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CLASSE   III   -   Sintesi di Filosofia (2)

Socrate. Le fonti e il metodo: l'ignoranza

 

SOCRATE

 

Le fonti

Volendo eccedere, si potrebbe affermare che Socrate non sia mai esistito; quanto meno come quel Socrate che siamo abituati a conoscere dalla tradizione.

Socrate nacque ad Atene nel 470/469 a. C., partecipò alla vita militare della città ma poco a quella politica (se per politica si intende l'agone per il potere e l'onore demagogicamente costruiti), si dedicò poco a qualsiasi altra attività (redditizia) che non fossero la discussione e l'insegnamento (gratuiti), vivendo probabilmente alle spalle della moglie Santippe, dalla quale ebbe almeno un figlio e con la quale visse un rapporto continuativo benché non idillico.
Suo padre Sofronisco esercitava l'arte dello scultore e sua madre Fenarete quella della levatrice; disse sempre di avere appreso molto dalla madre, qualcosa come l'essenziale del suo metodo di lavoro.
Morì giustiziato dal tribunale ateniese (sorbendo la cicuta in carcere), perché accusato di essere ateo (o di non credere negli dei patri) e di essere corruttore delle giovani generazioni.
Di lui, oltre le notizie biografiche spicciole, abbiamo informazioni da diversi autori, che volta a volta lo denigrano o lo esaltano. Non abbiamo invece nessuno scritto, per il suo deliberato proposito di esercitare la filosofia solo oralmente, come una “frizione” di anime a confronto.
Il commediografo Aristofane, suo contemporaneo, ne traccia un ritratto irrisorio e polemico nella commedia dal titolo Le nuvole, in cui Socrate è rappresentato come uno scienziato estremamente originale e fanfarone che costruisce teorie assurde oltre che nefande.
Il discepolo Senofonte, importante storiografo autore dell'Anabasi e della Ciropedia, nei Memorabili socratici restituisce una figura socratica che rispecchia non un grande filosofo, ma un piatto moralista.
Il filosofo Aristotele, invece, si rifà a Socrate attraverso quanto ne ha detto il discepolo di lui Platone, il quale lo fa mirabilmente risaltare come il sapiente protagonista dei propri dialoghi, facendone le parti al punto da non potersi effettivamente discernere dalla sua figura e da rendere legittimo l'interrogativo sulla sua effettiva identità.

La tradizione, tuttavia, ne ha sempre più consolidato lo spessore, personale e teoretico, facendolo passare per un pensatore del tutto autonomo e chiaramente riconoscibile anche all'interno del filtro platonico.

Il metodo

Socrate, come si è detto, ritiene che la filosofia sia un esercizio dialogico, volto al parto della verità.
L'attuazione del suo discorso si articola secondo un metodo a tre fasi:
 - l'ignoranza (non sapere),
 - l'ironia,
 - la maieutica (cioè l'arte ostetricia).
La prima fase significa quell'atteggiamento di “dotta” ignoranza per cui Socrate si pone di fronte all'interlocutore come colui che non sa in partenza la soluzione del problema, che, cioè, non presume di conoscere l'oggetto della discussione, ma ritiene di doverlo apprendere attraverso il confronto dialogico. Davanti al discorso “magistrale” del sofista, che dispone la materia secondo un crescendo di persuasività, Socrate si dice ammirato, conquiso, soddisfatto ... salvo che per qualche piccolo, insignificante particolare dell'argomento che, per distrazione o per lentezza, gli è sfuggito (!) nel suo significato.



L'ironia e la maieutica. L'etica intellettualistica

 

Proprio questo atteggiamento di “modesto” ridimensionamento delle proprie capacità conoscitive, a fronte dell'ostentazione dei sofisti, costituisce il punto di inizio della seconda fase del metodo, in cui ironicamente, incalzando l'interlocutore con l'ostinata ricerca di un “che cos'è” stabile ed univoco, Socrate riesce a ridurlo alla contraddizione e al silenzio, nel riconoscimento dell'effettiva inconsistenza delle tesi così baldanzosamente sostenute nella fase precedente.
A questo punto, su richiesta dell'interlocutore ridotto all'ignoranza, inizia la terza fase del metodo, in cui Socrate, memore dell'arte materna, conduce l'attonito interlocutore a risposte concise e consequenziali fino al “parto” della verità, cioè la visione finalmente chiara dell'oggetto del contendere che ha costituito la materia del dialogo.

Socrate fa rimarcare, tuttavia, la propria sterilità, cioè la strutturale incapacità, da parte sua, di elaborare da sé solo un parto veritativo, ma la necessità, per lui, di trovare qualcun altro per poterlo aiutare nell'atto di produrre la verità.

La questione della delimitazione dei termini nel discorso

Anacronisticamente (=secondo un'errata prospettiva temporale) Socrate è stato a lungo studiato come l'inventore del concetto, complice l'interpretazione Aristotelica.
Si tratta, certo, di una lettura comprensibile, visti i risultati della sua ricerca, ma ugualmente inaccettabile dal punto di vista storico. Soltanto con Aristotele, infatti, la logica ha ottenuto la consapevolezza sufficiente per potersi parlare a buon diritto di concetto (e, conseguentemente, di definizione).

Il concetto, a partire dalla logica aristotelica, può definirsi come la nozione universale e necessaria, cioè la prima unità conoscitiva che si distingue per la sua caratteristica astrattezza e per la predicabilità di per sé; il concetto è il primo elemento del discorso, è la conoscenza elementare (nel senso che è l'elemento primario di ogni conoscenza); è una nozione (notizia, nota interiore) universale e necessaria.
Universale significa “che si dice, si predica di molti”, il che implica l'astrattezza, la non-individualità, e la pura intelligibilità, slegata da qualsiasi concretezza materiale; necessario significa “strutturale, strutturalmente costituente, irrinunciabile” (necessario, in filosofia, non comporta nessuna relazione di bisogno, né alcuna forma di relazione con la figura del destino).
Un concetto, date tali caratteristiche, non contiene alcunché di “visibile”, di “palpabile”, ecc.; è una pura astrazione che si costituisce come possibilità di riconoscimento di una determinata natura all'interno della complessità del reale.
Il concetto di ruota, per esempio, non è certo dotato di pneumatico né di mozzo, né di raggio; corrisponde semplicemente all'intuizione della possibilità del rotolamento. È il concetto, infatti, che permette la scoperta e l'invenzione.

Il concetto non è né vero né falso, dal momento che si tratta di un pura intuizione. La verofalsità è questione che si pone a partire dalla connessione di concetti, cioè al livello della formulazione di una proposizione (giudizio).

Il concetto, poi, si esprime nella definizione, che, ancora, non è né vera né falsa, ma può essere “buona” o “non buona”, ben formulata o scadente.
Una buona definizione contiene in sé stessa soltanto due elementi, il genere prossimo (cioè il più vicino nella scala dei generi) e la differenza specifica, cioè la causa formale della propria specificità. Ad esempio: uomo è il concetto che si esprime nella definizione “animale ragionevole”; se si dicesse diversamente, per esempio, che uomo è “ente ragionevole”, la definizione sarebbe meno soddisfacente della prima perché il genere ente non è nella prossimità della specie razionale, ma di diversi gradi a monte, talché ci si potrebbe domandare a buon diritto se l'uomo sia anche vegetale, visto che una specie dell'ente vivente è anche quella vegetale, oltre che quella animale.

