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CLASSE   IV   -   Sintesi di Filosofia (3)

La trasmissione di Aristotele all'Occidente

 

La vicenda medievale del pensiero aristotelico

 

 

Nel 529 d. C. l'imperatore Giustiniano decretava la chiusura della scuola filosofica di Atene, cioè dell'antica Accademia platonica, atto che comportò la fuga dei maestri della scuola, i quali si rifugiarono presso Damasco, in Siria. Il patrimonio culturale della scuola comprendeva il pensiero platonico, neoplatonico e aristotelico; le opere di Aristotele, trasferite in Siria, subirono una prima traduzione dal greco in siriaco, traduzione che inevitabilmente comportò anche una certa contaminazione con elementi estranei al pensiero aristotelico.
Successivamente, con la conquista araba conclusa a metà dell'VIII secolo, l'opera di Aristotele, reinterpretata e tradotta in arabo, visse diversi periodi di fulgore, soprattutto ad opera del medico e filosofo Avicenna (che operò in Persia nel secolo X) e del filosofo e teologo Averroè (vissuto a Cordova, in Spagna, nel sec. XII), il celebre commentatore dell'opera di Aristotele.
Attorno al secolo XII, poi, cresciuti i contatti tra il mondo latino e il mondo arabo, alcuni maestri conoscitori della lingua dell'Islam si fecero interpreti di nuove traduzioni, questa volta dall'arabo in latino dell'opera aristotelica, ormai difficile da distinguersi all'interno di un più vasto corpus scientifico d'avanguardia.

 

 

Giunto in Occidente, dove di Aristotele si conosceva soltanto l'organon, cioè le opere di logica, trasmesso da Boezio, il sistema del filosofo di Stagira (Aristotele) suscitò un enorme interesse, misto a una comprensibile diffidenza che, ben presto, fu sostituita da un'entusiastica ammirazione. Esso si proponeva, infatti, come un'interpretazione completa, consistente ed esauriente del mondo intero, in tutte le sue dimensioni, che risultava alternativa rispetto alla tradizionale interpretazione del mondo, basata sulla dialettica e sulle conoscenze desumibili dall'interpretazione della Bibbia.
Il sistema aristotelico, che era già stato assorbito dall'Islam, un'altra cultura che, come il Cristianesimo, aveva una visione di fede, costituiva ora una sfida per il mondo Occidentale, nel senso che appariva urgente confrontarsi con esso e con la sua avanzata scientificità, per tentare di leggerlo in una chiave compatibile con la fede della Chiesa.
A questa opera si dedicarono molti maestri, secolari e religiosi, del mondo universitario europeo, tra i quali spiccarono, per importanza i due domenicani Alberto di Colonia (Alberto Magno) e il suo discepolo e confratello Tommaso d'Aquino.
Del primo ci si limiterà a dire che, una volta letta l'opera pressoché integrale di Aristotele, ne fu talmente colpito da asserire senza remore che la filosofia dello Stagirita poteva considerarsi tout court il sistema della verità razionale.

 

 

 

 

 

Lo statuto epistemologico della teologia; prima "via"

 

 

Tommaso d'Aquino 

 

 

Lo statuto epistemologico della Sacra doctrina

 

In pieno XIII secolo si compie, con Tommaso d'Aquino, il percorso di progressiva definizione dello statuto scientifico della teologia. La “Dottrina sacra” dei secoli precedenti, considerata comunemente come una forma di sapienza, matura via via la propria consapevolezza epistemologica e giunge con Tommaso d'Aquino a definire i criteri della propria scientificità in ossequio ai canoni dettati dagli Analitici di Aristotele.
I requisiti fondamentali di una scienza, secondo le regole dettate dal filosofo di Stagira, sono, tra l'altro, un'assiomatica consistente e un campo oggettuale proprio, vale a dire principi primi evidenti da cui partire per argomentare in modo apodittico e l'esistenza in natura dell'oggetto specifico di studio. I due requisiti, per la teologia, vengono in chiaro attraverso le pagine della Somma teologica e della Somma contro i Gentili di Tommaso d'Aquino.

 

Circa la prima questione, Tommaso elabora l'aristotelica dottrina della subalternazione delle scienze, secondo la quale può dirsi scienza subalternata quella disciplina che mutua i propri principi primi da una scienza architettonicamente superiore, come nel caso dell'ottica che assume i suoi postulati dalle conclusioni della geometria, la scienza che, rispetto ad essa, si pone come subalternante. Analogamente, conclude Tommaso d'Aquino, la teologia è scienza subalternata rispetto alla scienza di Dio (la scienza propria di Dio, cioè la conoscenza che Dio ha di tutto) e dei beati che, al cospetto di Dio,  godono già della visione definitiva e trasparente delle cose.
Circa la seconda questione, invece, Tommaso risponde affermativamente al quesito se Dio esista, in quanto campo oggettuale proprio della teologia, scoprendolo mediante cinque percorsi argomentativi (cinque “vie”) nel principio necessario che presiede a diversi ordini di realtà e a cui l'appellativo “Dio” viene assegnato in veste di predicato nella comune considerazione delle cose.

 

Le cinque viae

 

Anche per Tommaso d'Aquino vale un'osservazione analoga a quella presentata per Anselmo d'Aosta: le vie non sono prove dell'esistenza di Dio in senso moderno, ma percorsi razionali che mostrano l'esistenza e la descrivibilità di un campo oggettuale su cui fare scienza, quello di Dio, appunto, che viene detto tale solo a titolo di conferma di un sapere antecedente ed irriflesso che costituisce, comunque, il punto di partenza della speculazione teologica stessa. Tra i cinque percorsi se ne possono individuare tre che si sviluppano in modo similare, benché a partire da constatazioni diverse, di ispirazione aristotelica, un quarto di ispirazione agostiniano-boeziana e un quinto, infine, originale e nuovo.
Le cinque vie prendono spunto dalla considerazione delle circostanze e argomentano il superamento dell'apparente contraddizione del divenire facendo ricorso a un primo principio necessario.

 

1ª via, tratta dalla considerazione del movimento.
Consta che nel mondo ci sono cose in movimento.
Vale assiomaticamente che tutto ciò che si muove è mosso da altro.
Questo “altro”, principio di movimento, a sua volta può essere in movimento e dunque, per il principio citato sopra, è mosso da altro; e così via.
È però impossibile risalire all'infinito nella concatenazione tra motore (principio di movimento) e mosso (ente in movimento), pena l'impossibilità di riscontrare il movimento attuale da cui è partita l'argomentazione, in quanto tale movimento dovrebbe considerare la sua origine retrocessa assurdamente all'infinito e mai iniziata.
Dunque, è necessario ammettere che, all'origine del movimento, c'è un motore primo immobile.
Ma questo è ciò che tutti intendono con il termine “Dio”.

 

 

 

 

Le altre "vie"

 

 

2ª via, tratta dalla considerazione della causa efficiente.
Nella realtà effettuale constatiamo l'esistenza di un ordine di cause efficienti, ma non è possibile che qualcosa sia causa di se stesso.
Inoltre non è possibile procedere all'infinito della concatenazione di cause efficienti, pena l'impossibilità di riscontrare qualsiasi effetto attuale.
Dunque, è necessario ammettere che, nell'ordine delle cause, c'è una causa prima incausata.
Ma questo è ciò che tutti intendono con il termine “Dio”.

 

 

3ª via, tratta dalla considerazione del rapporto tra ciò che è possibile e ciò che è necessario.
Nella realtà constatiamo il darsi di cose che possono essere e non essere, dal momento che possono generarsi e corrompersi, e quindi possono non essere.
È però impossibile che tutte le cose che sono, nessuna esclusa, siano di questo genere, perché ciò che può non essere talvolta, appunto, non è. Quindi tutta la realtà, potendo non essere, talvolta (almeno una volta) non sarebbe.
Se ciò fosse vero, allora nulla esisterebbe, perché dal non essere del tutto non deriva nulla.
Non tutto ciò che esiste, dunque, è possibile, ma qualcosa deve essere necessario.
Ciò che è necessario o ha causa in altro o non ha causa; ma è impossibile risalire all'infinito nell'ordine delle cause, pena la contraddizione.
Dunque è necessario porre qualcosa che sia per sé necessario che non abbia la causa della propria necessità in altro, ma che sia causa della necessità di tutto il resto.
Ma questo è ciò che tutti intendono con il termine “Dio”.

 

 

4ª via, tratta dalla considerazione della gradualità riscontrabile nelle cose.
Constatiamo che c'è qualcosa di più buono e qualcosa di meno buono nella realtà, qualcosa di più o meno vero, di più o meno nobile, e via di seguito.
Il più e il meno, tuttavia, si possono riconoscere alle cose grazie al paragone rispetto al grado massimo, in ciascun ordine di cose.
Pertanto, esiste qualcosa che è buonissimo, verissimo, nobilissimo e che è causa di tutto ciò che fa riferimento a quel genere.
Ma questo è ciò che tutti intendono con il termine “Dio”.

 

 

5ª via, tratta dalla considerazione del governo delle cose.
Possiamo trovare nella realtà alcune cose che, pur essendo prive di capacità conoscitiva, per esempio i corpi naturali, che agiscono in vista di un fine, sempre o, comunque, nella maggior parte dei casi, salvo si dia qualche impedimento.
Da ciò è deducibile il fatto che tali cose, pur prive di capacità conoscitiva, non agiscono a caso, ma ottengono il fine a partire da un'intenzione.
Ciò, tuttavia, che è privo di capacità conoscitiva, non tende ad un fine se non perché vi è indirizzato da un'intelligenza, come nel caso della freccia scoccata dall'arciere.
C'è, dunque, un'intelligenza dalla quale tutte le cose naturali sono ordinate ad un fine.
Ma questo è ciò che tutti intendono con il termine “Dio”.

