Lezioni



CLASSE   III   -   Sintesi di Filosofia (3)



La giustizia nello Stato. Classi, virtù, anima

 

Lo Stato perfetto e i tipi di uomo

Il problema da cui Platone prende le mosse per la costruzione del suo Stato ideale scaturisce dal bisogno di rispondere alla domanda: «che cos'è la giustizia?».
La costruzione della giustizia corrisponde all'edificazione dello Stato.

Lo Stato nasce dal bisogno; nessun uomo, infatti, è autarchico, cioè non è in grado di provvedere esaurientemente a tutti i propri bisogni. Ciò implica la necessità strutturale per l'uomo della collaborazione con altri uomini.
I bisogni degli uomini sono molteplici e di conseguenza molteplici sono le professioni, che soltanto uomini diversi possono esercitare. Ciascun uomo, infatti non nasce del tutto simile agli altri, ma con differenze naturali e, quindi, atto a fare lavori differenti. C'è dunque una prima classe di uomini che si configura, quella degli artigiani che provvedono alla soddisfazione di tutti i bisogni essenziali della vita della comunità statale.
Lo Stato, tuttavia, oltre che della classe addetta alle professioni di pace, ha bisogno di una classe di custodi e di guerrieri; con il crescere dei bisogni, la Città deve annettere nuovi territori o difendersi da coloro che volessero, per ragioni analoghe, impossessarsi di territori che appartengono ad essa. I custodi della città, la seconda classe di uomini, al fine di poter ben compiere la loro opera, dovranno essere dotati, innanzitutto, di un'appropriata indole: mansueta e fiera, agile e forte, irascibile e valorosa, amante del sapere. Per i custodi sarà essenziale un'elevata formazione, che si produrrà attraverso un'accuratissima educazione, in cui poesia, musica e ginnastica saranno gli strumenti più idonei per educare il corpo e l'anima. La poesia verrà epurata da tutto ciò che è ignobile, la musica sarà scelta tra i ritmi che infondono coraggio e calma, spontaneità ed equilibrio, la ginnastica sarà equilibrata e senza eccessi, per commisurare il corpo alle capacità della mente.
Al vertice delle classi bisognerà distinguere la terza, quella degli uomini che non sono fatti per obbedire, ma per comandare. Si tratta della classe dei reggitori dello Stato, scelti tra coloro che maggiormente avranno amato la città e che per tutta la vita si saranno dedicati all'utilità e al bene di essa.

Alla prima classe, quella dei contadini, artigiani e mercanti, è concesso il possesso di beni e di ricchezze (benché non in eccesso); ai difensori dello Stato, invece, non sarà concesso alcun possesso di beni e di ricchezze; avranno abitazioni e mense comuni e riceveranno i viveri dagli altri cittadini come compenso della loro attività.
I custodi dovranno vigilare che nello Stato non si introducano mutamenti, che lo porterebbero in rovina. Dovranno cioè vigilare affinché nella prima classe non penetri troppa ricchezza (che produce ozio, lusso e amore di cose nuove) ma nemmeno povertà (che produce vizi opposti), affinché lo Stato non diventi troppo grande o troppo piccoli, affinché le indoli e le nature degli individui corrispondano alle funzioni che esercitano, affinché si proceda all'adeguata educazione dei giovani migliori, affinché non si mutino le leggi che governano l'educazione e non muti l'ordinamento dello Stato.


La natura della giustizia

Costituito lo Stato ideale, Platone può procedere a vedere quale sia la natura e il valore della giustizia. È necessario determinare le quattro virtù fondamentali, chiamate cardinali perché cardini sui quali è imperniata tutta la vita morale, oltre la giustizia, la sapienza, la fortezza e la temperanza. Lo Stato perfetto le dovrà possedere tutte quante, necessariamente.
La sapienza consiste nel buon consiglio e il buon consiglio è una scienza che ha per oggetto il buon comportamento dello Stato, nei confronti di se stesso e nei confronti degli altri Stati, posseduta dai governanti.
La fortezza è la capacità di conservare con costanza l'opinione retta in materia di cose pericolose e non pericolose, senza lasciarsi vincere dai piaceri o dai dolori e dalle paure o dalle passioni. La fortezza è la virtù propria soprattutto dei guerrieri.
La temperanza è una specie di ordine, di dominio o disciplina dei piaceri e dei desideri. È la capacità di sottomettere la parte peggiore alla parte migliore. Questa virtù si trova particolarmente nella terza classe di cittadini, ma non è esclusiva di essa e si estende a tutto lo Stato, facendo in modo che le classi inferiori si accordino completamente con le superiori e armonizzino perfettamente con esse.
La giustizia, infine, coincide con il principio stesso su cui è stato costruito lo Stato ideale, ossia con il principio secondo cui ciascuno deve fare solo quelle cose che per natura e quindi per legge è chiamato a fare. Quando ciascun cittadino e ciascuna classe attende alle proprie funzioni nel modo migliore, allora la vita dello Stato si svolge in modo perfetto e si ha, appunto, lo Stato giusto.

La struttura dell'anima

Alle tre classi sociali dello Stato dovranno corrispondere tre forme o facoltà nell'anima. In noi constatiamo tre differenti attività:
 - pensiamo;
 - ci adiriamo e ci infiammiamo di passione;
 - desideriamo i piaceri della generazione e della nutrizione.
Di fronte allo stesso oggetto noi possiamo desiderarlo, ma nel contempo evitarlo sulla base di un calcolo e infiammarci per esso a partire da particolari situazioni. Ciò significa che tali tendenze non derivano da un medesimo principio, in quanto sono contrarie. Come tre sono le classi di uomini, altrettante sono le parti dell'anima:
 - razionale;
 - irascibile;
 - appetitiva (concupiscibile).
L'irascibile, per sua natura, sta dalla parte della ragione, pur non essendo ragione, ma può allearsi anche alla parte più bassa dell'anima, se viene guastata da cattiva educazione.

La corrispondenza delle classi dello Stato con le parti dell'anima implica la conseguente corrispondenza delle virtù dello Stato con le virtù del cittadino, dove la sapienza sarà la virtù dell'anima razionale, la fortezza dell'irascibile e la temperanza del concupiscibile. La giustizia, nel singolo, è la virtù che presiede al congruo funzionamento delle singole parti dell'anima, ciascuna nell'esercizio della propria funzione naturale.

La comunanza della vita e l'educazione della donna

Il principio della comunanza di ogni cosa per la classe dei custodi dello Stato (abitazione, mensa, donne, figli, allevamento ed educazione della prole) comporta diversi problemi di cui Platone si occupa.
In primo luogo alle donne vengono affidate le medesime mansioni che agli uomini, il che comporta lo stesso tipo di educazione ginnico-musicale impartita agli uomini.
Una seconda conseguenza è l'eliminazione dell'istituto della famiglia, il che significa che donne e figli dei custodi saranno comuni; lo Stato, naturalmente, provvederà a far sì che i migliori si congiungano quanto più spesso con le migliori ed eviterà che i peggiori possano fare altrettanto; provvederà altresì ad educare i figli migliori e a trascurare i peggiori, senza che ciò, naturalmente, sia risaputo.
Inoltre, i figli saranno subito sottratti alle madri, le quali, come del resto i padri, non dovranno poter riconoscere i figli; solo gli uomini tra i trenta e i cinquant'anni potranno generare e le donne tra i venti e i quaranta (i figli generati al di fuori di tali regole o non verranno fatti nascere o saranno abbandonati, per non recare danno allo Stato). Nessuno in tal modo potrà battersi per ciò che è proprio, riservandosi di spendere energie come preferisce, ma tutti saranno massimamente disponibili per il bene dello Stato, senza riservarsi quote di interesse privato.



L'educazione del filosofo, lo stato corrotto e il mito della caverna

 

L'educazione dei filosofi

La condizione necessaria e anche sufficiente perché si realizzi lo Stato ideale è che i governanti diventino filosofi o i filosofi governanti. Porre il filosofo come costruttore e reggitore dello Stato significa per Platone porre il Divino e l'Assoluto come suprema misura e quindi fondamento dello Stato. Il filosofo, infatti, dopo aver raggiunto il divino, lo contempla e lo imita, plasma se stesso in conformità di quello e, per conseguenza, posto a capo della Città, plasma e conforma anche la Città sullo stesso metro.

In uno Stato come quello platonico, di conseguenza, diventa della massima importanza la selezione dei giovani dotati di autentica natura filosofica (ossia dei giovani in cui predomina la parte razionale dell'anima sulle altre due) e la loro educazione.
Per i futuri filosofi l'educazione ginnico-musicale non costituisce se non un momento preparatorio. Infatti questo tipo di educazione è in grado di rendere l'uomo armonico e ben ordinata la sua vita, ma non è in grado di portare alla conoscenza delle cause da cui dipendono quell'ordine e quell'armonia. L'educazione ginnico-musicale produce gli effetti del Bene, ma non la conoscenza del Bene. La meta dell'educazione filosofica è giungere alla cognizione massima (méghiston máthema), cioè al possesso conoscitivo del Bene in sé.
Per giungere a tale conoscenza non ci sono scorciatoie, ma vi è solo la lunga strada che dal sensibile conduce al soprasensibile, dal corruttibile all'incorruttibile, dal divenire all'essere (la rotta della “seconda navigazione”).
Le tappe procedono lungo la matematica, la geometria, piana e solida, l'astronomia e la scienza dell'armonia. Il tratto più impegnativo, però, è costituito dall'esercizio della dialettica, con cui l'anima si scioglie completamente dal sensibile per raggiungere l'essere puro delle idee, e, procedendo attraverso le idee, giunge alla visone del Bene, cioè alla cognizione massima.

In un primo tempo gli insegnamenti matematici dovranno essere proposti quasi sotto forma di gioco; a vent'anni, coloro che si saranno segnalati in questi studi, nelle fatiche e nella capacità di affrontare i pericoli di vario genere, saranno educati a comprendere le affinità sussistenti fra le discipline apprese nel precedente ciclo e a comprendere il superiore legame di affinità fra queste discipline e la natura dell'essere. A trent'anni, coloro che avranno rivelato natura dialettica verranno messi alla prova per accertare chi sia capace, facendo a meno degli occhi e degli altri organi del senso, di salire insieme con la verità fino a ciò che è veramente. Dai trentacinque ai cinquant'anni, dovranno ritornare a cimentarsi con la realtà empirica, assumendo comandi militari e cariche varie. Soltanto a cinquant'anni, verranno condotti a volgere lo sguardo a ciò che dà la luce ad ogni cosa, tutto questo, naturalmente, sia per uomini sia per donne.

