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CLASSE   V   -   Sintesi di Filosofia (2)

Il Romanticismo. Linee interpretative

 

IL ROMANTICISMO

 

 

Un antecedente del fenomeno romantico: lo Sturm und Drang

 

Già prima che scoppiasse la Rivoluzione in Francia, nel decennio fra il 1770 e il 1780, la temperie culturale registrava in Germania alcune clamorose modificazioni, che dovevano portare, sullo scorcio del secolo, al superamento totale dell'Illuminismo.
Il movimento che negli anni settanta produsse quelle modificazioni va sotto il nome di Sturm und Drang, che significa “Tempesta e Assalto”, o, meglio ancora, “Tempesta e Impeto”. La denominazione deriva dal titolo di un dramma scritto nel 1776 da uno degli esponenti del movimento, Friedrich Maximilian Klinger (1752-1831), e pare sia stata usata per la prima volta per designare l'intero movimento da A. Schlegel agli inizi dell'800.
I due termini (Sturm e Drang) vanno probabilmente intesi come un'endiadi, ossia come esprimenti un unico concetto con due parole, e quindi il senso dovrebbe essere “impeto tempestoso”, “tempesta di sentimenti”, “ribollire caotico di sentimenti” (il titolo originale dato da Klinger al suo dramma era Wirrwarr, che significa “caotica confusione”).

 

Le posizioni e le idee di fondo di questo movimento sono
a) la natura viene riscoperta ed esaltata come forza onnipotente e creatrice di vita;
b) alla natura viene strettamente connesso il “genio”, inteso come una forza originaria; il genio crea analogamente alla natura, e pertanto non desume dal di fuori le sue regole, ma è esso stesso regola;
c) alla concezione deistica della Divinità come Intelletto o Ragione suprema, propria dell'Illuminismo, comincia a contrapporsi il panteismo, mentre la religiosità assume nuove forme che si esprimono, nelle loro punte estreme, nel titanismo paganeggiante di Prometeo o nel titanismo cristiano del santo e del martire;
d) il sentimento patrio si esprime nell'odio per il tiranno, nell'esaltazione della libertà e nel desiderio di infrangere convenzioni e leggi esteriori;
e) si apprezzano i sentimenti forti e le passioni turgide e impetuose, nonché i caratteri a tutto tondo.

 

A dare senso e rilevanza storica e sopranazionale allo Sturm furono Goethe, Schiller, e i filosofi Jacobi e Herder con la loro prima produzione poetica e letteraria.

 

La complessità del fenomeno romantico e le sue caratteristiche essenziali

 

Definire il Romanticismo è impresa difficile, forse addirittura impossibile.
F. Schlegel, il fondatore del circolo dei Romantici, scriveva al fratello di non potergli mandare la propria definizione della parola “romantico”, perché era “lunga 125 fogli”.

 

La parola “romantico” ha una lunga storia a partire dalla metà del XVII secolo.
Il termine veniva usato per indicare il favoloso, lo stravagante, il fantastico e l'irreale (quale si incontra, ad esempio, in certi romanzi cavallereschi). Fu riscattato da questa connotazione negativa durante il secolo successivo, in cui venne usato per indicare scene e situazioni piacevoli del tipo di quelle che comparivano nella narrativa e nella poesia “romantiche” (nel senso sopra indicato). Gradatamente il termine “romanticismo” venne ad indicare il rinascere dell'istinto e dell'emozione che il prevalente razionalismo del secolo XVIII non aveva mai interamente soppresso.
Come categoria storiografica (e geografica) il Romanticismo designa quel movimento spirituale che coinvolse non solo la poesia e la filosofia, ma anche le arti figurative e la musica, che si sviluppò in Europa tra la fine del Settecento e la prima metà dell'Ottocento. Se certi prodromi di questo movimento si possono individuare in Inghilterra, resta comunque vero che il movimento reca una forte impronta soprattutto dell'animo e del sentire germanici. Il movimento si espanse in tutta Europa, in Francia, in Italia, in Spagna, e, naturalmente, in Inghilterra. In ciascuno di questi paesi il Romanticismo assunse caratteri peculiari e subì trasformazioni. Il momento paradigmatico del Romanticismo rimane in ogni caso quello che si pone a cavaliere fra Settecento e Ottocento in Germania nei circoli costituiti dai fratelli Schlegel a Jena e poi a Berlino.
Una sorta di minimo comune denominatore può essere indicato, in primo luogo, in ciò che costituisce lo “stato d'animo”, l'atteggiamento psicologico, l'ethos o cifra spirituale dell'uomo romantico. Tale atteggiamento romantico consiste in una condizione di interiore dissidio, in una lacerazione del sentimento che non si sente mai pago, che si trova in contrasto con la realtà e aspira ad un qualcosa di ulteriore, il quale peraltro gli sfugge di continuo. Inteso come fatto psicologico, il romantico non è il sentimento che si afferma al di sopra della ragione, o un sentimento di particolare immediatezza, intensità o violenza, e non è neppure il cosiddetto sentimentale, cioè un sentimento malinconico-contemplativo; è piuttosto un atto di sensibilità, il fatto puro e semplice, appunto, della sensibilità, quando essa si traduca in uno stato di eccessiva o addirittura permanente impressionabilità, irritabilità e reattività. Domina nella sensibilità romantica l'amore dell'irresolutezza e delle ambivalenze, l'inquietudine e l'irrequietezza che si compiacciono di sé e si esauriscono in sé. Il termine che è diventato più tipico e quasi tecnico per indicare questi stati d'animo è “Sehnsucht”, che, meglio che con qualunque altro termine, può essere reso in italiano con “struggimento”. “Sehnsucht” (dai verbi sehnen = desiderare e suchen = cercare) è un desiderio che non può mai raggiungere la propria meta, perché non la conosce e non vuole o non può conoscerla, è un desiderare tutto e nulla ad un tempo, un cercare, una ricerca del desiderio, un desiderare il desiderare, un desiderio che è sentito come inestinguibile e che proprio per ciò trova in sé il proprio pieno appagamento.

 

Ogni Romantico ha sete di infinito e quello “struggimento”, che è desiderio, proprio perché irrealizzabile, lo è proprio perché ciò che in realtà brama è appunto l'Infinito. E forse mai come in questa età si è parlato tanto di Infinito, inteso nei modi più vari.
Il Romantico esprime questa tendenza all'Infinito, anche come uno “Streben”, ossia come un perenne “tendere” che non ha mai posa, perché le esperienze umane sono tutte finite, in quanto il loro oggetto è sempre finito, e come tali vanno sempre trascese. L'Infinito è il senso e la radice del finito. La filosofia deve cogliere e mostrare il nesso dell'Infinito col finito, l'arte lo deve realizzare: l'opera d'arte è l'infinito che si manifesta nel finito.

 

 

La natura, il senso panico, la libertà e la religione

 

La Natura viene ad assumere un'importanza fondamentale e viene sottratta interamente alla concezione meccanicistico-illuministica.
Essa viene intesa come vita che crea eternamente, e nella quale la morte non è se non un artificio per avere più vita.
La natura è un grande organismo del tutto affine all'organismo umano, è mobile gioco di forze, che, operando dall'intrinseco, genera tutti i fenomeni e quindi anche l'uomo: la forza della natura è, dunque, la forza stessa del divino. La natura è sacra.

 

Strettamente connesso a questo senso della natura è il senso “panico”, ossia il senso dell'appartenenza all'uno-tutto, il sentire di essere un momento organico della totalità.
Nell'uomo si riflette in qualche modo il tutto, così come, viceversa, l'uomo si riflette nel tutto.

 

Il genio e la creazione artistica vengono elevati a suprema espressione del Vero e dell'Assoluto.

 

I Romantici nutrono, inoltre, un fortissimo anelito verso la libertà, che per molti di essi esprime il fondo stesso della realtà, e per questo l'apprezzano in tutte le sue manifestazioni. Fichte farà della libertà il fulcro del suo sistema e lo stesso Hegel vedrà nella libertà l'essenza dello Spirito.

 

La Religione viene in genere rivalutata e posta ben al di sopra del piano al quale l'Illuminismo l'aveva ridotta.
La religione è intesa per lo più come un rapporto dell'uomo con l'Infinito e con l'Eterno.
Un dato di fatto risulta particolarmente significativo: quasi tutti gli esponenti di rilievo del Romanticismo ebbero forti crisi religiose e momenti di intensa religiosità; da Schlegel a Novalis, da Jacobi a Schleiermacher a Fichte, a Schelling. La Religione nello stesso Hegel è il momento più alto dello Spirito, superato dalla sola filosofia. E la religione per eccellenza è considerata quella cristiana, sia pure intesa in vari modi.

 

Johan Wolfang von Goethe (1749-1832)

 

Tra i principali Stürmer, da giovane, ebbe poi a condannare le scompostezze tipiche del movimento, propendendo per posizioni di stampo decisamente classico, riproponendone i canoni di bellezza.
La sua concezione della natura si presenta come una forma di organicismo spinto alle estreme conseguenze. La natura è tutta viva, fin nei minimi particolari; la totalità dei fenomeni è vista come organica produzione della "forma interiore", mentre una pluralità di forze (contrazione ed espansione) dà luogo alle diverse formazioni naturali, che segnano un accrescimento e producono un'elevazione progressiva.
Panteista, non assume la rigidità del dogmatico; politeista come poeta e panteista come scienziato, pur facendo spazio anche alla concezione di un Dio personale.
Il Wilhelm Meister e il Faust assurgono a simboli di un'epoca: il primo è un romanzo di formazione che, attraverso una serie emblematica di esperienze artistiche, presenta l'affermazione di Wilhelm, il protagonista, nella vita pratica e nella società; il secondo è un personaggio eterno, una celebrità su cui si è detto fin troppo, volendovi scorgere il demone dell'attivismo dell'uomo contemporaneo, che secondo lo stesso Goethe trova la sua interpretazione nell'incontro tra l'incessante tendere e l'amore divino che viene in aiuto dell'uomo, il rapporto tra le forze della natura umana e la grazia di Dio che ne compie la beatitudine. Faust è in ciò personaggio di perfetta statura romantica.

 

Friedrich Schiller (1759-1805)

 

Anch'egli annoverato tra gli Stürmer di maggior spicco, è filosoficamente interessante per gli scritti Sulla grazia e sulla dignità, Lettere sull'educazione estetica, Sulla poesia ingenua e sentimentale (1793-1796).
Domina in Schiller l'amore per la libertà, sotto ogni aspetto della vita, la cui alta scuola è il dominio della bellezza.
Nello scritto Sulla grazia e sulla dignità delinea la figura di "anima bella" (die schöne Seele) che avrebbe riscontrato notevole fortuna in tutto il romanticismo. Superando la kantiana antitesi tra inclinazione legata al senso e dovere morale, l'anima bella riesce a compiere il dovere con naturalezza e spontaneità, sollecitata soltanto dal valore della bellezza; essa è dotata, quindi, della grazia necessaria per armonizzare istinto e legge.
Nelle Lettere sull'educazione estetica precisa gli istinti residenti nell'uomo, quello "materiale" e quello "alla forma"; l'armonizzazione tra essi può avvenire tramite l'istinto "del gioco", che media tra realtà e forma, contingenza e necessità. Il libero gioco delle facoltà è la libertà, che dà luogo alla forma vivente, sintesi dell'istinto della vita e dell'istinto della forma, espressione di bellezza. Affinché l'uomo sia veramente razionale è necessario che sia reso pienamente "estetico": l'educazione estetica è un'educazione alla libertà tramite la libertà (la bellezza).
Nel saggio Sulla poesia ingenua e sentimentale la tesi è che il poeta antico era natura e quindi sentiva naturalmente, il poeta sentimentale moderno, invece, non è più natura, ma sente la natura, riflette sul sentire della natura, dando luogo alla commozione poetica che si manifesta nel contrasto tra limite naturale ed infinità ideale.