Socrate, tuttavia, non conosce tecnicamente né il concetto né la definizione e non ne ha formulata la teoria.
Applicando il metodo dell'ironia, peraltro, egli incalza l'avversario con l'interrogativo «che cos'è?» (tí estí), per riuscire ad ottenere da lui una formula breve, sintetica, esatta e univoca dell'oggetto della discussione.
Socrate, cioè, vuole ottenere che l'avversario fissi definitivamente i limiti di significato di un termine per potersene servire univocamente nel corso di tutta la discussione successiva, evitando così che la relatività definitoria faciliti il tergiversare retorico dell'argomentazione fino a dimostrare antilogicamente.
L'ignoranza e l'ironia, pertanto, mediante l'incalzare della domanda circa il «che cos'è», mirano al parto della verità sulla base della visione sempre più chiara, precisa e sicura che il dialogante perviene a formulare dell'oggetto in questione.
La necessità di giungere ad una delimitazione di significato è dunque funzionale, in Socrate, allo smascheramento del relativismo sofistico. Precisare incontraddittoriamente un significato, infatti, significa evitare di poter discutere a partire dagli aspetti accidentali di una cosa anziché dalla sua effettiva sostanza.
Il procedimento socratico, così, ha potuto facilmente portare all'interpretazione anacronistica di cui si diceva all'inizio; Socrate ha di fatto posto le premesse teoriche per la scoperta del concetto, pur non avendone teorizzato la natura.

La virtù come scienza

Entriamo nel contesto della morale.
La morale è la dottrina/disciplina dei costumi, cioè delle consuetudini, cioè delle azioni attuate in un contesto libero, volontariamente. L'azione morale è l'azione libera che in qualche modo, direttamente o indirettamente coinvolge la dignità umana. In una filosofia di impostazione realistica il criterio morale ultimo dell'azione è, per l'appunto, l'uomo e la sua dignità.

La morale socratica ruota attorno al concetto di virtù. Il tema della virtù, d'altronde, era al centro dei dibattiti sofistici.
Il termine virtù, sia in latino (virtus) sia in greco (areté), trae il proprio significato dalla radice del termine uomo (in latino vir, in sanscrito ar-), cioè dall'idea del vigore, della forza dell'indole mascolina. Per i greci, in generale, virtù stava a significare il meglio della realizzazione di qualsiasi cosa, il vigore, l'essere nel pieno della forza per qualsiasi realtà, l'espressione ottimale di tutte le potenzialità di un qualcosa.
Riguardo all'uomo, all'interno dell'agone politico, la virtù poteva essere volta a volta identificata dalla sofistica nell'astuzia, nella capacità di persuadere, nell'appariscenza e nella bellezza piuttosto che nella bravura retorica.

Socrate, in base a quanto detto appena sopra, cerca con il suo metodo di correggere questo atteggiamento di deriva del significato per trovare la formulazione risolutiva della virtù, in modo da sottrarla al relativismo delle posizioni sofistiche. Per fare ciò, ricerca una costante che possa riscontrarsi in tutti gli atti e le qualità umane che possano riconoscersi come virtuosi, trovandola nella consapevolezza, vale a dire nel sapere circa ciò che si fa o ciò che una qualità significa.

 

La scienza come virtù. Platone: il rapporto tra politica e filosofia

La virtù, pertanto, è scienza.
In quanto scienza, la virtù non può essere considerata patrimonio innato di qualche uomo a fronte dei viziosi, ma un bene che può essere conquistato da tutti e che, di conseguenza, può e deve essere insegnato. La virtù diventa l'obiettivo del vero uomo politico che, pensando al bene comune, pensa prima di tutto all'educazione degli altri uomini, perché possano rendersi partecipi della scienza, la quale costituisce il criterio dell'agire bene.
Oltre a ciò, la virtù, sempre in quanto scienza, viene sottratta al relativismo di una molteplicità di accezioni, venendo per contro ricondotta all'univocità dell'unico significato di scienza, senza più possibilità di fraintendimento o di malversazione retorica.

Conseguenza logica, ma paradossale, di tale conclusione è che, per Socrate, nessuno è vizioso (o anche malvagio) a ragion veduta, ma può esserlo soltanto per ignoranza, ignoranza (del bene) che si trasforma nell'incapacità o addirittura nell'impossibilità di dare compimento alla virtù.
A corollario di questa osservazione, bisogna peraltro sottolineare che la mentalità greca non ha mai avuto, a livello teoretico, il sentore dell'esistenza della volontà, il versante pratico dell'intelligenza, la volontà, appunto, in base alla quale soltanto l'uomo è in grado di affermare o di negare l'essere di ciò che ha conosciuto, potendo pertanto compiere il male (cioè sottrarre il bene alle cose) ben conoscendo il significato negativo dell'azione intenzionata.
Ciò, tuttavia, non significa che l'intellettualismo etico socratico (e in generale di tutta la filosofia greca fino alla formazione del pensiero filosofico cristiano) debba essere considerato in connotazione negativa come un ammanco speculativo imperdonabile e tale da svalutare gli apporti progressivi della disciplina pratica della filosofia antica. Si tratta soltanto di seguire il pensiero nel suo effettivo e storico sviluppo.

La religione di Socrate

Nel greco classico “religione” si dice eusébeia, che significa “buon ossequio”, rispetto, devozione.
L'eusébeia classica riguarda più che gli dei in quanto tali le istituzioni, le leggi, i giuramenti, i morti, la famiglia, lo Stato; soltanto in ultima istanza riguarda anche gli dei in quanto preposti dalla mentalità popolare a tutte queste cose, in qualità di protettori piuttosto che di tutori.
Socrate fu religioso?
Nell'accusa sostenuta da Anito, Meleto e Licone Socrate figurava come ateo o miscredente, ma nei dialoghi platonici egli è sempre presentato come il maestro abitato da un sacro rispetto nei confronti di un demone (daímon, da non confondere con il demonio), un dio che lo sospinge nella sua attività di indefesso educatore; si trattava di una sorta di personalità intima, una spinta cui Socrate non poteva sottrarsi e che gli faceva esercitare quell'arte maieutica per la quale si disponeva sempre a fare partorire le menti degli altri senza mai potere, da se stesso, generare nulla di vero, sterile come ogni buona levatrice.
Socrate fu dunque religioso, benché distaccato dai culti popolari e dalla religione di Stato, che non gli interessava per nulla, dimostrandolo anche nel rispetto supremo delle leggi della città che, pur ingiustamente, lo avevano condannato. Nella propria Apologia egli identifica la divinità come intelligenza e come bene e dopo la condanna dichiara di essere convinto che la causa dell'uomo giusto è nelle mani degli dei.


L'accusa e la morte

Ritenuto colpevole di non riconoscere come dei quelli tradizionale della città, ma di introdurre divinità nuove, nonché di corrompere le giovani generazione, Socrate avrebbe potuto cercare di scagionarsi di fronte alla proposta di morte a lui comminata come pena, ma non lo fece. Al contrario, nella sua Apologia, dichiarò orgogliosamente che si sentiva meritevole di essere nutrito a spese pubbliche nel Pritanéo, come si faceva coi benemeriti della città.
Ne seguì, allora, a forte maggioranza, la pena di morte che era stata chiesta dagli accusatori.
Affrontò la morte con massima serenità, come appare dal Fedone platonico.


Le scuole socratiche minori

Il grande interprete di Socrate fu Platone.
Altre scuole filosofiche, tuttavia, si ispirarono per qualche aspetto, ma solo estrinsecamente, alla sua filosofia, allontanandosi di fatto dall'insegnamento fondamentale del maestro:
 - Scuola megarica (fondata da Euclide di Megara): si specializzò nello sviluppo di argomenti che appartengono al genere di quelli che oggi si chiamano antinomie o paradossi, cioè argomenti indecidibili, nel senso che non si può decidere sulla loro verità o falsità. Il più famoso di essi è quello del mentitore (Tizio, bollatese, dice che tutti i bollatesi sono mentitori; mente o dice il vero?)
 - Scuola cinica (fondata da Antistene di Atene; prende il nome dal genere di vita, “da cani”, che conducevano i suoi aderenti): con Diogene tale scuola portò all'estremo il disprezzo verso le comodità e gli agi della vita.
 - Scuola cirenaica (fondata da Aristippo di Cirene): riteneva che il criterio della verità risiedesse nella sensazione e che il fine dell'uomo fosse il piacere, da cogliere sempre nell'attimo.

 

 

PLATONE

 

Si colloca in un periodo critico della storia greca (IV secolo a. C.), che corrisponde al tramonto dell'età di Pericle e all'imperversare del relativismo sofistico, il cui risultato più evidente è stata la condanna di Socrate; per contro egli avverte la necessità di una rifondazione generale dell'esistenza umana, su un piano diverso da quello dell'esperienza immediata, ritenendo che soltanto nuove certezze di pensiero possano offrire solide basi per una riedificazione integrale dell'uomo.