A questo livello il filosofo desidererebbe senz'altro vivere il resto della vita contemplando, ma ciò non gli è concesso per un preciso debito da lui contratto nei confronti dello Stato. Lo Stato non può permettere che una sola sua classe abbia il privilegio di una straordinaria felicità, ma deve far sì che le classi di arrechino reciproco vantaggio, a seconda delle loro capacità.

Il supremo potere politico corrisponde con il supremo e necessario servizio; chi contempla il Bene lo deve calare nella realtà e, attraverso la prassi politica, lo deve dispensare agli altri.

Le forme di Stato corrotto

Esiste dunque una strutturale corrispondenza tra virtù e felicità, nel cui rapporto la seconda è conseguenza necessaria della prima. Posto ciò, è altrettanto necessario che, al decadere dell'una, la virtù, corrisponda anche un decadimento dell'altra, la felicità.

Le forme corrotte di Stato, quelle in cui la giustizia viene man mano a mancare sono nell'ordine:
 - timocrazia (potere dell'onore);
 - oligarchia (potere dei pochi);
 - democrazia (potere del popolo, nel senso peggiorativo di demagogia);
 - tirannide (dittatura).

In regime di timocrazia tende a sostituirsi alla virtù l'onore, e la sete di onore si trasforma ben presto in sete di denaro da parte della classe media, cioè della parte irascibile dell'uomo e dello Stato.

L'oligarchia è da concepire soprattutto come plutocrazia, cioè come detenzione del potere da parte dei pochi ricchi che si contrappongono alla massa di poveri; in tale regime tende a prevalere la parte bassa dell'anima, che cerca la soddisfazione di tutti i più capricciosi bisogni.

La democrazia precede e prepara la tirannide. A poco a poco l'insaziabilità di ricchezza e di denaro porta i giovani di un regime oligarchico a non curarsi di nient'altro che non sia la ricchezza. I ricchi, allora si indeboliscono e, alla prima occasione il popolo insorge e prende il sopravvento, proclamando l'eguaglianza dei cittadini. Lo Stato si riempie di libertà che in realtà cela la licenza in ogni campo; tanto che chi vuole fare carriera basta che si spacci per amico del popolo. Viene bandito il rispetto, la temperanza e la moderazione, prese per mancanza di virilità e spilorceria vengono soppresse. La vita si trasforma in una avventura senza ordine e senza legge, interamente consegnata ai piaceri.

Dalla democrazia deriva direttamente la tirannide, e proprio a causa dell'insaziabilità di libertà. L'eccesso di libertà (che è licenza) fa cadere nel suo opposto, ossia nella servitù, quando qualcuno, che sia riuscito a farsi riconoscere capo del popolo (demagogo), riesce a imporre su tutti la propria volontà.

Il “Mito della caverna” simbolo del pensiero platonico

Si colloca al centro della Repubblica.
Possiamo pensare a degli uomini che vivano in una abitazione sotterranea, in una caverna che abbia l'ingresso aperto verso la luce per tutta la sua larghezza, con lungo andito d'accesso; e possiamo pensare che gli abitanti di questa caverna siano legati alle gambe e al collo in modo che non possano girarsi e che quindi possano guardare unicamente verso il fondo della caverna. Pensiamo poi che, appena fuori della caverna vi sia un muricciolo ad altezza d'uomo e che dietro questo si muovano degli uomini che portano sulle spalle statue lavorate in pietra e legno, raffiguranti tutti i generi di cose; dietro a questi uomini, pensiamo che arda un grande fuoco e, in alto, brilli il sole. I prigionieri, se così fosse, non potrebbero vedere altro che le ombre delle statuette che si proiettano sul fondo della caverna, credendole la vera realtà.
Ebbene, se uno dei prigionieri riuscisse a divincolarsi dai suoi ceppi e potesse girarsi e vedere le statue al di sopra del muro, e poi, se egli riuscisse a valicare il muro e a uscire dalla caverna e a vedere le cose reali illuminate dal sole, dopo un momento di totale accecamento, potrebbe riconoscere la verità delle cose. Ma se ritornasse nella caverna, finirebbe per essere deriso dagli altri uomini, cercando di stimolarli alla conoscenza, e rischierebbe di essere ucciso.

I significati espressi dal mito sono:
 - quello della gerarchia dei gradi ontologici della realtà (dalle ombre alle statue, dalle cose del mondo al sole/bene),
 - quello dei gradi della conoscenza (dall'immaginazione alla scienza delle idee),
 - quello dell'ascesi e della catarsi proprie della vita morale,
 - quello della vita politica come educazione dell'uomo al bene.

L'allusione a Socrate è evidente, ma il giudizio va oltre la figura e la vicenda del maestro di Platone: l'umanità accecata non tollererebbe facilmente di essere destata dalle proprie illusioni e dalle proprie sicurezze.

 


Aristotele e Platone

 

ARISTOTELE

 

Intorno al 366/65 a. C., all'età di diciotto anni, Aristotele si trasferì ad Atene e incominciò a frequentare l'Accademia di Platone. Vi rimase per ben vent'anni, cioè fino alla morte del maestro, avvenuta nel 347, quando decise di uscirne a motivo della direzione presa dalla scuola sotto la guida di Speusippo. Intorno al 343/42 Filippo il macedone lo chiamò a corte e gli affidò l'educazione del figlio Alessandro, il futuro Alessandro Magno. Nel 335/34 fece ritorno ad Atene e vi fondò, presso un edificio attiguo al tempio di Apollo Licio, la propria scuola, il Liceo (o Peripato, dal verbo peripatèin, che significa “passeggiare”, visto che le lezioni si tenevano, appunto, passeggiando per il giardino). Dopo anni fecondi di produzione, morì nel 322, in esilio a Calcide, dopo essere stato coinvolto dalla reazione antimacedone conseguente alla morte di Alessandro avvenuta nel 323.

Aristotele e Platone

È rilevante il fatto che Aristotele frequentasse per ben vent'anni la scuola di Platone, partecipando attivamente alla discussione della dottrina del maestro, fino a giungere al suo superamento attraverso una metafisica propria capace di rispondere alla principali aporie del platonismo.
Aristotele non è l'anti-Platone, ne è invece un fecondissimo interprete che ha proceduto sulla linea platonica della “seconda navigazione”. Ha criticato la dottrina platonica delle Idee ed è giunto alla fine a negare che esistano Idee o Forme trascendenti. Ma con questo, egli non ha affatto inteso negare che esistano realtà soprasensibili: egli ha voluto dimostrare, invece, che il soprasensibile non è quale Platone pensava essere.
Platone nelle Idee soprasensibili aveva indicato la “causa” delle cose. In quanto cause delle cose, le idee erano state da lui intese immanenti nella relazione con le cose, in quanto soprasensibili, invece, erano state pensate come altro dalle cose e quindi trascendenti. Come potessero le Idee essere insieme immanenti e trascendenti Platone non riuscì mai a spiegarlo. In ogni caso Platone, che non aveva interesse per i fenomeni sensibili come tali, si era preoccupato di indagare la struttura del mondo ideale come tale, piuttosto che la sua relazione con quello sensibile.
Aristotele, per contro, reagiva energicamente a questo ordine di considerazioni, ritenendo che la trascendenza delle idee non avrebbe potuto mai spiegare l'esistenza e la conoscenza delle cose sensibili. Pertanto, il filosofo di Stagira introduceva la teoria delle forme immanenti, cioè strutture interiori alle cose che ne plasmano e ne informano la materia. Il mondo platonico delle Idee trascendenti, diventa la struttura intelligibile immanente alle cose.

Ciò non ha condotto Aristotele ad abbandonare la concezione del soprasensibile, ma a perfezionarla: oltre alle forme, infatti, Aristotele pone al vertice della realtà un Dio-Motore immobile primo, un certo numero di altre realtà analoghe al Motore primo e le anime intellettive; Aristotele, cioè, alla concezione platonica del soprasensibile inteso prevalentemente come intelligibile, sostituisce una concezione del soprasensibile inteso prevalentemente come intelligenza.

Le differenze di fondo individuabili fra Aristotele e Platone, invece, si possono così descrivere:
 - manca in Aristotele l'afflato mistico e religioso che caratterizzava l'opera platonica, con la sua tensione escatologica;
 - Platone era interessato alle scienze matematiche, ma non provava interesse per le scienze empiriche, salvo la medicina, ed era generalmente privo di curiosità per i fenomeni fisici e genericamente empirici considerati, Aristotele, invece, aveva grandissimo interesse per quasi tutte le scienze empiriche e per i fenomeni anche considerati in quanto tali, che, di fronte al disprezzo platonico, riteneva di poter e di dover salvare attraverso il loro fondamento metafenomenico (al di là del fenomenico);
 - alla forza poetica dello stile dei dialoghi platonici fa riscontro lo spirito scientifico di Aristotele, che in luogo di opere coinvolgenti come quelle platoniche, propone una sistemazione stabile dei quadri della problematica del sapere filosofico.


Il distacco da Platone

Per Platone la realtà è idea. Il termine idea ha a che fare con la radice del verbo vedere; l'idea è una visione, un'intuizione intellettuale, una rappresentazione archetipica che abita in un mondo sovraceleste e sovrasensibile: l'iperuranio. Per Aristotele, invece, la realtà è sostanza, che è nel contempo, analogicamente, rappresentante individuale di qualsiasi specie di cose e natura intima del medesimo, sua forma o sua essenza.
Nella “Scuola di Atene” di Raffaello, Platone e Aristotele sono raffigurati rispettivamente con il dito della mano alzato verso l'alto e con il palmo della mano aperto e disteso ad indicare il basso. Aristotele era un discepolo di Platone, ha frequentato la sua scuola per anni, ma ha “preferito la verità” (amicus Plato, sed magis amica veritas), si è staccato da lui e ha organizzato un'altra scuola, il Perípato.
Il sapere platonico è finalizzato alla pedagogia e alla politica: Platone vuole educare l'uomo per costruire la città ideale. Il filosofo, per Platone, è colui che contempla il mondo iperuranio e da tale contemplazione trae gli spunti per organizzare la società ideale (la visione platonica diviene utopia). Per Aristotele il vero filosofo è colui che si sofferma nella contemplazione, una contemplazione della realtà e non dell'archetipo. Il sistema di Platone si proietta in verticale, gerarchizzando gli ordini di realtà dal nulla all'ideale archetipo; il sistema di Aristotele si occupa di tutti i campi della realtà, orizzontalmente e fenomenologicamente puntando lo sguardo al profondo delle cose.



