi eminentemente vitali.
L'essere umano ha intelligenza e questa rappresenta una minaccia continua sempre pronta a rivolgersi contro la vita. L'essere intelligente, infatti, tende all'egoismo, a infrangere i rapporti sociali; egli è consapevole della propria mortalità, conosce l'imprevedibilità del futuro e la precarietà delle umane imprese.
La religione, allora, con le sue favole, i suoi miti, e le sue superstizioni, rafforza i legami sociali tra l'uomo e i suoi simili, e perciò , nella sua forma primitiva essa è una precauzione contro il pericolo che si corre allorquando si comincia a pensare soltanto a sé.
La religione, poi, dà la speranza dell'immortalità, offre all'uomo l'idea di una difesa contro l'imprevedibilità e la precarietà del futuro, gli dà il senso di una protezione soprannaturale e la credenza di poter influire sulla realtà, specialmente quando la tecnica risulta impotente. La religione, dunque, è una difesa contro la minaccia dell'intelligenza sull'uomo e sulla società.
In questo senso, essa è religione naturale, frutto e funzione dell'evoluzione naturale.
Per Bergson questa religione statica e naturale è infra-intellettuale. Non è, però, l'unica forma di religione. Accanto ad essa c'è la religione sopra-intellettuale, la religione dinamica per la quale i dogmi sono soltanto cristallizzazioni e che immette nello slancio vitale e lo continua.
Questa religione, la religione dinamica, è il misticismo, il cui risultato

 

è una presa di contatto, e di conseguenza una coincidenza parziale, con lo sforzo creatore che la vita manifesta. Questo sforzo è di Dio, se non è Dio stesso.

 

L'amore del mistico per Dio coincide, con l'amore di Dio per Dio stesso. L'amore di Dio, così, diventa amore per l'umanità. Solo l'esperienza mistica, poi, è in grado di fornire l'unica prova per l'esistenza di Dio; l'accordo tra i mistici non solo cristiani, ma anche di altre religioni, mostra appunto l'esistenza reale di quell'Essere con il quale l'intuizione mistica mette in contatto. La religione dinamica, o aperta, è la religione dei mistici. E di geni mistici, sottolinea Bergson, ha oggi urgente bisogno l'umanità. L'umanità, infatti, ha, attraverso la tecnica, ampliato la propria azione incisiva sulla natura e, in tal modo, possiamo dire che il corpo dell'uomo si è ingrandito oltre misura. Ebbene questo corpo ingrandito attende un supplemento di anima, come la meccanica esigerebbe una mistica.

 

 

Il Neoidealismo. Spaventa, Croce ed Hegel

 

 

il neoidealismo italiano

 

 

Napoli fu la città che costituì la culla dell'Idealismo italiano.
Nelle università di Napoli insegnarono, infatti, Augusto Vera (1813-1885) e Bertrando Spaventa (1817-1883), che furono i protagonisti della diffusione del verbo Hegeliano in Italia.

 

Bertrando Spaventa tentò faticosamente il ripensamento di Hegel, allo scopo di operare una semplificazione ed una rigorizzazione del medesimo.
Nella misura in cui Hegel distingueva Idea-Natura-Spirito, mostrava di non aver ancora completamente guadagnato la perfetta identità e mediazione di Io e Non-Io, di non avere perfettamente «mentalizzato» il reale, ossia di non averlo ancora perfettamente ridotto alla Coscienza.
Egli concepisce l'Assoluto come autocreazione ex nihilo, in quanto l'Ultimo, l'atto del pensare, lo Spirito, il Creatore è il vero Primo, e il Primo è l'Ultimo; e il primo nella produzione è l'essere (che si identifica con il nulla).
La creazione è libera perché è il presupposto che il pensare, lo Spirito, fa a se stesso; è amore, amore di se stesso, Bene.

 

 

benedetto croce (1866-1952)

 

 

Nel Contributo alla critica di me stesso Croce scrive:

 

Il lievito dello hegelismo sopraggiunse nel mio pensiero assai tardi; e la prima volta attraverso il marxismo e il materialismo storico, che, come avevano avvicinato il mio maestro, Labriola, allo Hegel ed alla dialettica, così mi fecero avvertire quanta concretezza storica fosse, pur in mezzo a tanti arbitri e artifizi, nella filosofia hegeliana.

 

Il sistematico ripensamento di Hegel ebbe luogo nel 1905 e successivamente lo portò alla riscoperta di Vico e alla rivalutazione del medesimo in una nuova ottica.

 

“Ciò che è vivo e ciò che è morto nella filosofia di Hegel”

 

Questo titolo esprime il contenuto dell'opera di Croce che può essere considerato il manifesto del suo nuovo spiritualismo.
Secondo Croce, Hegel ha scoperto l'autentica dimensione e la vera statura del pensiero filosofico, cioè:
 - concetto, cioè non è né intuizione o sentimento né alcunché di immediato;
 - universale, cioè non semplice generalità;
 - concreto, in quanto coglie la realtà nella sua stessa linfa vitale.
L'universale concreto è sintesi di opposti. Hegel, in tal modo, ha superato sia la posizione di quanti riducevano gli opposti a una coincidentia sia quella di quanti, contrapponendoli come irriducibili, li distinguevano dualisticamente.