 

Johann Georg Hamann (1730-1788)

 

Il fallimento negli studi universitari e nella successiva attività londinese di commercio e di scienza delle finanze, lo riportò a Königsberg, città natale, a condurre una modesta vita di impiegato doganale. Amico di Kant, i suoi scritti sono composti in uno stile originale, fatto di un complesso gioco di citazioni e di allusioni tratte o dalla Bibbia o dai classici, che interpreta il suo spirito ironico nei confronti della ragione illuministica, considerata un idolo.
Contro il dualismo kantiano di sensibilità e ragione, addita il linguaggio come la ragione che si fa sensibile, così come il Lógos (il Verbo divino) si è fatto carne.
Il concetto biblico-teologico di rivelazione costituisce una fondamentale chiave di lettura della realtà: nella creazione Dio rivela alla creatura attraverso la creatura, nella Bibbia Dio rivela all'uomo attraverso gli uomini. Socrate viene annoverato da Hamann fra i profeti, in un sottile gioco di autoidentificazione; antisofista l'uno, antiilluminista l'altro.
La fede diventa centrale e si presenta come il fulcro attorno a cui tutto deve ruotare.

 

Johann Gottfried Herder (1744-1803)

 

Discepolo di Kant e Stürmer in un primo momento della sua vicenda letteraria, si ispira stabilmente a Goethe nella sua vasta produzione, disorganica, talvolta contraddittoria, ma anche ricca di potenti illuminazioni.
Nel Trattato sull'origine della lingua sostiene che essa non è una pura convenzione,, un semplice mezzo di comunicazione, ma l'espressione della specifica natura dell'uomo. La "riflessione", infatti, che distingue l'uomo dall'animale, genera il linguaggio fissando in parola il fluido gioco dei sentimenti e delle sensazioni. La poesia p la modalità più naturale della lingua, ancor prima della prosa che, invece, presuppone la mediazione della logica. Per Herder l'uomo è una creatura della lingua, nel senso che il progresso avviene grazie ad essa; il linguaggio, infatti, offre la possibilità della comunicazione degli animi.
Circa la storia, Herder ritiene che essa, come la natura, si sviluppi e progredisca secondo un ordine finalistico, necessariamente rivolta alla realizzazione dei disegni della Provvidenza di Dio; significativa in ogni sua fase, la storia di popolo viene contrapposta alla concezione illuministica dello Stato.
Tale concezione della storia, tuttavia non chiarisce se il Dio di Herder sia un Dio trascendente o immanente; peraltro il Cristianesimo, benché originalmente interpretato, viene inteso come "la" religione, non come "una" tra le tante religioni. Cristo, cui Herder non sembra concedere la divinità, è inteso come l'uomo che vive il tipo di vita che conduce perfettamente a Dio.

 

Wilhelm von Humboldt (1767-1835)

 

Tra le opere: Teoria della formazione dell'uomo Sullo spirito dell'umanità, Considerazioni sulla storia universale, e alcuni scritti di linguistica, Sullo studio comparativo delle lingue, Sulla diversità di costruzione del linguaggio umano e sull'influsso di esso sullo sviluppo spirituale dell'umanità.
L'ideale di unamità è inteso come l'idea cui ogni individuo tende, pru senza mai riuscire a realizzarla pienamentel àààquesto ideale cui l'individuo tende è quello spirito dell'umanità cui si avvicina soprattutto l'arte. Taale ideale, attraverso gli individui, si realizza nelle nazioni e quindi nella storia, per cui il fine della storia può essere solo la realizzazione dell'Idea che rappresenta l'umanità, in tutte le direzioni e in tutte le forme.

 

 

La discussione della cosa in sé. L'Idealismo e Fichte

 

 

La discussione sulla “cosa in sé”

 

Karl Leonhard Reinhold (1758-1823) stima la Critica della ragion pura come una propedeutica, tentando di ricostruirla come sistema. Per fare ciò, tuttavia, deve esistere un principio, che Reinhold ritiene di ritrovare nella rappresentazione (Vorstellung), che nella coscienza è distinta dal rappresentante e dal rappresentato (cioè dal soggetto /forma e dall'oggetto/materia), di cui è sintesi. La coscienza è il momento comprensivo adatto a superare il dualismo kantiano, e la forma viene fatta coincidere con l'attività e spontaneità della coscienza, mentre la materia viene fatta coincidere con la recettività.

 

Gottlob Ernst Schulze (1761-1833) obietta al criticismo di Kant di essere vittima dello stesso salto indebito dal pensare all'essere che esso rimprovera come errore di fondo alle tradizionali prove dell'esistenza di Dio, in particolare a quella ontologica. Infatti, il criticismo, dopo avere stabilito che qualcosa, per essere pensato, deve essere pensato in un certo modo, conclude che, dunque, esiste in quel modo, compiendo in tale maniera quel passaggio  dal pensare all'essere, che invece resterebbe da dimostrare.

 

Salomon Maimon (1754-1800) nel Saggio intorno alla filosofia trascendentale sostiene che la “cosa in sé” non può essere considerata come esterna alla coscienza, perché, allora, sarebbe una non-cosa, che Maimon assimila a un numero immaginario, che esprime una grandezza non reale. A suo parere, invece, la cosa in sé va pensata come le grandezze irrazionali che sono grandezze reali, che esprimono un valore limite, cui ci si approssima sempre più all'infinito

 

Jakob Sigismund Beck (1761-1840), autore di un Compendio chiarificatore degli scritti critici del sig. prof. Kant, su consiglio del medesimo (1793-96), sostiene che, per capire Kant, bisogna individuare il punto di vista centrale da cui rampollano tutti i singoli problemi. Partito, però, come fedele espositore di Kant, Beck se ne allontana poi eliminando la cosa in sé e interpretando l'oggetto come prodotto della rappresentazione. L'unità sintetica dell'appercezione come attività dinamica è il vero punto di vista per capire Kant. Da tale attività dell'unità sintetica dell'appercezione è derivabile non solo la forma, ma anche la materia del conoscere.

 

 

JOHANN GOTTLIEB FICHTE

 

 

Nella Prima introduzione alla dottrina della scienza del 1797 Fichte esorta il lettore a osservare se stesso, a distogliere lo sguardo da tutto quanto lo circonda e a rivolgerlo al proprio intimo: è infatti questo la prima cosa che la filosofia esige da chi prende a coltivarla. Non si tratta di qualcosa di esterno dal soggetto, ma di qualcosa che coincide unicamente con il soggetto stesso.

 

Dogmatismo e idealismo

 

Ci sono due tipi fondamentali di filosofia per Fichte: quello che spiega l'esperienza con la cosa e quella cha la spiega con l'intelligenza; il primo è il dogmatismo, il secondo l'idealismo. L'idealismo ha un primo vantaggio sul dogmatismo, in quanto il principio che esso assume per spiegare l'esperienza è una realtà di cui si ha immediata coscienza: l'io in sé, infatti, si presenta effettivamente nella coscienza – sostiene Fichte – come qualcosa di reale, la cosa in sé, invece, è una mera invenzione e non ha realtà alcuna.
Fichte sottolinea poi che l'io in sé, di cui si ha coscienza, è l'io in quanto agisce liberamente.
Ciò, tuttavia, costituisce soltanto un vantaggio dell'idealismo, ma non è una dimostrazione, perché il dogmatismo, che pur deve ammettere il fatto della coscienza, la spiega (ivi compresa la presunzione di essere liberi) come un prodotto della cosa. Il dogmatico coerente è quindi fatalista (determinista) e materialista.

 

Idealismo e dogmatismo non si possono quindi confutare a vicenda perché la loro opposizione è sul primo principio della filosofia e l'assunzione dell'uno o dell'altro principio è di carattere pratico, è il frutto di una scelta, che corrisponde al grado di umanità, di autenticità umana del filosofo.
Vi sono, infatti, per Fichte due gradi di umanità e finché il secondo non viene universalmente raggiunto, nel progresso del genere umano, vi sono due tipi principali di uomini. Alcuni, non essendosi ancora elevati al pieno senso della propria libertà e assoluta autonomia, trovano se stessi solo nel rappresentare le cose, si concepiscono come un prodotto delle cose stesse; chi, invece, diventa consapevole della propria autonomia e indipendenza non ha più bisogno delle cose a sostegno del proprio io. Egli crede per impulso alla propria autonomia, la afferma con affetto. La sua fede in sé è immediata.
L'uomo che si crede libero, che afferma la libertà, deve conseguentemente affermare che le cose, la natura, sono poste dall'Io, e non viceversa.

 

Il fondamento del sapere assoluto

 

Dalla Prima introduzione alla dottrina della scienza sembra, dunque, che le origini dell'idealismo di Fichte siano etiche; essa indica le inferenze che egli ha tratto da quella affermazione della libertà che trovava in Kant e che lo tanto lo colpiva. Fichte, infatti, ritiene di avere scoperto un nuovo fondamento dal quale si può agevolmente dedurre tutta la filosofia.
Kant – sostiene Fichte – preseenta la vera filosofia, ma solo nei suoi risultati, non nei fondamenti. Il primo principio della filosofia non può essere un fatto, il “fatto della coscienza”; può, però, anzi deve, essere un atto (Thathandlung), una attività. Se si concepisce così il principio della filosofia, afferma Fichte, è possibile un sapere assoluto; il sapere assoluto infatti non è possibile se l'assoluto è concepito come una cosa, un in sé, ma è possibile se l'assoluto è inteso come un io: dell'io sono, sono simpliciter (assolutamente, senza restrizioni) perché sono, si dà intuizione intellettuale.

 

Su questo concetto di intuizione intellettuale Fichte ritorna nella Seconda introduzione alla dottrina della scienza del 1797.
La prima era rivolta a lettori ancora ignari di filosofia; la seconda è rivolta a quei lettori che hanno già un sistema filosofico.
Il problema è lo stesso di quello posto nella Prima introduzione: donde ha origine il mondo dell'esperienza? come come è possibile un essere per noi? Se, dunque, si cerca un fondamento dell'essere che ci si presenta, e questo fondamento deve essere diverso da ciò che è fondato, lo si ritrova nello stesso Io, da intendersi come azione.
L'Io non è una cosa che sia soggetto di attività, esso è attività, pura attività. L'Io si costituisce originariamente per sé (wird das Ich ursprünglich für sich selbst).
La filosofia, pertanto, comincia dal prender coscienza dell'Io come attività, e questo prender coscienza è una intuizione intellettuale. L'intuizione intellettuale è l'immediata coscienza che l'io agisce e di quello che fa, essa è quella coscienza in cui si sa qualche cosa perché la si fa.
L'intuizione intellettuale è azione come opposta ad essere.