 

 

L'ontologia della partecipazione, Scoto e Ockham

 

L'ontologia della partecipazione

 

 

L'essere di Aristotele viene interpretato da Tommaso attraverso il teorema della partecipazione. Tale teorema consente di distinguere l'essere di Dio, cioè l'essere del creatore, dall'essere delle cose, cioè l'essere delle creature.
Dio viene infatti presentato da Tommaso come l'essere stesso, l'atto sussistente dell'essere, cioè l'atto assoluto dell'essere, l'essere che costituisce l'essenza stessa di Dio, nel quale, conseguentemente, sono identici essenza ed esistenza. Dio non esiste (nel senso che non ha l'esistenza), ma è l'esistere stesso, per essenza.
Tutto ciò che non è Dio, invece, esiste per partecipazione, cioè ha l'esistenza in quanto ne è reso partecipe per creazione.
Tutto il creato vive dell'essere di Dio, senza identificarvisi; Dio elargisce l'essere a tutto il creato senza impoverirsi.
Tutto ciò che non è Dio, quindi, distingue in sé l'essenza e l'esistenza, nel senso che l'essenza rappresenta la misura specifica della partecipazione all'atto d'essere stesso che è, invece, l'essenza di Dio. Un uomo, ad esempio, partecipa all'essere con il suo atto di esistenza nella misura dell'intelligenza, mentre una pianta partecipa al medesimo essere nella misura della vegetatività.

 

 

Giovanni Duns Scoto

 

 

Con Scoto, che si prefigge di essere fedele interprete di Aristotele,  il pensiero dell'essere si trasforma. Scoto rifiuta il teorema dell'analogicità dell'essere, per abbracciare invece l'idea dell'univocità di esso.

 

 

L'oggetto proprio dell'intelletto umano è, secondo Scoto, l'ente; l'uomo è capace di conoscere la totalità dell'essere a partire dalle essenze delle cose materiali.
Se l'ente è il concetto primo e più adeguato, matrice di tutti i concetti che l'uomo può formarsi intorno alla realtà, esso deve essere un concetto univoco. Solo se è univoco, predicabile di tutte le realtà, di Dio e delle creature, il concetto di ente può offrire all'intelletto il punto di vista dal quale è possibile abbracciare tutta la realtà, tutto l'essere, verso l'alto e verso il basso. Il concetto di essere, dunque, secondo Scoto, gode della prerogativa dell'onnicomprensività e della estendibilità a tutto.

 

 

Guglielmo di Ockham

 

 

 La novità principale introdotta da Ockham nella logica consiste nel suo modo di intendere la dottrina della supposizione, che esprime la capacità che i termini universali hanno, all'interno di una proposizione, di stare al posto delle cose, di significare delle realtà diverse dai termini stessi. La supposizione è, cioè, la proprietà dei termini, quando entrano a costituire una proposizione in veste di soggetto o di predicato, di stare al posto di, di “supporre” per qualcosa.

 

 

La supposizione di un termine universale può essere:
 - personale, quando il termine, ad es. uomo, tiene il posto di un soggetto umano concreto, ad es. Antonio, il quale corre: «quell'uomo (Antonio, appunto)  corre»;
 - materiale, quando il termine, ad es. uomo, tiene il posto del segno orale o scritto o inciso nella sua materialità di voce, di gesso/inchiostro, di fenditura nella pietra: «uomo è un bisillabo, una parola di quattro lettere»;
 - semplice, quando il termine, ad es. uomo, tiene il posto di un concetto universale: «l'uomo è una specie del genere animale».

 

 

La dottrina della supposizione è strettamente collegata alla nuova concezione sostenuta da Ockham sulla verità, la quale non viene più concepita come una relazione tra intelletto e realtà, ma come una pura relazione di termini: una proposizione scientifica è vera se i termini in essa impiegati suppongono per la medesima realtà.
Conseguentemente, anche dal punto di vista epistemologico (cioè dal punto di vista della teoria della scienza) e Ockham rappresenta un cambiamento significativo.
La scienza è vera scienza, cioè discorso rispondente ai criteri della scientificità, quando risulta costituita da enunciati espressi sotto forma di proposizioni, perciò in tanto viene assicurata la loro presa sul reale, in quanto i termini delle proposizioni vengono usati secondo la supposizione personale. Le scienze reali sono pertanto quelle risultanti da termini che suppongono per delle realtà extramentali, scienze razionali sono invece quelle i cui termini suppongono per dei concetti, sia secondo la supposizione personale, sia secondo la supposizione semplice.
La conoscenza, infatti, è sempre intuizione del singolare, perché non esistono nature universali, ma soltanto realtà individue; la conoscenza è presa diretta sulla realtà delle cose singole. Tutto ciò che si tratta in modo universale, invece, appartiene alla realtà mentale, essendo puro concetto. Il criterio che garantisce il discorso scientifico è quello per cui nell'indagine, non si presuppone nulla più di ciò che appaia necessario per la spiegazione dei fenomeni, il che significa l'abolizione di tutte le nature comuni o universali, mediatrici della conoscenza secondo la teoria della conoscenza tradizionale, che nel sistema ockhamiano non trovano più spazio (“rasoio” di Ockham).
È ovvio come, all'interno della scienza di Ockham, il discorso metafisico-teologico perda in molti campi quella apoditticità (dimostratività) che gli era attribuita dai maestri del XIII secolo; le prove dell'esistenza di Dio, ad esempio, che costituiscono parte integrante della teologia, non garantiscono per Ockham una conoscenza necessaria, ma soltanto altamente probabile, essendo fondate non sull'intuizione diretta di Dio, impossibile all'uomo, ma su ragioni rivelate e quindi su conoscenze indirette.
Ciò tuttavia nulla toglie alla scientificità della metafisica di cui Ockham può considerarsi a ragion veduta un rigorizzatore, stante anche al'interno del suo sistema l'indiscutibilità della trascendenza.

 

 

 

La Rivoluzione scientifica

 

 

LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA

 

 

 

Il concetto di Rivoluzione (letteralmente significa “rigiramento”, ripresa ciclica, ripercorrimento circolare) è usato primariamente in chiave politica e si applica a quelle forme di violento e drastico ribaltamento socio-culturale che hanno caratterizzato il passaggio da un’età all’altra in modo cruento.
Per estensione, si parla di rivoluzione anche in campo socio-economico (rivoluzione industriale) e in campo scientifico; ciò sta a significare il cambiamento di paradigma, manifestantesi in modo sostanzialmente incomprensibile da un punto di vista razionale e metodologico, che si avverte quando la comunità scientifica non si limita, come di consueto, a screditare e confutare ipotesi precedentemente formulate, ma ostenta il deciso e cruciale cambiamento degli stessi impegni teorici di fondo del pensiero.
La Rivoluzione scientifica, attuata tra la metà del XVI secolo e la fine del XVIII, si presenta come un radicale ribaltamento di metodo che comporta diverse conseguenze sul piano metafisico e antropologico.
Schematicamente si può rappresentare la rivoluzione scientifica come segue:

 

 

PRIMA

DOPO

La scienza è architettonicamente organizzata a partire dal primato della filosofia. L’uomo di scienza è il filosofo, la cultura è enciclopedica e sistematica. L'assioma fondamentale è il principio di non contraddizione. Le scienze si rendono autonome rispetto alla filosofia. L’uomo di scienza è lo “scienziato”, specialista di un settore disciplinare della conoscenza. Le diverse discipline fanno capo ad assiomatiche distinte.
La scienza procede secondo un metodo deduttivo: a partire da proposizioni di valore universale e necessario si deducono conseguenze di valore particolare. La scienza procede secondo un metodo complesso che tende a marginalizzare il valore della deduzione, laddove l'induzione acquista un'importanza cruciale.
L’indagine è orientata in ogni campo a cogliere la qualità dei fenomeni, cioè la natura sostanziale delle cose, l'essenza. L’indagine è orientata in ogni campo a registrare i fenomeni esprimibili in termini di quantità e di rapporto numerico-statistico, cioè la misura delle dinamiche delle cose e la formulazione delle relazioni invarianti.
La scienza esprime un bisogno puramente teoretico, cioè l’esigenza di una conoscenza speculativa non interessata agli effetti concreti ed operativi. La scienza esprime un bisogno operativo, cioè l’esigenza di una conoscenza prevalentemente interessata agli effetti prodotti dall’intervento sulla natura.
Lo strumento scientifico è puramente intellettuale, atto ad assottigliare la penetrazione teoretica della natura (strumento logico). Lo strumento scientifico è un sussidio materiale atto a potenziare le capacità di ispezione della natura (strumentazione tecnica).

L’innesco della rivoluzione scientifica si costituì, all’interno dell’osservazione astronomica, dall’esigenza matematica di rendere ragione della complessità dei fenomeni celesti a partire da un modello più semplice di quello consolidato.