Il significato del dialogo e la periodizzazione. Il mito.

 

Di Platone ci sono rimaste tutte le opere. Abbiamo un'Apologia di Socrate, 34 dialoghi (alcuni probabilmente spuri) e 13 lettere. Si è soliti, approssimativamente distinguere la produzione dialogica in tre periodi:
 - scritti giovanili o socratici: Apologia, Critone, Gorgia, Protagora, Lachete, Cratilo, Eutidemo, Repubblica (I), ...;
 - scritti della maturità: Menone, Fedone, Convivio, Repubblica (II-X), Fedro;
 - scritti della vecchiaia: Parmenide, Teeteto, Sofista, Timeo, Leggi, ...; anche le lettere VII e VIII.
Fonti antiche riferiscono anche di corsi tenuti da Platone Intorno al Bene, che non furono messi per iscritto, ritenendosi che la dimensione dell'oralità fosse più adatta alla profondità dell'argomento. Si tratterebbe delle cosiddette Dottrine non scritte, in cui egli avrebbe sviluppato una sorta di metafisica a sfondo pitagorico incentrata sui concetti di Uno e di Diade.


Platone e Socrate: la filosofia in dialogo

Le dottrine tipiche e fondamentali del platonismo non hanno nulla a che fare con la lettera dell'insegnamento socratico, tuttavia, la ricerca platonica tende a configurarsi come uno sforzo di interpretazione della personalità filosofica di Socrate. Il dialogo, non a caso, esprime la necessità di una filosofia sempre aperta al confronto e mai stesa con un significato definitivo, come sarebbe se, in luogo dei dialoghi, Platone avesse scritto trattati.
La filosofia, per Platone come per Socrate, è una ricerca inesauribile e mai conclusa, un infinito sforzo.

Platone si impegna nel dare fondamento alle dottrine praticate, ma non teoreticamente giustificate, del maestro Socrate; la filosofia platonica, cioè, si propone spesso come chiarificazione delle ragioni sostanziali di ciò che Socrate sosteneva senza esibire dimostrazione.

Il recupero e la funzione del mito

Alla nascita della Filosofia in Grecia si è soliti porre il passaggio dal mito al Lógos. Alla spiegazione enigmatica e simbolica del mito, infatti, si venne sostituendo il procedimento razionale e deduttivo, con il conseguente progressivo abbandono dell'analogia delle immagini.
Con Platone, ora, il mito rientra nella filosofia, non più nei termini spiegazione ultima dell'intera realtà, ma in qualità di momento metodico funzionale al superamento della ragione, quando essa, circa problemi particolari, non ancora sufficientemente equipaggiata per affrontare l'elevazione di pensieri troppo astratti e rarefatti, non riesce più a proseguire nel discorso logico-dialettico.
Il mito di cui si serve Platone è un mezzo per poter parlare di realtà che vanno al di là dei limiti cui l'indagine rigorosamente razionale può spingersi.

In altre parole, la filosofia, avendo a che fare con i problemi più alti e difficili della mente e trovandosi spesso ai confini del pensabile, è costretta a tornare indietro o a procedere per un'altra via, diversa la quella logica, incanalandosi nel discorso allusivo del mito.
In Platone il mito si presenta come una sorta di trampolino per l'intuizione quando il discorso piano e razionale esaurisce se proprie prerogative.



La seconda navigazione e la scoperta del soprasensibile



LA DOTTRINA DELLE IDEE

Sensibile e soprasensibile

La nostra esperienza si muove nel mondo dei sensi (esterni ed interni) ritenendo di possederne la conoscenza. Ad una attento esame, tuttavia, il sensibile si rivela molto lontano da una reale ed effettiva conoscenza, perché i suoi componenti sfuggono, in ultima analisi, a qualsiasi forma di comprensione. La realtà si disperde nel sensibile, scomponendo qualsiasi cosa non se ne trova la parte fondamentale, cioè quella che ne determina il significato.
La realtà sembra allora appartenere a una dimensione diversa dal sensibile, cioè la dimensione di ciò che non è composto (di parti), di ciò che è eternamente saldo nel suo significato e che non cade sotto alcun genere di sensazione. La realtà stabile è quella intelligibile, cioè quella che esclude il riferimento alla facoltà del senso in generale.
Questo tavolo, ad esempio, non trova al proprio interno la propria ragion de'essere, ma esiste come tavolo grazie a qualcosa che non fa parte di esso, e che, quindi, non si può ritrovare in alcuno dei suoi elementi costitutivi. Lo stesso vale per ciascuno di noi: sottoposti a un'ispezione anatomica la nostra identità risulta irreprensibile, cioè, non è possibile sorprenderla in nessuna in nessuna “ghiandolina” nascosta chissà dove. L'io di ciascuno è soprasensibile.

Questa è la scoperta di Platone. Egli ha per la prima volta teorizzato la dimensione dell'intelligibile, indicando in essa il senso compiuto di ogni cosa.

La scoperta delle idee

Essa rappresenta il cuore del platonismo maturo.
La teoria delle idee è il risultato fondamentale della speculazione platonica, è la scoperta di una realtà soprasensibile, cioè dell'esistenza di una dimensione soprafisica dell'essere.
L'indagine filosofica dei predecessori di Platone aveva sostanzialmente cercato di spiegare i fenomeni in un unico modo, cioè ricorrendo a cause o principi di carattere meccanico o materiale, con esiti deludenti se non contraddittori. Impegnandosi nel cercare di dare una risposta soddisfacente al problema filosofico Platone si impegna nella “seconda navigazione”, cioè la navigazione a remi che si doveva intraprendere, durante i viaggi per mare, nei momenti di bonaccia in assenza di vento; un modo di navigare ben più faticoso, ma meno soggetto ai capricci delle correnti e degli agenti meteorologici.
Platone procedendo oltre Socrate nel suo itinerario speculativo ritiene che la scienza (messa in primo piano da Socrate) abbia i caratteri della stabilità e dell'immutabilità e quindi della perfezione. Ma quale sarà l'oggetto della scienza, visti i suoi caratteri di stabilità e di assolutezza? Non certo le cose mutevoli e transeunti, oggetto, al massimo, di una opinione altrettanto oscillante e insicura; oggetto proprio della scienza non potranno essere che entità immutabili e perfette, esistenti a sé, che Platone chiama idee.

“Idea” significa originariamente visione, il vedere; non però la visione del visionario, ma la rappresentazione (non quella teatrale) di ciò che è, cioè la sua delineazione essenziale e stabile. L'idea è l'essere della realtà (non ne è semplicemente un'ideazione), modello unico e perfetto delle cose molteplici e imperfette di questo mondo, archetipo oltremondano.

Le idee, che rispetto alle cose del mondo dell'esperienza quotidiana sono come il modello rispetto alla copia, costituiscono in se stesso un mondo perfetto, un mondo che sta al di là del mondo, al di sopra, ad un altro livello d'essere: l'iperuranio (= sopra-mondo), il mondo delle idee, che ovviamente non occupa un luogo fisico al di fuori di questo mondo, come se ne fosse una parte separata, ma che appartiene a un altro ordine di cose, quello dell'intelligibilità.
Il mondo delle idee, infatti, non può essere oggetto di sensazione, non è un mondo sensibile (suscettibile di sensazione, in potenza alla sensazione); al contrario, può essere oggetto solo del pensiero ed è perciò mondo puramente intelligibile (suscettibile di intellezione, in potenza all'intelligenza).
Viene perciò a stabilirsi, nella rappresentazione platonica della realtà, un radicale dualismo, cioè una divisione assoluta e incolmabile, tra i due ordini d'essere, sensibile e soprasensibile, empirico e metempirico: la materia e l'idea sono i poli opposti del tutto.