 

L'Idealismo fichtiano come esplicitazione del “fondamento” del Criticismo kantiano

 

L'incontro con il pensiero di Kant rivoluzionò il pensiero e la vita di Fichte al punto che questi non ebbe, nel periodo immediatamente seguente, altra preoccupazione che quella di contribuire a diffondere il Criticismo e, successivamente, quella di scrutare a fondo le tre Critiche, allo scopo di scoprire il principio di base che le unificava e che Kant non aveva rivelato
Subito dopo la scoperta di Kant, Fichte scrive:

 

«Ho abbracciato una morale più alta, e, invece di occuparmi delle cose esterne, mi occupo maggiormente di me stesso, il che mi ha dato una pace che ancora non conoscevo: pur essendo immerso in una situazione economica precaria ho vissuto i giorni più belli della mia vita [...]. Sono ora assolutamente convinto che la nostra volontà è libera [...] e che il fine della nostra vita non è essere felici, ma meritare la felicità».
«Sto vivendo i giorni più felici che mi ricordi d'aver vissuto [...]. Mi sono immerso nella filosofia, cioè nella filosofia di Kant. Vi ho trovato la medicina alla vera radice dei miei disagi, e per di più gioia a non finire [...]. Il rivolgimento che questa filosofia ha operato in me è enorme. Le debbo, in special modo, il fatto che ora credo fermamente nella libertà dell'uomo, e vedo chiaramente che solo presupponendola sono possibili il dovere, la virtù, la morale in generale».
«Dopo che ho letto la Critica della Ragion pratica mi sembra di vivere in un nuovo mondo. Essa demolisce affermazioni che credevo inconfutabili, dimostra tesi che credevo indimostrabili, come il concetto di libertà assoluta, di dovere, eccetera, il che mi rende più contento [...]. Che fortuna per un'età in cui la morale era distrutta nei suoi fondamenti e il concetto di dovere era cancellato da tutti i vocabolari!».

 

Fichte, tuttavia, era anche convinto che il discorso di Kant non fosse conclusivo. Scrive:

 

«Ho la piena convinzione che Kant si è limitato a indicare la verità, ma non l'ha né esposta né dimostrata. Quest'uomo unico e straordinario o possiede la facoltà di indovinare la verità senza prender coscienza dei suoi principi o non ha stimato il suo tempo degno di riceverli [...]. C'è un solo fatto originario dello spirito umano che possa fondare l'intera filosofia nelle sue parti, la teoretica e la pratica. Kant lo sa certamente, ma non l'ha detto in nessun luogo: chi lo scoprirà eleverà l'esposizione della filosofia al grado di scienza».
«Kant possiede la vera filosofia, ma solo nei suoi risultati, non nei suoi principi. Questo pensatore unico è per me sempre oggetto di meraviglia: ha un genio che gli svela la verità, ma non gliene mostra il principio».

 

Kant, in breve, ha fornito tutti i dati per costruire il sistema, ma non lo ha costruito.
Fichte intende, per contro, costruire questo sistema, trasformando la filosofia in una rigorosa scienza che scaturisca da un principio primo supremo: è, questa, la cosiddetta “dottrina della scienza” (Wissenschaftlehre).

 

La grande novità di Fichte, il colpo di genio che lo portò alla creazione della nuova filosofia consistette nella trasformazione dell'Io penso kantiano in Io puro, inteso come intuizione pura, che si autopone (autocrea) e, autoponendosi, crea tutta la realtà, e nella connessa individuazione dell'essenza questo Io nella libertà.
Fichte, dunque, non presenta più l'io teoretico o il principio della coscienza (in senso criticistico kantiano), ma l'io puro, l'intuizione intellettuale, l'io che si coglie da sé e che afferma se stesso; l'io che, fornendo il sostrato noumenico al mondo fenomenico, garantisce l'unità di sensibile e intelligibile , e si presenta così come principio unico e supremo, capace di resistere a qualsiasi scetticismo e di fondare la filosofia come scienza, e che dividendosi pone a fondamento dell'io teoretico l'io pratico. L'io che nell'infinità del suo tendere rappresenta l'anelito della libertà e che nell'attività dell'uomo unisce gli opposti caratteri dell'infinità e della limitazione, prepara la concezione romantica dello spirito come infinita aspirazione all'infinito.

 

Fichte ha insistito più volte nel dire che il suo sistema non era se non la filosofia kantiana con procedimento diverso da quello di Kant; ma Kant non si riconobbe nella “dottrina della scienza” di Fichte. Fichte, infatti, con questo suo porre l'Io come principio primo e col dedurre da esso la realtà, creava l'Idealismo.
L'intuizione intellettuale affermata da Fichte è, dunque, l'intuizione di un agire, e non di un essere o di una cosa,  intuizione ammessa anche da Kant, benché sotto altro nome, come appercezione trascendentale e come coscienza dell'imperativo categorico.

 

 

I tre principi della Dottrina della scienza

 

 

La “Dottrina della scienza” e la struttura dell'Idealismo fichtiano

 

La “dottrina della scienza” è idealismo trascendentale, ed è, secondo Fichte, la vera interpretazione della filosofia kantiana, purché in Kant si distingua lo spirito dalla lettera. Le cose in sé, di cui parla Kant, sono per Fichte le cose che l'Io finito si trova dinanzi, oggetti che l'Io pone quando si limita e diventa io finito.
Per dare fondamento a tale “dottrina della scienza” (Wissenschaftlehre), deve esistere una proposizione certa per se stessa che fondi la certezza delle altre proposizioni ad essa legate con le quali fa “sistema”. Tale proposizione è il principio fondamentale (Grundsatz).
Il principio fondamentale della dottrina della scienza deve essere non solo certo in se stesso, e quindi dare la forma della certezza alle altre proposizioni, ma deve anche contenere in sé ogni possibile contenuto della dottrina della scienza; e ciò indica la differenza fra dottrina della scienza e logica formale.

 

L'Io pone se medesimo (tesi)
Nella filosofia aristotelica il principio incondizionato della scienza era il principio di non-contraddizione; nella filosofia moderna wolffiana e per lo stesso Kant tale principio era quello di identità A = A, considerato ancor più originario (nel senso che quello deriva da questo).
Per Fichte, a sua volta, questo principio deriva da un principio ancora ulteriore, e di natura del tutto particolare.
In effetti, il principio A = A è puramente formale e ci dice solo che se esiste A, allora A = A. Di necessario, in esso, c'è solo il legame logico “se... allora”. Questo legame logico, però, non può essere posto se non dall'Io che lo pensa, il quale, pensando il legame di A con A, pone oltre al legame logico, anche A.
Il principio supremo non è dunque quello dell'identità logica A = A, perché esso risulta posto e, quindi, non originario. Il principio originario non potrà essere se non l'Io stesso. L'Io, infatti, non è posto da alcunché di altro, ma si auto-pone.
Io = Io significa, dunque, non l'astratta e formale identità, ma l'identità dinamica di un principio autoponentesi.

 

Il principio primo, dunque, è condizione incondizionata.
Se è condizione di se medesimo, allora “costruisce se stesso”, “è così perché così si fa”, è “posizione di se medesimo”, in una parola è auto-creazione.
Nella metafisica classica valeva che “l'operare segue l'essere”, vale a dire l'azione consegue all'essere delle cose, una cosa per agire deve prima essere, l'essere è la condizione dell'agire. La nuova posizione idealistica rovescia tale assioma e afferma che “l'essere consegue all'azione”, il che significa che l'azione precede l'essere, l'essere deriva dall'azione e non viceversa.
Fichte sostiene chiaramente che l'essere non è originario, ma “derivato”, “dedotto”, ossia prodotto dall'agire.
L'Io fichtiano è, pertanto, quella intuizione intellettuale che Kant riteneva impossibile all'uomo, perché coincidente “con l'intuizione di un intelletto creatore”. L'attività dell'Io puro è perciò auto-intuizione, proprio nel senso di auto-posizione. Fichte si spinge perfino a usare l'espressione “Io in sé” ad indicare, appunto, l'Io come condizione incondizionata, che non è un fatto ma un atto, un'attività originaria.

 

Nella prima introduzione alla Dottrina della scienza, Fichte afferma:

 

«L'Intelligenza... secondo l'Idealismo è di per sé attiva e assoluta, non passiva, e non passiva perché, secondo i postulati idealistici, essa è il principio primo e supremo, al quale nulla precede da cui possa derivarle un carattere di passività. Per la stessa ragione non le appartiene un essere vero e proprio, e cioè una consistenza, perché ciò è il risultato di un'azione reciproca, e nulla esiste e nulla si può ammettere con cui l'Intelligenza entri in rapporto di azione reciproca. Per l'Idealismo l'Intelligenza è un agire e assolutamente nient'altro. Neppure la si può chiamare un che di attivo, perché con queste espressioni si allude a qualcosa di consistente che ha la proprietà d'essere attivo. Ma l'Idealismo non ha ragione alcuna di ammettere una cosa del genere, poiché nel suo principio non c'è nulla di simile, e tutto il resto è da dedursi».

 

Questo Io e questa Intelligenza, ovviamente, non sono l'io e l'intelligenza del singolo uomo empirico, ma l'Io assoluto, l'Egoità (Ichheit = Iità).
L'io empirico nasce soltanto in un terzo momento.

 

L'Io oppone a sé un non-io (antitesi)
Consideriamo la proposizione “non A non è = A”. Essa suppone l'opposizione di “non A” e la posizione di “A”, cioè due atti dell'Io, che presuppongono l'identità stessa dell'Io.
Pertanto, nel fatto stesso in cui l'Io pone sé, oppone qualcos'altro a sé, come quando nel colloquio interiore noi ci poniamo di fronte a noi stessi per esprimere un giudizio su noi stessi.
Detto in altri termini, l'Io pone se medesimo non come qualcosa di statico, ma come qualcosa di dinamico, come azione; si pone, cioè, come ponente, e il porsi come ponente comporta necessariamente lo scaturire di qualcos'altro, ossia la posizione di qualcos'altro, e, quindi, la posizione di un non-io (l'altro rispetto all'io non può che essere il non-io).
Tale non-io, evidentemente, non è fuori dell'Io, ma nel suo stesso intimo, visto che nulla è pensabile al di fuori dell'Io. Dunque, l'Io illimitato oppone a se un non-io illimitato.
Così, considerato che il primo momento è quello della libertà (originaria), il secondo momento, quello dell'opposizione, è il momento della necessità, indispensabile per spiegare tanto l'attività teoretica (la coscienza e la conoscenza), quanto l'attività pratica (la vita morale e la libertà della coscienza).