 

 

La concezione moderna della natura

 

Prima dell'età moderna la natura fisica (physis) era concepita, nella prospettiva dell'indagine delle essenze, come l'essere per generare, cioè come il diveniente complesso della generazione e della corruzione, il luogo della manifestazione dell'essere materiale a tutti i livelli di perfezione, da quello infimo della struttura pressoché amorfa, appena affacciata alla prospettiva dell'essere, fino a quello supremo dell'organismo potenzialmente vivo in virtù di un'anima intelligente. La scienza della natura, pertanto, consisteva nel rispecchiamento eidetico dell'ordine finalistico delle sostanze da parte dell'intelligenza.
Con la fine del '500 (approssimativamente) lo sviluppo degli studi aveva man mano portato a un altro genere di concezione del fatto fisico, come un ordine ritenuto ancora causalmente strutturato, ma nella relazione della sola efficienza (non più della finalità), estrinseco rispetto all'intelligenza, quindi oggettivo, e governato da rapporti invarianti formalizzabili a titolo di legge. Conseguentemente, la scienza della natura si era orientata verso una considerazione matematica e sperimentale del mondo, volta a interpretare le regole uniformi del comportamento dei fenomeni, per poter offrire all'uomo la possibilità di intervenire in essi, influenzandoli, e di indirizzarli a proprio vantaggio.
La matematizzazione delle conoscenze mirava a garantire la possibilità di comunicare i dati dell'osservazione e risultati della ricerca in modo tale da non comprometterli nelle dinamiche deformanti del pregiudizio individuale, compromesso dalla soggettività e, quindi, dall'inaffidabilità delle valutazioni puramente teoretiche. L'univocità e l'uniformità della formulazione matematica si avviava a permettere una disponibilità di conoscenze valide perché omogeneamente riscontrabili da tutti, mediante l'applicazione delle stesse procedure di controllo. Tutto il resto, cioè tutto il “qualitativo” veniva man mano scomparendo dal complesso delle conoscenza rilevanti per il progresso dell'uomo lungo la via del dominio sulla natura.

 

Il contesto culturale e sociale

 

I mutamenti delle forme di produzione e di scambio accanto alla trasformazione delle relazioni tra le diverse componenti sociali costituiscono il terreno dal quale è germogliata l'esigenza di un diverso rapporto conoscitivo nei confronti della natura.
Con la formazione degli Stati e il consolidarsi dei ceti imprenditoriali, si producono nuove esigenze che devono urgentemente essere soddisfatte a partire da un rinnovamento delle conoscenze.
Allestire eserciti sempre più potenti ed equipaggiarli con adeguati armamenti, ampliare i luoghi di concentrazione umana e fortificare i punti strategici del territorio, migliorare le vie di comunicazione, viaggiare al di fuori dei confini regionali, per terra e soprattutto per mare, incanalare le acque, impiegare quantitativi sempre maggiori di metalli e innumerevoli altre attività, presuppongono cognizioni di balistica, di metallurgia, di ingegneria, di idraulica che, a loro volta, impongono un approfondimento delle nozioni della matematica, della fisica, della geografia.
La saldatura tra scienza e società moderna passa dunque, sin dall'inizio, attraverso nuove esigenze tecniche, che implicano un distacco oggettivante capace di permettere all'uomo un efficace dominio delle cose.

 

 

Le nuove concezioni e le nuove esigenze portano l'età moderna a superare il divario sempre esistito tra scienza e tecnica, nel senso che gli artigiani vengono sollecitati alla produzione di manufatti sempre più consistenti e perfezionati, dovendo pertanto attrezzarsi con conoscenze di tipo scientifico, mentre gli uomini di scienza, per orientare le proprie ricerche, fanno riferimento agli artigiani di lunga esperienza per ricavare suggerimenti e consigli atti a instradare le loro ricerche. Appare quindi una nuova dimensione delle conoscenze, che può in qualche modo già definirsi tecnologia, cioè discorso conoscitivo sui principi di funzionamento degli strumenti tecnici e sul loro progressivo perfezionamento. Lo strumento, pertanto, diviene sempre più indispensabile per la ricerca, costituendosi addirittura, in taluni casi, come il mezzo necessario per scoprire e indagare altri ambiti del mondo precedentemente ignoti.
La magia rinascimentale, legata alla prospettiva del naturalismo e del pampsichismo vitalistico (l'idea che tutta la natura sia animata e vitale), cede il passo a una visione meccanicistica delle cose, pur avendo instradato la cultura scientifica sull'idea del dominio umano delle dinamiche naturali.

 

 

Alla figura del fisico, cioè del filosofo tardo medievale e rinascimentale, si sostituisce, man mano, la figura dello scienziato, colui che sostituisce a una visone enciclopedica della realtà una competenza settoriale ed approfondita delle cose, animato non più dall'interrogativo filosofico «che cos'è?», ma dalla domanda più pratica «come avviene, come funzione?», denotativa della nuova disposizione dell'uomo nei confronti del mondo.

 

 

L'astronomia e il sistema eliocentrico

 

La rivoluzione astronomica

 

La cosmologia aristotelico-tolemaica, parte integrante della fisica, era configurata sul modello geocentrico: la terra risultava al centro dell'universo come il luogo di concentrazione di tutta la materia “pesante”.
Sul discorso aristotelico, di carattere semplicemente fisico, si era poi innestata la tradizione cristiana, che aveva interpretato biblicamente la centralità della terra come segno della centralità dell'uomo nell'universo, creatura principe fatta ad immagine e somiglianza del Creatore.
Il modello geocentrico, tuttavia, non tardò a mostrare la propria insufficienza, in età rinascimentale, a fronte dello sviluppo delle tecniche di osservazione del cielo.

 

La rivoluzione astronomica iniziò dalla ricerca di una soluzione, più semplice e armoniosa di quelle tradizionali, al problema del moto dei pianeti, cioè il problema dell'individuazione a priori della loro posizione nel cielo, rispetto al punto di osservazione terrestre, in ogni giorno dell'anno solare.
Sulla base di un modello geocentrico, infatti, il calcolo delle orbite dei pianeti diventava di fatto complicatissimo, dovendosi assolutizzare come fermo il punto di osservazione terrestre e, conseguentemente, considerare tutto il resto dell'universo in movimento attorno ad esso (il che, non è assurdo né impossibile, a ben vedere, ma estremamente complesso da modellizzare e da descrivere matematicamente).

 

 

Nicola Copernico

 

La diffusione in età rinascimentale delle teorie neopitagoriche e neoplatoniche alimentava l'idea della razionalità intrinseca all'universo, cioè l'idea che il cosmo, in quanto creato o posto da un artefice intelligente, onnipotente e buono dovesse essere necessariamente costruito secondo criteri di simmetria, di armonia, di semplicità e di ritmicità numericamente intelligibili.
Sulla base di tali convinzioni a priori Copernico incominciò a criticare il modello geocentrico, troppo difficile da esibire matematicamente senza dovere ricorrere di continuo a eccezioni e ipotesi ad hoc, sostituendovi il modello eliocentrico, elaborato nell'opera De Revolutionibus orbium coelestium.
Con lucidità ed indipendenza di pensiero pensò di relativizzare la posizione terrestre, e quindi quella dell'osservatore, in modo da semplificare notevolmente i calcoli, facendo riferimento a un altro criterio di stabilità, il sole, per riuscire così a rendere ragione più agevolmente delle posizioni man mano assunte dai pianeti, terra compresa, rispetto al nuovo centro dell'universo (che, di fatto, non è fermo, ma coinvolto in un'infinità di movimenti relativi la cui assoluta misurazione è matematicamente impossibile: tutto l'universo, infatti, è in movimento, né si può dire, oggi meno di ieri, “attorno a che cosa”).
Il modello eliocentrico, in sintesi, si può così descrivere:
 - al centro dell'universo si trova il Sole, immobile;
 - il riscontro terrestre dei moti dei corpi celesti è, almeno in parte, dovuto ai moti stessi della Terra, che ruota su se stessa e attorno al Sole;
 - le irregolarità riscontrabili dei moti celesti, di conseguenza, non sono reali, ma soltanto apparenti, perché relative ai moti terrestri.

 

 

 

Copernico, Brahe, Keplero. Galileo: scienza e fede

 

La teoria eliocentrica copernicana, come ogni novità scientifica, comportava in sé anche molti elementi legati alla tradizione e minimamente messi in discussione.
Copernico, infatti, come Aristotele, descriveva l'universo come una sfera limitata e circoscritta dal firmamento, individuandovi un centro (occupato dal Sole), costituente il sistema assoluto di riferimento per tutti i moti; continuava a considerare i moti celesti perfettamente circolari o, comunque, composti da moti perfettamente circolari; manteneva l'idea aristotelica che i cieli fossero fatti di materia solida, costituente gli orbi di rotazione delle masse planetarie; riteneva che lo spazio fosse finito (non infinito) e più o meno nobile, a seconda della distanza dal centro; continuava infine a distinguere tra moti naturali (circolare e rettilineo) e moti violenti (tutti gli altri).
Profondamente innovatore, invece, fu Copernico sostanzialmente per due motivi: prima di tutto perché concepiva la distanza tra la terra e le stelle del firmamento così ampia da poter giustificare il fatto che l'osservatore terrestre, benché in movimento intorno al sole, non registrasse variazioni nella sua posizione rispetto a quella delle stelle fisse; in secondo luogo, perché assimilava la terra agli altri pianeti, rendendo insignificante l'opposizione assoluta tra cieli e mondo sublunare e affermando, di conseguenza l'omogeneità del mondo fisico come una realtà unitaria e soggetta alle medesime leggi.

 

 

Tycho Brahe

 

 

La soluzione cosmologica ideata da Tycho Brahe si collocava come tentativo di salvare, da una parte, la tradizione geocentrica, e, dall'altra, di aprire alle istanze dell'eliocentrismo.
Il cosmo di Tycho, infatti, prevede la rivoluzione dei pianeti attorno al sole, ma, contemporaneamente, la rivoluzione del sole (con tutto il sistema dei pianeti) attorno alla terra.

 

Giovanni Keplero

 

Per Keplero la scelta del modello eliocentrico era dettata dall'influenza della metafisica neoplatonica e neopitagorica.
Egli si proponeva di trasformare l'ipotesi matematica di Copernico in verità fisica, spiegando il numero, le dimensioni e i moti degli orbi.
Nel Mysterium cosmographicum immagina una corrispondenza tra il numero delle sfere dei pianeti (sei) e quello dei solidi regolari: tetraedro, cubo, ottaedro, dodecaedro e icosaedro [la proprietà di tali solidi regolari è quella per cui essi possono essere sia circoscritti alla sfere (la superficie della sfera tocca i punti medi di tutte le facce del solido) sia inscritti rispetto ad essa (tutti gli spigoli del solido toccano la superficie della sfera)].