Ai due ordini del mondo, conseguentemente, corrispondono due diversi ordini di conoscenza, l'opinione e la scienza (dóxa ed epistéme), che hanno per oggetto l'una le cose mutevoli, corruttibili, transeunti e interscambiabili con i propri contrari (i corpi), che popolano il mondo materiale dei sensi, l'altra le verità indefettibili, incorruttibili, eterne e perfette (le idee), che sfolgorano di evidenza nel mondo trasparente del puro conoscibile.
Platone, in questo senso, eredita le tradizioni filosofiche precedenti, trasformandole e sintetizzandole: la visione eraclitea del divenire interpreta la condizione del sensibile (mondo dei corpi materiali) soggetto a un'infinita ed inintelligibile trasformazione e oggetto dell'opinione oscura e confusa; la visione parmenidea dell'essere interpreta invece la condizione dell'intelligibile (mondo delle idee) soggetto di un'indefettibile e statica perfezione o oggetto della scienza salda e nitida.



I caratteri dell'idea e la relazione tra le cose del mondo sensibile e le idee

 

I caratteri dell'idea

Ne consideriamo tre:
 - perseità: le idee sono dette “in sé” e anche “in sé e per sé”; Platone dice spesso «il Bene in sé», «il Bello in sé». Ciò significa che l'idea non è relativa al soggetto che conosce, ma è indipendente;
 - immutabilità: l'idea permane  sempre quale è, identica a se medesima, perennemente sottratta al flusso delle cose;
 - assolutezza: le idee sono concepite da Platone come l'essere, come ciò che è essere in senso pieno, senza relazioni essenziali ad altro.

Tali caratteristiche denotano nel contempo l'immanenza e la trascendenza delle idee rispetto alla realtà delle cose. L'idea, infatti, è ciò che permane identico nelle cose (immanenza), ma è anche ciò che, contrapponendosi alla realtà diveniente delle cose, proprio nella misura della propria immutabilità, va al di là delle cose (trascendenza), contrapponendosi alle cose come l'assoluto al relativo entro una dimensione diversa rispetto a quella delle cose.
Il mondo intelligibile, quindi, risulta ben distinto, ontologicamente, dal mondo sensibile; il che non significa un'assurda separazione, ma semplicemente una strutturale alterità.
Il dualismo proprio del mondo platonico non è che il dualismo che ammette l'esistenza di una causa soprasensibile come ragion d'essere del sensibile stesso, non una ridicola reduplicazione del mondo in una sua presunta copia ideale. L'iperuranio, cioè, non è un luogo fisico, ma è una dimensione dell'intelligenza.


I rapporti tra le idee e il mondo sensibile

Platone dice che tra sensibile e intelligibile c'è un rapporto descrivibile in diversi modi:
 - imitazione;
 - partecipazione;
 - comunanza;
 - presenza.
Si tratta però, come Platone stesso suggerisce nel Fedone, di proposte per la discussione sulle quali non è il caso di soffermarsi come se fossero soluzioni definitive.

 

Imitazione, partecipazione, comunanza e mescolanza

 

Il sensibile, quindi, è “imitazione” dell'intelligibile, perché lo ricalca e lo copia senza peraltro mai riuscire a eguagliarlo; il sensibile, inoltre, nella misura in cui riesce a realizzare la propria essenza, “prende parte” all'intelligibile; il sensibile, poi, risulta riconoscibile all'interno di qualsiasi sua configurazione specifica per il fatto che detiene qualcosa “in comune” con l'idea; il sensibile, infine, risulta, per così dire, “permeato” dall'intelligibile, nel senso che l'intelligibile si rende presente nel sensibile assicurandone il significato.

 

La gerarchia dell'iperuranio; i generi supremi del Sofista

Il problema della struttura gerarchica del mondo delle idee

Il mondo delle idee è strutturalmente molteplice, non caotico, ma organizzato e, in qualche senso, unificato. Per essere tale, tuttavia, il mondo delle idee deve essere concepito gerarchicamente, ma ciò è possibile soltanto in base al presupposto che l'essere (cioè le idee) non sia omogeneo.
Le idee sono molte: esistono idee di valori (morali ed estetici), idee dei vari oggetti geometrico-matematici, idee di oggetti artificiali. Tale molteplicità è gerarchicamente ordinata; al vertice Platone pone l'idea del Bene, principio incondizionato che dà alle altre idee la loro essenza e la loro realtà.

Per essere molte, tuttavia, le idee devono distinguersi l'una dall'altra, strutturalmente, e, per distinguersi, l'una deve differire dall'altra, cioè non essere l'altra.
Diviene dunque fatale una qualche ammissione del non-essere, quel non-essere che Parmenide aveva del tutto escluso. Per parlare di gerarchia e differenziazione tra le idee, bisogna quindi sopprimere Parmenide, il cui pensiero regge tutto e solo sulla base dell'assoluta negazione del non-essere.


Il superamento di Parmenide nel Sofista

Nel dialogo intitolato Sofista viene espressamente tematizzato il superamento di Parmenide.
Platone introduce tre idee generalissime: Essere, Quiete e Movimento, alle quali se ne aggiungono altre due, Identico e Diverso. Infatti, l'essere, per essere quello che è (e così la quiete e il movimento) deve essere identico a sé stesso e diverso dalla quiete e dal movimento (lo stesso per quiete e movimento).
Il “diverso”, tuttavia, è una forma di non-essere, infatti, essere diverso da altro significa non-essere altro. Il non-essere, dunque, ha luogo all'interno dell'essere stesso senza creare contraddizione, contro il principio parmenideo. Parmenide è stato ucciso, il blocco monolitico dell'essere omogeneo è stato spezzato; la filosofia, a questo punto, può progredire.
L'eleatismo è poi contraddetto anche con l'ammissione di una quiete e di un movimento ideali nel mondo intelligibile: ciascuna idea è immobilmente se medesima, ma è anche, dinamicamente, un ideale movimento verso le altre, in quanto partecipa di altre o in quanto le esclude.



Il Filebo: illimite, limitante, intelligenza e misto

 

I generi supremi del Filebo

Accanto al modello interpretativo espresso nel Parmenide e nel Sofista, Platone introduce un'altra “mappatura” del mondo nel dialogo Filebo, recuperando, questa volta, una tematica legata al pitagorismo.
Platone, nel Filebo, in omaggio a Pitagora, presenta quattro categorie supreme in funzione delle quali interpreta tutto il reale:
 - l'illimite (indeterminato), sul quale agisce un
 - limitante; il limite delimita l'illimite in virtù di una
 - causa intelligente, e ciò che ne nasce è un
 - misto di limite e illimite (un illimite che è composto nel limite e quindi ordinato, imbrigliato nella misura).
Tali supreme categorie valgono sia per il mondo ideale sia per il mondo materiale; l'illimite consiste nel principio materiale di cui ogni cosa è costituita, il limite risulta essere il principio formale che determina l'indeterminato, il misto è l'unione o la sintesi risultante da questi due principi, la causa della mescolanza è la Mente, l'Intelligenza divina, il Demiurgo.



La cosmologia: il divino, il sensibile e la chóra

LA COSMOLOGIA

 

Il divino

La “seconda navigazione” ha offerto a Platone la possibilità di vedere il divino nella prospettiva del soprasensibile, ma ugualmente, come in tutto il pensiero greco precedente e successivo, il divino è da intendere in Platone come strutturalmente molteplice. Divino, infatti, è il mondo ideale, in tutti i suoi piani. Divina è l'idea del Bene, ma non si tratta di un Dio-persona. Al vertice della gerarchia dell'intelligibile c'è un Ente divino (impersonale) e non un Dio (personale), così come enti divini sono le idee.

Caratteri personali ha, invece, il Demiurgo, che conosce e che vuole. È un'Intelligenza buona, che ama la bellezza del mondo ideale a cui è costantemente rivolto e rispetto al quale occupa una posizione inferiore; non crea le idee né la materia informe (la chóra), ma plasma le cose mediando l'archetipo nell'indeterminatezza.