Le critiche a Platone: la forma

 

La critica a Platone

La spiegazione platonica è il frutto di uno sforzo teoretico considerevole (la cosiddetta “seconda navigazione”) e l'approdo al mondo puramente intelligibile, vale a dire alla realtà soprasensibile delle idee, è stato di sicuro un traguardo di enorme valore rispetto alla speculazione precedente. Le idee platoniche sono un criterio validissimo di interpretazione del mondo, nella misura in cui stabiliscono che la verità consiste nell'aspetto intelligibile della realtà, non in quello sensibile, che risulta, invece, soltanto opinabile nel suo incessante divenire. Di fronte a un dato qualsiasi di realtà (il solito tavolo) tutto ciò che è suscettibile di sensazione (colore, odore, densità, suono, gusto) risulta effimero e contingente rispetto al suo nocciolo “veramente significativo”, uno schema di natura tale da essere suscettibile soltanto di un'apprensione intellettuale, cioè che può rappresentarsi soltanto a titolo di idea e non di sensazione.
L'idea è qualcosa di inimmaginabile, qualcosa che deve prescindere, pena il rischio del suo misconoscimento, da qualsiasi forma di finzione o di immaginazione. L'idea di tavolo, infatti consiste nel corrispettivo della sua definizione: arredamento da appoggio, ma deve prescindere ed esulare totalmente da qualsiasi rappresentazione “visiva” di un benché generico tavolo, pena l'impossibilità di ritenere autentica l'originaria scoperta del tavolo da parte del suo primo utilizzatore.
Ora, la soluzione platonica dell'iperuranio, il mondo alternativo in cui l'idea risiede intelligibilmente nella sua perfetta realtà immateriale, porta con sé una pregiudiziale dualistica (di radicale opposizione) nei confronti dell'intera realtà, costituita appunto di idea, la sua dimensione reale e vera, e di materia, la sua dimensione reduplicativa e, per tanto imperfetta, per non dire degenerata in un incessante sequenza di negazioni. Per Platone il mondo delle cose sensibili è copia, imitazione, falsità.
Aristotele, per contro, sente la necessità di non svalutare il sensibile, cioè il mondo delle realtà concrete, ma di salvarlo (di salvare il “fenomeno”, ciò che appare) per darne pienamente ragione senza dover ricorrere a una realtà oltremondana, a suo parere fonte di confusione e di complicazione piuttosto che di semplificazione. Aristotele obietta a Platone che, se il mondo iperuranio fosse reale come alternativa al mondo delle cose concrete, allora ogni cosa dovrebbe trovare la propria ragion d'essere in una realtà estranea, completamente estranea, e perciò individua tanto quanto il concreto materiale. Ma ciò comporterebbe come spiacevole conseguenza l'incontrollabile proliferazione dell'idea stessa, che per ogni singola cosa, anche la più insignificante (come un certo pelo della barba), dovrebbe esistere un modello archetipo, contraddittoriamente molteplice nella misura di tutte le (infinite) singole caratteristiche e affezioni di quella cosa (come l'esser curvo piuttosto che l'esser bianco o l'esser lungo o corto e liscio o riccio ecc.). Per un pelo, ... quante idee!
Aristotele è d'accordo con Platone nel sostenere che ciò che di valido si dà in realtà è ciò che corrisponde al suo aspetto intelligibile, ma è fermamente convinto che, nella spiegazione delle cose, non si debba ricorrere a un paradigma trascendente (un modello che supera, che va al di là della stessa realtà), ma si debba pensare a un principio immanente (insidente, che rimane all'interno) alla cosa medesima di cui è ragione; un principio, ovviamente, di natura intelligibile, la forma.
La forma, per Aristotele, significa il profilo interiore, la strutture, l'impalcatura logica delle cose, l'aspetto intelligibile ed universale riconoscibile (astraibile) in esse mediante un'intenzione della ragione.


 

Le opere e l'organizzazione delle scienze

 

Gli scritti

Logica, metafisica, fisica e psicologia, zoologia, politica, etica e poetica costituiscono gli interessi di Aristotele, il quale, diversamente da Platone, la cui filosofia era costruita in funzione della pedagogia e della politica, pensa a una formazione enciclopedica, cioè aperta a tutti i rami della conoscenza scientifica, in tutte le sue regioni d'essere.
Due note:
 - tradizionalmente si distinguono nel corpus aristotelico opere essoteriche, cioè rivolte al pubblico esterno alla scuola del Peripato, e opere esoteriche, quelle su cui veramente avveniva l'insegnamento e il dibattito all'interno della scuola.
 - le opere di logica vengono raggruppate dalla tradizione nel corpus che prende il nome di organon, che in greco significa strumento; ciò sta a significare che la logica gode di uno statuto sui generis, essendo, più che scienza vera e propria, lo strumentario metodologico e argomentativo di tutte le scienze, il criterio trasversale della loro correttezza sintattica e semantica.

Il Corpus aristotelicum nell'ordinamento attuale, si apre con l'Organon, che è il titolo con cui, a partire dalla tarda antichità, è stato designato l'insieme dei trattati di logica, che sono: Categorie, De Interpretatione, Analitici Primi, Analitici Secondi, Topici, Confutazioni Sofistiche.
Seguono le opere di filosofia naturale e cioè: La Fisica, Il Cielo, La generazione e la corruzione, La Meteorologia.
Connesse con queste sono le opere di psicologia costituite dal trattato Sull'anima e da un gruppo di opuscoli raccolti sotto il titolo di Parva naturalia.
L'opera più famosa è costituita dai quattordici libri della Metafisica.
Vengono quindi i trattati di filosofia morale e politica: l'Etica Nicomachea, la Grande Etica, l'Etica  Eudemia, la Politica.
Infine sono da ricordare la Poetica e la Retorica.
Fra le opere riguardanti le scienze naturali l'imponente Storia degli animali, Le parti degli animali, Il moto degli animali, La generazione degli animali.

La ripartizione delle scienze

Per scienza Aristotele intende una disciplina dimostrativa.
Le scienze, per Aristotele, si distinguono in:
 - scienze teoretiche, che ricercano il sapere in sé medesimo, a prescindere da qualsiasi scopo di ordine operativo;
 - scienze pratiche, inerenti al sapere come mezzo per raggiungere la perfezione morale;
 - scienze poietiche o produttive, che ricercano il sapere in vista del fare o produrre oggetti.

Le scienze teoretiche si distinguono come tali (cioè in quanto “teoretiche”) perché si dedicano alla pura speculazione della realtà, a prescindere da qualsiasi intervento in essa da parte dell'uomo. Metafisica, Fisica (che comprende la Psicologia) e Matematica, le scienze teoretiche, sono considerate da Aristotele le più elevate per dignità e per valore.
Si occupano di realtà necessarie, cioè di tutto ciò che non può non essere diversamente da come è, di ciò che è inevitabile perché fissato così com'è dalla sua stessa ragion d'essere così com'è. Esempio di una realtà necessaria è qualsiasi definizione di ordine geometrico (la somma degli angli interni di un triangolo è equivalente a un angolo piatto, 180°) o qualsiasi definizione di essenza (l'uomo è l'animale ragionevole).
Ciò che è necessariamente non può non essere.

Le scienze pratiche si occupano del possibile, cioè del non necessario. Ciò risulta ovvio se si pensa che, di fronte alla volontà, tutto è possibile.

 

La metafisica: le quattro cause

 

LA METAFISICA

 

“Metafisica” non è un termine aristotelico. Probabilmente esso è stato coniato in occasione dell'edizione delle opere di Aristotele fatta da Andronico di Rodi, nel primo secolo a. C., per una questione di ... spazio: metà tà physiká, letteralmente, significa “dopo la fisica”, espressione adottata come titolo per quel fascicolo di appunti aristotelici, di materia diversa e difficilmente classificabile e che non potevano rientrare nelle opere di altro genere, che fu posto, appunto, “a fianco”, “dopo” i volumi di Fisica nella classificazione bibliotecaria dell'intera opera del filosofo.

Le definizioni aristoteliche di metafisica sono:
 - scienza delle cause e dei principi primi;
 - scienza dell'essere in quanto essere (o meglio: dell'ente in quanto ente);
 - scienza della sostanza;
 - scienza di Dio e della sostanza soprasensibile.
Tali definizioni sono, rispettivamente, in linea con tutta la tradizione precedente
 . che, da Talete a Platone, aveva ricercato l'arché o causa prime di tutta la realtà,
 . che da Parmenide a Platone aveva costituito il centro di interesse ontologico della filosofia,
 . che, dopo il superamento del monismo eleatico-parmenideo, precisa quale sia il significato primario dell'essere, l'essere fondamentale,
 . che considerava il “principio” nella sfera del divino.
Aristotele, dal canto suo, usava per lo più l'espressione filosofia prima o anche teologia per designare la metafisica, in opposizione alla filosofia seconda o fisica. La metafisica, secondo Aristotele nasce nell'uomo a motivo della meraviglia che egli prova di fronte alle cose; nasce dal puro amore di sapere, dal bisogno tutto umano di conoscere il perché ultimativo delle cose.


La scienza delle cause

La causalità è, ovviamente, presente nei filosofi venuti prima di Aristotele, Platone, in primo luogo, ma anche in precedenza, fino a Talete. La causalità, infatti è intimamente connessa con il problema filosofico del “perché”, della ragion d'essere.
In Aristotele, tuttavia, la causalità trova la sua prima formulazione organica e, presumibilmente, completa nel contesto della filosofia prima. Aristotele enumera quattro ordini di cause:
 - materiale, vale a dire ciò di cui una sostanza è fatta, come ad esempio il bronzo per la statua o il legno per l'armadio;
 - efficiente (o agente), cioè ciò da cui una sostanza è fatta o mossa (o si trasforma nel divenire), nel significato dell'operatore (o del realizzatore) di una sostanza, come il vasaio per l'anfora o il carpentiere per l'imbarcazione, ma anche come il sole per la crescita o l'umore per l'istinto;
 - formale, ciò per cui una sostanza è quella sostanza che è, cioè l'intimo profilo intelligibile di una sostanza, da non confondere, certo, con la sua esteriorità materiale o il suo volto fisico; si tratta di quella delineazione essenziale che corrisponde, nel linguaggio alla definizione della cosa, come la ragionevolezza attribuita all'animale nel caso dell'uomo;
 - finale, ciò in vista di cui (alla luce di cui) una sostanza è pienamente intelligibile, la causa primaria (in senso metafisico, cioè anche ultimativa) che costituisce il senso stesso della causalità degli altri ordini di cause.