 

La realtà è nesso di opposti, e non si sfascia e dissipa a cagione della opposizione: anzi si genera eternamente in essa e da essa. E non si sfascia e dissipa il pensiero che, come suprema realtà, realtà della realtà, coglie l'unità nell'opposizione e logicamente la sintetizza. Come tutte le affermazioni di verità, la dialettica di Hegel non viene a cacciare di seggio le precedenti verità, ma a confermarle e arricchirle. L'universale concreto, unità nella distinzione e nell'opposizione, è il vero e compiuto principio d'identità che non lascia sussistere separatamente, né come suo compagno né come suo rivale, quello delle vecchie dottrine, perché l'ha risoluto in sé, trasformandolo in proprio succo e sangue.

 

Croce, tuttavia, ritiene che Hegel abbia poi usato a sproposito la sua dialettica, nel senso che ha guardato soltanto agli opposti che sono nella realtà senza tenere conto dei distinti, da lui totalmente ignorati. Fantasia ed intelletto, infatti, sono distinti e non opposti, e, analogamente attività economica ed attività morale sono distinti e non opposti. Nello Spirito, quindi, vi sono "categorie" che si distinguono e che per nessuna ragione è lecito trattare come opposti.

 

Una nuova dialettica, secondo Croce, dovrà quindi essere “nesso di distinti” oltre che “sintesi di opposti” secondo il seguente schema:

 

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Attività conoscitiva e pratica non sono opposte e non sono dialettizzabili come tali; né di conseguenza sono opposti fantasia ed intelletto, attività economica ed etica, o qualunque di questi membri rispetto agli altri. L'opposizione ha invece luogo all'interno di ciascun distinto.
Pertanto, ciascuno dei membri che costituiscono opposizione all'interno di ciascun distinto, non può costituirsi come opposto rispetto a nessuno dei termini che rientrano all'interno di altri distinti: il bello non è opposto al vero e nemmeno al falso, e nemmeno all'utile o al dannoso, o al buono e cattivo; il brutto non è opposto al vero ecc.
Lo Spirito, dunque, ha due forme fondamentali ritmate in quattro “gradi” inseparabili, pure nella distinzione, perché si implicano reciprocamente, e l'uno non può essere senza l'altro.
In tale distinguersi-implicandosi e implicarsi-distinguendosi consiste la vita dello Spirito, che può essere detta, con un termine che Croce desume da Vico, “storia ideale eterna”, come un circolo, in cui nessuno dei momenti è inizio assoluto.

 

Se è vero che i distinti costituiscono una storia ideale o una serie di gradi, è anche vero che, in questa storia e serie, c'è un primo e c'è un ultimo, il concetto a, che apre la serie, e, poniamo, il concetto d, che la chiude. Ora, perché il concetto sia unità nella distinzione e si possa comparare a un organismo, è necessario che esso non abbia altro cominciamento che se stesso e che nessuno dei suoi singoli termini distinti sia cominciamento assoluto. Nell'organismo, infatti, nessun membro ha priorità sugli altri, e ciascuno è reciprocamente primo ed ultimo. Ma il vero è che il simbolo della serie lineare è inadeguato al concetto, al quale meglio conviene il circolo, in cui a e d fungono, a volta a volta, da primo e da ultimo. I concetti distinti sono, in quanto storia ideale eterna, un eterno corso e ricorso, in cui da d risorge a, b, c, d, senza possibilità di arresto e di tregua, e in cui ciascuno, sia a, o b, o c, o d, pur non potendo cangiare ufficio e posto, è designabile, a volta a volta, come primo o come ultimo. A mo' d'esempio, nella Filosofia dello Spirito, si può dire con pari ragione o torto che il fine o termine finale dello spirito sia il conoscere o l'operare, l'arte o la filosofia; perché in realtà, nessuna di queste forme in particolare, ma solamente la totalità di esse è il fine, ossia solo lo Spirito è il fine dello Spirito.

 

L'opposto negativo, poi, non ha autonomia di per sé preso, ma accompagna l'altro «come l'ombra la luce». Infatti, secondo Croce, la bellezza è tale perché nega la bruttezza, il bene perché nega il male, e via dicendo. L'opposto non è il distinto del suo opposto, ma un'astrazione della realtà vera.

 

Daltutto, appare la partizione della “filosofia dello Spirito” crociana:
a) lo studio del momento teoretico-intuitivo sarà l'Estetica;
b) lo studio del momento teoretico-intellettivo sarà la Logica;
c) lo studio dell'attività pratica rivolta al particolare sarà l'Economica;
d) lo studio dell'attività pratica rivolta all'universale sarà l'Etica.
Invece, la considerazione dello Spirito nel suo complesso che è pensiero e azione, emergerà da Teoria e storia della storiografia e da Storia come pensiero e come azione.

 

 

L'estetica

 

 

L'estetica

 

All'inizio del Breviario di estetica (incluso nei Nuovi saggi di estetica), Croce lancia una provocazione:

 

Alla domanda che cosa è l'arte? si potrebbe rispondere celiando (ma non sarebbe una celia sciocca): che l'arte è ciò che tutti sanno che cosa sia. E, veramente, se in qualche modo non si sapesse che cosa è, non si potrebbe neppure muovere quella domanda, perché ogni domanda importa una certa notizia della cosa di cui si domanda, designata nella domanda, e perciò qualificata e conosciuta.

 

L'uomo, per Croce, ha una sorta di comprensione delle verità fondamentali, che la filosofia, quando è autentica, non fa che portare a galla con chiarezza critica. Lo Spirito ne è garanzia, in quanto è lo stesso nel filosofo come nell'uomo comune.