Il mondo sensibile come intermedio

Ciascuna idea è una, le cose sensibili corrispondenti, invece, sono molteplici; l'idea è assolutamente sé stessa, le cose lo sono relativamente; l'idea è immutabile, le cose mutevoli; le idee “sono”, le cose “divengono”. Parmenide non avrebbe avuto dubbi: le cose non sono, ossia rientrano nel nulla; per Platone, invece, pur essendo chiaro che le cose del mondo sensibile sono condizionate dal non essere, risulta altrettanto chiaro che esse non sono l'assoluto non essere, del nulla. Se la vera conoscenza, poi, riguarda solo il mondo ideale e il vero essere, l'opinione è tuttavia qualcosa e verte intorno a qualcosa che in qualche misura è, e che essa non si può riferire al non essere, perché del non essere c'è solamente ignoranza assoluta.
L'essere del sensibile è un intermedio fra il puro essere e il non essere. Il mondo sensibile non è l'essere, ma ha l'essere. Se dunque così stanno le cose, c'è ora il problema di sapere da dove venga al sensibile la quota di non essere che lo
contraddistingue.


La “chóra”

Il mondo sensibile deriva il suo essere sensibile e tutti i caratteri che all'essere sensibile si riconnettono da un elemento che si potrebbe dire «materiale». Platone usa per designare questo elemento diverse espressioni, anche un po' ermetiche. Tale elemento materiale ha i caratteri di indeterminatezza, oscurità, inintelligibilità, necessità. Nel Timeo Platone parla di chóra, cioè “contrada”, “regione”, “spazialità” come il ricettacolo di tutto ciò che si genera, sede di tutte le cose che hanno nascita.
L'elemento materiale è dunque il ricettacolo delle Idee e, come tale, estraneo a tutta le forme che deve ricevere, mancante di misura e di ordine, movimento caotico e indeterminatezza.

La materia, tuttavia, non è il puro non essere, che non può accogliere le forme, non consistendo di nulla. La materia ha dunque una sua realtà e una sua esistenza.

 

Il Demiurgo e la temporalità

 

Il Demiurgo e la genesi del cosmo temporale

L'esistenza di un mondo visibile ordinato, che rispecchia il mondo ideali è dovuta, secondo Platone, a un Dio-artefice, un Dio pensante e volente (personale), il quale, prendendo come modello il mondo delle idee, ha plasmato la chóra e dal caos ha tratto un cosmo.
Le idee sono intelligibili, ma non intelligenze, cioè possono essere cause esemplari della realtà, ma non possono essere cause efficienti del cosmo visibile. La causa efficiente del mondo visibile non può che essere un'intelligenza, necessaria per darne spiegazione alla genesi e alla natura del mondo sensibile.
C'è dunque un modello, c'è una copia e deve esserci un Artefice, che ha fatto la copia usufruendo del modello.

L'Artefice divino, perché al divino appartiene, pur essendo subordinato ai modelli eterni, è un Demiurgo che agisce per bontà e per amore, il quale, invaghitosi della bellezza ideale, ne ha espresse le forme plasmando la materia indeterminata. Il Demiurgo, animato dal desiderio del bene, fa l'opera più bella possibile; il negativo e il male che restano in questo mondo sono dovuti al margine di irriducibilità della chóra, che rimane comunque strutturalmente distante dall'intelligibile puro, pur assumendone tutte le forme.

L'eternità delle idee significa immobilità e perennità; la generazione, invece, divenendo, implica un non essere più e un non essere ancora di ciò che è; il tempo, intimamente connesso con la generazione del sensibile, è l'immagine mobile dell'eterno, come uno svolgimento dell'è attraverso l'era e il sarà.
Il tempo, dunque, è nato secondo Platone insieme con il cielo, cioè, non c'è tempo prima della generazione del cosmo sensibile, ma soltanto in concomitanza con la sua genesi.



La gnoseologia interprete della maieutica socratica



LA GNOSEOLOGIA E LA DIALETTICA

 

La dottrina dell'anamnesi

Socrate aveva esercitato l'arte maieutica della madre, facendo in modo di condurre le menti degli interlocutori al parto della verità; Platone offre con la dottrina dell'anamnesi un duplice fondamento teorico alla maieutica socratica, attraverso il riferimento mitologico religioso all'Orfismo e mediante un'interpretazione speculativa.

A fronte dell'eristica, che sosteneva l'impossibilità di una conoscenza vera, nel dialogo Menone, Platone si impegna a superare la questione adottando una concezione del tutto innovativa della conoscenza, cioè la concezione secondo cui la conoscenza altro non è che anamnesi, ricordo.

 

La dottrina dell'anamnesi e i gradi della conoscenza

Dapprima la difficoltà è risolta miticamente, facendo riferimento alla dottrina orfico-pitagorica della trasmigrazione delle anime (l'anima è immortale e più volte rinata; la morte non è che il termine transitorio di una delle vite dell'anima il un corpo; la nascita non è che il ricominciare di una nuova vita che viene ad aggiungersi alla serie delle precedenti). L'anima pertanto, ha conosciuto l'intera realtà, nell'al di là e nell'al di qua e non fa che trarre da se medesima tutto ciò che, apparentemente, essa conosce di nuovo.

In seconda istanza, per suffragare quanto affermato sulla base del mito, Platone ricorre a un vero e proprio esperimento maieutico. Interroga uno schiavo assolutamente ignaro di geometria e riesce a fargli risolvere, solamente interrogandolo socraticamente, una complessa questione di geometria (che in sostanza implica la conoscenza del teorema di Pitagora). Dunque, dal momento che lo schiavo ha saputo guadagnare la verità da solo, ciò significa che egli l'ha tratta interamente da se stesso, cioè l'ha ricordata.

Un'ulteriore riprova dell'anamnesi Platone la fornisce nel dialogo Fedone, rifacendosi soprattutto alle conoscenze di ordine matematico. Platone argomenta, infatti, che, quando noi attraverso i sensi constatiamo l'esistenza di cose uguali, maggiori, minori, quadrate, circolari, ecc., scopriamo che i dati dell'esperienza non si adeguano mai, in modo perfetto, alle corrispondenti nozioni, che noi, peraltro, possediamo senza ombra di dubbio (nozioni di uguale, maggiore, minore, quadrato, circolo, ecc.). Visto tale dislivello tra i dati dell'esperienza, da una parte, e i modelli di paragone, dall'altra, si deve concludere che tali modelli esistono nell'anima come un possesso originario, non derivato dall'esperienza, ma già presente nell'anima ancor prima di qualsiasi esperienza.

La reminiscenza, dunque, suppone strutturalmente un'impronta impressa nell'anima dall'idea, una metafisica e originaria “visione” del mondo ideale che resta sempre, anche se velata, nell'anima di ognuno di noi.

I gradi della conoscenza

L'anamnesi, peraltro, non spiega la conoscenza in se stessa, quanto le condizioni di possibilità della conoscenza, la sua radice.

Nella Repubblica Platone spiega che la conoscenza è proporzionale all'essere, nel senso che solo ciò che è massimamente essere è perfettamente conoscibile, il non essere è assolutamente inconoscibile, mentre ciò che è misto di essere e di non essere, il sensibile, è fatto segno di una conoscenza intermedia fra scienza e ignoranza, detta opinione.
L'opinione, nell'intendimento di Platone, può anche essere vera e retta, ma non contiene mai in sé la garanzia della propria correttezza e resta sempre labile, come, d'altronde, è labile il sensibile cui essa fa riferimento.
L'opinione si distingue in:
 - immaginazione, che concerne le ombre delle cose;
 - credenza, che concerne gli oggetti veri e propri.
La scienza si distingue in:
 - dianoia (conoscenza mediata) degli oggetti geometrico-matematici, che fa appello ancora a elementi visivi e sensoriali;
 - noesis, cioè il coglimento puro, la conoscenza dialettica delle idee e del principio assoluto, l'idea del Bene in sé.


La dialettica

Gli uomini comuni si fermano ai primi due gradi della prima forma del conoscere, cioè dell'opinione; i matematici salgono alla dianoia, mentre soltanto il filosofo accede alla noesis e alla suprema scienza.