 

 

Applicandosi allo studio della forma delle orbite dei pianeti e del loro movimento Keplero giungeva alla formulazione della leggi del moto planetario, supponendo che i pianeti fossero sottoposti all'azione di due forze diverse, quella del sole, proporzionale alla distanza del pianeta dal sole stesso, e quella insita nel singolo pianeta, una forza magnetica la cui bipolarità comporta attrazione e repulsione rispetto al sole.
Ciò comportava la necessità che l'orbita dei pianeti non fosse circolare, ma ellittica, e che la velocità del pianeta lungo il percorso orbitale non fosse costante (prima legge). La seconda e la terza legge riguardavano rispettivamente il calcolo della velocità dei pianeti nel loro moto di rivoluzione e la correlazione esistente tra la velocità dei pianeti e la loro distanza dal sole.

 

 

GALILEO GALILEI

 

L'autonomia delle discipline

 

 

Nelle cosiddette lettere copernicane (1613-1615) Galileo teorizza la demarcazione tra proposizioni scientifiche e proposizioni di fede, da una parte, reclamando l'autonomia delle conoscenze scientifiche in base al metodo consono ad esse (quello sperimentale), dall'altra, giustificando quella medesima autonomia delle scienze a partire dal principio secondo cui l'intenzione dello Spirito Santo nelle Scritture è quella «d'insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo».
La natura e la Bibbia derivane da Dio, l'una in qualità di esecutrice degli ordini predisposti da Dio nell'atto della creazione, l'altra secondo l'ispirazione dello Spirito Santo, e come tali non possono essere in contraddizione. Se dunque apparentemente natura e Bibbia sono in contrasto si tratterà di rivedere l'interpretazione della Bibbia, visto che la Scrittura è stata redatta per accordarsi con capacità molto rozze, quali quelle degli antichi popoli d'oriente, mentre la natura, nei suoi processi, non deve rendere conto a nessun uomo e segue inesorabilmente le proprie leggi.
Non è dunque compito della Bibbia quello di determinare i movimenti celesti, e pertanto, quando si voglia conoscere il mondo nelle sue dinamiche fisiche, non è il caso di prendere spunto da essa, mentre, qualora si sia interessati alla salvezza dell'uomo, non è questione di sapere di meccanica e di gravitazioni planetarie, ma occorre riflettere sul rapporto che intercorre tra l'uomo e Dio.
Scienza e fede sono discipline differenti che, pertanto, fanno appello a metodi differenti; nessuna delle due può prevaricare l'altra, subordinandola al proprio procedere epistemologico. Perciò, proprio perché incommensurabili (dal punto di vista del metodo), scienza e fede sono compatibili nella vita dell'uomo.
Quanto ad Aristotele, Galileo lo riteneva degno di rispetto, benché superato nel campo dei risultati scientifici, mentre teneva a distinguere da lui la schiera di sedicenti aristotelici che asserivano di seguirne la dottrina, pur non conoscendola nella sostanza, uomini incolti che si riparavano dietro il suo nome per difendere le dottrine che falsamente finivano per attribuirgli.

 

 

Galileo: fisica e astronomia

 

Gli studi fisici

 

 

Galileo può essere considerato il fondatore della dinamica scientifica moderna. Due sono le intuizioni galileiane cui fanno riferimento i più significativi risultati nel campo della fisica:
 - il principio di inerzia;
 - le leggi sulla caduta dei gravi.
Quanto al primo punto, secondo la fisica aristotelica lo stato naturale dei corpi è la quiete e ogni corpo tende ad essa in ogni suo movimento. Una volta cessato l'impulso che ne determina il movimento, il corpo tende a raggiungere il suo luogo proprio, cioè, appunto, la situazione in cui nulla interviene su di esso per modificarne lo stato. Per spiegare il movimento dei proiettili, poi, si ricorreva all'idea secondo la quale, una volta cessato l'impulso di partenza, il proiettile si sarebbe continuato a muovere nella stessa direzione in virtù della spinta ricevuta dall'aria richiudentesi alle sue spalle. Per Galileo, invece, un corpo tende a permanere nel proprio stato inerziale di quiete piuttosto che di moto rettilineo, fintantoché non intervengono un impulso o un ostacolo a interromperne o modificarne l'equilibrio o il movimento.
Rispetto alla caduta dei gravi (“grave” significa corpo pesante), la fisica aristotelica riteneva che la velocità di un corpo in caduta libera fosse direttamente proporzionale al suo peso e che essa venisse accelerata dalla spinta dell'aria. Galileo riuscì a sperimentare “mentalmente” (perché ancora non esisteva la pompa ad aria per creare il vuoto) il superamento della resistenza offerta dal mezzo alla caduta dei corpi, e quindi a ipotizzare il comportamento di caduta identico sia per i corpi leggeri sia per quelli pesanti in assenza di attrito. Inoltre, sempre nello stesso contesto di studi, Galileo riuscì a determinare il concetto di accelerazione come variazione di velocità e il concetto di massa di un corpo, come rapporto di proporzionalità tra le forze a esso applicate e le accelerazioni prodotte da tali forze.

 

Le scoperte astronomiche

 

L'elaborazione di una nuova meccanica da parte di Galileo si accompagna alla demolizione del sistema cosmologico aristotelico tolemaico.

 

Con il Sidereus nuncius del 1610 Galileo propone alla visione e alla contemplazione degli studiosi della natura diverse significative novità:
 - l'aggiunta alla moltitudine delle stelle fisse, visibili anche a occhio nudo, di altre innumerevoli stelle non mai scorte prima;
 - la superficie non liscia e levigata, ma corrugata e ineguale della luna, che presenta, come la terra, montagne e vallate, protuberanze e anfratti;
 - il non essere la galassia (via lattea) una sorta di fluido denso, ma un'infinita congerie di stelle talmente ravvicinate da confondersi tra loro;
 - l'essere le nebulose nient'altro che «greggi di piccole stelle disseminate in modo mirabile»;
 - la scoperta dei satelliti di Giove, che costituivano in cielo un modello più piccolo dell'universo copernicano.
Con queste novità andava in pezzi la concezione del mondo aristotelico-tolemaica; gli astri, infatti, non potevano più essere considerati “perfetti”, mondo sublunare e mondo celeste non si contrappongono più come luoghi disomogenei.

 

Nel 1632 Galileo pubblica il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, in cui espone argomenti a favore del copernicanesimo. Nell'economia del dialogo, per sostenere le ragioni della teoria geocentrica Galileo si avvale del personaggio Simplicio, un aristotelico pedante e conservatore, per rappresentare la teoria copernicana introduce Salviati, che incarna l'intelligenza chiara, rigorosa e anticonformista, mentre per moderare il dibattito si serve della figura di Sagredo, imparziale e aperto alle novità scientifiche. Il Dialogo è articolato secondo quattro dibattiti tenuti in quattro giornate differenti:
 - prima giornata: si pone sotto accusa la distinzione aristotelica fra il mondo celeste e quello terrestre;
 - seconda giornata: vengono confutati gli argomenti tipici contro il moto della Terra (l'idea che la terra solleverebbe un gran vento se si muovesse; che i gravi cadrebbero obliquamente se la terra si muovesse da ovest a est; ecc.) con argomentazioni ispirate alla cosiddetta “relatività galileiana”;
 - terza giornata: viene dimostrato il movimento di rotazione del globo terrestre;
 - quarta giornata: viene esposta la dottrina sulle maree.

 

 

Il metodo scientifico e i presupposti filosofici

 

Il metodo scientifico

 

Galileo non si è posto esplicitamente il compito di redigere una completa metodologia, in quanto, occupato dai suoi esperimenti, ha preferito applicare certi criteri procedurali, piuttosto che teorizzarli.
Attraverso le sue opere, tuttavia, possiamo scorgere alcune precisazioni che possono descrivere l'articolazione del lavoro scientifico così come egli lo intendeva.

 

Due sono i momenti fondamentali che si distinguono nel fare scienza:
 - il momento risolutivo (o analitico);
 - il momento compositivo (o sintetico).
Il primo momento consiste nel ridurre il complesso di un fenomeno alla semplicità dei suoi elementi, formulando un'ipotesi matematica interpretativa del comportamento naturale da cui esso dipende; il secondo momento, invece, si identifica nella prova sperimentale di verifica mediante la quale il fenomeno viene riprodotto a partire da condizioni artificiali. Se l'esperimento dà ragione all'ipotesi, essa viene trasformata in legge, cioè in una formula espressiva di un comportamento naturale in termini necessari, se invece l'esperimento smentisce l'ipotesi, allora essa cade, sostituita da una nuova ipotesi da sottoporre, ulteriormente a prova sperimentale.

 

Detto in altri termini, lo scienziato si avvale di “sensate esperienze” e di “necessarie dimostrazioni” (o anche matematiche dimostrazioni).
Le prime, le “sensate esperienze”, che significano i dati, i referti dei sensi, costituiscono il momento induttivo del metodo, la fase dell'osservazione, attraverso la quale, spesso, lo scienziato è condotto a formulare una legge generale sul comportamento della natura. Le sensate esperienze, dunque, costituiscono il volto sperimentale del metodo, ciò che ha improntato di sé la rivoluzione scientifica.
Le seconde, le “necessarie dimostrazioni”, significano il momento ipotetico deduttivo, raziocinativo della scienza, che fa appello al ragionamento logico condotto su base matematica; attraverso di esso lo scienziato formula supposizioni ed elabora ipotesi, per poi dimostrarle, se possibile, nella realtà sperimentale.