 

L'Io oppone nell'Io all'io divisibile un non-io divisibile (sintesi)
Il terzo principio dell'Idealismo fichtiano rappresenta la reciproca limitazione e l'opposizione di limite a limite.
L'opposizione di Io e non-io, si è visto, avviene nell'Io. Tale opposizione non consiste nell'eliminazione, da parte dell'Io, del non-io, ma nella reciproca delimitazione dell'uno rispetto all'altro e viceversa. La produzione del non-io, infatti, non può sorgere se non come limite o come de-terminazione dell'Io stesso. Quindi, il non-io de-terminato comporta, di necessità, un io de-terminato.
Fichte usa il termine “divísibile” per esprimere questa de-terminazione e identifica questo terzo momento con la kantiana “sintesi a priori “, facendo dei due primi momenti, la condizione che la rende possibile.
Fichte è altresì convinto di essere ormai in grado di “dedurre” le categorie, che Kant ha preteso di ricavare in maniera metodica seguendo un filo conduttore, ma che, in realtà, avrebbe meccanicamente desunto dalla tavola dei giudizi.

 

 

L'attività teoretica e l'attività pratica

 

Spiegazione idealistica dell'attività conoscitiva

 

Nell'esperienza e nella conoscenza noi riteniamo, comunemente, di trovarci di fronte ad oggetti che sono esterni rispetto a noi e che agiscono su di noi.
Nell'idealismo fichtiano l'attività conoscitiva si spiega, invece, all'interno dell'Io, grazie all'antitesi di Io e non-io e alla loro reciproca limitazione.
In Kant 1'immaginazione produttiva determinava a priori la forma pura del tempo, fornendo gli “schemi” alle categorie. In Fichte l'immaginazione produttiva diventa creatrice “inconscia” degli oggetti e consiste, dunque, nella stessa attività infinita dell'Io che, delimitandosi continuamente, produce ciò che costituisce la materia del nostro conoscere. Proprio perché, poi, si tratta di produzione inconscia, il prodotto ci appare come “altro”da noi, esterno.
L'immaginazione produttiva, però, fornisce un materiale grezzo, per così dire, di cui la coscienza, a tappe successive, si riappropria attraverso la sensazione, l'intuizione sensibile, l'intelletto e il giudizio. A questo punto, se noi ci poniamo nella prospettiva della riflessione comune, ci formiamo la salda convinzione che le cose abbiano realtà fuori di noi, e che quindi esse esistano senza il nostro intervento. Quando, tuttavia, con la ragione filosofica noi riflettiamo su quelle tappe del processo conoscitivo e sulle loro condizioni, allora acquistiamo coscienza del fatto che tutto deriva dall'Io, e così ci avviciniamo, nella nostra autocoscienza, sempre più all'autocoscienza pura.

 

In tutto questo percorso il non-io si è rivelato come condizione necessaria per la nascita la coscienza, che è sempre coscienza di qualcosa che è “altro” da sé stessa, qualcosa che suppone sempre una diversità (alterità) rispetto ad essa. L'autocoscienza pura, poi, rimane come un limite cui ci si può avvicinare, ma che non si può mai raggiungere per il fatto che la cancellazione di ogni limite significherebbe la sottrazione della stessa coscienza.

 

Spiegazione idealistica dell'attività morale

 

Anche l'attività pratico-morale viene spiegata mediante l'applicazione dell'opposizione di Io e non-io e della loro reciproca limitazione.
Il non-io, infatti, agisce in questo caso sull'Io come una sorta di “urto” o “sforzo” (Anstoss), che suscita un “contro-urto” o “contro-sforzo”.
L'oggetto, nell'agire pratico, si presenta quindi all'uomo come un ostacolo da superare. Il non-io diventa, così, lo strumento mediante cui l'Io si realizza moralmente. Se così è, il non-io diventa momento necessario per la realizzazione della libertà dell'Io.
Essere libero significa pertanto rendersi libero, e rendersi libero significa allontanare incessantemente i limiti opposti dal non-io all'io empirico.
L'Io, dunque, pone il non-io per potersi realizzare come libertà. Tale libertà è destinata a rimanere strutturalmente a livello di compito illimitato (il dovere assoluto o imperativo categorico di cui parlava Kant).
L'infinitudine dell'Io si manifesta quindi come un infinito porre un non-io per superarlo all'infinito.
Il toglimento completo del non-io, come è evidente, può essere solo pensato come un concetto limite e per questo la libertà resta strutturalmente un compito infinito.

 

La morale, il diritto e lo Stato

 

La vera perfezione morale è un infinito tendere alla perfezione come progressivo superamento della limitazione; in ciò si rivela l'essenza stessa del principio assoluto, e Fichte ritiene in tal modo di aver definitivamente dimostrato quella superiorità della ragione pratica sulla ragion pura che Kant aveva già intuito.
Dio non è, pertanto, una sostanza o realtà a sé stante, ma è l'ordine morale del mondo, è il “dover essere”, e quindi è Idea. La vera religione consiste nell'azione morale. Il finito, cioè l'uomo è momento necessario e strutturale di Dio (dell'assoluto come Idea-che-si-realizza-all'infinito).

 

Fichte risolve (almeno dal suo punto di vista) il problema che aveva tanto tormentato Kant circa il rapporto fra il mondo sensibile o fenomenico e il mondo noumenico con il quale ha a che fare il nostro agire morale.
Fichte sostiene che la legge morale costituisce il nostro “essere nel mondo intelligibile”, cioè l'aggancio strutturale all'intelligibile; l'azione reale, invece, costituisce il nostro “essere nel mondo sensibile”. La libertà è, a suo parere, l'aggancio dei due mondi in quanto è potere assoluto di determinare il mondo sensibile secondo l'intelligibile.
L'Io trova se stesso come volontà, e la volontà è assoluto tendere, assoluta tendenza all'Assoluto, tendenza ad autodeterminarsi, senza spinta alcuna dall'esterno. Non è, però, una tendenza qualunque, è una tendenza consapevole, penetrata di intelligenza, e per questo la volontà è libertà. È infatti caratteristica del soggetto, dell'intelligenza, in contrapposizione all'essere oggettivo, quella di non essere già tutta data, già fatta, ma di essere un attuarsi; una tendenza consapevole è dunque una tendenza che si fa, si autodetermina, e in questo consiste la libertà. L'imperativo categorico – devi perché devi – esprime quindi l'essenza dell'Io come libertà. La libertà è dunque immediatamente intuita, per Fichte, non postulata dalla legge morale, come per Kant.

 

Il non-io agisce sull'Io solo come “resistenza”, che non solo stimola l'Io ad agire, ma suppone il suo essere posto da parte dell'Io.
L'Io è il vero principio di tutto.
In questo contesto, in cui tutto resta consegnato all'attività morale, il peggiore dei mali (il vizio supremo) è l'inattività o l'inerzia, dalla quale derivano gli altri vizi peggiori, come la viltà e la falsità.
L'inattività (l'accidia), infatti, fa rimanere l'uomo al livello di cosa, di natura, di non-io, ed è quindi, in un certo senso, la negazione dell'essenza e del destino dell'uomo medesimo.

 

L'uomo, poi, realizza il suo compito morale in modo pieno, entrando in relazione con gli altri uomini. Proprio per diventare pienamente uomo, ciascun uomo ha bisogno degli altri uomini. La necessità che esistano più uomini (la “deduzione” della molteplicità di io empirici) è quindi fondata da Fichte sulla considerazione che l'uomo ha il dovere di essere pienamente uomo, e che questo si realizza solo se esistono più uomini.
La molteplicità di uomini implica il sorgere di una molteplicità di ideali, e quindi un di conflitto fra i sostenitori dei differenti ideali. In questo conflitto, secondo Fichte, è sempre il migliore che vince, anche quando apparentemente è sconfitto.
Il “dotto” ha una missione particolare fra gli uomini.
Egli deve impegnarsi non solo a far progredire il sapere, ma ad essere moralmente migliore, e, in questo senso, con la sua attività e con il suo esempio, deve promuovere il progresso dell'umanità.

 

La molteplicità di uomini implica anche il sorgere del diritto e dello Stato.
In quanto l'uomo non è solo, ma fa parte di una comunità è un essere libero accanto ad altri esseri pure liberi, e quindi deve limitate la propria libertà con il riconoscimento della libertà altrui. Più precisamente, ogni uomo deve limitare la propria libertà in modo che ciascuno e tutti possano egualmente esercitare la loro. Nasce, così, il diritto.
Il diritto fondamentale è quello di ciascuno alla libertà (a quella libertà che è concretamente compossibile nel contesto di una società fatta di uomini liberi).
Un secondo diritto è quello della proprietà. A tale proposito, Fichte sostiene che ciascuno ha diritto di poter vivere del proprio lavoro. Lo Stato, infatti, nato da un contratto sociale, e quindi da un consenso delle volontà degli individui, deve garantire a chi è inabile la possibilità di sussistenza, a chi è abile la possibilità di lavorare, e infine deve anche impedire che qualcuno viva senza lavorare.
Lo Stato garantisce quindi il lavoro a tutti, ed impedisce che vi siano i poveri così come i parassiti.

 

Nell'opera Lo Stato commerciale chiuso Fichte sostiene che lo Stato, al fine di raggiungere gli obiettivi sopra illustrati, può, se necessario, chiudere il commercio con l'estero, o, comunque, regolarlo in modo da prenderne il monopolio. A queste posizioni socialistiche ben si connette l'ideale cosmopolitico che Fichte sostenne per un certo periodo, ispirandosi agli ideali accesi dalla Rivoluzione francese.
Gli eventi ai quali assistette nell'ultima fase della sua vita, lo convinsero tuttavia che non dal popolo francese sotto la guida di Napoleone che agiva da despota e calpestava la libertà, bensì dal popolo tedesco, militarmente sconfitto e politicamente oppresso e diviso poteva venire la spinta per il progresso dell'umanità. Il popolo tedesco riunificato e solo il popolo tedesco, infatti, avrebbe potuto compiere questa missione.
I Discorsi alla Nazione tedesca, pertanto, così concludono al primato del popolo tedesco, come il più affidabile e il più determinato per la rinascita dell'umanità in Europa e nel mondo. Fichte lascia intendere che soltanto a condizione della sopravvivenza del popolo tedesco, il popolo più genuino e più originario, l'umanità potrà non perire.
Tali affermazioni furono fatte oggetto di funeste strumentalizzazioni politiche; nel loro contesto originario, però, esse avevano forse un significato diverso, quel significato, cioè, che ogni nazione che risorge è portata ad attribuire a se medesima. Resta, comunque, il fatto che lo scritto di Fichte offrì larghi spunti all'ideologia del pangermanesimo.

 

Il pensiero della seconda fase

 

La produzione filosofica di Fichte posteriore alla “polemica sull'ateismo”, ossia successiva al momento in cui si stabilì a Berlino (1800), tradisce evidenti mutamenti di pensiero.
Le novità si svolgono secondo due direzioni fondamentali, secondo un progressivo approfondimento in senso metafisico dell'idealismo e in senso accentuatamente mistico-religioso.