La causa finale

 

La causa finale

Proprio la causa finale esige un'ulteriore chiarimento, data la sua statura di fondamento della stessa causalità.
Il fine, in filosofia, non può coincidere con lo scopo, cioè l'obiettivo dell'azione di una sostanza, pena l'insignificanza di qualsiasi proposizione di senso metafisico. Sulla questione del fine (o della finalità) sta o cade tutta la pregnanza della metafisica. Facciamo un esempio per capire.
A spasso per un parco naturale, ad onta della natura incontaminata e della verginità dell'ambiente, mi imbatto improvvisamente, sul limitare di una magnifica radura, in un frigorifero riverso al suolo. Che orrore, che criminale quel pendaglio da forca che per disfarsi di un elettrodomestico ingombrante ha pensato bene di abbandonarlo in quel modo incivile! Certo, è un frigorifero; magari ancora funzionante, se supportato dalla necessaria erogazione di corrente elettrica. Potrebbe ancora realizzare il proprio scopo conservando i cibi a temperatura ridotta, ciò per cui è stato costruito. Eppure quel frigorifero è un assurdo, un dato incomprensibile, perché così abbandonato non realizza la propria finalità.

Che cos'è, dunque la finalità? Non può essere certo lo scopo cui una cosa qualsiasi tende con la sua azione. Se, ad esempio, la finalità dell'uomo coincidesse con la crescita e con l'età adulta, diventerebbe d'obbligo chiedersi, una volta raggiunta l'età adulta, quale altra finalità dovrebbe governare il suo agire. Forse la vecchiaia e, al termine di tutto, la morte? I fini non realizzano, in quanto tali, ma soltanto in ragione di un orizzonte più ampio, la finalità appunto, all'interno della quale ottengono significato. L'adulto, allora, può essere sì la finalità dell'uomo, ma come il significato della piena maturità, che sta a monte di qualsiasi uomo, a fondare la significatività della sua crescita e della sua vita intera. L'essere adulto, in questo caso, diventa il fine anche del vecchio e del morente, pur non potendo esserne lo scopo, vista l'irreversibilità del tempo.
La finalità del frigorifero, invece, è l'economia domestica, non la conservazione dei cibi.
D'altronde, qual è la finalità dell'uomo? Forse uno scopo che l'uomo si propone? Se così fosse, l'uomo sarebbe inevitabilmente frustrato, perché ad ogni scopo raggiunto se ne aggiungerebbe un altro, e un altro ancora, fino a quando la fine interromperebbe inesorabilmente la catena. La finalità dell'uomo non è uno scopo, ma la sua stessa posizione nell'ordine dell'essere; la finalità dell'uomo consiste nella realizzazione della manifestatività dell'essere, cioè nella coscienza. La finalità dell'uomo è l'intelligenza (la sua forma è la razionalità), l'intelligenza che consiste (letteralmente) nella “lettura intima” delle cose, nell'identificazione (dell'uomo) nella loro natura essenziale. L'intelletto (participio passato di senso passivo del verbo intelligere), infatti, altro non è se non la natura della cosa in quanto “letta nell'intimo” (intel-letta) nell'ordine della rappresentazione.

La finalità, quindi, costituisce l'orizzonte di comprensibilità delle cose (che divengono nel mondo), il contesto previo all'interno del quale esse godono di significato pieno, anche a prescindere da una loro singolare ed empirica realizzazione (come nel caso in cui un individuo, per motivi di ordine accidentale, non possa realizzare appieno la propria forma). Essa è l'orizzonte di intelligibilità di una sostanza, il panorama entro il quale il suo significato si manifesta, il tessuto di relazioni che costituiscono una sostanza come un elemento integralmente comprensibile nel tutto, la condizione di senso. La finalità è un punto di partenza e, solo in seconda istanza, anche un punto di arrivo.

A questo punto dovrebbe risultare chiaro perché, a prescindere dalla finalità, ogni causalità perda di significato. Perché infatti costruire un frigorifero al di fuori di un'idea di economia domestica? Perché vivere al di fuori di un orizzonte di intelligenza? La finalità è intimamente connessa con la non contraddittorietà: qualcosa è quel qualcosa e non può non essere quel qualcosa che è.


La prima “storia della filosofia”: Metafisica I

Discutendo della causalità, nel primo libro della sua Metafisica, Aristotele si propone di descrivere e di commentare le prese di posizione dei suoi predecessori. Da Talete, infatti, cioè dal VII secolo, la filosofia si è interrogata, in un modo o nell'altro, sulla questione del principio cosmico, cioè sull'origine causale dell'intero complesso naturale che costituisce il teatro dell'esperienza.
Costruendo una prima, piccola, storia della filosofia, Aristotele passa in rassegna le risposte offerte dai suoi più illustri predecessori, non senza mettere in evidenza, a suo giudizio, i progressi, i regressi e le aporie (problematicità irrisolte) dei discorsi filosofici precedenti, a cominciare da Talete di Mileto, ritenuto da lui (come da noi) il padre del discorso filosofico.
Guardando al passato nella prospettiva del concetto di causa Aristotele affronta infine i diversi problemi del platonismo e critica la dottrina del maestro (come si è già visto), benché aperta alla pluralità delle cause.



L'intelligenza al fondamento. L'essere "in quanto" essere

 

In Platone, in effetti, vengono contemplate la causa materiale (la chora), la causa formale, le Idee, e la causa efficiente, il Demiurgo, ma a giudizio di Aristotele manca ancora l'ordine di causalità fondamentale, quella finale, che si fa carico della giustificazione della causalità in generale.
È in questo senso che Aristotele supera la concezione dell'intelligibile platonico assegnando invece all'intelligenza il primato nell'ordine dell'essere. Solo un'intelligenza (fondamentale) è capace di assicurare senso completo alle cose entro il quadro di un mondo coerente.


L'ente “in quanto” ente

Veniamo ora al significato dell'essere. La metafisica è scienza dell'essere, o meglio scienza dell'ente, perché considera le realtà esistenti in quanto realtà, non in quanto specificamente determinate secondo le diverse configurazioni essenziali.
L'essere delle piante è studiato dalla botanica (le piante sono enti vegetali); l'essere del mondo in quanto realtà materiale in movimento è studiato dalla fisica (il mondo è ente in movimento); l'essere degli armenti, dei volatili, dei pesci è studiato dalla zoologia (armenti, volatili e pesci sono enti animali).
L'essere in quanto tale, invece, o meglio l'ente in quanto ente è studiato dalla metafisica, che si occupa di piante, corpi materiali e animali non relativamente alle loro singole specificità, ma in quanto, appunto, generalmente enti. Tutte le cose che sono, partecipano dell'essere, sono, cioè, enti. La metafisica, dunque, studia il loro essere “in quanto” tale. La formula “in quanto” significa “nella misura in cui”, “per quanto si consideri”, ecc... “Ente in quanto ente” significa che lo studio della metafisica si concentra sull'essere dell'ente a prescindere dal suo grado di partecipatività.



L'analogia; accidente e categorie

 

L'essere dell'ente è un concetto analogo. Ciò significa che essere si dice (si predica) in molti modi; quando infatti in qualsiasi proposizione usiamo il verbo essere, considerato in se stesso esso assume significati diversi.
Diciamo preliminarmente che un termine può essere univoco, equivoco o analogo a seconda delle sue prerogative di predicabilità:
 - univoco è il termine che si predica sempre nel medesimo significato (ad esempio il nome triangolo);
 - equivoco è il termine che si predica di realtà del tutto differenti (ad esempio cane, che si dice del quadrupede, del percussore nelle armi da fuoco e della costellazione; pesca si dice del frutto e della pratica di caccia ittica);
 - analogo è il termine che si predica di cose differenti, ma in ragione di (in relazione a) un unico principio di significato (ad esempio l'aggettivo sano, che si dice dell'individuo, del sangue, del cibo e dell'ambiente in ragione del significato della salute intesa ora come qualità, ora come sintomo, ora come causa, ora come effetto).

L'essere (dell'ente) è dunque un termine/concetto analogo, che riveste diversi significati; Aristotele ne seleziona quattro: esso, infatti, si dice come accidente, come categoria, come vero e come atto/potenza.

L'accidente
È ciò che accade, che capita: l'essere, infatti si dice (si predica) di tutto ciò che si manifesta, in qualsiasi modo si manifesti.
Se si dice, ad esempio: «il cielo è blu», l'essere blu del cielo viene predicato accidentalmente, perché in quel momento e in quel luogo il cielo è di un bel blu terso. Se si dice: «sono seduto», l'esser seduto si predica accidentalmente, perché in quel preciso istante capita che io sia seduto, non supino né in piedi, il che, peraltro, sarebbe possibile.

Le categorie
Il termine categoria proviene dall'antico linguaggio forense del mondo greco, quando significava capo d'accusa, imputazione di reato. Categorizzare significava accusare, cioè riconoscere un soggetto all'interno di una fattispecie criminale.
Aristotele ha improntato filosoficamente il termine “categoria”, assegnandogli il compito di indicare i predicati dell'essere, cioè tutte le possibili “imputazioni” di cui un soggetto reale può essere fatto segno.

A suo parere sono dieci (omaggio al pitagorismo) i generi ai quali è possibile ricondurre tutti i predicati:
 - la Sostanza gode di un primato: si dice “per sé” e non “per altro”, cioè si predica sempre in riferimento a se stessa e mai in riferimento ad altro. Ciò significa che quando si predica una sostanza (ad esempio uomo), il predicato è capace di presentarsi da sé solo, senza bisogno di un soggetto (sostanziale) di inerenza. Quando infatti si predicano altre categorie (ad esempio bianco), allora il predicato si appoggia necessariamente a un soggetto di inerenza, (per esempio il bianco dell'uomo o il bianco del tavolo).
 - la Qualità e gli altri generi predicamentali, invece, si dicono della sostanza “per altro”. Ad esempio, come si è detto, quando si dice che il tavolo è bianco. Il bianco inerisce (“si applica”, “si appiccica”) al tavolo come sua qualità; il tavolo si porta dietro il suo bianco.
 - la Quantità. Ad esempio, il banco pesa un tot, cioè il peso (o le misure) gli ineriscono.
 - la Relazione dice il riferimento della sostanza ad altro da sé. Il banco sta accanto all'altro, appoggia al muro. La relazione non è una sostanza “terza” tra due sostanze, il banco e il muro dell'esempio, ma è una proprietà sia del banco sia del muro, inerente ad essi.