 

Il metodo galileiano, dunque, non è né esclusivamente induttivo né esclusivamente deduttivo, ma comporta le due facce insieme, l'una per l'altra, in un mutuo sostegno l'una dell'altra.

 

I presupposti filosofici impliciti

 

L'impianto della scienza galileiana sottende dei presupposti filosofici che Galileo, non essendo filosofo, non ha discusso ma ha assunto in modo ingenuo:
 - la fiducia nella matematica che trova espressione e giustificazione nella concezione di matrice pitagorica secondo cui la realtà è “scritta” in termini numerici e geometrici;
 - la svalutazione degli aspetti qualitativi del reale, corrispondente all'enfasi associata a quelli di ordine quantitativo, in ordine all'intersoggettività dei risultati scientifici;
 - la credenza nell'uniformità, vale a dire della continuità invariante delle relazioni tra determinate cause e determinati effetti,  dell'ordine naturale, ritenuto necessario e immutabile come una verità geometrica;
 - la persuasione nella veridicità assoluta della scienza, identica per Dio e per l'uomo nella sua sostanza (ad es. “2+2 = 4”), benché differente, per l'uno e per l'altro, in ragione del fatto che l'uomo conquista progressivamente ciò che Dio possiede da sempre per intero.

 

Tali presupposti si traducono in un atteggiamento contrario a qualsiasi prospettiva finalistica e a qualsiasi interpretazione antropocentrica della realtà, con l'aggiunta del categorico rifiuto espresso nei confronti di una conoscenza di tipo essenzialista, ritenuta, più che superflua o inutile, del tutto impossibile. “Tentare l'essenza”, cioè cogliere la natura specifica di un ente, risulta del tutto irragionevole per Galileo, il quale da esperto dell'universo si dichiara del tutto ignorante circa il che cosa della Luna o del Sole, confessandosi invece interessato esclusivamente al funzionamento dei loro movimenti, cioè al come del loro movimento. Secondo Galileo non si deve cercare il perché la natura operi in un certo modo, mo solo come operi; lo scienziato deve occuparsi delle leggi che regolano i fatti, non del loro significato.
Alla base di tutto, poi, sta il cosiddetto realismo galileiano, cioè la persuasione profonda che ciò che viene descritto dalla scienza corrisponda in pieno alla realtà.

 

 

 

Francesco Bacone: l'idea di verità e il progresso scientifico

 

 

FRANCESCO BACONE

 

Per Bacone la verità non è conseguenza dedotta a partire dall'autorità degli antichi sapienti, ma è “figlia del tempo” (filia temporis), discende, cioè, immediatamente dalle circostanze e si edifica costantemente, nel tempo, attraverso l'intelligenza e l'esperienza di generazioni successive di scienziati.
Un secondo aspetto dell'impostazione di pensiero baconiana è l'idea che la scienza non debba essere considerata un'attività del tutto gratuita e disinteressata, come nell'ottica della filosofia prima di Aristotele, ma legata a precisi scopi pratici; per essere significativa, cioè, la filosofia deve proporsi come un fare dell'uomo finalizzato non alla pura e semplice contemplazione, ma alla comprensione dei fenomeni in vista di un loro asservimento al proprio benessere (la natura non si vince se non obbedendo alla sue leggi).

 

Da tali premesse deriva la conseguenza forse più significativa per noi del pensiero baconiano, l'idea, cioè, che il criterio di verifica più valido non sia da cogliere nella consequenzialità logica delle conoscenze, ma nel loro potere operativo: la verità è il fare, il vero è il fatto (verum est factum). Il vero, pertanto, non consiste più in ciò che si può pensare senza contraddizione, ma diviene ciò che si è capaci di mettere in opera e di riprodurre.
Per quest'ultimo aspetto, in particolare, Bacone fu davvero il filosofo dell'età industriale, coltivando per primo l'idea che il sapere dovesse portare i suoi frutti nella prassi, che la scienza dovesse essere applicabile all'industria, che gli uomini avessero il sano dovere di organizzarsi per migliorare e per trasformare le condizioni di vita.

 

Nella Nuova Atlantide, scritto utopico in cui si manifesta profeta della tecnica e della rivoluzione industriale, Bacone prospetta un'umanità felicemente alacre nell'attività e retta da governanti scienziati

 

Il progetto scientifico di Bacone consiste in una Instauratio magna ab imis fundamentis, cioè in una ristrutturazione radicale dell'impianto del sapere. Di questo progetto Bacone realizza soltanto una parte, il Novum Organum, cioè la nuova logica alternativa a quella dell'Organo di Aristotele, nella quale esplicita il metodo che, a suo modo di vedere, si dovrebbe applicare per ottenere veri risultati scientifici.
In un saggio intitolato Sulla dignità e l'accrescimento delle scienze egli distingue le discipline della memoria, cioè la storia nelle sue diverse sfaccettature, le discipline dell'immaginazione, cioè la poesia nelle sue diverse espressioni, e le discipline della ragione, la filosofia prima (assiomatica generale che egli ritiene non sia stata mai adeguatamente trattata) e la filosofia speciale, distinta a sua volta in divina, naturale (speculativa [fisica e metafisica matematizzante] e pratica) e umana (del corpo e dell'anima).

 

La critica del sapere tradizionale

 

 

Per Bacone il sapere scientifico è ancora sapere di forme, cioè di sostanze, non ancora (come poi per Galileo) di funzioni o di rapporti di forze quantificabili in leggi. In questo senso Bacone è ancora legato al suo tempo e al vecchio modello interpretativo. Tuttavia, acquista valore diverso la modalità di acquisizione e di trasmissione della conoscenza: il sapere cui Bacone pensa è una scienza progressiva, fatta di risultati ottenuti da generazioni di scienziati che si susseguono e che lavorano in collaborazione. La verità, come già sottolineato, è figlia del tempo, non dell'autorità dei filosofi antichi.
Il sapere magico-alchemico ricerca cause occulte, ma il vero sapere è, secondo Bacone, sapere di nature sperimentabili; la magia è un sapere di pochi iniziati, il vero sapere deve essere raggiungibile e controllabile da tutti, frutto di collaborazione; il vero sapere procede metodicamente, non a caso, per ottenere i propri risultati, è utile agli uomini e non è un dominio privato creato per sopraffare, è un sapere pubblico, chiaro.
Bacone vuole sostituire alla “filosofia delle parole” una “filosofia delle opere”; non si tratta, perciò, di difendere un filosofo contro un altro, si tratta proprio di rigettare l'intera tradizione. Non si deve quindi rimproverare alla tradizione questo o quell'errore teorico, ma di avere interamente sostituito l'onesto ascolto della natura, la sua interpretazione, con la sua “anticipazione”, cioè con le astuzie dell'ingegno e le oscurità delle parole.
La logica tradizionale, pertanto, è dannosa, in quanto sembra escogitata solo per consolidare e tramandare gli errori degli antichi. Nel sillogismo non si fa che dedurre conseguenze da determinate premesse, ma tali premesse non sono fissate dalla logica stessa e, pertanto, possono essere del tutto erronee. La logica della tradizione serve per vincere nei dibattiti, ma non per vincere la natura. Conseguentemente, le nozioni della filosofia tradizionale non sono rigorose, non sono veri concetti, ma si tratta per lo più di fantasie mal definite. Gli assiomi, infatti, cioè le proposizioni che dovrebbero essere degne di essere assunte soltanto grazie alla loro propria evidenza, vengono costruiti a partire da pochi casi particolari, attraverso una falsa induzione.

 

 

Pars destruens: gli idóla

 

La metodologia

 

Il fine della scienza non deve essere quello di scoprire argomenti, cioè strutture di parole lontane dei significati delle cose concrete, ma quello di instaurare delle arti, cioè sistemi operativi capaci di interagire con le cose. La scienza e la potenza umana coincidono, visto che l'ignoranza della causa preclude la realizzazione dell'effetto e che alla natura, a ben vedere, si comanda solo ubbidendo. Quindi, ciò che nella teoria funge da causa, nell'operazione concreta deve diventare regola. Soltanto così, infatti, si può agire sui fenomeni, solo a patto che se ne conoscano le cause.
Bacone giudica il sapere del suo tempo come un ammasso di assiomi, che, essendo stati prodotti precipitosamente da pochi e insufficienti esempi, non sfiorano nemmeno la realtà e servono solo ad alimentare dispute sterili. Il sapere corrente, a suo parere, è costruito sulla base di anticipazioni della natura, cioè su nozioni costruite “in anticipo” rispetto a una sana esperienza, ottenute in modo prematuro e temerario, per strappare facilmente l'assenso; il vero sapere, invece, è fatto di interpretazioni della natura, cioè di nozioni ottenute con un paziente lavoro di raccolta di dati, poco appariscenti e seducenti, ma estremamente efficaci nel soggiogare la realtà.

 

Al fine di ricostruire dalle fondamenta l'edificio del sapere umana, bisogna:
 - aprire una fase di smantellamento della tradizione (fase negativa del metodo), consistente nello sgombrare la mente da quegli idóla (false nozioni) che pervadono l'intelletto degli uomini,
 - attuare una fase di riedificazione del sapere (fase costruttiva del metodo), consistente nell'esposizione e nella giustificazione delle regole di quel metodo che solo può riportare la mente umana a contatto con la realtà e che solo può stabilire un dialogo rinnovato tra mente e cose.