 

L'unità che viene scissa in soggetto e oggetto, che sta quindi alla base di ogni coscienza, e in conseguenza della quale il soggettivo e l'oggettivo vengono posti immediatamente nella coscienza come unità, riceve da Fichte in quest'ultima fase una statura ontologica tale che essa finisce per diventare Dio al di sopra dell'Io, un Assoluto che è ben di più dell'ordine morale del mondo.
La nuova esposizione mostra che bisogna porre alla base l'Assoluto (al quale, precisamente perché è l'Assoluto, non si può aggiungere nessun attributo, né quello del Sapere né quello dell'Essere, e nemmeno quello dell'indifferenza del Sapere e dell'Essere), che si manifesta in sé come Ragione, e che si quantifica, si divide in Sapere ed Essere.
Nella redazione della Dottrina della scienza del 1804 Fichte ricorre addirittura, oltre che al concetto di Unità, anche al concetto neoplatonico di “luce” che, irraggiandosi, si scinde in essere e pensiero. Fichte, qui, non solo distingue l'Assoluto dal Sapere concettuale, ma sostiene che questo va posto per essere superato nella “evidenza” che è propria della luce dell'Unità divina.
Nelle ultime esposizioni, Dio è concepito come essere uno e immutabile, mentre il Sapere diventa l'immagine o schema di Dio, l'essere di Dio fuori del proprio essere, il Divino che si rispecchia nella coscienza, soprattutto nel dover essere e nella volontà morale.

 

Analogo ordine di pensieri si manifesta nelle parallele esposizioni popolari di questo periodo.
Nella Missione dell'uomo Fichte dà alla fede un rilievo straordinario e, invece che di Io, parla di Vita, Volontà eterna e Ragione eterna. L'istanza religiosa dell'ultima fase trova la sua più tipica espressione nell'Introduzione alla vita beata del 1806, in cui l'idealismo si colora delle tinte proprie del panteismo metafisico, per il quale non vi è assolutamente nessun essere né alcuna vita al di fuori della vita immediata divina.
Così, Fichte intende reinterpretare secondo i propri schemi i concetti del Verbo divino e dell'amore contenuti nel Vangelo di Giovanni. La scienza stessa diventa una sorta di mistica unione con l'Assoluto.

 

 

 

Hegel filosofo del sistema. La periodizzazione degli scritti

 

 

GEORG WILHELM FRIEDRICH HEGEL

 

 

È il filosofi del sistema, cioè quel pensatore che espressamente ha dato veste sistematica alla sua interpretazione della realtà. Il sistema hegeliano si propone come onnicomprensivo ed onniesplicativo, nel senso che si propone di giustificare tutta la realtà esistente, nulla escluso.

 

Gli scritti

 

Fra i lavori giovanili del periodo di Berna e di Francoforte (1793-1800) spiccano soprattutto gli scritti teologici, pubblicati postumi, che sono stati additati da alcuni studiosi come rilevanti ai fini della comprensione della genesi del sistema hegeliano. Essi sono: Religione razionale e cristianesimo (frammenti), La vita di Gesù (1795), La positività della religione cristiana (1795/96, prima redazione), Lo spirito del Cristianesimo e il suo destino (1798), Frammento di sistema (1800) e la seconda redazione del terzo scritto (incompiuta).
A Jena Hegel scrisse (ma lasciò inediti) La costituzione della Germania e il Sistema dell'eticità.
Nel 1801 pubblicò La differenza fra il sistema fichtiano e il sistema schellinghiano.
La fenomenologia dello Spirito (1807) segna lo stacco di Hegel da Schelling e presenta un tipo di pensiero ormai del tutto originale.
Le opere successive segnano la maturità del pensiero hegeliano; esse sono: La scienza della logica (1812-1816), L'enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817) e i Lineamenti di filosofia del diritto (1821).
L'Enciclopedia fu riedita nel 1827 e nel 1830 con ampliamenti. Una ulteriore edizione, in tre volumi, fu fatta dagli allievi, dopo la morte di Hegel, fra il 1840 e il 1845 con una serie di inserti contenenti i chiarimenti che Hegel dava nel corso delle sue lezioni.
Le lezioni, pure pubblicate dai discepoli, recano i seguenti titoli: Lezioni sulla filosofia della storia, Estetica, Lezioni di filosofia della religione e Lezioni sulla storia della filosofia.

 

Gli scritti teologici giovanili e la genesi del pensiero hegeliano

 

In questi scritti emerge come Hegel sia giunto a scoprire l'asse attorno a cui ruota il sistema approfondendo tematiche religioso-teologiche, ossia domandandosi quale sia l'essenza della religione e cercando di interpretare il senso delle differenti forme in cui essa si è manifestata nella storia. Egli insistette in modo particolare sulla figura di Cristo e sul Cristianesimo, giudicati, dapprima, negativamente, in funzione di parametri di marchio illuministico, ma, successivamente, radicalmente rivalutati.

 

 

Scritti teologici giovanili; cristianesimo e religione nazionale

 

Religione nazionale e cristianesimo
Per capire gli scritti teologici giovanili di Hegel giova tener presente la concezione kantiana della religione. Kant definisce la religione come «la conoscenza di tutti i nostri doveri come comandamenti divini»; le riconosce quindi solo un aspetto morale, e distingue religione naturale da religione rivelata. La prima è quella in cui «io debbo prima sapere che una cosa è mio dovere per riconoscerla poi come comando divino» (questa è la vera religione, quella che rientra nei limiti della pura ragione, poiché per conoscere che cosa è mio dovere mi basta la ragione); la religione rivelata, invece, «è quella in cui io debbo prima sapere che una cosa è comandata da Dio per riconoscerla come mio dovere». Secondo Kant, il cristianesimo, per la sua origine, per il modo in cui è stato annunciato, è una religione rivelata, ma per il suo contenuto (per le dottrine che professa) è religione naturale. Il che vuol dire che il cristianesimo si può giustificare con la sola ragione. Gesù ha predicato una religione naturale.
Se leggiamo il primo frammento di Religione nazionale e cristianesimo, troviamo una notevole opposizione alle idee di Kant sulla religione. Hegel è d'accordo con Kant nella svalutazione della religione positiva, ma quello che lo interessa è non tanto una religione naturale fondata sulla pura ragione, ma una religione nazionale (Volksreligion), capace cioè di avere efficacia nella vita di un popolo.
Ora una religione nazionale non può fondarsi sulla semplice ragione. Hegel insiste sull'importanza del cuore e della fantasia in una religione nazionale, e questo è in opposizione a Kant. Altro punto di divergenza da Kant è l'affermazione dello stretto legame fra religione e politica: ed è uno dei motivi che fanno apprezzare a Hegel la religione greca molto più della religione cristiana. Un altro motivo è che la religione greca è lieta, mentre quella cristiana è triste; il primo frammento di Religione nazionale e cristianesimo termina con una specie di inno alla Grecia.
Negli altri quattro frammenti si accentua l'opposizione al cristianesimo: Hegel enumera le malefatte compiute in nome del cristianesimo (crociate, condotta verso gli indigeni d'America ecc.) e, all'obiezione che quello che ha ispirato tali azioni non è il vero cristianesimo, Hegel si domanda quale sia il vero cristianesimo. Soprattutto, poi, Hegel afferma che le dottrine morali di Gesù possono ispirare la condotta di singoli uomini, non la vita di un popolo, adducendo ad esempio l'esortazione a vendere tutti i propri beni e darli ai poveri. La religione cristiana è originariamente una religione privata, che mal si adatta a diventare religione di un popolo e che, per diventar tale, si è snaturata.
Continuamente, al cristianesimo è contrapposta la grecità; a Gesù è contrapposto Socrate: Cristo ebbe dodici apostoli, un numero determinato, i quali dovevano abbandonare ogni legame con la famiglia e con lo Stato, e legarsi esclusivamente a lui; Socrate invece ebbe discepoli di ogni tipo, non in numero fisso e li lasciò alla loro famiglia, al loro lavoro: «ognuno di. essi rimaneva ciò che era», come del resto anche Socrate rimase marito e padre. Perciò vi furono socratici, ma non ci fu una corporazione, una massoneria socratica; ognuno restava padrone di sé, e fra i discepoli di Socrate ci furono generali, uomini politici, eroi di ogni specie, «non eroi del martirio e nella sofferenza, ma nell'azione e nella vita». Socrate morì da greco, offrendo un gallo a Esculapio; prima di morire parlò dell'immortalità, alla ragione e alla fantasia, con tono convincente, così da infondere nei suoi discepoli la speranza dell'immortalítà, visto che l'uomo non può averne la certezza. I discepoli di Gesù, invece, avevano bisogno di questa certezza, garantita dalla resurrezione di Gesù, perché gli uomini nei quali non è viva l'idea della virtù e del sommo bene, hanno anche una debole speranza di immortalità.
Il contrasto, dunque, in Religione nazionale e cristianesimo, non è, come in Kant, quello fra religione naturale e religione rivelata o positiva, ma quello fra religione nazionale e religione privata.

 

 

Gesù e la positività della religione cristiana

 

La vita di Gesù e La positività della religione cristiana
Dopo che Hegel ha preso posizione rispetto a Kant, ci si può stupire quando si legge La vita di Gesù, che non è altro che un'applicazione ed estensione a tutto il Vangelo dei criteri di Kant sulla religione cristiana come religione naturale. Gesù è presentato come un puro predicatore di morale e tutto il Vangelo è tradotto in termini di morale kantiana. Non è l'eliminazione d'ogni elemento soprannaturale dal Vangelo ciò che colpisce (Hegel non crede al soprannaturale), ma la riduzione pedantesca della predicazione di Gesù alla morale kantiana.

 

Presentata la dottrina di Gesù come «religione naturale» nel senso kantiano Hegel si pone il problema di come abbia potuto una simile religione diventare poi, nella storia, «religione positiva» (sempre nel deteriore senso kantian). Questo è il problema de La positività della religione cristiana, scritto in gran parte subito dopo La vita di Gesù. Nella Positività, che pur mira ancora a un illuministico e kantiano disprezzo per il cristianesimo «positivo», ossia per il cristianesimo così come si presenta nella storia, c'è un aspetto nuovo, consistente nell'interesse per il cristianesimo storico.
Per Kant tutto quello che nel cristianesimo non è riducibile a morale, a «religione naturale» è pura superstizione, clericalume e non lo interessa affatto: per Hegel il processo di «positivizzazione» del cristianesimo, pur essendo deplorevole, è pur sempre un fatto storico, che, come tale, merita di essere studiato.
La risposta di Hegel al problema si può brevemente sintetizzare così: il motivo del «positivizzarsi» della religione cristiana fu l'ottusità del popolo ebraico, la sua incapacità a capire e ad accettare una religione puramente razionale. Il popolo ebraico era oppresso da un peso di leggi statutarie (ossia imposte dal di fuori, non conosciute dalla ragione come leggi morali) che prescrivevano in modo pedante una regola ad ogni qualsiasi azione della vita quotidiana; si gloriava di una obbedienza da schiavo a leggi che non si era dato da sé. Questo stato d'animo era aggravato dalla soggezione politica degli Ebrei ad uno stato straniero, Roma. Gesù, che non partecipava di questo stato d'animo da schiavo, intraprese ad elevare la religione e la virtù a moralità richiamò alla memoria del suo popolo i principi morali che erano contenuti nei libri sacri. Il suo intento di elevare a pura moralità la religione del suo popolo fallì totalmente. Allora, per farsi capire dai suoi uditori, i quali credevano di avere ricevuto leggi religiose da Dio (non dalla ragione, dal loro intimo), e ne erano fieri, Gesù fu costretto a presentarsi come il Messia, l'inviato di Dio, colui che deve rivelare la volontà di Dio; fu costretto cioè a presentare la sua dottrina come fondata sull'autorità divi- na, anziché sulla ragione. Per provare il suo carattere di Messia, Gesù compì azioni che i suoi discepoli ritennero miracolose, e nulla più della fede nei miracoli ha contribuito a «positivizzare» la religione cristiana, poiché il motivo dell'adesione alla dottrina di Gesù diventò non il contenuto della dottrina stessa, il suo valore morale, fondato sulla pura ragione, ma l'autorità, la potenza del Maestro.
Torna anche qui il confronto fra Socrate e Gesù, a tutto discapito di Gesù. Se già all'inizio, nell'ambiente che ricevette la predicazione di Gesù, Hegel vede i germi del «positivizzarsi» del cristianesimo, più il tempo passa e peggio vanno le cose. Già in Religione nazionale e cristianesimo Hegel aveva osservato che la religione cristiana può adattarsi solo alla vita di un piccolo gruppo; lo ripete qui e aggiunge che, con l'isolarsi del gruppo (p. es. il ritenere peccaminosa l'adesione anche esteriore alla religione pubblica, al paganesimo) essa diventa una «setta», e quando la «setta» si estese, vennero meno certi suoi pregi, per esempio la fraternità fra i cristiani. La comunità dei beni diventò irrealizzabile e fu sostituita con la raccomandazione di far doni alla comunità, che voleva poi dire al clero, commenta Hegel.
Altra caratteristica di una setta positiva è lo zelo di diffondersi, di far proseliti per la sua fede e per il cielo, e in questo proselitismo si dà importanza non a ciò che è comune a tutti gli uomini, alla ragione, ma alle particolari dottrine della setta. Tale spirito di setta si manifesta nel cristianesimo storico come Inquisizione, cioè l'intolleranza che si valse di mezzi coercitivi quando il cristianesimo diventò religione dello Stato.