 

Le categorie

 

 - il Luogo. Bisogna spiegarsi: Aristotele, com'è ovvio, non conosceva Newton; pertanto, non concepiva lo spazio nei termini di relazioni quantitative tra tempo e velocità, nei termini cioè di rapporti numerici misurabili, ma lo intendeva, per così dire, come l'involucro ultrasottile e impalpabile di una cosa, come il primo limite che costituisce il profilo di ogni ente, come l'abito attillatissimo di ogni cosa. Il nostro solito tavolo, quindi, non si sposta di luogo in luogo, secondo Aristotele, ma “si porta appresso” il suo proprio luogo, ovunque venga spostato. Il luogo è, per così dire, il volume della porzione di mondo entro la quale si raccoglie ciascuna sostanza.
 - il Tempo. Fabbricato nel 1998: ha già 11 anni.
 - l'Azione. Il nostro tavolo preme sul tappeto, urta il muro, ostacola il passaggio.
 - la Passione. Il nostro tavolo subisce un'incisione da parte di un vandalo, sopporta un carico.
 - l'Abito. Si tratta di una categoria difficile da identificare: potremmo chiamarla comportamento acquisito, profilo assunto in seguito all'uso, quasi deformazione contratta per usura: ad esempio il piano del nostro tavolo si è incurvato per l'uso ormai decennale e per l'umidità dell'ambiente.
 - il Sito. Analogamente dobbiamo procedere in modo congetturale anche per questa categoria, di difficile chiarificazione. Si tratterebbe di una forma di contesto all'interno del quale la sostanza acquista un ruolo proprio. Ad esempio, il nostro tavolo è “da gioco”.

Aristotele non ha codificato con questo una distinzione rigorosa di ambiti predicamentali; la sua ricerca è, invece, fenomenologica, volta a raggruppare i predicati, senza la pretesa di incasellarli rigidamente. I predicati di qualità possono infatti confluire nella categoria della relazione, così quelli di luogo; abito e sito sono di difficile individuazione; ciò che è quantitativo, poi, è per Aristotele anche qualitativo, senza creare contraddizione. Ci muoviamo, infatti, nell'ambito dell'analogia.

 

La sostanza come forma e come substrato

 

L'esser vero
Il vero, per Aristotele, è l'equivalente dell'essere, perché vale la convinzione ingenua (non critica) che tutto ciò che è, proprio in quanto è, si manifesta e quindi appare alla coscienza, nel significato della sua verità: dire “essere” e dire “esser vero”, per Aristotele è immediatamente equivalente. La riflessione successiva (non di Aristotele) porterà a individuare nel vero uno dei cinque predicati cosiddetti “trascendentali” (uno, vero, buono, cosa e alcunché), cioè capaci di essere convertibili con l'ente, e quindi più ampi delle configurazioni categoriali.

Atto e potenza
L'essere in atto significa l'esercizio reale di qualcosa, la sua configurazione presente, l'essere in potenza, invece, ne significa l'esercizio possibile, la sucettibilità o la versatilità.
La coppia atto/potenza si rivela decisiva, in Aristotele, per la spiegazione del divenire.


La metafisica come scienza della sostanza (usiologia)

La sostanza, si è visto, è la categoria che si predica di per sé, che risulta significativa in se stessa senza dover inerire ad altro per trarne significato compiuto.
Con il termine sostanza (ousía), poi, Aristotele intende significare, secondo l'analogia:
 - la Forma;
 - il Substrato;
 - il Sinolo.
La sostanza è il principio della filosofia aristotelica; mentre per Platone la realtà si configurava in modo pieno e perfetto come idea, per Aristotele il significato più consistente della realtà è quello della sostanza, cioè, in prima istanza, il significato di tutte le cose che si offrono all'esperienza dell'uomo, a partire dallo sguardo che osserva la natura del mondo fenomenico. Aristotele, al di là di Platone, non vuole svalutare il fenomeno, la realtà che appare ai sensi, ma lo vuole interpretare e ne fa l'oggetto proprio della sua speculazione filosofica.


La Forma
Il corrispettivo immanente dell'idea platonica, già lo sappiamo, è la forma (morphé), che in Aristotele gioca il ruolo di principio di determinazione e di versante attuale delle cose. La forma è il profilo interiore di tutto ciò che è in quanto è ciò che è, è la causa formale della sostanza, rappresenta la differenza specifica di ogni ente che si esprime nella definizione.
Aristotele usa una formula un po' criptica per designare la forma: “ciò che era l'essere”.
Per esaminarne il significato dobbiamo partire dalla considerazione del tempo del verbo che vi compare: l'imperfetto. L'imperfetto è il tempo dell'indeterminazione del tempo, cioè quel tempo che esprime un passato non del tutto passato che continua anche nel presente e che si estende al futuro; si tratta, cioè, di un passato eterno che non ha inizio né ha fine.
Ora, alla luce di tale osservazione, possiamo dire che la forma corrisponde alla continuità dell'essere, a ciò che, nelle cose, al di là dei mutamenti di superficie, permane identico al di sotto del tempo. La forma è ciò che l'essere era. L'essere inteso come la permanenza, infatti, non è, ma “era”, proprio come quando i bimbi, giocando nel mondo delle loro finzioni extratemporali, si dicono l'un l'altro: «facciamo che tu eri l'autista del bus, e io ero il signore che doveva salire. Allora, tu non ti fermavi al mio cenno e io, infuriato, ti gridavo le più terribili maledizioni... Dai, lo facciamo?».

La forma, dunque, dice la delineazione fissa di una cosa, ciò che non muta sotto le apparenze: l'intelligenza razionale, infatti, in cui consiste la dignità umana permane anche al di sotto delle sembianze brutali dell'individuo cerebroleso e preesiste nell'individuo allo stato embrionale e ancora non nato: sono uomini!

Il Substrato
Il corrispettivo dell'indeterminata chóra platonica, la “regione informe” di cui il Demiurgo dispone per plasmare il mondo, è in Aristotele il principio di indeterminazione (versante potenziale) presupposto in qualsiasi realtà concreta appartenente al mondo, disponibile come la cera ad assumere la forma di qualsiasi sigillo impresso.
Il substrato è la materia (ýle), ma non è materiale, non si può “toccare”; esso è frutto di un'operazione mentale di progressiva sottrazione di qualsiasi determinazione formale, fino alla più debole.
Il sub-strato, che letteralmente significa “sdraiato di sotto”, è la sostanza che funge da soggetto di inerenza delle forme, quali che siano; è ciò che si presta e che, per così dire, si prostituisce, rendendosi disponibile per assumere tutte le possibili forme
.

 

Il sinolo ilemorfico. Atto e potenza

 

Il Sinolo
Sýnolon è termine intraducibile; significa il “con-tutto”, il “tutto intero”, il “tutto insieme”. È la sostanza nel suo significato più proprio e più aristotelico. Sinolo sono tutte le cose che si incontrano nell'esperienza, strutturate di materia e di forma in un insieme integrale e significativo, concreto e saldo in se stesso, fintantoché non interviene una causa di dissoluzione che opera la trasformazione.
Il sinolo è ciascuna realtà ilemorfica.
La sostanza sinolo, poi, gode di tutti i seguenti caratteri:
 - si predica di per sé, indipendentemente da qualsiasi inerenza predicativa ad altro;
 - sussiste separatamente, in quanto, grazie alla sua compiutezza, è indipendente da altro;
 - è determinata;
 - è unica ed integrale nel suo essere, anche se risulta dall'aggregazione di elementi o di componenti (es.: il “mucchio”);
 - è sempre in atto in quanto considerata di per sé.


Atto e potenza: il divenire

Il divenire delle cose è un dato. Il problema è pensarlo e, quindi, darne un'interpretazione filosofica.

Eraclito aveva presentato addirittura il divenire come il vero nome dell'essere, predicando della realtà il suo divenire e non il suo essere. Parmenide, per contro, aveva stigmatizzato la via del divenire come via della falsità, legata all'illusione dei sensi, legando invece saldamente la verità al criterio razionale dell'essere, espresso dal principio di non contraddizione: l'essere è e non può non essere. Il che, tuttavia, aveva paralizzato il discorso filosofico.
Nel Sofista già Platone aveva superato l'impasse parmenidea scoprendo la modalità del diverso (cioè del contrario) accanto a quella del contraddittorio, e in base ad essa aveva potuto riconoscere che il “non essere altro” del qualcosa significa la sua diversità nell'ambito dell'essere e non, contraddittoriamente, l'opposto dell'essere, ovvero il suo completo e radicale non-essere.
Tuttavia, benché si mostrasse in grado di interpretare il mondo delle idee, finalmente gerarchizzabile, il modello platonico non si era dimostrato in grado di offrire una spiegazione esauriente al divenire delle cose sensibili e aveva aperto all'interno della realtà un'insanabile frattura tra mondo indiveniente (soprasensibile) e mondo diveniente (sensibile).

Aristotele, invece, riesce a superare lo scoglio della contraddizione di ciò che è e che trascorre nel non essere e, viceversa, di ciò che non è e che viene all'essere, grazie ai significati ontologici di atto e potenza, in virtù dei quali il passaggio dall'essere al non essere e dal non essere all'essere non implica più la contraddizione del il principio parmenideo secondo cui l'essere è e non può non essere.
Mediante i modi di essere dell'atto e della potenza, infatti, Aristotele offre la spiegazione del divenire mantenendosi sul piano esclusivo dell'essere, dal momento che le formule “essere in atto” e “essere in potenza”, relativamente al qualcosa, significano entrambe l'essere del qualcosa, senza implicare alcuna parvenza di non essere.

Nella lingua di Aristotele, atto si diceva enérgheia e/o entelécheia; potenza si diceva dýnamis.
Vediamo nel dettaglio i significati dei tre termini per meglio comprendere la valenza della coppia aristotelica atto-potenza:
 - enérgheia si traduce in italiano energia, che significa, sottilizzando, “in-ergía”, “in-operatività”, nel senso in cui diciamo: «è in atto un forte temporale», «è in atto un colpo di Stato», ecc.;
 - entelécheia è intraducibile, ma si potrebbe traslitterare in “in-finalizzazione”, cioè lo stato di raggiungimento della piena corrispondenza alla finalità, che, se si ricorda, non significa lo scopo, ma l'orizzonte di piena comprensibilità della sostanza: possiamo parlare della piena realizzazione dell'essere;



Il divenire sul piano dell'essere

 

 - dýnamis si traduce potenzialità, potenziale, e trova una sua immediata esemplificazione nel concetto di “dinamite”, ovvero qualcosa che si trova in una condizione di totale inerzia, ma che è suscettibile di esprimere un'energia devastante, se opportunamente innescato.