 

La teoria degli idóla

 

L’individuazione degli idoli, cioè dei pregiudizi, è il primo passo che si deve compiere per sbarazzarsene al più presto.
I generi di idoli che assediano la mente umana sono, per Bacone di quattro tipi:
 - della tribù (idóla tribus), fondati sulla natura umana stessa. Dal momento che l’intelletto umano è come uno specchio ineguale rispetto ai raggi delle cose, esso mescola la propria natura con quella delle cose, che deforma e trasfigura. Così, per esempio, l’intelletto umano è spinto dalla sua stessa struttura a supporre nelle cose un ordine maggiore di quello che effettivamente vi si trova: l’intelletto si immagina parallelismi, corrispondenze e relazioni che in realtà non esistono; l’intelletto, quando trova qualche nozione che lo soddisfa, o perché ritenuta vera, o perché avvincente e piacevole, conduce tutto il resto a convalidarla e a coincidere con essa; l’intelletto è anche portato ad attribuire con faciloneria le qualità di qualche cosa che lo ha colpito ad altri oggetti che queste qualità, invece, non hanno, credendo vero ciò che preferisce e respingendo le cose difficili per l’impazienza del ricercare; l’intelletto umano tende, per la sua stessa natura, alle astrazioni e immagina stabile ciò che è, invece, mutevole.
 - della spelonca (idóla specus), che derivano dall’individuo singolo. Ciascuno, infatti, oltre alle aberrazioni comuni al genere umano, ha una spelonca o grotta particolare in cui la luce della natura si disperde e si corrompe; o per causa della natura propria e singolare o per causa dell’educazione e della conversazione con gli altri o per causa dei libri che legge.
 - del foro o del mercato (idóla fori), che dipendono da un contatto o da reciproci contatti del genere umano. Le parole, infatti, fanno violenza all’intelletto e turbano i ragionamenti, trascinando gli uomini a innumerevoli controversie e considerazioni vane. Questi idoli sono, per Bacone, i più molesti, perché si sono insinuati nell’intelletto per l’accordo delle parole e dei nomi: gli uomini, infatti, credono che la loro ragione domini le parole, ma accade anche che le parole esercitino invece la loro forza sull’intelletto, per esempio quando impongono alla mente cose inesistenti (come la “fortuna”) oppure nomi di cose che esistono, ma indebitamente astratti dalle cose concrete.
 - del teatro (idóla theatri), penetrati nell’animo umano ad opera delle diverse dottrine filosofiche e a causa delle pessime regole di dimostrazione. Tutti i sistemi filosofici che sono stati accolti o escogitati sono altrettante favole preparate per essere rappresentate sulla scena, buone soltanto per costruire finzioni teatrali.

 

Ora, anche l’intelletto più debole, se ben instradato, può ottenere risultati più brillanti di quelli ottenuti dagli intelletti forti degli antichi; anche lo zoppo, infatti, se cammina sulla via giusta, percorre più strada verso la meta del più veloce corridore che, però, abbia sbagliato a imboccare la strada.

 

 

L'induzione: tabulae, ipotesi, instantiae, experimentum. La forma

 

 

L’induzione

 

 

Purificata la mente dagli idoli, Bacone può esporre costruttivamente lungo quale via sia invece perseguibile la verità dei fenomeni.
Il processo si articola in due tappe: la prima procedura fa sorgere gli assiomi dall’esperienza, la seconda deduce e deriva nuovi esperimenti dagli stessi assiomi.
La via da seguire è quella induttiva. L’induzione, tuttavia, non deve limitarsi, come quella ideata da Aristotele, a una semplice numerazione di casi particolare, ma deve attuarsi per eliminazione.

 

Prendiamo ad esempio la ricerca della forma del calore.
In primo luogo bisogna fare una “citazione”, di fronte all'intelletto, di tutte le istanze note che s'accordano in una stessa natura, anche se si trovano in materie diversissime. Così, se ad esempio cerchiamo la natura del calore dobbiamo compilare:
 - una “tavola di presenza”, dove vengono registrati tutti i casi in cui si riscontra calore:
    . i raggi del sole;
    . le meteore;
    . i fulmini;
    . le eruzioni vulcaniche;
    . i solidi infuocati;
    . i bagni termali;
    . ecc...
 - una “tavola delle assenze”, dove si registrano i casi affini ai precedenti in relazione ai quali, però, il calore non si presenta:
    . i raggi della luna;
    . i fuochi fatui;
    . ecc...
 - una “tavola dei gradi”, nella quale si registrano tutti i casi in cui il fenomeno ci si presenta secondo una più o meno grande intensità:
    . il variare del calore nello stesso corpo in diverse circostanze;
    . ecc...

 

Sulla base di queste “tavole”, poi, occorre procedere all’operazione vera e propria di induzione seguendo la procedura dell’esclusione e dell’eliminazione dell’ipotesi falsa; ciò consiste nel non prendere in considerazione, al fine della ricerca della natura generante il calore:
 - tutte le qualità non possedute da qualche corpo caldo, benché possedute da altri corpi caldi;
 - tutte le qualità possedute dai corpi caldi, ma comuni anche ad alcuni corpi freddi;
 - tutte le qualità che rimangono invarianti con il variare del calore del corpo.

 

Il risultato di questa operazione è chiamato da Bacone “prima vendemmia”, cioè una prima ipotesi coerente con i dati esposti nelle tre tavole e vagliati attraverso il procedimento selettivo di esclusione.

 

“Experimentum crucis”, l'esperimento del corcevia

 

La prima ipotesi viene considerata da Bacone come guida per la ricerca ulteriore, consistente nella deduzione e nell’esperimento, nel senso che dall’ipotesi ottenuta si devono dedurre i fatti che essa implica e prevede, per poi sperimentare, in condizioni diverse, se tali fatti implicati e previsti dall’ipotesi si verifichino.
In tal modo si costruisce una specie di rete investigativa da cui si dipartono tutta una serie di “interrogazioni” (instantiae prerogative) che premono la natura a rispondere.
Tra esse assumono un rilievo particolare le “istanze della croce”. Tramite queste si attua l’experimentum crucis, che torna utile all’intelletto quando esso si trovi incerto nel decidere a quale tra due o più nature debba essere assegnata o attribuita la causa della natura esaminata, cioè della forma esaminata (nel nostro caso il calore).

 

La scoperta delle forme

 

L’opera e il fine della potenza umana sta, secondo Bacone, nel generare e introdurre in un corpo dato una nuova natura o più nature diverse (ad esempio fare del ferro un metallo inossidabile); l’opera e il fine della scienza umana, cioè, sta nella scoperta della forma di una natura data, vale a dire della sua vera differenza o della sua vera capacità generante o della sua fonte di emanazione.
Il concetto baconiano di forma, tuttavia, non è immediatamente evidente. Per comprenderlo è necessario fare riferimento a altri due concetti di cui Bacone si serve:
 - quello di processo latente (= nascosto);
 - quello di schematismo latente.
Il primo, il processo latente, consiste per Bacone in una dinamica continua, intima a una natura, che per la massima parte sfugge al senso; il secondo, lo schematismo latente, si identifica in una sorta di anatomia dei fenomeni. Lo schematismo, dunque, è la struttura di una natura, l’essenza; il processo latente, invece, si può intendere come la legge che regola la generazione e la produzione del fenomeno.
Pertanto, comprendere la forma di un fenomeno, significa comprendere la struttura e la legge che ne regola il processo. Chi conosce la forma di una natura, di conseguenza, ne abbraccia interamente la verità, che garantisce la libertà di operare su di essa.

 

 

 

Cartesio: la formazione

 

 

RENATO CARTESIO

 

 

La Rivoluzione scientifica ha messo in crisi il sapere tradizionale; la metodologia, in particolare, risulta inadeguata ad affrontare le istanze nuove che l'osservazione e la sperimentazione propongono all'interpretazione culturale.

 

Si percepisce anche in ambito filosofico, l'urgente necessità di rielaborare, soprattutto a livello metodologico, l'impostazione del sapere, per aprire nuove vie di ricerca, capaci di corrispondere agli ambiti di sapere recentemente manifestatisi come nuovi oggetti di scienza.
L'impegno del pensiero filosofico, in questa fase “moderna” della sua storia, si configura dunque come specialmente caratterizzato dall'interesse gnoseologico, volto a stabilire senza errore l'effettiva potenza conoscitiva dell'intelligenza dell'uomo, cioè le dimensioni del mondo realisticamente ed oggettivamente conoscibili.

 

Come già in Bacone, al centro del pensiero cartesiano si impone il problema del metodo, a prescindere dal quale non appare più possibile garantire un'autentica scientificità delle conoscenze.

 

L'insoddisfazione per il sapere tradizionale

 

Dopo aver riconosciuto di essere stato allievo di una delle più celebri scuole d’Europa, Cartesio accenna allo stato di profonda incertezza in cui, al termine degli studi egli si ritrova, «sperduto tra tanti dubbi ed errori che mi pareva di non avere, nel cercare di istruirmi, fatto altro profitto che d'avere scoperto di più in più la mia ignoranza».
A riguardo della filosofia, in particolare, ritiene che non ci possa essere ormai più nulla di strano e di incredibile che non sia stato già detto da qualche filosofo, dal momento che, poi, non c'è argomento, in essa, che non sia comunque sempre in discussione. Quanto alla logica (sillogistica) tradizionale, ritiene di assegnarle al massimo un valore puramente pedagogico o didattico, ma certo non un’efficacia scientifica; a suo giudizio, infatti, non c'è catena sillogistica che non presupponga come preconosciuto tutto ciò che si vuole con essa dimostrare.