 

 

 

Lo spirito del cristianesimo e il significato dell'amore

 

Lo spirito del cristianesimo e il suo destino
In questo scritto è evidente una nuova prospettiva; il cambiamento è veramente brusco.
Di comune fra i due scritti resta l'atteggiamento antigiudaico: il giudaismo (l'ebraismo veterotestamentario) è il mondo della scissione. In un abbozzo del 1_798 Hegel scrive: « La radice del giudaismo è l'oggettivo, ossia la servitù, la schiavitù di fronte ad un estraneo. Gesù attaccò tutto questo. Oggettivo è il non-io, quindi l'estraneo, l'opposto all'io. Il giudaismo rappresenta agli occhi del giovane Hegel la schiavitù dell'uomo di fronte all'altro. Abramo, Mosè sono tipici esempi di questo atteggiamento. Mosè liberò gli ebrei dalla schiavitù dell'Egitto, ma li sottopose ad un'altra schiavitù, quella della legge. La legge mosaica è l'oggetto infinito, l'insieme di ogni verità e di ogni valore. L'oggetto, dice Hegel, sta di fronte all'uomo, che è il vero soggetto, ma nella concezione ebraica è Dio l'infinito soggetto, è l'unica sintesi tra le due antitesi che sono il popolo ebraico e il resto dell'umanità (i Gentili), il mondo. Queste due antitesi, a loro volta, sono i veri «oggetti», cioè cose morte, che traggono ogni loro realtà da Dio.
Contro questa radicale scissione insorge Gesù. Ne Lo spirito del cristianesimo la dottrina di Gesù non è più presentata come una morale di tipo kantiano, anzi, Hegel polemizza contro la morale kantiana rimproverandole una certa positività. Anche la legge morale kantianamente intesa è «oggettiva»; perché sta contro una parte dell'uomo, contro i suoi impulsi, e quindi non esprime il soggetto nella sua pienezza. La morale kantiana lascia sussistere l'opposizione, che è poi scissione dentro l'uomo stesso. Per il particolare, l'impulso, le inclinazioni, l'amore passionale, la sensibilità, o come altro si voglia chiamarli, l'universale è sempre e necessariamente qualcosa di estraneo, di oggettivo; resta sempre un indistruttibile residuo di positività che viene a galla specialmente perché il contenuto del comandamento universale, il dovere determinato, porta in sé la contraddizione di essere insieme limitato e universale, e, poiché ha la forma della universalità, avanza le più dure pretese per la sua universalità.
C'è una critica severissima della morale kantiana, che Hegel non vede affatto, qui, come una traduzione della morale di Gesù. Gesù ha detto qualcosa di molto più vero: operare nello spirito della legge non poteva significare per lui operare per il dovere contraddicendo le inclinazioni, poiché entrambe queste “parti” dello spirito (in questo stato di lacerazione dell'animo non si può parlare diversamente) non sarebbero già più per questo nello spirito della legge, ma contro il suo spirito: l'una (il dovere, la ragione) perché sarebbe esclusiva, ossia limitata da se stessa, l'altra (l'inclinazione) perché sarebbe repressa.
Il superamento della «positività» si raggiunge solo nella conciliazione degli opposti, e in una conciliazione che si avveri nell'essere, nella realtà, non nel dover essere. Questa conciliazione è indicata nel concetto cristiano di amore. Nell'amore la legge smette di essere puro dover essere e diventa essere; nell'amore la legge, l'universale, si incarna nel particolare, e il particolate non si oppone più all'universale, non è più semplice impulso egoistico.
Immediatamente rivolto contro la legge si mostra lo spirito di Gesù, superiore alla moralità nel discorso della montagna che è un tentativo di togliere alle leggi la legalità, la forma di legge. Gesù non predica il rispetto per le leggi, ma indica ciò che le adempie, le toglie come leggi, ed è quindi qualcosa di più alto dell'obbedienza alla legge e rende questa superflua. La perfezione si deve realizzare come una una modificazione della vita.
Sull'amore come conciliazione di opposti, in un ulteriore frammento, Hegel spiega che, mentre il rapporto con le cose, con la materia, lascia sussistere l'opposizione, fra viventi ci può essere unione. Una vera unione, un autentico amore ha luogo solo fra viventi che siano uguali fra loro per la potenza, che siano in tutto e per tutto viventi l'uno per l'altro, e per nessun aspetto siano l'uno di fronte all'altro come qualcosa di morto. Tale unione esclude ogni opposizione; non è intelletto, poiché i rapporti dell'intelletto lasciano sempre il molteplice nella sua molteplicità, e costituiscono una unità che è solo unità di opposizioni; non è ragione, poiché la ragione oppone assolutamente il suo determinare al determinato; non è qualcosa che limita, non è nulla di limitato, di finito. Essa è un sentimento, ma non un sentimento particolare. Nell'amore la totalità non è contenuta nella somma di molti particolari, separati fra loro; nell'amore si trova la vita stessa come una duplicazione di se stesso e una unificazione di questo stesso. La vita ha percorso il circolo: da un'unità non sviluppata, indifferenziata, a una unità compiuta; l'unità compiuta è quella che ha sofferto la separazione e l'opposizione. L'amore supera la riflessione togliendo ogni oggettività e porta via agli opposti ogni carattere di estraneità e la vita trova se stessa senza altra mancanza.
È questa, forse, la prima formulazione della dialettica hegeliana, che approfondiremo. Nel Frammento sull'amore essa è applicata all'individuo umano.
Ne Lo spirito del cristianesimo la dialettica è vista nella storia. Non c'è più il rimpianto per la felicità, la bellezza del mondo greco, come in Religione nazionale e cristianesimo; qui la Grecia antica potrebbe essere paragonata a quella unità non sviluppata (o indifferenziata) che deve attraversare e soffrire opposizioni prima di arrivare alla riconciliazione, all'unità riconquistata, la quale, qui, ne Lo spirito del cristianesimo, è rappresentata dal cristianesimo come riconciliazione di legge e impulso. L'Antico Testamento, la legge, è l'antitesi, l'opposizione, ma una opposizione necessaria: senza di essa non si arriverebbe a quella sintesi che è il cristianesimo.
Hegel ha visto nell'amore la sintesi fra universale e particolare, fra legge morale e inclinazione sensibile. L'amore è vita, singolarità, e come tale si oppone alla legge, che è universale, ma le si oppone solo per la forma: il contenuto è il medesimo; cioè l'amore spinge a fare la medesime cose an comandate legge (solo che la legge comanda, mentre l'amore vive del contenuto della legge).
Qui Hegel sembra vedere in Gesù un esempio di anima bella, una figura tra religiosa ed estetizzante che ebbe grande importanza nel preromanticismo e nel romanticismo, ad interpretare il suo discorso sul cristianesimo, che in questo scritto è visto come sintesi, come conciliazione fra il mondo della legge e il mondo della sensibilità, degli impulsi, della spontaneità (idealizzato nella grecità).
Oltre alla prima formulazione della dialettica, infine, c'è ne Lo spirito del cristianesimo l'elevazione a categorie, a momenti dello spirito, di realtà storiche: la Grecia antica è l'unità non ancora sviluppata, un'unità felice, che tuttavia non può continuare perché non ha sofferto il travaglio del negativo; il giudaismo è la scissione, l'antitesi; il cristianesimo è il momento della sintesi, la conciliazione nell'amore. Si afferma dunque la conciliazione degli opposti, ma si afferma pure la necessità dell'opposizione, e questo è il cardine della concezione dialettica: un progresso, un superamento che non si può raggiungere senza opposizione, senza lotta.

 

 

Nozioni fondamentali di approccio al sistema. La realtà come Spirito

 

 

I CAPISALDI DEL SISTEMA

 

La mappa completa delle idee basilari dell'hegelismo è piuttosto ampia, ma i capisaldi ai quali tutto può essere ricondotto sono i seguenti:
 - la realtà in quanto tale è Spirito infinito (ove per “Spirito” si intende qualcosa che, ad un tempo, sussume e supera tutto quanto in materia avevano detto i predecessori);
 - la struttura, o meglio la vita stessa dello Spirito, e quindi anche il procedimento secondo cui si svolge il sapere filosofico, è la dialettica;
 - la peculiarità di questa dialettica, che perciò si differenzia nettamente da tutte le forme precedenti di dialettica, è ciò che Hegel ha chiamato elemento “speculativo”, la vera cifra del pensiero hegelieno.

 

La chiarificazione di questi tre punti indicherà l'obiettivo o il termine che Hegel si è proposto di raggiungere nel suo filosofare e la strada da lui seguita per raggiungerlo.
È peraltro opportuno considerare che la piena comprensione dei medesimi si potrà avere solo seguendo in concreto lo sviluppo del sistema fino al suo compimento, cioè percorrendo tutta la strada fino al termine finale.