L'esperienza insegna che oltre il modo dell'essere in atto, qualcosa si presenta anche secondo il modo di essere in potenza, cioè di essere capace di diventare altro da sé: il seme, ad esempio, in atto come seme, è nel contempo pianta in potenza, e la pianta, a sua volta, in atto come pianta, è, nel contempo, frutto in potenza, o seme, oppure, altrimenti, barca o armadio. Il tutto senza contraddizione, cioè fatto salvo il principio per cui l'essere non può non essere l'essere che è (nello stesso tempo e sotto il medesimo rispetto).
Resta da osservare che, dal punto di vista gnoseologico (conoscitivo; da gnósis = conoscenza) e dal punto di vista ontologico l'essere in atto detiene il primato, cioè ricopre un ruolo fondativo e riveste un significato ultimativo (finalizzante).
Per Aristotele viene prima la gallina, non l'uovo; dalla gallina, infatti deduco l'uovo, non viceversa.

La soluzione aristotelica del divenire, il passaggio dalla potenza all'atto grazie all'innesco di una causa efficiente, permette di spiegare la trasformazione (trans-forma, da una forma all'altra) senza incorrere nel vietato impiego del non-essere. Atto e potenza, infatti, sono modi dell'essere, entrambi, senza ricorso all'inintelligibile nulla.
Ciò, peraltro, non sembra far scadere il teorema aristotelico in un sistema del necessitarismo per cui ad ogni potenza corrisponda un atto ineluttabile; Aristotele, a maggior ragione, sembra proporsi come il filosofo della contingenza, in quanto la complessità delle cause in gioco nel divenire è tale da garantire, in linea di fatto, l'aleatorietà e l'opinabilità delle conseguenze, non certo la loro necessità. È infatti vero che dal seme di melo nasce sempre (o meglio “innanzitutto e per lo più”) un melo, ma non è detto che, dal melo, sopravvenienti altre cause, derivi una nuova specie di frutto.
Il “fissismo” del sistema aristotelico sembra piuttosto essere un'interpretazione a posteriori più che un implicita conseguenza della sua applicazione alla natura concreta.

 

La dimostrazione della sostanza soprasensibile. La fisica

 

La dimostrazione della sostanza soprasensibile

Per Aristotele esistono tre generi di sostanze gerarchicamente ordinate, due di natura sensibile e uno di natura soprasensibile:
 - sostanze sensibili che nascono e che periscono (tutto ciò che si trova al di sotto del cielo sublunare);
 - sostanze sensibili incorruttibili (tutto ciò che costituisce i pianeti e i cieli ad essi relativi);
 - Dio e le altre intelligenze motrici (preposte al movimento delle diverse sfere di cui il cielo consiste).
I primi due generi di sostanze sono costituiti di materia e forma (sono ilemorfiche), dei quattro elementi quelle corruttibili, di etere puro quelle incorruttibili. La sostanza soprasensibile è, invece forma del tutto priva di materia. Di quest'ultima si occupa la metafisica in quanto scienza di Dio.

L'esistenza del soprasensibile viene dimostrata da Aristotele con un ragionamento complesso.
Se tutte le sostanze fossero corruttibili (ipotesi per assurdo) non esisterebbe assolutamente nulla di incorruttibile.
Ma – dice Aristotele – il tempo e il movimento sono incorruttibili. Il tempo, infatti, non si è generato né si corromperà, visto che, anteriormente alla generazione del tempo, avrebbe dovuto esserci un “prima” e posteriormente alla distruzione del tempo avrebbe dovuto esserci un “poi”, ma essi non sono che tempo. Per il movimento, poi, vale un ragionamento analogo, perché il tempo non è altro che una determinazione del movimento (lo si vedrà nella Fisica).
Un movimento eterno, dunque, non può esistere se non in ragione di una causa adeguata ad esso, cioè un principio primo che sia eterno: se eterno è il movimento, infatti, eterno deve essere anche il suo principio, la sua ragion d'essere.
Tale principio, tuttavia non può essere, a sua volta, in movimento, ma deve essere immobile, perché un ricorso infinito a motori in movimento di realtà in atto di movimento risulta assurdo, in quanto non sarebbe possibile, a partire dall'infinito, constatare l'attualità del movimento esistente nell'oggi.
Se immobile, il principio non può che essere un puro atto, dal momento che la presenza di margini di potenzialità in esso implicherebbero la necessità di un principio motore a sua volta anteriore necessario per l'attuazione di tali potenzialità.
Ora, un principio eterno, immobile e puramente attuale non può che essere una sostanza soprasensibile, del tutto priva di materia, cioè di potenzialità (principio di potenzialità), come si voleva dimostrare.

Come può muovere un principio motore che rimanga assolutamente immobile? Aristotele risponde: «come l'oggetto amato muove l'amante», cioè come l'oggetto del desiderio supremo, vale a dire la perfezione assoluta. La causalità del Primo Principio dunque non è una causalità di tipo efficiente, ma una causalità finale, un orizzonte totale che assicura senso a tutto ciò che in esso è compreso.
Il primo motore immobile è Dio, e come tale gode, immobile, di ogni perfezione: esso è vita, vivo della migliore specie di vita, cioè di vita intellettuale; esso è pensiero di pensiero, cioè pensiero pensante ciò che di più perfetto esiste (ovvero se stesso) in quanto pensiero.
Come tale, in quanto privo di qualsiasi ombra di potenzialità, esso è disinteressato del mondo: è il mondo, infatti, che si interessa ad esso, in quanto orizzonte di totale perfezione, ma esso, come tale, non può che rimanere nella sua perfetta e indifferente immobilità, non può piegarsi a curare le cose del mondo. Amato, non ama.



la fisica

 

La seconda scienza teoretica per Aristotele è la fisica (o “filosofia seconda”), la quale ha come oggetto di indagine la realtà sensibile, intrinsecamente caratterizzata dal movimento. Il termine fisica non deve trarre in inganno: non si tratta della scienza della natura galileianamente intesa, vale a dire quantitativamente intesa, ma di una scienza qualitativa della natura, una sorta di ontologia del sensibile. Siamo di fronte a una considerazione squisitamente filosofica della natura.
Il soprasensibile, continua ad essere considerato causa e ragion d'essere del sensibile e il metodo applicato è lo stesso metodo della metafisica.



Il movimento e la ripartizione del mondo sensibile. Il luogo e il vuoto

 

Il mutamento (movimento)

Il movimento è un dato di fatto originario, per Aristotele, e non può essere messo in dubbio da alcuna considerazione di tipo ontologico (nel senso parmenideo del termine); esso, come sappiamo, è precisamente il passaggio dall'essere in potenza all'essere in atto (sempre sul piano dell'essere). Le categorie secondo le quali avviene il mutamento sono: 1) la sostanza, 2) la qualità, 3) la quantità, 4) il luogo.
Quindi, secondo ciascuna delle quattro categorie, avremo il mutamento:
 - di generazione e corruzione;
 - di alterazione;
 - di aumento e diminuzione;
 - di traslazione.
Naturalmente nell'ambito della fisica valgono le considerazioni fatte circa la dottrina delle cause: forma e materia sono cause intrinseche del divenire, mentre la causa efficiente costituisce il motore in atto che opera il passaggio dalla potenza all'atto del divenire stesso della sostanza e il tutto trova la sia ragion d'essere nell'orizzonte finalistico, per il quale ogni mutamento acquista la valenza di realizzazione e di perfezionamento dell'essere.
Aristotele ha distinto la realtà sensibile in due sfere fra loro nettamente differenziate: da un lato il mondo cosiddetto sublunare e dall'altro il mondo sopralunare o celeste. Il mondo sublunare è caratterizzato da tutte quante le forme di mutamento, fra le quali predominano la generazione e la corruzione. Invece i cieli sono caratterizzati dal solo movimento locale, e precisamente dal movimento circolare. La differenza tra i due mondi, entrambi sensibili, consiste nella diversa materia di cui sono costituiti.
La materia in cui risiede la potenza dei contrari (cioè le condizioni delle varie specie di mutamento qualitativo e quantitativo), infatti, è data dai quattro elementi (terra, acqua aria e fuoco) che possono trasformarsi tra loro (l'acqua raffreddata dà luogo alla terra, l'aria riscaldata al fuoco, l'aria raffreddata all'acqua e l'acqua riscaldata all'aria); la materia che possiede solo la potenza di passare da un punto ad un altro, e che quindi è suscettibile di ricevere il solo movimento locale, invece, è l'etere (letteralmente significa: “che corre sempre”), detto anche “quint'essenza”.
Mentre il movimento caratteristico dei quattro elementi è rettilineo (dal basso verso l'alto quelli leggeri o dall'alto verso il basso quelli pesanti), quello dell'etere è invece circolare perché l'etere non è né pesante né leggero.
L'etere è ingenerato e incorruttibile, non soggetto ad accrescimento e ad alterazione né ad altre affezioni che implichino questi mutamenti; perciò i cieli sono incorruttibili.


Lo spazio e il vuoto

Gli oggetti non sono nel non-essere, che non esiste, ma sono in un “dove”, ossia in un luogo, che dunque è qualcosa che è.
L'esperienza mostra che esiste, prima di tutto, un «luogo naturale» cui ciascuno degli elementi tende, quando non sia contrastato da un ostacolo: fuoco e aria tendono verso l'alto, terra e acqua verso il basso. Alto e basso non sono qualcosa di relativo a noi, bensì qualcosa di oggettivo, sono determinazioni naturali.
Il luogo viene definito come tò próton periéchon (= il più vicino “avente attorno”), cioè una certa forma di limite (o di limitare) impalpabile della sostanza. È da intendersi come il contenente, ma non come il recipiente, cioè come qualcosa di contiguo al contenuto, un recipiente che non si può dissociare dalla sostanza cui inerisce. Da tale definizione di luogo segue che non è pensabile un luogo fuori dell'universo, cioè fuori del tutto, né un luogo in cui sia l'universo: il cielo, infatti è il tutto e come tale non può essere in altro. Così, il movimento del cielo sarà possibile solo nel senso della circolarità su se medesimo, non essendoci “posto” per una qualsiasi traslazione. Il vuoto, pertanto, è impossibile; se al contrario fosse possibile, dovrebbe considerarsi un luogo dove non c'è nulla, una contraddizione in termini.



Il tempo

 

Il tempo

Il tempo non esiste.
Una parte di esso, infatti non è più; un'altra parte non è ancora. L'istante tra le due parti, poi, non ha dimensione alcuna, è soltanto un limite, una soglia tra l'una e l'altra (tra il futuro e il passato).
Dunque, il tempo è fatto di nulla e, pertanto non esiste.
Per parlare di tempo, quindi, occorre parlare di mutamento e di anima, i due termini imprescindibili della realtà del tempo.
Quando infatti non mutiamo nulla all'interno del nostro animo, o non avvertiamo nessun mutamento, ci pare che il tempo non sia trascorso. Diciamo, invece, che il tempo compie il suo percorso quando abbiamo percezione del prima e del poi nel movimento.