 

L'arte, allora, è fondamentalmente conoscenza intuitiva, perfettamente autonoma, che si manifesta con una fisionomia sempre individuale, autosufficiente e irriducibile a qualsiasi altra categoria. Naturalmente, “intuizione” non significa “percezione”, cioè l'apprendimento di fatti o di eventi reali, poiché nell'arte anche l'irreale ha il suo valore.
Ogni intuizione estetica, per Croce, è poi sempre, parimenti e nella stessa misura, espressione, vale a dire che essa, proprio in quanto intuizione, viene fuori spontaneamente senza aggiunte estrinseche, si manifesta in chiaro proprio in quanto è intuita. Quindi, tanto si intuisce, altrettanto si esprime; l'una, l'espressione, viene fuori con l'altra, l'intuizione, nell'attimo stesso dell'altra, perché non sono due ma una sola cosa. Perciò Croce ritiene che l'intuizione artistica non sia una prerogativa esclusiva degli artisti grandi e geniali, ma che appartenga a tutti gli uomini indistintamente: la differenza tra uomo comune e genio, infatti, è a suo parere soltanto quantitativa, non qualitativa, altrimenti il genio non sarebbe uomo, né gli uomini lo potrebbero intendere.
Ciò che caratterizza l'intuizione estetica è il sentimento, che è uno “stato d'animo”, sentimento di liricità: l'arte è intuizione lirica, senza con ciò qualificare il fatto artistico nel genere letterario.
L'arte, poi, non è tale per il suo contenuto o per la sua forma, ma perché sintesi di entrambe, sintesi a priori, sintesi a priori estetica di sentimento e immagine nell'intuizione. Pertanto il sentimento senza l'immagine è cieco, l'immagine senza il sentimento è vuota.
Di conseguenza l'arte ha un indiscutibile carattere di universalità e di cosmicità, perché il sentimento artistico non è un particolare contenuto, ma è l'intero universo guardato sub specie intuitionis. Tale carattere universale dell'arte implicitamente ripugna all'astrazione, la ignora a motivo del suo carattere conoscitivo ingenuo. Nell'arte il singolo palpita della vita del tutto, e il tutto è nella vita del singolo. In ogni espressione artistica c'è tutto l'umano, tutto l'universo si racchiude in quella forma individuale che è l'opera d'arte, implicandovi l'universo intero. In ogni opera d'arte c'è tutto l'umano destino, tutte le speranze, le illusioni, i dolori e le gioie, le grandezze e le miserie umane, il dramma intero del reale. Perciò l'arte non è tutto ciò che implica le altre categorie e vi rientra, non espone concetti o dottrine, non è attività pratica, non ha finalità economica o morale, è indipendente sia dalla scienza sia dall'economia, sia dall'etica: l'arte è fine a se stessa.

 

A titolo di corollario, poi, valgono per Croce le seguenti conseguenze dell'impianto dell'arte:
 - non esistono i generi letterari;
 - non esiste bellezza fisica, cioè bellezza prodotta dalla natura, perché la categoria del bello è di pertinenza esclusivamente artistica;
 - scompare il poeta (l'artista) come personalità, perché ad agire attraverso l'uomo è lo Spirito;
 - linguistica ed estetica si identificano, dal momento che il linguaggio è intimamente espressione, come l'arte: il linguaggio è sempre e comunque creazione estetica.

 

 

 

La logica e la pratica. Gentile

 

La logica. Concetti e pseudoconcetti

 

La logica è scienza del concetto puro, cioè dell'universale concreto (o, come lo chiama Croce con terminologia Kantiana, il trascendentale).
Il concetto non dà luogo a distinzioni, perché in esso non sussistono più forme, ma una sola; la molteplicità si deve riferire alla varietà degli oggetti che in quella forma vengono pensati. Come lo Spirito è unità e distinzione, così è anche il concetto.
Il concetto ha, inoltre, il carattere dell'espressività, in quanto opera conoscitiva e, come tale (analogamente all'arte) opera espressa e parlata, non atto muto come lo sono le azioni. Di conseguenza, chi non esprime o non sa esprimere un concetto, significa che non lo possiede; la chiarezza dell'espressione è l'esatto specchio della chiarezza del pensiero.

 

Il concetto puro, cioè l'oggetto della logica, non va confuso con le rappresentazioni empiriche (ad es. “cane” o “rosa”) né con tutti i concetti astratti di cui fanno uso le scienze anche matematiche.
Si tratta, infatti, per questi casi, di schemi di comodo, che Croce definisce pseudoconcetti, ulteriormente distinti in empirici, i primi, e puri, i secondi.
Gli pseudoconcetti non hanno, secondo Croce, un valore logico, ma un valore puramente economico, un valore di pura utilità; servono a ordinare la nostra esperienza e ad agevolare la memoria, ma, non hanno valore teoretico e vengono declassati ad attività pratica dello Spirito.

 

Croce riprende poi l'idea hegeliana secondo la quale il giudizio non va inteso secondo la logica tradizionale, come una somma o una disgiunzione di due termini, l'uno soggetto e l'altro predicato; il giudizio, infatti, consiste nello stesso concetto nella sua effettualità, come universale concreto.
Poiché pensare un concetto significa pensarlo nelle sue distinzioni, in relazione con gli altri concetti, unificato entro un unico concetto, allora concetto, giudizio e sillogismo in realtà coincidono.
Il concetto è per Croce un'attività, una dinamica, in senso idealistico; riprende l'idea della “proposizione speculativa” di Hegel. Così pensato, il concetto ha senso in una concezione dello Spirito come processo.