L'intelletto e l'intellezione, lasciate definitivamente le sensazioni, colgono con un procedimento insieme discorsivo e intuitivo le pure idee, i loro nessi positivi e negativi, i reciproci legami di implicazione e di esclusione ricorrenti tra le varie idee, e risalgono da idea a idea, attraverso la disposizione gerarchica, fino al coglimento della suprema idea.
Tale procedimento prende il nome di dialettica, articolato lungo due direzioni, ascensiva (dal basso verso l'alto) e discensiva (dall'alto verso il basso).



L'arte in rapporto alla conoscenza: La Repubblica e il Simposio

 

La concezione dell'arte

Nel determinare l'essenza, la funzione, il ruolo e il valore dell'arte, Platone si preoccupa di stabilire quale valore di verità essa abbia, ossia si essa avvicini al vero, se renda migliore l'uomo, se socialmente abbia valore educativo oppure no.
La risposta è del tutto negativa: l'arte non disvela ma vela il vero, perché non conosce; non migliora l'uomo ma lo corrompe, perché è menzognera; diseduca, in quanto si rivolge alle facoltà arazionali dell'anima, le parti inferiori di noi.

La poesia, argomenta Platone nello Ione, è inferiore alla filosofia, in quanto il poeta non è mai tale per scienza, ma per intuito irrazionale: il poeta è fuori di sé, è ispirato, è invasato, e quindi non parla per virtù di conoscenza, ma per una sorte di volontà divina.

Nella Repubblica Platone dichiara che lo statuto ontologico degli oggetti d'arte è quello dell'imitazione: come infatti, sulla base della teoria delle idee, sappiamo che le realtà sensibili sono soltanto imitazioni del vero essere, l'idea, così possiamo affermare, sulla base dei medesimi principi, che l'arte è imitazione di un'imitazione, e quindi ulteriore allontanamento dalla verità, potendosi così rivolgere, ancora una volta, alle parti meno nobili dell'anima.

Anche la retorica, come si è visto, è da condannare per ragioni analoghe a quelle per cui si condanna l'arte in generale: essa è pura lusinga, adulazione e contraffazione del vero. La retorica è la mistificazione della dialettica.

Soltanto in un'altra prospettiva, quella erotica, l'arte è suscettibile di un'interpretazione positiva.
Éros viene inteso come forza mediatrice fra sensibile e soprasensibile, forza che dà ali ed eleva, attraverso i vari gradi della bellezza, alla metempirica Bellezza in sé. Poiché poi, per il greco in genere, il Bello coincide con il Bene, così Éros è forza che eleva al Bene.
Nel Convivio (o Banchetto o Simposio) Amore non è né bello né buono, ma è sete di bellezza e di bontà. Amore non è quindi un Dio, ma nemmeno un uomo. Non è mortale e neppure immortale: è un essere demoniaco “intermedio” fra uomo e Dio.
Il demone Amore è stato generato da Penia (che significa povertà) e da Poros (che vuole dire espediente, risorsa, ricchezza) nel giorno natale di Afrodite. Perciò Amore ha doppia natura, né mortale né immortale, né ignorante né sapiente. Amore è dunque filosofo nel senso più vero del termine: è innamorato di quella sapienza che non riesce mai a possedere, vi aspira, ne è sempre in cerca, come fa l'amante.
Ciò che gli uomini comunemente chiamano amore non è che una piccola parte del vero amore: amore è desiderio del bello, del bene, della sapienza, della felicità, dell'immortalità, dell'Assoluto. L'Amore ha molte vie che portano a vari gradi di bene, ma vero amante è colui che le sa percorrere tutte, fino a giungere alla suprema visione, fino a giungere alla visione di ciò che è assolutamente bello:
 - il più basso grado nella scala dell'amore è l'amore fisico, che è desiderio di possedere il corpo bello al fine di generare nel bello un altro corpo: in tal senso è desiderio di immortalità e di eternità;
 - poi vi è il grado degli amanti che sono fecondi non nei corpi ma nelle anime, che portano germi che nascono e crescono nella dimensione dello spirito: gli amanti delle anime, gli amanti delle arti, gli amanti della giustizia e delle leggi, gli amanti delle pure scienze;
 - infine, al sommo della scala d'amore, c'è la folgorante visione dell'idea del Bello, del Bello in sé, dell'Assoluto.



L'immortalità dell'anima nel Fedone

 


LA COMPONENTE MISTICO ASCETICA

 

Per Platone diviene essenziale rispondere al problema che Socrate aveva lasciato insoluto, ossia il problema delle sorti escatologiche (cioè riguardanti il destino ultimo) dell'anima. Se l'anima fosse mortale e se, con la morte del corpo, anche lo spirito dell'uomo si risolvesse nel nulla, allora la dottrina di Socrate non basterebbe; non basta infatti dire che l'uomo è la sua psyché, bisogna anche stabilire se essa sia mortale o immortale.
Vivere per il corpo significa vivere per ciò che è destinato a morire; vivere per l'anima significa, invece, vivere per ciò che è destinato a essere sempre, quindi significa vivere purificando l'anima tramite un progressivo distacco dal corporeo. Se il giusto è vittima delle prepotenze (come Socrate) fino a perdere il corpo, egli perde ciò che dell'uomo è mortale, ma salva l'anima per l'eternità.
L'esistenza di un'anima immortale, che soltanto può dar senso a una visione della vita come quella di Socrate, non può restare soltanto una credenza, ma deve venire dimostrata. La dottrina dell'immortalità dell'anima si innesta nella concezione del sovrasensibile e ne diventa quasi un corollario: l'anima è la dimensione intelligibile e immateriale dell'uomo, ed è eterna come eterno è l'intelligibile e l'immateriale.


Le prove dell'immortalità dell'anima

1. Il Fedone fornisce tre prove a favore dell'immortalità dell'anima.
 - In analogia a quanto si dice nel Menone, se l'anima ricorda tutto ciò che conosce, è evidente che la verità le è stata presente in un'altra dimensione di vita oltre quella corporea, cioè in una vita oltremondana. L'anima è perciò resistente rispetto al disfacimento corporeo.
 - L'anima umana è capace di conoscere le cose immutabili ed eterne, ma per poter cogliere queste realtà, essa deve avere, come condizione irrinunciabile, una natura loro affine; altrimenti l'anima non ne sarebbe capace, non potrebbe contenere in sé l'eterno, se non fosse essa stessa eterna. Ora, esistono due piani della realtà, quello del sensibile e quello dell'intelligibile, che accolgono in sé le due dimensioni dell'uomo, il corpo (sensibile) e l'anima (intelligibile); quando l'anima si appoggia alle percezioni del sensibile, essa si confonde ed erra, perché le cose percepite sono mutevoli e mutevoli sono, di conseguenza, anche le percezioni che le riguardano; quando invece l'anima si eleva al di sopra dei sensi e si raccoglie in sé sola, allora non erra più, trovando nelle pure idee e negli intelligibili il suo oggetto adeguato e scoprendo di essere loro affine, in quanto parimenti immutabile (es. la percezione di una cosa triangolare e verde muta con il mutare della luce cui la cosa sensibile è sottoposta; la conoscenza del triangolo con le sue proprietà geometriche e del verde come preciso referto spettrometrico rimangono immutabili e non variano con il variare delle condizioni all'interno delle quali vengono conosciute). La stabilità delle conoscenza implica dunque la stabilità del loro supporto, l'anima conoscente, appunto, che risulta quindi indipendente dalla morte del corpo e, quindi immortale.
 - Le idee contrarie non possono combinarsi tra loro e stare insieme, perché, appunto in quanto contrarie, si escludono a vicenda. Di conseguenza, non possono combinarsi e stare insieme le cose sensibili che partecipano essenzialmente di queste idee. In questo senso, quando un'idea entra in una cosa, necessariamente ne esce l'idea contraria, che cede il posto (nel frutto maturo il rosso prende il posto del verde del frutto acerbo). Così, il caldo scaccia il freddo e il fuoco, che partecipa essenzialmente del caldo, si dimostra altrettanto capace di scacciare la neve, che partecipa essenzialmente del freddo. Il fuoco freddo sarà inconcepibile così come la neve calda. Ma nell'anima possiamo scoprire lo stesso processo: l'anima ha, come caratteristica essenziale l'idea di vita (cioè, dire anima e dire vita è per Platone, e in generale, per il greco,  identico), quindi essa sarà incompatibile con la morte, cioè sarà inconcepibile l'anima mortale, perché sarebbe come dire la vita morta o il caldo freddo. L'anima non potrà strutturalmente contenere in sé la morte, avendo come carattere essenziale la vita, e dunque sarà immortale. Al sopraggiungere della morte del corpo, che è vivo, cioè ha la vita, ma non è la vita, l'anima se ne andrà altrove.
Una variante di quest'ultima prova potrebbe essere così espressa: mentre nella realtà sensibile i contrari sono incompatibili, nell'anima essi sono compatibili, nel senso che possono essere pensati senza contraddizione e senza il corrompersi dell'anima stessa; il pensiero del freddo, infatti, non distrugge il pensiero del caldo, ma semplicemente gli si accosta come negativo, come nel mondo delle idee l'idea del freddo e l'idea del caldo coesistono senza eliminarsi reciprocamente; dunque l'anima, che sopporta in sé i contrari, è della stessa natura del mondo delle idee, cioè immutabile e immortale.