Il tempo, perciò, è il numero (numerazione) del movimento secondo il prima e il poi (cioè secondo le fasi del divenire). Se si escludesse il numerante (l'anima), il numerato (il tempo) non sarebbe dato.



L'anima

 

LA PSICOLOGIA

 

L'anima

Per Platone l'anima è la realtà vera dell'uomo, in quanto componente di ordine ideale dualisticamente unita per incorporazione alla materia che costituisce una fastidiosa zavorra, sede della concupiscenza e delle passioni, da cui liberarsi attraverso la pratica delle virtù. Il concupiscibile e l'irascibile, le due parti dell'anima (o due anime) che il Noûs cerca di governare, si presentano nel mito come cavalli bizzosi che comportano la caduta dell'auriga (l'anima intellettuale) nel mondo delle immagini corporee.
Di Platone, la dottrina psicologica di Aristotele conserva soltanto l'idea della tripartizione, che tuttavia viene reinterpretata secondo il consueto criterio fenomenologico che governa gli interessi dello Stagirita.

L'anima è definita da Aristotele nell'ordine della finalità: essa, infatti, è atto (entelécheia) primo di un corpo fisico organico, che possiede la vita in potenza. L'anima costituisce la finalizzazione di un ente organico che, potenzialmente, è capace di esercitare determinate facoltà vitali, legate al suo livello di specializzazione. Tale finalizzazione, appunto, prende il nome di anima (psyché).
Fenomenologicamente (vale a dire a partire da uno sguardo che si sforza di mettere in evidenza l'essenziale delle cose che si manifestano nella realtà) Aristotele distingue tre livelli di animazione degli organismi:
 - un primo livello vegetativo, le cui proprietà consistono nella nutrizione e nella riproduzione;
 - un secondo livello animale, le cui proprietà consistono nella sensazione e nel movimento;
 - un terzo livello intellettuale, le cui proprietà consistono nell'astrarre e nel conoscere.



Il problema dell'intelligenza e i due intelletti

 

A proposito del livello intellettuale dell'anima la tradizione ha imposto una interminabile questione, a motivo della poca chiarezza dei termini usati da Aristotele per parlarne. Nel passo più significativo del trattato Sull'anima, infatti, Aristotele dice che questa facoltà dell'intelletto è “separata”, senza peraltro precisare bene in che senso debba intendersi tale connotazione dell'intelletto; ciò ha prodotto, nella tradizione successiva, una discussione senza fine che ha dato origine a diverse correnti di pensiero aristotelico, diversamente impostate a seconda del significato attribuito a tale separatezza dell'intelletto.

La conoscenza

Per comprendere senza fraintendere il concetto aristotelico di conoscenza, bisogna considerare che, dall'età moderna in poi (da Cartesio in avanti nella storia del pensiero), ci siamo abituati a pensare la conoscenza come un immagazzinamento di esperienza, che avviene all'interno di una sostanza che si chiama (variamente) pensiero, mente, intelletto, cervello, ecc. La conoscenza si configura nel nostro sentire comune come un bagaglio, come una realtà che "entra", chissà come, chissà dove.
Per la mentalità antica, invece la conoscenza è una dinamica di assimilazione alla/della realtà del mondo, l'essere del quale, in un suo modo proprio, consiste nella verità, cioè nella relazione di manifestatività che si attua in quanto "apparire". L'essere dell'ente, infatti, nella misura in cui appare ed esiste, si manifesta "a", cioè è sotto forma di conoscenza in quanto si fa presente alla coscienza.

La natura dell'intelletto, infatti, è per Aristotele la stessa natura delle cose, in quanto astratte e conosciute (intellette), in quanto rappresentate.
L'intelletto, cioè, non è una cosa, ma “le” cose in quanto conosciute; tale manifestazione dell'essere, quella intellettuale, costituisce la prerogativa della fascia più elevata di partecipazione all'atto d'essere all'interno dalla natura, cioè la modalità dell'intelligenza, che, come già si è visto, costituisce la natura del Motore immobile (pensiero di pensiero).
La stratificazione degli “intelletti”, cioè delle conoscenze acquisite, costituisce per Aristotele una sorta di abito intellettuale, cioè di possesso o di patrimonio a disposizione della conoscenza, che costituisce la scienza: essa si definisce “abito intellettuale” (ciò che è avuto dalla conoscenza), la familiarità con i principi e le nozioni.

Aristotele, dunque, distingue un intelletto agente e un intelletto recettivo, l'uno paragonabile a un fascio di luce che investe l'intelligibile (la forma) da astrarre e da conoscere nella realtà, l'altro che effettivamente conosce, facendosi capace delle cose sotto l'aspetto della forma (o della specie astratta). Naturalmente ciò non significa che si diano nell'uomo "due" intelletti, quasi una forma di schizofrenia, ma che, filosoficamente, nell'intelletto si possono considerare l'aspetto potenziale e l'aspetto attuale, cosa che non accade al livello massimo dell'intelligenza, nel Motore immobile, che consiste di un'attualità assoluta.
Le cose, dunque, si presentano all'indagine filosofica come realtà intelligibili, vale a dire in potenza alla conoscenza, suscettibili di conoscenza, e come realtà intellette, cioè attualmente realizzate entro l'orizzonte della manifestatività dell'intelligenza.



Il complesso sensitivo e l'astrazione

 

Il complesso sensitivo

L'ambito (animale) della conoscenza comprende una complessa articolazione di funzioni che, in prima istanza, si distingue nell'apparato dei sensi esterni e di quelli interni. I sensi esterni sono i cinque sensi cui siamo abituati a pensare parlando in generale di sensi. È comunque da tenere presente che il termine “senso” (come il termine intelletto) è in realtà da considerarsi un participio passato (sensato), il che sta a significare che in verità il senso non è l'organo di senso, come comunemente siamo abituati a pensare, ma l'oggetto proprio della sensazione, cioè il sensibile che si è attuato attraverso, appunto, la sensazione. Il senso, dunque, è la (cosa) “vista”, il (suono) “udito”, il (sapore) “gus(ta)to”, l'(odore) “olfatto”, il (ruvido) “tatto”: una serie di participi passati, dal verbo udire, vedere, ecc.
Ogni organo di senso ha un sensibile proprio (come il colore per la vista e il suono per l'udito) e dei sensibili comuni (come la forma per la vista e per il tatto).

I sensi interni sono quattro, vale a dire memoria, immaginazione, estimativa e senso comune.
Possiamo facilmente associare la memoria al ricordo e l'immaginazione alla combinazione e alla dissociazione dei referti dei sensi esterni o interni, mentre dobbiamo considerare l'estimativa come quel senso che presiede all'appetito e al rifiuto, all'attrazione e alla ripulsa. Il senso comune, infine, è la regia interna della sensazione, cioè il sensorio che permette l'organizzazione unitaria di tutti i dati della sensazione, coordinati e conformati secondo un “fantasma sensibile”, ciò che, in definitiva, viene sottoposto alla “radiazione” dell'intelletto agente e da cui viene astratta la forma intelligibile, per la conoscenza intellettuale del concetto.



L'unità dell'intelletto agente. L'etica

 

Il problema della separatezza dell'intelletto

L'atto intellettivo è analogo all'atto percettivo, in quanto è un ricevere o assimilare le forme intelligibili, così come quello era un assimilare la forma sensibile, ma differisce profondamente dall'atto percettivo, perché non è mescolato al corpo e al corporeo:

Circa la parte dell'anima, con cui essa conosce e pensa – sia essa qualcosa di separato, oppure di non separabile spazialmente ma solo idealmente – bisogna vedere quale caratteristica essa possiede, e come mai si produce il pensare. Ora, se [per assurdo] il pensare è come il sentire, deve essere un subire alcunché da parte del pensato, o qualche altra cosa del genere. Ma allora, a rigore, esso non deve subir nulla, ma soltanto accogliere la forma, e diventare in potenza simile alla cosa ma non già di fatto la stessa cosa: insomma la relazione del pensante al pensato deve essere simile a quella del senziente al sentito. Occorre, di conseguenza, che l'intelletto, in quanto pensa tutto, sia scevro di ogni mescolanza, come appunto Anassagora dice che deve essere affinché possa "dominare" il che vuol dire: affinché possa conoscere. Qualunque cosa estranea, che si presentasse in mezzo, opererebbe infatti come un ostacolo e una preclusione: quindi l'intelletto non può avere proprio nessuna natura, se non appunto questa, dell'essere potenzialità. Quel che dunque, nell'anima, chiamiamo Noûs (e intendo, con questo nome, ciò con cui l'anima pensa e opina) non è, in atto, nessuna delle realtà esistenti, prima del suo effettivo pensare. E perciò non è ragionevole che esso sia commisto col corpo: perché subito acquisterebbe una certa qualità, e sarebbe freddo o caldo, oppure sarebbe uno strumento di una certa specie, come è l'organo del senso. Ora, invece, non è nulla di questo. E hanno ragione quelli che dicono che l'anima è il luogo delle forme ideali: salvo che ciò non va detto di tutta l'anima, ma solo di quella pensante, e che le forme ideali non vi esistono in atto ma solo in potenza. E che l'immunità dal subire azione non sia uguale nel caso della facoltà intelligente e di quella senziente, è chiaro se si considerano gli organi di senso, e la sensazione stessa. Se infatti, in ciò che vien percepito sensibilmente, la percepibilità è troppo intensa, il senso non può sentire: così, i suoni troppo forti non vengono distinti, e lo stesso vale per i colori troppo luminosi, e per gli odori troppo violenti. Ma quando l'intelletto pensa un pensiero che sta al più alto livello della pensabilità, non perciò esso ha minore capacità di pensare le cose di minor conto, anzi ne ha di più. Ché l'organo del senso non sta senza il corpo, mentre l'intelligenza sta per conto suo. E quando, in tal modo, l'intelligenza diventa tutte le cose, così come accade a colui che vien chiamato sapiente quando trasforma la sua capacità in atto (e ciò ha luogo quando questo suo attuarsi dipende solo da lui stesso), anche allora essa è, in certo modo, in potenza, per quanto non nello stesso senso in cui lo era prima di aver appreso e di aver scoperto. Così allora l'intelletto può pensare da se medesimo.