 

Tipica, poi, della logica crociana è l'identificazione tra “giudizio definitorio” (ad es. «l'arte è intuizione lirica») e “giudizio individuale»” (ad es. «l'Iliade è un'opera d'arte»). Per Croce il vero e proprio giudizio è comunque quello individuale, perché soltanto esso dà veramente una conoscenza del mondo; il giudizio definitorio, a suo parere, si riduce a coincidere con il predicato del giudizio individuale (secondo Croce, infatti, dire che «l'Iliade è un'opera d'arte», corrisponde a dire che «l'Iliade è un'opera di intuizione lirica; dire che «Socrate è un uomo» equivale a dire che «Socrate è un animale ragionevole», perché «l'uomo è l'animale ragionevole».)

 

La conseguenza rilevante di tale identificazione è che, per Croce, filosofia e storia coincidono; la storia, infatti, si costituisce di giudizi individuali, di enunciazioni di dati di fatto, ma questi, come si è visto, costituiscono i veri giudizi conoscitivi, di cui i giudizi definitori sono soltanto i predicati. La sintesi a priori, dunque, è insieme la concretezza della filosofia e della storia; il pensiero, creando se stesso, qualifica l'intuizione e crea la storia.

 

L'attività pratica: economia ed etica

 

Si tratta certamente della parte più debole del sistema crociano.

 

La forma dell'attività pratica dello Spirito non produce conoscenze, ma azioni; coincide con la volontà, e quando si vuole, si vuole un fine.
Se il fine è individuale, si ha l'attività economica; se il fine è, invece, universale, si ha l'attività etica. La prima è quella che vuole ed attua ciò che è corrispettivo soltanto alle condizioni di fatto in cui l'individuo si trova e si propone fini individuali (tengo una lezione su Croce, perché voglio ottenere il 51% almeno di sufficienze nella prossima verifica); la seconda è quella che vuole ed attua ciò che, pur essendo corrispettivo a quelle medesime condizioni, si riferisce insieme a qualche cosa che lo trascende e si riferisce a fini universali (tengo una lezione su Croce, perché ritengo che culturalmente valga la pena di conoscerlo, al di là del risultato della verifica).
Gli pseudoconcetti e tutte le scienze particolari rientrano per Croce, nella sfera dell'attività economica, come, del resto, anche l'attività politica, il diritto e la vita dello Stato, il che, costituisce una differenza notevole rispetto alla dottrina dello Stato di Hegel, che costituiva l'apice della filosofia dello Spirito oggettivo come trionfo e vertice della libertà.

 

L'etica, invece, si risolve nella volizione dell'universale, cioè dello Spirito stesso; lo Spirito è

 

la Realtà in quanto è veramente reale come unità di pensiero e volere; è la vita, colta nella sua profondità come quell'unità stessa; è la libertà, se una realtà così concepita è perpetuo svolgimento, creazione, progresso... E l'uomo morale, nel volere l'universale, ossia quel che lo trascende in quanto individuo, si volge allo Spirito, alla Realtà reale, alla Vita vera, alla Libertà.

 

l'etica consiste nel negarsi e superarsi in quanto individui singoli, cioè consiste genericamente nel “servire Dio”.

 

La storia come pensiero e come azione

 

Data la coincidenza di filosofia e storia, qualunque sia l'età o l'epoca alla quale ci si riferisce nel conoscere storico, essa diventa attuale.
Operiamo il giudizio storico, infatti, per un bisogno pratico, rispondendo alle necessità della situazione presente, la quale, dunque, in quanto storia vive in noi.

 

Per Croce l'uomo è, in se stesso, compendio della storia universale, microcosmo. La storia, perciò, non è cronaca né arte e neppure retorica, ma conoscenza vera del reale, cioè quella sintesi a priori, fra intuizione e categoria, che costituisce l'universale concreto.
La conoscenza storica è tutta la conoscenza: ciò significa storicismo assoluto.
La storia e il giudizio storico sono necessari, non per meccanicismo o provvidenzialismo, ma in quanto sono espressione della razionalità immanente. I “se” ipotetici, nella storia, non possono avere luogo, sono assurdi e ridicoli perché supporrebbero l'impotenza dello Spirito e negherebbero l'intimo nesso logico e razionale dell'universale concreto, che è la sostanza stessa della storia.
Non hanno senso storico, peraltro, il giudizio di lode o di biasimo, perché lode e biasimo toccano ai singoli nel momento in cui agiscono; è la stessa storia che giudica gli atti. Gli eventi storici, in quanto giudizi, non possono infatti essere “giudicati” una seconda volta. Il tribunale della storia conosce e comprende, riservandosi l'esclusiva del giudizio, senza appello alcuno, totalmente al di sopra delle parti.
La conoscenza della storia è catartica, in quanto noi stessi siamo prodotti del passato e dal passato possiamo riscattarci, conoscendolo storicamente, entro il nesso circolare di pensiero ed azione che costituisce lo Spirito.
La storia è storia della libertà, cioè dell'eterna azione formatrice dello Spirito, che non può vivere diversamente da come è vissuta e vivrà sempre nella storia.

 

 

Giovanni gentile (1875-1944)

 

 

Venne ucciso nel 1944 da mano ignota, davanti alla sua casa di Firenze.