 

In un tempo nel quale si erano affermate e si sviluppavano con vigore nuove prospettive scientifiche e si aprivano nuovi orizzonti filosofici, Cartesio avverte la mancanza di un metodo che metta ordine e insieme sia uno strumento euristico e fondazionale davvero efficace.
D'altronde, pur considerando positivamente il rigore del sapere matematico, egli critica sia l'aritmetica sia la geometria tradizionale, perché elaborate – a suo giudizio – con procedimenti che, per quanto lineari, non sono sorretti da un chiaro indirizzo metodologico, a proposito del quale egli crede necessario dimostrare che le differenze tra l'aritmetica e la geometria non sono rilevanti, perché entrambe si ispirano, anche se in modo implicito, allo stesso metodo (a tale scopo egli traduce i problemi geometrici in problemi algebrici, mostrandone la sostanziale omogeneità, mediante la geometria analitica).
Non si tratta, comunque, della messa in discussione di questo o di quel ramo del sapere; Cartesio attira l'attenzione sul fondamento, poiché da esso soltanto dipendono l'ampiezza e la solidità dell'edificio scientifico che occorrerebbe costruire per contrapporlo a quello aristotelico, sul quale poggia tutta la tradizione. Cartesio non separa la filosofia dalla scienza: ciò che, a suo parere, occorre mettere in luce è quel fondamento che consenta un nuovo tipo di conoscenza del reale nel suo insieme, almeno nelle sue linee essenziali.

 

Nei Principi di filosofia dice: «Così tutta la filosofia è come un albero, di cui le radici sono la metafisica, il tronco è la fisica, e i rami che sorgono da questo tronco sono tutte le altre scienze, che si riducono a tre principali, cioè la medicina, la meccanica e la morale, intendo la più alta e perfetta morale, che presupponendo un'intera conoscenza delle altre scienze è l'ultimo grado della saggezza. Ora, come non è dalle radici, né dal tronco degli alberi che si colgono i frutti, ma solo dalle estremità dei loro rami, così la principale utilità della filosofia dipende da quelle delle sue parti, che non si possono imparare che per ultimo».

 

 

 

Le regole del metodo

 

Le regole del metodo

 

Cartesio vuole offrire regole certe e facili che, «da chiunque siano esattamente osservate, gli renderanno impossibile prendere il falso per vero e, senza alcun inutile sforzo mentale, ma aumentando sempre gradatamente la scienza, lo condurranno alla conoscenza vera di tutto ciò che sarà capace di conoscere» (Regole per la [buona] direzione dell'ingegno).
Nelle Regole, però, Cartesio enumera ben ventuno regole e poi decide di interromperne la stesura; nel Discorso del metodo egli le riduce a quattro, perché: «come un gran numero di leggi sovente non serve che a fornire pretesto all'ignoranza e al vizio», così egli ritiene che, come la moltitudine delle leggi logiche della vecchia sillogistica, molte regole costituiscano soltanto fonte di confusione.

 

La prima regola, ma che è anche l'ultima, in quanto è il punto di arrivo oltre che di partenza, è la regola dell'evidenza: non accettare mai nulla per vero, senza conoscerlo evidentemente come tale: cioè evitare scrupolosamente la precipitazione e la prevenzione; non comprendere nei propri giudizi niente più di quanto si sia presentato alla ragione tanto chiaramente e distintamente da non lasciare nessuna occasione di dubbio.
Si tratta del principio normativo fondamentale, perché sottolinea come tutto debba convergere verso la chiarezza e la distinzione, nelle quali, appunto, si risolve l'evidenza. L'evidenza è l'atto intuitivo che coglie il problema in tutta trasparenza (chiarezza), cioè privo della benché minima opacità, e in tutta la sua nitidezza (distinzione), cioè ben definito e nettamente separato da tutti gli altri problemi.
La seconda regola è quella dell'analisi: dividere ogni problema preso in esame in tante parti quante più possibile, per risolverlo più agevolmente.
Si tratta di dividere il problema in tutte le parti possibili, cioè in parti elementari, che risultino a loro volta definitivamente irriducibili a parti ulteriori.
La terza regola è quella della sintesi: condurre ordinatamente i pensieri cominciando dalle cose più semplici e più facili a conoscersi, per salire a poco a poco, come per gradi, sino alla conoscenza delle più complesse; supponendo anche un ordine tra quelle che non si precedono naturalmente l'un l'altra.
Consiste nel ricomporre ordinatamente le parti del problema precedentemente analizzate ed indagate entro un quadro unitario che procede a costituirsi a partire dai livelli più semplici per arrivare fino al massimo della complessità. Con la sintesi si ritrova il medesimo oggetto di partenza, ma non identicamente considerato, bensì illuminato dall'intelligenza acquisita nell'analisi delle sue parti.
La quarta regola è quella dell'enumerazione e delle revisione: fare in tutti i casi enumerazioni tanto perfette e revisioni tanto complete, da essere sicuro di non omettere nulla.
A sintesi completata, occorre sempre evitare la precipitazione ricorrendo a un riepilogo completo del materiale che garantisca senza errore di non avere omesso nulla, di non avere tralasciato alcun particolare, anche apparentemente insignificante; l'enumerazione controlla la completezza dell'analisi, la revisione controlla la correttezza della sintesi.

 

Si tratta, come si vede chiaramente, di regole semplici, quasi banali, che sottolineano la necessità di procedere metodicamente con piena consapevolezza dei passaggi in cui si articola una qualsiasi ricerca rigorosa.

 

 

Il dubbio e il cogito

 

 

Dal dubbio metodico (applicato con metodo) a quello iperbolico (applicato al grado superlativo)

 

Stabilite le regole, occorre finalmente, tramite la loro applicazione, indagare quale verità (non matematica) rifletta in sé i caratteri dell'evidenza, cioè della chiarezza e della distinzione, in modo tale che essa, libera da qualsiasi dubbio, possa giustificare le regole stesse del metodo e assurgere a principio esplicativo di ogni altro problema filosofico. Cartesio applica al sapere le regole, alla ricerca di tale verità prima.
In primo luogo, constata che buona parte delle conoscenze tradizionali pretende di trovare il proprio fondamento nei sensi, ma i sensi talvolta ingannano; in secondo luogo, molto del sapere fa capo alla ragione e al suo potere discorsivo, ma anche in questo campo spesso si sbaglia nel ragionare e si finisce per elaborare soltanto paralogismi (ragionamenti errai); infine, c'è il sapere matematico, che sembrerebbe indubitabile, in quanto valido sia nella veglia sia nel sonno, eppure anch'esso è suscettibile di dubbio, perché sarebbe sempre possibile a un genio maligno, astuto e ingannatore, costruire delle evidenze che, in realtà, non esistono.
Il dubbio, allora, da metodico, diviene iperbolico, nel senso che va ad estendersi anche a settori che si presumevano fuori da qualsiasi sospetto.

 

Il “cogito

 

Tutto viene smantellato dal dubbio, nulla vi resiste; tutte le conoscenze cadono sotto i suoi colpi, salvo un'unica certezza che si configura intuitivamente come indubitabile: il dubbio stesso.
Dubitare significa pensare, il pensiero è, infatti, l'esercizio del dubbio. Vale dunque l'equivalenza tra il pensiero e la realtà: PENSO, (dunque) SONO (cogito, ergo sum).
Quella del cogito è una persuasione così salda, che tutte le più stravaganti ipotesi degli scettici non possono scuoterla; può essere accettata senza scrupolo, come il primo principio della filosofia.

 

Con il termine “pensiero” si intende tutto ciò di cui si risulta immediatamente consapevoli, vale a dire che tutte le operazioni della volontà, dell'intelletto, dell'immaginazione e dei sensi sono “pensieri”. La trasparenza dell'io a se stesso, e quindi il pensiero in atto, esclude qualsiasi dubbio e indica perché la chiarezza sia la regola fondamentale della conoscenza in corrispondenza con l'intuizione.
Il cogito è l'atto intuitivo grazie al quale è possibile percepire l'esistente in quanto res cogitans (sostanza pensante, sostanza che è pensiero, realtà di pensiero). Di conseguenza la filosofia cessa di essere scienza dell'essere in quanto tale e diviene scienza del pensiero, vale a dire, prima di tutto, gnoseologia.
Ogni altra conoscenza appartenente al cogito e diversa dall'intuizione del cogito non avrà bisogno di altre garanzie al di fuori di quelle della chiarezza e della distinzione che caratterizzano il cogito stesso. Il banco di prova del nuovo sapere, filosofico e scientifico, diventa il soggetto umano, la coscienza razionale.

 

Le obiezioni al cogito

 

La novità del cogito suscitò reazioni e critiche.
Esso, in primo luogo, poteva sembrare un circolo vizioso, in quanto affermato come primo perché evidente e quindi contraddittoriamente dipendente dall'evidenza, in quanto ad esso antecedente.
In secondo luogo si obiettò a Cartesio che esso non fosse altro che un sillogismo abbreviato: «Tutto ciò che pensa esiste, io penso, dunque esisto» (obiezione di Pierre Gassendi), quindi non un'intuizione immediata della mente, ma l'esito di una dimostrazione deduttiva.
Da ultimo, al di là della sua validità, si poté obiettare a Cartesio, a partire da una prospettiva materialistica, che indebito era il passaggio dal dire che il pensiero esiste al dire come esso esista, cioè in qualità di anima spirituale (obiezione di Hobbes). 