Anche il conoscere intellettivo, dunque, così come quello percettivo, è spiegato da Aristotele in funzione delle categorie metafisiche di potenza e atto.
L'intelligenza è, di per sé, capacità e potenza di conoscere le pure forme; a loro volta, le forme sono contenute in potenza nelle sensazioni e nelle immagini della fantasia; occorre pertanto qualcosa che traduca in atto questa doppia potenzialità, in modo che il pensiero si attualizzi cogliendo in atto la forma, e la forma contenuta nella immagine diventi concetto in atto colto e posseduto:

E c'è dunque un intelletto potenziale in quanto diventa tutte le cose e c'è un intelletto agente in quanto tutte le produce, che è come uno stato simile alla luce: infatti anche la luce in un certo senso rende i colori in potenza colori in atto. E questo intelletto è separato, impassibile e non mescolato e intatto per sua essenza: infatti l'agente è sempre superiore al paziente e il principio è superiore alla materia [...]. Separato [dalla materia], esso è solamente ciò che appunto è, e questo solo è immortale ed eterno.

Riguardo al paragone con la luce, è da pensare che, come i colori non sarebbero visibili e la vista non li potrebbe vedere, se non ci fosse la luce, così le forme intelligibili che sono contenute nelle immagini sensibili resterebbero in queste allo stato potenziale e l'intelletto potenziale non potrebbe a sua volta coglierle in atto, se non ci fosse come una luce intelligibile, che permetta all'intelletto di "vedere" l'intelligibile e a questo di essere veduto in atto.
L'affermazione, invece, secondo la quale l'intelletto viene dal di fuori, significa che esso è irriducibile al corpo per sua intrinseca natura, e che dunque trascende il sensibile. Il che significa che nell'uomo c'è una dimensione metempirica, soprafisica, divina. L'intelletto agente, quindi, rispecchia i caratteri del divino e soprattutto la sua assoluta impassibilità:

Ma l'intelletto sembra che sia in noi come una realtà sostanziale e che non si corrompa. Infatti, se si corrompesse, dovrebbe corrompersi per l'indebolimento della vecchiaia. Ora accade invece ciò che accade agli organi sensoriali: se un vecchio ricevesse un occhio adeguato, vedrebbe alla stessa maniera di un giovane. Pertanto la vecchiaia non è dovuta ad una affezione che patisce l'anima, ma il soggetto in cui l'anima si trova, come avviene negli stati di ubriachezza e nelle malattie. L'attività del pensare e dello speculare illanguidisce quando un'altra parte all'interno del corpo si guasta, ma essa è di per sé impassibile (apathés). Il ragionare, l'amare o l'odiare non sono affezioni dell'intelletto, ma del soggetto che possiede l'intelletto, appunto in quanto possiede l'intelletto. Perciò una volta che questo soggetto sia perito, non ricorda e non ama: infatti ricordare e amare non sono propri dell'intelletto ma del composto che è perito e l'intelletto è certamente qualcosa di più divino e impassibile.

Questo intelletto è individuale? Come può venire "dal di fuori"? Che rapporto ha con l'individualità e l'io? Quale rapporto ha con il comportamento morale? È completamente sottratto a qualsiasi destino escatologico? Che senso ha il suo sopravvivere al corpo?
Sono problemi cui Aristotele non ha fornito una risposata.

 

L'etica

 

La disciplina morale (etica) concerne gli atti umani, cioè quegli atti che sono presieduti da deliberazione, in quanto è in gioco qualcosa che promuove (nel bene) o lede (nel male) la dignità stessa dell'uomo, cioè la sua specificità razionale e la sua libertà.
In quanto disciplina degli atti, la morale concerne i fini che motivano le scelte dell'uomo, primo fra tutti la felicità. La felicità, in quanto sommo bene, risulta desiderabile di per sé, cioè non in vista di altro da sé.
Tra bene ed essere non corre differenza, in quanto si dice bene l'essere nella sua piena realizzazione, non qualcos'altro che esuberi dall'essere stesso; d'altronde, essere e fine (nel senso di finalità, non certo di scopo) si identificano, in quanto la finalità rappresenta l'orizzonte di significato entro il quale ogni cosa si realizza, quindi il suo essere pienamente.


Felicità e virtù

Stante la revisione del platonismo, per la quale Aristotele ha escluso che il significato della realtà sia un'idea trascendente, così anche per il fine primario, la felicità, dobbiamo egualmente pensare che essa non possa trovarsi al di fuori dell'uomo, in un mondo separato, ma che debba inerire intimamente all'uomo e quindi proporsi come fine e bene immanente. Il bene supremo per l'uomo, perciò, il fine felicitante, potrà identificarsi con ciò che gli è primariamente peculiare dal punto di vista dell'essere, cioè con la ragione e con l'attività secondo ragione.
Operare secondo ragione, tuttavia, implica l'operare secondo il criterio della virtù, cioè mediante quelle disposizioni che favoriscono la realizzazione dei fini. La felicità, dunque, consiste in un'attività dell'anima secondo virtù.
Come ogni livello dell'anima ha un'attività peculiare, così ciascuno ha una sua peculiare virtù, tenendo comunque conto del fatto che la virtù veramente umana è quella in cui rientra l'attività della ragione. Pertanto, dobbiamo osservare che, mentre la facoltà vegetativa non impegna la ragione, la facoltà sensitiva, pur essendo di per sé irrazionale, in qualche modo partecipa della ragione, nella misura in cui viene temperata nei suoi appetiti propri. Si può allora parlare, a questo livello di “virtù etiche”.
Quando infine prendiamo in considerazione la facoltà intellettiva, allora questo sarà il campo della virtù più propriamente umana, che prenderà il nome di “virtù dianoetica” (dianoetico significa “attraverso il conoscitivo”).


Le virtù etiche e le virtù dianoetiche

Le virtù etiche sono numerose come numerosi sono gli impulsi e gli appetiti sensitivi che la ragione è chiamata a moderare.
Si apprendono mediante l'esercizio e si consolidano come “abiti” dell'animo in chi si esercita costantemente. Consistono nella moderazione degli estremi, cioè nella “medietà” delle inclinazioni: tra l'eccesso della temerarietà e il difetto della pavidità (entrambi vizi) si troverà, mediante l'esercizio razionalmente governato, il giusto mezzo del coraggio; tra il difetto dell'avarizia e l'eccesso della prodigalità ci sarà il giusto mezzo della liberalità; tra il difetto dell'ostilità e l'eccesso dell'adulazione ci sarà il giusto mezzo dell'amabilità; ecc.
Al di sopra delle virtù etiche, secondo Aristotele, si collocano le virtù della parte più elevata dell'anima, cioè dell'anima razionale. Sostanzialmente le virtù dianoetiche sono due, la saggezza e la sapienza, relative rispettivamente alla conoscenza delle cose contingenti e transitorie e a quella delle cose necessarie e immutabili.
In ordine alla felicità, al primo posto dobbiamo collocare la vita condotta secondo le virtù dianoetiche, in secondo luogo quella condotta secondo le virtù etiche.
La felicità della vita contemplativa porta in qualche modo al di là dell'umano, realizzando una sorta di tangenza con la divinità, la cui vita può soltanto essere vita contemplativa (pensiero di pensiero). Assimilarsi a Dio significa contemplare il vero così come Dio lo contempla, e anche, contemplare Dio, che è la suprema razionalità.


L'amicizia e il piacere

Legata alla felicità è, secondo Aristotele, l'amicizia, imprescindibile per una vita soddisfacente, insieme con una relativa indipendenza dovuta agli agi e alle ricchezze. Tre sono le cose che l'uomo ama e per cui fa amicizia: l'utile, il piacevole e il buono. A seconda che un uomo cerchi in un altro l'utile, il piacevole o il buono, nasce un'amicizia di specie diversa. Tre, dunque, sono le specie di amicizia.
L'amicizia è tuttavia un fatto accidentale; colui che è amato, infatti, non viene amato per via di quello che è, ma in quanto procura chi un bene chi un piacere. Data questa caratteristica, pertanto, l'amicizia duratura è quella fondata sulla virtù, quella dei buoni e dei simili nella virtù. Per essere amici veri, quindi, occorre essere proporzionati negli atteggiamenti e nelle aspettative, nonché nel ceto di appartenenza, e nelle caratteristiche più salienti.
L'amicizia intesa come benevolenza e gratuità, invece, è un concetto del tutto alieno alla mentalità aristotelica.

La risonanza soggettiva della felicità oggettivamente goduta è il piacere, che si manifesta, appunto, ogniqualvolta la felicità si realizza in un ambito della vita. Il piacere non è, per Aristotele, una forma di riempimento o di completamento, ma è un'attività in ogni momento perfetta: il piacere si accompagna ad ogni attività e la perfeziona. Il criterio del piacere è, ancora una volta la virtù, attraverso la quale è possibile stabilire una gerarchia di piaceri, più o meno buoni.

Psicologia dell'atto morale

Aristotele tenta di superare l'intellettualismo etico e i suoi paradossi. Da buon realista, infatti, si è accorto che la dimensione dell'intelletto spiega il bene e il male dal punto di vista ideale, nell'ambito cioè della della conoscenza, ma non dà nessun contributo interpretativo quando si tratta di distinguere tra la conoscenza del bene e del male e la loro attuazione.
In primo luogo chiarisce come si distinguano le azioni volontarie da quelle involontarie: le prime sono quelle il cui principio risiede in chi agisce, le seconde sono quelle che si compiono per costrizione o per ignoranza. Secondo Aristotele, peraltro, sono volontarie anche le azioni degli animali e le azioni spontanee dell'uomo o anche quelle che si producono sotto l'influsso delle passioni.
In secondo luogo Aristotele spiega che le azioni volontarie più proprie dell'uomo sono caratterizzate da una scelta (prohaíresis), la quale implica un ragionamento e una riflessione, cioè implica una deliberazione.
Per deliberazione si stabiliscono quali siano le azioni che servono per raggiungere uno scopo, per scelta si attuano tali azioni scartando tutto ciò che sarebbe irrealizzabile.

La scelta, tuttavia non corrisponde ancora alla volontà: essa infatti, riguarda i mezzi per raggiungere il fine, non il fine stesso. È invece la volizione del fine che ci rende buoni o malvagi, ma ancora una volta tale volizione appare essere un fatto teoretico piuttosto che pratico, cioè legato intellettualisticamente al sapere delle cose e piuttosto che al volere.
Di fatto Aristotele sposta il problema dei paradossi intellettualistici della morale, introducendo la mediazione della deliberazione e della scelta tra l'uomo e il fine, ma non lo risolve. Bisognerà attendere il Cristianesimo per avere un'idea chiara, grazie al supporto della Rivelazione, sul significato della volontà del bene e del male.