 

La riforma della dialettica hegeliana

 

Si tratta di quel processo di “mentalizzazione” della dialettica che Bertrando Spaventa aveva preconizzato, togliendo di mezzo quei residui di materialità che ancora conservava in sé il sistema hegeliano.
L'essenza della dialettica, per Gentile, sta nella relazione che lega i concetti, il che permette di definirla “scienza delle relazioni” (per Hegel, era invece il ritmo triadico di tesi, antitesi e sintesi).
Vi sono, secondo Gentile, due forme di dialettica:
a) quella antica di tipo platonico, una dialettica del pensato, che considera le idee come oggetti, come qualcosa di altro dal pensiero;
b) quella moderna, nata dalla rivoluzione kantiana, una dialettica del pensare, ossia dell'attività stessa del pensiero pensante.
Le due dialettiche, per Gentile, sono irriducibili e inconciliabili, tra di esse c'è l'abisso che separa l'idealismo antico da quello moderno.
Quella del “pensato” è una dialettica di morte, dal momento che presuppone una realtà (o una verità) determinata ab aeterno e considera implicitamente un'ombra illusoria il progresso scientifico.
La dialettica del “pensare”, invece, non suppone realtà alcuna, ma l'atto stesso del pensare, vedendovi la radice di tutto. Tutto ciò che è, è in virtù del pensare, laddove il pensare non è più considerato come la fatica postuma, che interviene quando non c'è più nulla da fare, ma è la stessa cosmogonia, la generazione del mondo.

 

La storia del pensiero, pertanto, nella nuova dialettica diventa il processo stesso del reale, e il processo del reale non è concepibile se non come storia del pensiero. L'uomo antico si sentiva malinconicamente diviso dalla realtà, da Dio: l'uomo moderno sente in sé Dio, e celebra nella potenza dello spirito la divinità del mondo.

 

In Hegel, secondo Gentile, permanevano alcuni residui della vecchia dialettica, nella distinzione che il filosofo tedesco operava tra logica, filosofia della natura e filosofia dello spirito, nella quale il pensiero o la natura si costituivano come momenti (platonicamente) antecedenti la vera manifestazione dello Spirito, mantenendo ancora in vita una sorta di dialettica del pensato.
Croce si era mosso in questo senso, ma aveva introdotto, con i suoi "distinti", un sistema di categorie che Gentile non accetta.
La categoria, per Gentile, è invece unica, è lo Spirito, che è atto puro, autoconcetto.

 

L'Attualismo

 

È quella forma di idealismo che afferma che lo Spirito come atto pone il suo oggetto come molteplicità di oggetti, e in sé li riassorbe come momento stesso del proprio farsi. Lo Spirito si autopone, ponendo dialetticamente l'oggetto e risolvendolo pienamente in sé.
Nella Teoria generale dello Spirito come atto puro l'Attualismo si riassume in due concetti che ne costituiscono il principio primo e il termine ultimo:
a) non ci sono molti concetti, ma ce n'è uno solo, perché non ci sono molte realtà da comprendere, ma una sola. Il vero concetto della realtà molteplice deve consistere in un concetto unico, poiché l'unità è unità del soggetto che concepisce il concetto, e la molteplicità dei concetti delle cose non può essere se non la scorza superficiale di un nocciolo, vale a dire il concetto del soggetto centro di tutte le cose (conceptus sui);
b) il formalismo assoluto, cioè quell'atteggiamento per cui il pensiero assorbe completamente tutta la materia nella forma (in senso kantiano), che è la sua stessa attività, in quanto attività dell'atto spirituale (coincidente con il conceptus sui).

 

L'Attualismo, così concepito, spiega ciò che da sempre ha ripugnato allo spirito umano, ritiene Gentile, il male e l'errore.
Il male, infatti, è ciò che lo Spirito trova di fronte a sé come negazione di sé, l'interna molla che fa progredire lo Spirito; l'errore è, invece, soltanto un momento del vero, in quanto è se stesso nella misura in cui risulta superato, come il dolore rispetto alla realizzazione della realtà.
Male ed errore, cioè, sono come il combustibile di cui la fiamma dello Spirito ha bisogno per bruciare, in modo tale che lo Spirito è Bene e Verità proprio nella vittoria e nel superamento dell'interiore nemico.

 

L'Attualismo, inoltre, spiega anche la natura come oggetto dell'autoconcetto, cioè come posizione di sé come soggetto e di sé come oggetto.
L'Io, infatti, è identità di sé con sé, identità che si pone, è riflessione, vale a dire uno sdoppiarsi come sé ed altro, e un ritrovarsi nell'altro (come sé). L'altro, d'altronde, non sarebbe l'altro, se non fosse lo stesso sé, perché l'altro non è pensabile se non come identico al soggetto, come lo stesso soggetto così come si ritrova innanzi a sé, ponendosi realmente.
L'autoconcetto che si autorealizza e si autoconosce, implica tre momenti:
 - la realtà del soggetto (puro soggetto: arte);
 - la realtà dell'oggetto (puro oggetto: religione);
 - la realtà dello Spirito (unità e processo di pensiero, immanenza dell'oggetto e del soggetto stessi: filosofia).
Soggetto e oggetto devono esserci, altrimenti non ci sarebbero chi pensa e l'oggetto pensato del pensare, ma la vera realtà è del pensiero, cioè dello Spirito, per il quale e nel quale soltanto sono sia il soggetto sia l'oggetto. Il primo e il secondo momento (soggetto e oggetto) hanno realtà solo nel terzo, che è la sintesi vivente ed eterna dell'unità detta «monotriade» nel Sistema di logica:

 

Concetto tante volte adoperato nella teologia; e perciò facilmente esposto, come rimasuglio di misticismo, alla satira e al dileggio, in cui dopo tanto immanentismo e criticismo e positivismo e ogni sorta di antimetafisica, è caduta ai nostri giorni la teologia. Ma la teologia non è misticismo, né religione, come han saputo in ogni tempo i più ferventi e profondi spiriti religiosi, bensì retta filosofia; e la monotriade non è un'invenzione dei mistici, sì bene della filosofia elaboratrice delle rappresentazioni religiose.