 

 

Il problema dell'oggettività

 

 Il problema dell'oggettività

 

Posto il pensiero (cogito) come indubitabile, la ricerca si interroga ora sulla possibilità del mondo esterno al pensiero. È possibile conoscere effettivamente quanto non si identifica con la coscienza?
Si rende pertanto necessaria un'ulteriore fondazione dell'attività conoscitiva dell'uomo.
Ora, l'io si rivela, come essere pensante, come il luogo di una molteplicità di idee, da cui la filosofia deve prendere le mosse.
Le idee sono rappresentazioni oggettive o sono pure finzioni mentali?
Cartesio distingue tre generi di idee:
 - innate, vale a dire ritrovabili sin dall'inizio nella coscienza, nate insieme con la stessa coscienza;
 - avventizie, cioè provenienti dall'esterno, dal di fuori della coscienza a partire da cose del tutto diverse dalla stessa coscienza;
 - fattizie, costruite all'interno della coscienza stessa sulla base di diversi elementi.
Sotto il profilo della loro realtà soggettiva (cioè in quanto facenti parte del soggetto pensante) le diverse idee non si distinguono sostanzialmente; sotto il profilo della loro significatività oggettiva (vale a dire rispetto a ciò che significano, al loro contenuto rappresentativo) differiscono profondamente.
Ad eccezione delle idee fattizie, che si possono anche non prendere in considerazione, in quanto illusorie e chimeriche, perché costruite arbitrariamente all'interno del soggetto, costituiscono invece problema quelle innate e quelle avventizie, dal momento che, se prese sul serio testimonierebbero l'esistenza di un mondo esterno al soggetto, un mondo di cui non è data un'evidenza immediata.

 

Per decidere della loro oggettività (cioè della efficacia significativa di cui sono portatrici) Cartesio si serve dell'idea di Dio, relativamente alla sua esistenza e alla sua funzione.
Viene in tal modo elaborata la prima “prova dell'esistenza di Dio” nel senso moderno dell'espressione, in base alla quale risulta poi possibile argomentare in altri settori del sapere filosofico. Solo Dio, infatti, può garantire la veridicità della coscienza dell'uomo.

 

L'esistenza e il ruolo (di garanzia) di Dio

 

Tra le idee innate Cartesio nota la presenza dell'idea di Dio, corrispondente a quella di una “sostanza infinita, eterna, immutabile, indipendente, onnisciente, e dalla quale io stesso e tutte le altre cose che sono (se è vero che ve ne siano di esistenti), siamo stati creati e prodotti”.
A proposito di tale idea egli si chiede se sia puramente soggettiva o se non debba ritenersi soggettiva e insieme oggettiva.
È il problema dell'esistenza di Dio posto a partire dall'uomo o meglio dalla sua coscienza.
Cartesio traccia tre argomenti:
 - È cosa evidente di per sé che deve esserci per lo meno tanto di realtà nella causa efficiente quanto nel suo effetto. Posto tale principio, è evidente che la causa dell'idea di Dio, che è nella coscienza dell'uomo, finito e imperfetto, non può che essere adeguata al suo effetto, cioè l'idea dell'infinito perfetto, e quindi deve essere infinita, cioè deve essere Dio.

 

 

Le dimostrazioni dell'esistenza di Dio. Il problema della vita

 

 

 - Se l'idea di un essere infinito, che è nell'uomo, derivasse dall'uomo, l'uomo si sarebbe prodotto perfetto e illimitato e non, invece, imperfetto, come invece appare continuamente nel dubbio e nella mai soddisfatta aspirazione alla felicità che abita sempre l'uomo. Se, tuttavia, si negasse Dio creatore dell'uomo, si dovrebbe ammettere che l'uomo si sia prodotto da solo; ma se si fosse prodotto da solo, avendo in sé l'idea del perfetto, si sarebbe prodotto perfetto. Ciò invece è contraddetto dalla realtà, dunque Dio creatore dell'uomo esiste.
 - L'esistenza, nell'idea di Dio, è parte integrante dell'essenza, per cui non è possibile avere l'idea (essenza) di Dio senza simultaneamente ammetterne l'esistenza, così come non è possibile concepire un triangolo senza pensarlo come la somma degli angoli interni uguale a due angoli retti, o come non è concepibile una montagna senza vallata [si tratta qui di uno dei più celebri rifacimenti dell'unico argomento di Anselmo d'Aosta].

 

Per Cartesio, quindi, l'idea di Dio è, nella coscienza dell'uomo, come il marchio dell'artefice nel suo manufatto; ma se Dio è sommamente perfetto, allora non può non essere sommamente verace e immutabile, in modo tale che l'uomo può avere fiducia nelle proprie facoltà, proprio perché da Dio create.
L'idea di Dio, dunque, viene utilizzata da Cartesio per difendere la positività della realtà umana, mentre sotto il profilo delle potenze conoscitive, essa garantisce la loro naturale capacità di conoscere il vero e, per quanto concerne il mondo, l'immutabilità delle sue leggi. Dio, infine, in quanto immutabile, è garante anche di tutte quelle verità, chiare e distinte, che l'uomo sarà in grado di raggiungere, verità eterne che costituiranno l'ossatura del nuovo sapere.

 

Il mondo è una macchina

 

Approfondendo l'analisi delle idee avventizie Cartesio giunge a considerare evidente l'esistenza del mondo esterno al pensiero.
Prima di tutto, che l'esistenza del mondo corporeo sia possibile, risulta dal fatto che esso è l'oggetto delle dimostrazioni geometriche, che si fondano sull'idea di estensione.
In secondo luogo, si deve considerare che esiste nell'uomo la facoltà dell'immaginazione, distinta dall'intelletto e a questo non riducibile. L'intelletto, infatti, è “cosa pensante” (res cogitans), cioè una sostanza che consiste nel pensare, essenzialmente attiva; la facoltà di immaginare, invece, è essenzialmente rappresentativa di entità materiali o corporee, certamente dipendenti e legate al corpo; quindi il corpo esiste. L'intelletto, poi, può applicarsi a considerare il mondo corporeo in quanto si avvale dell'immaginazione e delle facoltà sensitive, che si rivelano passive o recettive di stimoli e sensazioni. Se tale aggancio al mondo corporeo fosse ingannatore, si dovrebbe concludere che Dio, creatore dell'uomo, non è verace. Ma ciò è falso, come si è detto.

 

Quindi il mondo corporeo esiste, ancora una volta per la garanzia assicurata da Dio.
Tuttavia, tra le cose che raggiungono l'intelletto attraverso i sensi corporei, risulta chiara e distinta all'intelletto soltanto l'idea dell'estensione, come costitutiva ed essenziale del mondo corporeo. Pertanto, se da una parte l'intelletto si costituisce come res cogitans, il mondo corporeo si costituisce come pura estensione, res extensa.
Tutte le altre qualità sensibili, invece, appaiono a Cartesio inaffidabili e secondarie, perché di esse non è possibile avere un'idea chiara e distinta.

 

Tale concezione cartesiana, di una realtà globale divisa in due versanti nettamente distinti e irriducibili l'uno all'altro, senza la minima possibilità di ammettere realtà intermedie, risulta devastante se ci si applica alla considerazione dell'uomo, visto che il corpo, condiviso con il regno animale, deve trovare una spiegazione efficace solo attraverso l'applicazione della categoria dell'estensione, la cui unica applicazione ulteriore, dotata di chiarezza e distinzione, può essere il movimento.
L'animale in genere si spiega dunque come macchina; la vita come meccanismo. Tutto il corporeo si riduce ai principi di conservazione del moto e di inerzia. L'uomo non è altro che «una statua o macchina di terra, formata espressamente da Dio, per renderla quanto più è possibile simile a noi [simile al pensiero]: e quindi [...] quelle funzioni che si può immaginare procedano dalla materia e dipendano esclusivamente dalle disposizioni degli organi [...] conseguono del tutto naturalmente, in questa macchina, dalla semplice disposizione dei suoi organi né più né meno come i movimenti di un orologio o di qualsiasi altro automa seguono dai suoi contrappesi e dalle sue ruote; di modo che per loro non si deve concepire in questa macchina alcuna anima vegetativa, né sensitiva, né alcun altro principio di movimento e di vita, oltre il suo sangue e i suoi spiriti».

 

Le passioni e la morale provvisoria

 

Anima e corpo

 

A differenza di tutti gli esseri, l'uomo vede in se stesso la compresenza delle due sostanze tra loro nettamente distinte la res cogitans e la res extensa. È una sorta di punto di incontro tra due mondi, l'anima e il corpo.
Nel pensiero cartesiano, tuttavia, l'anima non è principio vitale, bensì puro pensiero.
Eppure, anche per Cartesio, l'esperienza attesta un'interferenza costante tra questi due mondi, come risulta per gli atti volontari, che determinano il movimento del corpo, e per le sensazioni e le passioni, che modificano sensibilmente l'anima.
Per far fronte alle enormi difficoltà in cui viene a trovarsi quando viene sollecitato a fornire spiegazioni circa la relazione anima corpo, Cartesio escogita una soluzione poco felice, introducendo nella macchina umana la ghiandola pineale, un organo vicino al cervello attraverso cui gli spiriti corporei trapassano all'anima e viceversa gli impulsi razionali determinano il corpo.
Non è una soluzione “elegante”, ma attraverso di essa Cartesio spiega anche il complesso manifestarsi delle passioni, che distingue in fisiologiche, psicologiche e morali.

 

Le regole della morale provvisoria

 

Proprio in riferimento alle passioni, per favorire il dominio della ragione sulla loro tirannia Cartesio enuncia, fin dal Discorso sul metodo, alcune norme di comportamento:
 - nella prima ritiene di poter dire che nel perseguimento delle verità che sono utili per il vivere quotidiano non si deve esigere l'evidenza, ma basta il buon senso;
 - nella seconda invita a rompere gli indugi e a superare l'incertezza e l'indecisione, perché la vita non può attendere, ma preme, fermo restando l'obbligo di appurare la verità e la bontà delle varie opinioni;
 - nella terza affronta il tema della riforma di se stesso a paragone con la fortuna e l'ordine del mondo;
 - nella quarta si impegna a impiegare ogni forza per il miglioramento e per il progresso nella conoscenza del vero, seguendo il metodo prescritto.
In Cartesio, dunque, predomina l'amore per la necessità del vero, la cui logica si impone, una volta raggiunta, con la forza della ragione. Seguire la verità, posto che l'io è res cogitans, significa seguire se stessi. Il primato della ragione deve imporsi in ogni campo.