 

La realtà come Spirito

 

Per Hegel la realtà e il vero non sono “sostanza” (ossia, secondo Hegel, un essere più o meno “irrigidito”), ma “Soggetto”, vale a dire “Pensiero”, “Spirito”.
Si tratta di un'acquisizione recente, che costituisce una peculiarità propria dei tempi moderni. In effetti, è un'acquisizione resa possibile dalla scoperta kantiana dell'“Io penso” e dai vari ripensamenti del Criticismo, in particolare i contributi dell'Idealismo di Fichte (e di Schelling).
Dire che la realtà non è sostanza ma Soggetto e Spirito significa dire che è “attività”, che è “processo”, che è “movimento”, o, meglio ancora, “automovimento”. Hegel, tuttavia, va oltre Fichte, che si era già spinto fino a questo punto. Per Fichte, infatti, l'Io pone se stesso, in quanto è appunto pura attività autoponentesi e oppone (inconsciamente) a sé il non-io, ossia un limite, che poi cerca di superare dinamicamente. In tale processo, però l'Io fichtiano non giunge a compimento, in quanto il limite viene sì rimosso e allontanato all'infinito, ma mai interamente “superato”.
Ora, questo infinito, che si può configurare come una retta che procede senza limiti, è, per Hegel, un “cattivo infinito”, un “falso infinito”, in quanto resta un processo irrisolto, nella misura in cui non raggiunge mai pienamente il proprio scopo, cosicché l'essere e il dover essere rimangono perennemente scissi in una sorta di rincorsa senza fine.
Quindi, Hegel sostiene che lo Spirito si auto-genera, generando ad un tempo la propria determinazione, e superandola pienamente.
Lo Spirito, per Hegel, non è infinito in maniera puramente esigenziale, come voleva Fichte, ma in maniera sempre attuantesi e realizzantesi, come continua posizione del finito e “insieme” come superamento del finito medesimo.

 

 

“In sé”, “fuori di sé”, “in sé e per sé”

 

Lo Spirito, in quanto “movimento”, produce via via contenuti de-terminati e quindi (in quanto tali) negativi; l'infinito è il positivo che si realizza mediante la negazione di quella negazione che è propria di ogni finito, esso è il toglimento e superamento sempre realizzantisi del finito.
Il finito, di per sé preso, ha un'esistenza puramente “ideale” o astratta, nel senso che non esiste di per sé come opposto all'infinito o al di fuori di esso. Allora, lo Spirito infinito hegeliano è come un circolo, in cui principio e fine coincidono in maniera dinamica, è come un movimento a spirale in cui il particolare è sempre posto e sempre dinamicamente risolto nell'universale, in cui l'essere è sempre risolto nel dover essere e in cui il reale è sempre risolto nel razionale.
Lo Spirito, pertanto, non è una ripetizione di un qualcosa di identico, privo di reale diversificazione; esso è, invece, un'uguaglianza che continuamente si ricostituisce, ossia una unità-che-si-fa (si costituisce) proprio attraverso il molteplice delle diversificazioni. La quiete, in questa concezione, è pensabile soltanto come l'intero complesso del movimento. La quiete senza movimento, infatti, sarebbe morte, non vita.
Il permanere non è allora la fissità, che è sempre inerzia, ma è la verità del dileguare.

 

Tutto ciò vale sia per l'Assoluto sia per ogni singolo momento della realtà (ossia vale per il reale nel suo intero così come per le sue fasi), perché l'Assoluto hegeliano ha una tale “compattezza” da esigere necessariamente la totalità dei momenti, nessuno escluso. Ogni momento del reale è momento indispensabile dell'Assoluto, perché Esso si fa e si realizza in ciascuno e in tutti questi momenti, in modo tale che ciascun momento diviene assolutamente necessario.

 

A titolo di esempio (tratto dalla Fenomenologia), possiamo prendere in considerazione un bocciolo, il relativo fiore e il frutto che ne deriva. Il bocciolo, nello sviluppo della pianta, è una de-terminazione e quindi una negazione; ma questa determinazione è tolta (ossia superata) dalla fioritura, la quale però, mentre nega questa determinazione la “invera”, in quanto il fiore è la positività del bocciolo. A sua volta, però, il fiore è una de-terminazione, che pertanto implica una negatività, e che viene a sua volta tolta e superata dal frutto; e, in questo processo, ogni momento è essenziale all'altro e la vita della pianta è questo stesso processo che via via pone i vari contenuti, ossia i vari momenti, e via via li supera.
Il reale è dunque un processo che si autocrea mentre percorre i suoi momenti successivi, e in cui il positivo è appunto il movimento medesimo, che è un progressivo autoarricchimento (da pianta a boccio, da boccio a fiore, da fiore a frutto).

 

In secondo luogo, Hegel sottolinea che il movimento proprio dello Spirito è quello per cui esso si riflette in se stesso; si tratta di una “circolarità” entro la quale Hegel distingue tre momenti:
 - dell'essere “in sé”;
 - dell'essere “altro” o “fuori di sé”;
 - del “ritorno a sé” o dell'essere in-sé e per-sé”.
Il “movimento” o il “processo” autoproduttivo dell'Assoluto ha quindi un ritmo triadico, che si scandisce in un “in sé”, in un “fuori di sé”, in un “per sé” o “in-sé e per-sé”.
Anche qui gli esempi portati da Hegel possono contribuire alla comprensione. Se l'embrione è in sé l'uomo, non lo è tuttavia per sé; per sé lo è soltanto come ragione dispiegata, e soltanto questa è la sua realtà effettuale. Il seme è in sé la pianta, ma esso deve morire come seme, e quindi uscire fuori di sé, al fine di poter diventare, dispiegandosi, la pianta per sé (o in sé e per sé).

 

 

Idea, Natura e Spirito. La dialettica

 

 

Gli esempi si potrebbero moltiplicare a piacere, in quanto questo processo si verifica in ogni momento del reale, ma ciò si verifica, a livello più alto, anche per il reale visto come intero. Hegel, pertanto, parla dell'Assoluto anche come di un circolo di circoli. Visto come intero, il “circolo” dell'Assoluto è ritmato anch'esso nei tre momenti dell'in-sé, del fuori-di-sé e del ritorno-a-sé, e questi tre momenti sono rispettivamente denominati “Idea”, “Natura”, “Spirito”.
L'Idea ha in sé il principio del proprio svolgimento e, in funzione di questo, prima si obiettiva e si fa natura “alienandosi”, e poi, superando questa alienazione, perviene a se medesima. Perciò Hegel può dire che lo Spirito è l'Idea che si realizza e si contempla mediante il proprio sviluppo. La filosofia, di conseguenza presenta la triplice distinzione di “logica”, “filosofia della natura”, “filosofia dello Spirito”: la prima studia l'Idea in sé, la seconda il suo “alienarsi” e la terza il momento del “ritorno a sé”.

 

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Nella Filosofia del diritto Hegel ha dichiarato che “tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale”. Ciò significa che l'idea non è separabile dall'essere reale e dall'effettuale, ma che il reale o l'effettuale è lo stesso svilupparsi dell'Idea, e viceversa. Qualunque cosa esista o avvenga non è fuori dell'Assoluto, ma è un momento insopprimibile del medesimo. Lo stesso significato ha l'affermazione che “essere e dover essere coincidono”: ciò che è, è ciò che doveva essere, perché tutto ciò che è è appunto momento dell'Idea e del suo svilupparsi (ciò che accade è sempre ciò che meritava che accadesse).
È chiaro, pertanto, il senso del cosiddetto “panlogismo” hegeliano, ossia l'affermazione che “tutto è pensiero”. Ciò non significa che tutte le cose hanno un pensiero (o una coscienza), ma che tutto è razionale in quanto è determinazione di pensiero.

 

Nella concezione hegeliana dello Spirito il “negativo” gioca un ruolo fondamentale, in quanto la vita dello Spirito non è quella che schiva la morte, ma quella che sopporta la morte e in essa si mantiene. Lo Spirito, per Hegel, guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé nell'assoluta devastazione; Esso è questa potenza e questa forza, appunto perché sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di esso. Tale affermarsi (per via negativa) è la “magica” forza che volge il negativo nell'essere.

 

La dialettica come legge suprema del reale e come procedimento del pensiero filosofico

 

La concezione hegeliana della realtà e dello Spirito nasce dalla visione romantica e la porta a compimento. Lo “Streben” infinito (ossia il “tendere”) romantico mediante il concetto hegeliano dello Spirito come “movimento-del-riflettersi-su-se-stesso” viene risolto in senso positivo e inverato (sollevato a verità), perché viene riscattato della sua indeterminatezza, venendo a coincidere con l'autorealizzarsi e l'autoconoscersi dello Spirito medesimo.
Il Romanticismo, tuttavia, viene superato da Hegel soprattutto per quanto concerne l'aspetto metodologico.
Hegel polemizza vivacemente contro la pretesa romantica di cogliere immediatamente l'Assoluto. Al contrario, per Hegel, il coglimento della verità è assolutamente condizionato dalla mediazione. Se, infatti, Hegel concede ai Romantici che sia vero affermare la necessità di spingersi oltre i limiti propri dell'attività dell'intelletto, perché esso, con i suoi procedimenti analitici o con le sue tecniche deduttive, non sa andare oltre il finito e quindi non può cogliere la realtà e il vero che sono l'infinito, tuttavia ritiene che l'Infinito non si coglie col sentimento, con l'intuizione o con la fede, che sono alcunché di non scientifico, ma che esso abbisogni di un “metodo” che renda possibile la conoscenza dell'Assoluto, appunto in modo “scientifico”.

 

Il compito che Hegel assegna a se stesso nei confronti dei Romantici o dei precedenti Idealisti è quindi quello di operare l'innalzamento della filosofia a scienza mediante la scoperta e l'applicazione di un “nuovo metodo”. Questo metodo è la dialettica.

 

Nata nell'ambito della Scuola di Elea (soprattutto con Zenone), la dialettica aveva raggiunto i suoi vertici con Platone. Dopo essere stata considerata lungo tutta l'età tardoantica e medievale come l'arte dell'argomentazione probabile, in età moderna Kant l'aveva ripresa nella sua Critica della Ragion pura, ma l'aveva considerata esclusivamente come sviluppo sistematico di antinomie destinate a restare irrisolte, e quindi l'aveva privata di valore conoscitivo. La riscoperta romantica dei Greci permise il rilancio della dialettica come suprema forma di conoscenza, come già Platone aveva fatto.
Tuttavia, fra la dialettica classica e quella hegeliana, nonostante le notevoli convergenze, esiste ad un tempo una differenza essenziale. Gli antichi, per Hegel, avrebbero compiuto un grande passo sulla via della scientificità, elevando la loro comprensione dal particolare all'universale. Ciononostante, le Idee platoniche e i concetti aristotelici erano rimasti, per così dire, bloccati in una rigida quiete e quasi solidificati. Ora, siccome la realtà è divenire, è movimento e dinamicità, è evidente che la dialettica, per essere strumento adeguato ad essa, dovrà essere ad essa conforme e perciò riformata. Bisogna pertanto imprimere movimento alle essenze e al pensiero universale già scoperto dagli Antichi, in modo tale che, attraverso questo movimento, i puri pensieri divengono concetti e soltanto allora siano ciò che essi veramente sono, vale a dire automovimenti, circoli, essenze spirituali.
Il movimento delle essenze pure costituisce in generale la natura della scientificità. Il cuore della dialettica diviene, così, il movimento, che è la natura stessa dello Spirito da intendersi come il “permanere del dileguare”, il cuore del reale.