 

Di conseguenza, nella Teoria generale dello Spirito la storia del mondo, ossia il cammino dell'umanità attraverso spazio e tempo, non è definita altrimenti se non come la rappresentazione empirica ed esteriore dell'immanente eterna vittoria dello spirito sulla natura. In una prospettiva di “storia ideale ed eterna”, dunque, Gentile osserva che anche la natura (che vista esteriormente, è limite dello Spirito) è come l'eterno passato del nostro eterno presente. Natura e storia coincidono.

 

Io non sono mai io, senza essere tutto in quello che penso; e quello che penso è sempre uno, in quanto vi sono io. La mera molteplicità appartiene sempre al contenuto della coscienza astrattamente considerato; e in realtà è sempre risolta nell'unità dell'Io. La vera storia non è quella che si dispiega nel tempo, ma quella che si raccoglie nell'eterno dell'atto del pensare, in cui infatti si realizza. [...] [L'idealismo] ha ritrovato Dio, e ad esso volgesi, ma non ha bisogno di rifiutare nessuna delle cose finite; che anzi, riperderebbe Dio senza di esse. Soltanto, le traduce dal linguaggio dell'empirismo in quello della filosofia, per cui la cosa finita è sempre la realtà stessa di Dio. E sublima così davvero il mondo in una teogonia eterna, che si adempie nell'interno del nostro essere.

 

Ai tre momenti dell'unica categoria dello Spirito, Gentile fa corrisponder rispettivamente:
 - al primo (quello della soggettività) l'arte,
 - al secondo (quello della oggettività) la religione,
 - al terzo (quello della sintesi) la filosofia.

 

 

La Fenomenologia. Husserl

 

 

LA FENOMENOLOGIA

 

Il movimento fenomenologico si colloca all'interno della ridiscussione delle concezioni filosofiche positivistiche che ebbe luogo nella cultura tedesca negli ultimi due decenni dell'Ottocento.
Attenta agli sviluppi delle scienze positive, della matematica e anche delle scienze storico-sociali, la Fenomenologia sottopone a critica il dogmatismo positivistico circa la concezione della conoscenza.
La Fenomenologia, critica del Positivismo, si presenta poi anche come pensiero diffidente nei confronti di qualsiasi forma di apriorismo idealistico, configurandosi come una ricerca del concreto, aderente ai dati immediati ed innegabili della coscienza.

 

Heidegger, in Essere e tempo, scrive:

 

L'espressione "fenomenologia" significa anzitutto un concetto di metodo [...]. Il termine esprime un motto che potrebbe venir formulato così: torniamo alle cose stesse! E ciò in contrapposizione alle costruzioni campate per aria e ai trovamenti casuali: in contrapposizione all'accettazione di concetti solo apparentemente giustificati e ai problemi apparenti che si impongono da una generazione all'altra come veri problemi.

 

Occorrerà partire da dati indubitabili sulla cui base innalzare poi l'edificio filosofico; si cercano evidenze stabili da porre a fondamento della filosofia. Questo è l'intento di fondo della Fenomenologia; intento che i Fenomenologi cercano di realizzare attraverso la descrizione dei "fenomeni" che si annunziano e si presentano alla coscienza dopo che si è fatta l'epoché, cioè dopo che sono state messe tra parentesi le nostre persuasioni filosofiche, i risultati delle scienze e le convinzioni incastonate in quel nostro atteggiamento naturale che ci impone la credenza nell'esistenza di un mondo di cose.
Bisogna sospendere il giudizio su tutto ciò che non è né apodittico né incontrovertibile finché si riesca a trovare quei "dati" che resistono ai reiterati assalti dell'epoché, il cui punto d'approdo, il residuo fenomenologico — come lo chiamerà Husserl —, è ritrovato dai Fenomenologi nella coscienza: l'esistenza della coscienza è immediatamente evidente.

 

A partire da ciò, la Fenomenologia intende descrivere i modi tipici in cui le cose e i fatti si presentano alla coscienza, nel senso che intende descrivere le essenze eidetiche.
La Fenomenologia, infatti, non è una scienza di fatti, ma scienza di essenze. Al Fenomenologo non interessa l'analisi di questa o quella norma morale, ma interessa comprendere perché questa o quella norma sono norme morali e non, per esempio, norme giuridiche o regole di comportamento. Parimenti al Fenomenologo non interesserà (o almeno non interesserà principalmente) esaminare i riti e gli inni di questa o quella religione; egli sarà invece interessato a capire che cos'è la religiosità, cos'è che rende inni e riti tanto diversi, inni e riti religiosi.
Le essenze diventano oggetto di studio nella misura in cui il ricercatore, ponendosi nell'atteggiamento di spettatore disinteressato, si libererà dalle opinioni preconcette e riuscirà a intuire (e a descrivere) quell'universale per cui un fatto è quello e non un altro.
la Fenomenologia è, pertanto, una scienza stabilmente fondata, dedita all'analisi e alla descrizione delle essenze. A differenza dello psicologo, il Fenomenologo non manipola dati di fatto, ma essenze; non studia fatti particolari ma idee universali; non si interessa del comportamento morale di questa o quella persona, ma intende conoscere l'essenza della moralità e magari vedere se la morale sia o meno frutto di risentimento. Il Fenomenologo, insomma, assolve a compiti ben diversi da quelli degli scienziati. La coscienza presa in considerazione dal fenomenologo è «intenzionale», è sempre coscienza di qualche cosa che si presenta in modo tipico: l'analisi di questi modi tipici è proprio il compito del Fenomenologo che indaga su ciò che la coscienza trascendentale in-tende per amore, percezione, religiosità, giustizia, comunità, simpatia, e così via.