 

Il destino escatologico dell'anima

2. Nella Repubblica Platone suggerisce un'altra prova dell'immortalità dell'anima:
 - Ogni cosa ha un suo male peculiare, che la distrugge. L'anima, come tutte le cose, ha un suo male peculiare, il vizio. Ma il vizio non distrugge l'anima, tanto che ci sono anime profondamente e radicalmente connotate dalla malvagità. Dunque l'anima non può essere distrutta e, pertanto, risulta immortale.

3. Nel Fedro l'immortalità dell'anima è desunta dal concetto di psyché intesa come principio di movimento, che, in quanto tale, non può mai venir meno.

4. Nel Timeo Platone sostiene che le anime sono create dal Demiurgo e che, quindi, grazie alla loro origine divina, non possono corrompersi.

Al di là della formulazione tecnica delle varie prove, ancora acerba dal punto di vista dialettico, vale che l'esistenza e l'immortalità dell'anima hanno senso unicamente se si ammette una dimensione dell'essere soprasensibile, metempirica che coinvolge strutturalmente anche l'uomo. L'anima, in cui Socrate additava il “vero uomo”, identificandola con l'io consapevole, intelligente e morale, riceve con Platone la sua adeguata fondazione ontologica e metafisica e una precisa collocazione nella visione generale della realtà.

Il destino escatologico dell'anima e la metempsicosi

L'immortalità dell'anima pone l'ulteriore problema della sua sorte dopo lo scioglimento dal corpo. Ma a questo problema il lógos da solo non è in grado di rispondere, ed è a questo punto che Platone chiede soccorso ai miti.

Dopo un giudizio conseguente alla morte fisica, nel quale i giusti sono premiati e i malvagi sono condannati (eternamente o meno, a seconda della gravità della loro ingiustizia), il destino dell'anima viene presentato da Platone attraverso la dottrina orfica della reincarnazione (meglio metempsicosi o trasmigrazione delle anime), la quale, tuttavia, viene articolata in modi differenti in diversi dialoghi.

Nel Fedone si dice che le anime che hanno vissuto una vita eccessivamente legata ai corpi, alle passioni, agli amori e ai godimenti di esse, non riescono a separarsi, con la morte, interamente dal corporeo, diventato ad essi quasi connaturale. Queste anime vagano per un certo tempo, per paure dell'Ade, attorno ai sepolcri come fantasmi, fino a che, attratte dal desiderio del corporeo, non si leghino nuovamente ai corpi e non solo di uomini ma anche di animali, a seconda della bassezza del tenore di vita morale tenuto nella precedente vita.
Forse, qui Platone parla di un ciclo di vite che intercorre per le anime dei malvagi dopo la morte, prima di giungere all'Ade, oppure si tratta di un modo diverso di rappresentare il castigo dei malvagi: è difficile stabilirlo.

Nella Repubblica, invece, Platone parla di un diverso genere di reincarnazione, notevolmente diverso da quello presentato nel Fedone.
In questo dialogo Platone sostiene che, siccome il numero delle anime è finito, ad un certo momento, se il castigo o il premio fossero eterni, ad un certo punto non resterebbe più sulla terra alcuna anima; ma poiché una vita terrena non può durare più di cento anni, la vita ultraterrena (in omaggio al pitagorismo) non può durare che dieci volte cento anni, trascorsi i quali, le anime devono ritornare a incarnarsi. Il ritorno delle anime sulla terre è descritto nel mito di Er, con il quale si chiude l'ultimo libro della Repubblica.
Terminato il loro viaggio millenario, le anime, tra le quali quella di Er, convengono su una pianura, dove viene determinato il loro destino futuro. Non sono tuttavia gli Dei e la Necessità a decidere il destino degli uomini, ma gli uomini stessi sono protagonisti della scelta, perché i paradigmi delle vite possibili non sono imposti, ma proposti alle anime, che li scelgono, dalla Moira Lachesi, figlia di Necessità. Estratto a sorte l'ordine che stabilisce quando ciascuna anima deve recarsi a scegliere il proprio destini, Lachesi stende sul prato tutti i possibili paradigmi delle vite umane ed animale, in numero molto superiore a quello delle anime presenti. La scelta fatta da ciascuna anima viene poi suggellata dalle altre due Moire, Cloto e Atropo, e diventa, così irreversibile. Le anime bevono, quindi, la dimenticanza nella acque del fiume Amelete e poi scendono nei corpi, in cui realizzano la vita scelta.
Tale scelta, dunque, dipende dalla libertà delle anime, o meglio dalla loro dose di conoscenza (o dalla scienza della vita buona e di quella cattiva), cioè di conoscenza filosofica; l'intellettualismo etico socratico, quindi, è spinto fino alle estreme conseguenze, in quanto la filosofia non salva soltanto nell'al di qua, ma anche nell'al di là.



Il mito dell'auriga; la morale ascetica



È infine da rilevare che nel Fedro, con il mito dell'auriga, Platone offre una visione dell'aldilà ancora differente, introducendo questa volta questa volta il principio della colpa come causa della reincarnazione.
Originariamente, secondo questo mito, l'anima era presso gli Dei e viveva al seguito degli Dei una vita divina. L'anima è descritta come un carro alato trainato da due cavalli con l'auriga (il cocchiere). Mentre i due cavalli degli Dei sono egualmente buoni, i due cavalli delle anime degli uomini sono di razza diversa: uno è mansueto, l'altro è bizzarro e la guida del cocchio, di conseguenza risulta alquanto difficile (l'auriga rappresenta la parte razionale dell'anima, i due cavalli le parti alogiche dell'anima, come si dirà in seguito). Le anime procedono al seguito degli Dei, volando per le strade del cielo, e la loro meta è quella della sommità del cielo, dove pervengono periodicamente, per contemplare ciò che sta al di là del cielo stesso, cioè l'Iperuranio. Ma a differenza che per gli Dei, per le anime umane è ardua impresa il poter contemplare l'essere che sta al di là del cielo, soprattutto a causa del cavallo di razza bizzarra, che tende a trascinare il carro verso il basso. Così avviene che alcune anime non riescono a giungere alla destinazione, si ammassano, fanno ressa e, non riuscendo a salire l'erta che porta alla sommità del cielo, si scontrano e si calpestano; nasce una zuffa, in cui le ali dei carri si spezzano e, fattesi per conseguenza pesanti, queste anime precipitano sulla terra.
La vita umana alla quale l'anima, cadendo, dà origine, è moralmente più perfetta a seconda che essa più abbia veduto nell'Iperuranio e moralmente meno perfetta a seconda che meno abbia veduto. Alla morte del corpo, l'anima viene giudicata e per un millennio, come nella Repubblica, gode premi o sconta pene, fino alla successiva reincarnazione. Passati diecimila anni, tutte le anime riacquisteranno le ali e ritorneranno presso gli Dei, mentre vengono privilegiate quelle anime che, per tre vite consecutive, conducono una vita saggia di filosofia, le quali ricevono subito le ali e possono prima delle altre ritornare a circolare nel cielo.