 

Il movimento dialettico, stanti le ragioni illustrate sopra parlando dello Spirito, non potrà che essere una sorta di movimento circolare o movimento a spirale con ritmo triadico.
Tali momenti sono generalmente indicati coi termini “tesi”, “antitesi” e “sintesi”, ma in maniera semplificata, laddove Hegel preferisce un linguaggio molto più complesso e più articolato:
 - il primo momento è detto da Hegel lato astratto o intellettivo;
 - il secondo momento è detto lato dialettico (in senso stretto) o negativamente razionale;
 - il terzo momento è detto lato speculativo o positivamente razionale.

 

 

Momento astratto, momento dialettico e momento speculativo. La proposizione speculativa

 

 

Il momento astratto

 

L'intelletto è la facoltà che astrae concetti determinati e che si ferma alla determinatezza dei medesimi.
Esso distingue, separa e de-finisce, irrigidendosi in queste separazioni e de-finizioni, che ritiene in qualche modo definitive.

 

«L'attività dell'intelletto consiste in generale nel conferire al suo contenuto la forma dell'universalità e, precisamente l'universale posto dall'intelletto è un universale astratto che, come tale, viene tenuto saldamente contrapposto al particolare, ma, in tal modo, viene al tempo stesse anche determinato a sua volta come particolare. In quanto l'intelletto opera nei confronti dei suoi oggetti separando e astraendo, è il contrario dell'intuizione immediata e della sensazione, che, come tale, ha interamente a che fare con il concreto e rimane ferma ad esso».

 

La potenza astrattiva dell'intelletto è mirabile, ed Hegel non risparmia elogi nei confronti dell'intelletto, in quanto è la potenza che scioglie e distacca dal particolare ed eleva all'universale.
Quindi la filosofia non può fare a meno dell'intelletto e della sua opera, e deve, anzi, incominciare proprio dal lavoro dell'intelletto. Tuttavia, l'intelletto come tale fornisce una conoscenza inadeguata, che resta rinchiusa nel finito (o, al massimo, si spinge al “falso infinito”), nell'astratto irrigidito, e di conseguenza rimane vittima delle opposizioni che esso stesso crea distinguendo e separando.
Il pensiero filosofico deve pertanto andare oltre i limiti dell'intelletto.

 

Il momento dialettico

 

L'andare oltre i limiti dell'intelletto è peculiarità della “Ragione”, la quale ha un momento “negativo” e uno “positivo”. Il momento negativo, che è quelle che Hegel chiama “dialettico” in senso stretto (dato che dialettica in senso lato sono tutti e e tre i momenti), consiste nello smuovere la rigidità dell'intelletto e dei suoi prodotti.
Il fluidificare i concetti dell'intelletto, tuttavia, comporta il venire in luce di una serie di contraddizioni e di opposizioni di vario genere, che erano soffocate nell'irrigidimento dell'intelletto. Ogni determinazione dell'intelletto viene in tal modo a rovesciarsi nella determinazione contraria (e viceversa). Il concetto di “uno”, ad esempio, non appena venga smosso dalla sua astratta rigidezza, richiama quello di “molti” e mostra uno stretto rapporto con esso (non possiamo pensare in maniera rigorosa e adeguata l'uno senza il nesso che lo connette con i molti; altrettanto vale per i concetti di “simile” e “dissimile”, di “uguale” e “disuguale”, di “particolare” e “universale”, di “finito” e “infinito”, e così via).
Ogni concetto, pertanto, considerato dialetticamente, sembra addirittura “rovesciarsi” nel proprio opposto e quasi “dissolversi” in esso.

 

«La dialettica è l'immanente oltrepassare, in cui l'unilateralità e la limitatezza delle determinazioni dell'intelletto si esprimono per ciò che sono, cioè come la loro negazione. Ogni finito è il superare se stesso. La dialettica è quindi l'anima motrice del procedere scientifico ed è il principio mediante il quale soltanto il contenuto della scienza acquista un nesso immanente o una necessità, così in esso in generale si trova la vera elevazione, non estrinseca, al di là del finito [cioè al di là di ogni singola determinazione del finito]».

 

Hegel rileva che il momento dialettico non è affatto una prerogativa del pensiero filosofico, ma è presente in ogni momento della realtà; ogni finito, infatti, invece di essere un termine fisso e ultimo, è piuttosto mutevole e transeunte, e questo non è altro che la dialettica del finito, mediante la quale il finito, in quanto in sé è l'altro da sé, viene spinto anche oltre quello che è immediatamente e si rovescia nel suo opposto (il seme deve rovesciarsi nel suo opposto per diventare germoglio, ossia deve morire come seme; il bambino deve morire come tale e rovesciarsi nel suo opposto per diventare adulto, e così via).
Il negativo che emerge nel momento dialettico consiste, in generale, nella “manchevolezza” che ciascuno degli opposti rivela quando si “misura” con l'altro. Proprio tale “manchevolezza” si rivela come la molla che spinge, oltre l'opposizione, ad una superiore sintesi, che è il momento speculativo, ossia il momento culminante del processo dialettico.

 

Il momento speculativo

 

Il momento “speculativo” o “positivamente razionale” è quello che coglie l'unità delle determinazioni contrapposte, ossia il positivo che emerge dalla risoluzione degli opposti (la sintesi degli opposti); è ciò che contiene in sé, come superate, quelle opposizioni a cui si ferma l'intelletto (e quindi anche l'opposizione tra soggettivo e oggettivo) e che così mostra di essere come concreto e come totalità.
Lo “speculativo” è la riaffermazione del positivo che si realizza mediante la negazione del negativo proprio delle antitesi dialettiche e quindi è una elevazione del positivo delle tesi ad un più alto livello.
Se ad esempio consideriamo il puro stato di innocenza, esso rappresenta un momento (tesi) che l'intelletto irrigidisce in sé e a cui contrappone come antitesi la conoscenza e consapevolezza del male, che è negazione dello stato di innocenza (la sua antitesi); ora, la virtù è esattamente la negazione del negativo della antitesi (il male) e il recupero del positivo dell'innocenza ad un più alto livello, che è reso possibile solo passando attraverso la negazione della rigidità che le era propria, e quindi passando attraverso l'antitesi, che in tal modo acquista valere positivo nella misura in cui spinge a togliere quella rigidità.
Il momento speculativo è quindi un “superare” nel senso che è ad un tempo un “togliere e conservare”. Hegel usa i termini diventati molto famosi e addirittura tecnici “aufheben” (superare) e “Aufhebung” (superamento) per esprimere il momento “speculativo”.

 

«Aufheben da un lato vuol dire togliere, negare, e in tal senso diciamo ad esempio che una legge, un'istituzione ecc. sono soppresse, superate (aufgehoben). D'altra parte però aufheben significa anche conservare, e in questo senso diciamo che qualcosa è ben conservato mediante l'espressione: wohl aufgeboben. Quest'ambivalenza dell'uso linguistico del termine, per cui la stessa parola ha un senso negativo ed uno positivo non deve essere considerata casuale, né addirittura se ne deve trarre motivo di accusa contro il linguaggio, come se fosse causa di confusione; al contrario, in quest'ambivalenza va riconosciuto lo spirito speculativo della nostra lingua che va al di là della semplice alternativa “o-o” propria dell'intelletto».

 

Lo speculativo costituisce il vertice cui perviene la ragione, la dimensione dell'Assoluto. Lo “speculativo” (che è il “razionale” al più alto livello) è paragonabile al “mistico”, vale a dire ciò che coglie l'Assoluto andando oltre i limiti dell'intelletto raziocinante.

 

«A proposito del significato dello speculativo si deve ancora ricordare che per speculativo va inteso quello che in altri tempi, soprattutto in relazione alla coscienza religiosa ed al suo contenuto, soleva essere definito “mistico”. Quando oggi si parla di mistico, in generale lo si fa nel senso di considerare questo termine come equivalente a misterioso o e incomprensibile, e questo misterioso e incomprensibile viene poi, a seconda della diversità della propria formazione e della propria indole, considerato dall'uno come l'autentico e il vero, e dall'altro come superstizione e illusione. A questo proposito va innanzitutto osservato che ciò che è mistico è certamente misterioso, ma soltanto per l'intelletto e semplicemente perché l'identità astratta è il principio dell'intelletto, mentre ciò che è mistico (come equivalente allo speculativo) è l'unità concreta di quelle determinazioni che per l'intelletto valgono soltanto in quanto separate e contrapposte [ ... ]. Ora, come abbiamo visto, il pensiero intellettivo astratto è cosi poco qualcosa di fisso e di ultimo che piuttosto si mostra come il continuo superare se stesso e rovesciarsi nel suo opposto; il razionale come tale invece consiste nel contenere gli opposti in sé come momenti ideali. Tutto il razionale quindi va definito al tempo stesso come mistico, il che significa soltanto che va oltre l'intelletto, ma per nulla affatto che debba essere considerato come inaccessibile e incomprensibile al pensiero».

 

Per conseguenza, secondo Hegel le proposizioni filosofiche debbono essere “proposizioni speculative” e non giudizi formati da un soggetto cui viene attribuito un predicato nel senso della logica tradizionale. La proposizione che esprime il giudizio in senso tradizionale, infatti, esprime un tipo di giudizio operato dall'intelletto, e quindi presuppone un soggetto già bello e fatto cui vengono attribuiti estrinsecamente dei predicati come sue proprietà o accidenti, predicati che sono essi pure già belli e fatti nella nostra rappresentazione (in base agli schemi con cui l'intelletto procede). Questa operazione del congiungere un predicato ad un soggetto è dunque “esteriore”.
Al contrario, la “proposizione speculativa” dovrà essere tale da non presupporre la rigida distinzione di soggetto e di predicato, e quindi dovrà essere, per così dire, plastica. La copula “è”, allora, esprimerà il movimento dialettico con cui il soggetto trapassa nel predicato (in un certo senso nella proposizione speculativa si toglie e si supera la differenza fra soggetto e predicato).
Quando diciamo «il reale è razionale», ad esempio, in senso speculativo, intendiamo non (come nella vecchia logica) che il reale è il soggetto stabile consolidato (sostanza) e il razionale è il predicato (ossia l'accidente di quella sostanza), ma, al contrario, che il razionale esprime il senso del reale. Pertanto, il soggetto passa nel predicato e, viceversa, il predicato nel soggetto. La proposizione in senso speculativo verrebbe quindi a dire che il reale si risolve nel razionale e che il predicato viene ad essere, così, elemento altrettanto essenziale della proposizione quanto lo è il soggetto.
Nella proposizione speculativa soggetto e predicato si scambiano reciprocamente le parti in modo da costituire una identità dinamica; Hegel, infatti, formula in modo completo la proposizione dicendo «ciò che è reale è razionale; ciò che è razionale è reale», dove ciò che prima era soggetto diviene predicato e viceversa (la proposizione si reduplica dialetticamente).
La proposizione della vecchia logica resta rinchiusa nei limiti della rigidità e della finitudine dell'intelletto. La “proposizione speculativa” è invece propria della ragione che supera quella rigidità; essa è una proposizione che deve esprimere il movimento dialettico, e quindi è strutturalmente dinamica, cosi come dinamica è la realtà che essa esprime e così come dinamico è anche il pensiero che la formula.