 

Così impostata, la Fenomenologiasi colloca ancora al di qua delle due direzioni della filosofia, l'idealismo e il realismo. Se i significati (o essenze) degli oggetti, delle istituzioni e dei valori siano posti dalla coscienza, oppure se lo sguardo disinteressato li intuisca in quanto oggettivamente dati, resta impregiudicato. Sul problema, però, divergeranno, per esempio, le vie di Husserl e di Scheler.
Husserl, soprattutto nell'ultima fase della sua produzione, batterà la strada dell'Idealismo, contraddicendo così il programma stesso della Fenomenologia (quello del ritorno "alle cose stesse") e ritrovandosi con quell'unica realtà che è la coscienza: la coscienza trascendentale la quale nulla re indiget ad existendum e che "costituisce" i significati delle cose, delle azioni, delle istituzioni e il senso del mondo. Scheler, da parte sua, volgerà l'analisi verso i valori oggettivi gerarchicamente ordinati che si impongono all'intuizione emozionale.

 

 

EDMUND HUSSERL

 

Dopo Bernhard Bolzano, matematico e filosofo, prete cattolico e professore di filosofia della religione all'Università di Praga (fino al 1819, anno del suo allontanamento dall'insegnamento e della sua sospensione a divinis), e Franz Brentano, anch'egli prete cattolico poi uscito dalla Chiesa, professore all'Università di Vienna, studioso di Aristotele, la Fenomenologia trova in Husserl, discepolo di Brentano, il suo fondatore riconosciuto.

 

La polemica contro lo psicologismo

 

Nel 1891 Edmund Husserl pubblica la Filosofia dell'aritmetica, in cui sostiene la riduzione del concetto di numero a processi psichici relativi all'attività del contare.
In seguito ad una dura recensione del filosofo e matematico Frege, rivedendo la sua posizione, Husserl perviene con le Ricerche logiche al rifiuto dello psicologismo, cioè proprio di quella posizione teorica che riduce le leggi logiche a prodotti psichici, sostenendo invece che esse sono rigorosamente universali e necessarie, cioè assolute e totalmente indipendenti dai processi del pensiero.
Nei Prolegomeni ad una logica pura (primo volume delle Ricerche), Husserl afferma che le leggi logiche sono rigorosamente universali e necessarie e che, in quanto tali, non possono dipendere dalle leggi psicologiche, che non sono affatto necessarie. I fatti di coscienza sono singolarità reali, temporalmente determinati, che sorgono e scompaiono; la verità è, invece, eterna, o piuttosto è un'idea sovratemporale, come, ad esempio, il principio di non contraddizione.
Ci sono verità fattuali e verità universali e necessarie: queste ultime sono le verità logiche, comuni a tutte le scienze. La logica pura è, per Husserl, la teoria delle teorie, la scienza delle scienze.

 

L'intuizione eidetica

 

Le proposizioni universali e necessarie sono condizioni che rendono possibile, in generale, una qualsiasi teoria; esse sono distinte dalle proposizioni che, per altro verso, sono ottenibili induttivamente dall'esperienza.
Alla base di questi due tipi di proposizioni, tra le Ricerche logiche e le Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica Husserl pone la distinzione tra intuizione di un dato di fatto e intuizione di un'essenza (o di specie).
La conoscenza comincia con l'esperienza di dati di fatto, di cose contingenti, poiché un fatto è contingente (può non essere ciò che è, non è necessario che sia ciò che è). Quando, tuttavia, un fatto ci si presenta alla coscienza, noi non lo cogliamo nella sua fattualità contingente, bensì nella sua essenza; con il fatto cogliamo sempre l'essenza del fatto, nelle occasioni più disparate noi riconosciamo l'essenza comune.
Le essenze, pertanto, sono i modi tipici dell'apparire dei fenomeni, non perché da essi le astraiamo per comparazione, ma perché in ciascuno di essi le cogliamo come codici di riconoscimento dei singoli fenomeni.
La conoscenza dell'essenza è un'intuizione, intuizione eidetica (eidos significa in greco "forma").

 

Ontologie regionali e ontologia formale

 

Lo scopo della Fenomenologia, in quanto scienza di essenze e non di dati di fatto, è quello di descrivere i modi tipici con cui i fenomeni si presentano alla coscienza.
La riduzione eidetica consiste proprio nel fatto che, quando nella descrizione del fenomeno che appare alla coscienza sappiamo prescindere dagli aspetti empirici e dalle preoccupazioni che ci legano ad essi, ne cogliamo puramente l'essenza.
Le essenze sono dati invarianti, non cambiano, sono, per così dire, “eterne”.
La distinzione tra fatto ed essenza, poi, permette a Husserl di dare una giustificazione epistemologica (alla matematica e alla logica. Le proposizioni logiche e matematiche, infatti, sono giudizi universali e necessari, in quanto consistono di rapporti tra essenze, non dovendo così ricorrere all'esperienza per giustificare la loro validità.
Il fatto poi che la coscienza faccia riferimento ad essenze ideali apre la prospettiva che Husserl chiama delle “ontologie regionali”, cioè di quei comparti di ontologia che riguardano determinate porzioni di essere circoscritte dalla loro essenza. Ad esempio, sono regioni dell'essere quelle della natura, della società, della morale, della religione, ecc...; a questi ambiti corrisponde un'ontologia che, secondo un criterio fenomenologico, ne dà una descrizione a livello eidetico. Si potrà, quindi, stabilire il modo tipico della coscienza in relazione ai fenomeni naturali, sociali, morali, religiosi, e così via.
A tali ontologie regionali Husserl oppone l'ontologia formale, cioè l'ontologia della semplice forma della coscienza in quanto coscienza fenomenologica: l'ontologia formale coincide con la logica, cioè con la descrizione delle leggi necessarie che governano la stessa coscienza.

 

L'intenzionalità della coscienza

 

La coscienza è sempre “coscienza di qualcosa”; mai è data una coscienza, per così dire, vuota. La coscienza è sempre, almeno, coscienza di se stessa.
Con ciò è data immediatamente la distinzione tra soggetto e oggetto, nella misura in cui noi distinguiamo immediatamente l'apparire di un oggetto (noesi) dall'oggetto stesso che appare (noema).
L'intenzionalità, però, lasciando impregiudicato l'atteggiamento teoretico (idealismo - realismo), descrive semplicemente il fenomeno, da non intendersi come apparenza (contrapposta l''in sé), ma come la stessa cosa che appare:

 

Ogni intuizione che presenta originariamente qualche cosa è di diritto fonte di conoscenza; tutto ciò che si offre a noi originariamente nell'intuizione (che ci si offre, per così dire, in carne ed ossa) deve essere assunto così come si offre, ma anche soltanto nei limiti in cui si offre.

 

L'epoché o riduzione fenomenologica

 

È il metodo della Fenomenologia.
La parola d'ordine della Fenomenologia è, si potrebbe dire, “ritornare alle cose stesse, andare al di là della verbosità dei filosofi e dei loro sistemi campati per aria”.
Occorrerà, cioè, partire dai dati indubitabili sulla cui base innalzare poi l'edificio filosofico, cercare evidenze stabili da porre a fondamento della filosofia, una volta attuata l'epoché, cioè dopo avere “messo tra parentesi” persuasioni d'ogni specie.
Si tratta, in sintesi, di sospendere il giudizio su tutto ciò che non è né apodittico né incontrovertibile, finché si riesca a trovare quei dati che resistono a ogni dubbio; tali dati, cioè il “residuo fenomenologico” consiste nella coscienza, come l'unica immediata evidenza.
L'epoché ha certamente qualche analogia con il dubbio scettico e con il dubbio metodico cartesiano, tuttavia, fare epoché non significa propriamente dubitare, ma sospendere il giudizio circa tutto ciò che dicono le discipline filosofiche con i loro inconcludenti dibattiti metafisici, circa tutto ciò che dicono le scienze e su quello che ognuno di noi afferma e presuppone nella vita quotidiana, cioè sulle credenze di cui è intessuto l'atteggiamento naturale. Quindi, dalla persuasione che il mondo esista, non si deve dedurre nessuna proposizione filosofica, per la ragione che l'esistenza del mondo, al di fuori della coscienza che l'avverte, non è affatto indubitabile.
Né, dunque, le dottrine filosofiche, né i risultati della scienza, né le credenze anche le più ovvie dell'atteggiamento naturale possono costituire punti di partenza indubitabili dei quali ha appunto bisogno la filosofia concepita come scienza rigorosa. Ciò, dunque, la cui esistenza è assolutamente evidente è soltanto il cogito (l'io penso) con i suoi cogitata (i pensieri), cioè la coscienza alla quale si manifesta tutto ciò che appare.
La coscienza è il residuo fenomenologico. La coscienza resiste ad ogni epoché; la coscienza è realtà assoluta, fondamento di ogni realtà, è quella realtà che non esige altro da sé per essere ciò che è.
Il mondo, pertanto, risulta “costituito” nel suo significato dalla stessa coscienza.

 

La crisi delle scienze e il "mondo della vita"

 

Nel 1954 appare postuma La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Questa è l'ultima opera di grande impegno alla quale Husserl lavorò fino quasi alla morte.
La crisi delle scienze non è da intendere come la crisi della loro scientificità, bensì è crisi di ciò che esse, le scienze in generale, hanno significato e possono significare per l'esistenza umana.
Le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto. Ciò che è oggetto della critica di Husserl è il naturalismo e l'oggettivismo, la pretesa per cui la verità scientifica è l'unica verità valida e l'idea a questa connessa che il mondo descritto dalle scienze sarebbe la vera realtà.
Il fatto è, per Husserl, che il concetto positivistico di scienza ha lasciato cadere tutte quelle questioni che sono i problemi ultimi e supremi. La Crisi delle scienze, pertanto, è "la caduta dell'intenzionalità filosofica", è "la caduta nel naturalismo", la riduzione della razionalità a razionalità scientifica. E così il "categoriale", cioè le categorie scientifiche, si sostituisce al concreto, al pre-categoriale, vale a dire al mondo-della-vita.