La morale ascetica

La “seconda navigazione” ha permesso di concepire il mondo intelligibile indiveniente quale causa e sostegno del mondo sensibile, mutevole e transitorio. Il dualismo ontologico risultante, tuttavia, è temperato dalle diverse forme di relazione che Platone ha presentato per spiegare il rapporto causale che corre tra gli archetipi e le cose sensibile, variamente espresse, ma tali da garantire una certa continuità tra mondo ideale e mondo terreno.

A livello antropologico, invece, il dualismo si fa radicale e insuperabile. L'uomo è fatto di due parti, l'una intelligibile l'altra sensibile (anima e corpo) e tra queste due parti corre una relazione di opposizione estrema, di strutturale repulsione.
Nel Gorgia, citando Euripide, Socrate si interrogava dicendo: «Chi può sapere se il vivere non sia morire e morire non sia vivere?». La vita, o meglio ciò che comunemente si intende per vita, sarebbe la condizione di morte, mentre la morte, o meglio ciò che si intende per tale, vale a dire il disfacimento del corpo, sarebbe la condizione della vita vera, della vita nella verità.
Per Platone, coerentemente con l'insegnamento socratico, finché si ha un corpo, si è morti, perché l'uomo è fondamentalmente la propria anima e l'anima, finché è in un corpo, è come in una tomba, e quindi mortificata; il morire, invece, cioè la liberazione dal carcere corporeo, coincide finalmente con la vita autenticamente libera. Il corpo, infatti, è radice di ogni male, è fonte di insani amori, passioni, inimicizie, discordie, ignoranza e follia, è cioè sede di tutto ciò che mortifica l'anima.

Data tale concezione, derivano consequenzialmente due paradossi:
 - nel Fedone si dipinge la vita filosofica, cioè la vita migliore, come l'esercizio continuo di una progressiva “fuga dal corpo”; il vero filosofo desidera la morte e la vera filosofia è esercizio di morte, cioè consiste nel porsi continuamente in condizione di non dover dipendere in nulla (o quanto meno possibile) dalle esigenze del corpo. La morte, a partire da tale visuale, consiste nella completa liberazione che il filosofo ricerca per tutta la vita. La fuga dal corpo è il ritrovamento dello spirito;
 - divenire virtuoso implica una costante ricerca di vie di “fuga dal mondo”, per assimilarsi a Dio nella ricerca di una virtù che si estrania dalla condizione umana per ottenere una condizione divina, non in quanto pienamente umana, ma in quanto disumana.
Tale ascesi, naturalmente, è perseguibile (intellettualisticamente) attraverso virtù e conoscenza, termini che, nella fattispecie, risultano identici.



La tavola dei valori e l'amicizia. Il discorso politico: lettera VII

 

La tavola dei valori

Già Socrate aveva operato una rivoluzione dei valori rispetto a quelli condivisi dal contesto sofistico entro il quale aveva operato; i veri e autentici valori sono quelli dell'anima, ossia virtù e conoscenza, nei confronti dei quali i valori del corpo e i valori esteriori passano in secondo piano.
Ora, la nuova statura metafisica attribuita da Platone all'anima, permette una definitiva fondazione della tavola socratica assiologica:
 - il primo e più alto posto spetta agli Dei, e dunque ai valori che si potrebbero chiamare religiosi (tenendo conto che il termine greco che significa religione è eusébeia, che indica la buona disposizione dell'animo, la riverenza e l'ossequio più profondo);
 - subito dopo gli Dei viene l'anima, che, nell'uomo, è la parte superiore e migliore, con i valori che di essa sono peculiari della virtù e della conoscenza, ossia con i valori spirituali;
 - al terzo posto viene il corpo con i suoi valori (i valori vitali);
 - al quarto posto vengono i beni di fortuna, le ricchezze e i beni esteriori, in generale.
Come è ovvio, alla gerarchia dei valori corrisponde la gerarchia dell'essere; si deve altresì rilevare che i valori del terzo e del quarto posto sono tali (cioè sono valori), soltanto se subordinati al superiore valore dell'anima; nell'eventualità, infatti, che essi vengano preposti o addirittura contrapposti ai valori dell'anima, immediatamente essi diventerebbero disvalori, valori negativi.

La morale platonica si configura così come una morale antiedonistica, cioè mirante a combattere il piacere in quanto tale, perché nemico di quella catarsi che eleva l'uomo dalla dimensione corporea alla dimensione spirituale.

La catarsi

Curare l'anima, per Platone, significa “purificare” l'anima, cioè farla progredire catarticamente. Tale catarsi (= purificazione) si realizza quando l'anima, trascendendo i sensi, si impossessa del puro mondo dell'intelligibile e dello spirituale, ad esso congiungendosi, come a ciò che le è congenere e connaturale. La purificazione, naturalmente, si esplica ben diversamente dalle cerimonie iniziatrici degli Orfici, e coincide con il processo di elevazione alla suprema conoscenza dell'intelligibile.
Se di mistica platonica si vuole parlare, dunque, non si deve pensare a una forma di estatica e arazionale forma di contemplazione, ma a un catartico sforzo di ricerca e di progressiva ascesa alla conoscenza. Per Platone la conoscenza razionale è ad un tempo processo di conversione morale, nella misura in cui la conoscenza eleva l'uomo dalla falsa alla vera dimensione dell'essere, dal sensibile al soprasensibile.
L'anima si cura (cioè si purifica), si converte e si eleva conoscendo; la dialettica è conversione all'essere, è iniziazione al Bene supremo. In questa sintesi di misticismo e di razionalismo Platone, ancora una volta, porta a compimento l'intendimento socratico secondo la sua inflessione tipicamente intellettualistica.
Anche per Platone, come per Socrate, nessuno pecca consapevolmente.


L'amicizia (philía)

Nella philía prevale l'elemento razionale, o per lo meno sono assenti quella passione e quella divina ispirazione che è invece caratteristica peculiare di éros.
L'amicizia non nasce né fra simili né fra dissimili; l'amicizia non nasce fra buono e buono né fra cattivo e buono. È piuttosto l'intermedio (né buono né cattivo) che è amico del buono. E l'intermedio è amico del buono a causa del male che c'è in lui e a causa del desiderio del bene, che gli manca ma che in qualche modo gli è proprio essendo appunto intermedio.
Ciò che si cerca nell'amicizia, per Platone, rimanda sempre a qualcosa di ulteriore e ogni amicizia assume un senso solo in funzione di un «Primo Amico».

Nel Fedro Platone approfondisce ulteriormente il problema della natura sintetica e mediatrice dell'amore, ricollegandolo con la dottrina della reminiscenza. Sia pure a fatica, filosofando, l'anima ricorda quelle cose che un tempo vide, in modo particolare per la bellezza che ha avuto in sorte di essere straordinariamente evidente e straordinariamente sensibile; essa infiamma l'anima, che è presa dal desiderio di levarsi a volo, per ritornare là donde è discesa. Tale desiderio è appunto Éros, che con l'anelito del soprasensibile fa rispuntare all'anima le sue antiche ali.

L'amore è nostalgia dell'Assoluto, trascendente tensione al metempirico, forza che ci spinge a ritornare all'originario essere presso gli dei.

 

LA COMPONENTE POLITICA DEL PLATONISMO



La lettera VII e la concezione platonica della politica

Il problema politico costituisce non solo l'interesse centrale dell'uomo Platone, ma la sostanza stessa della filosofia platonica.
Socrate non aveva mai partecipato attivamente alla vita politica; non solo non sentiva il bisogno di occuparsi di essa, ma la considerava come qualcosa di avverso alla sua natura. Platone, sia per nobiltà di nascita, sia per tradizione familiare, sia per spirituale e intima vocazione, si sentì fin da giovane fortemente attratto dalla vita politica.

Nella Lettera VII afferma che i mali dell'uomo non potranno finire fino a quando non saranno i filosofi a governare la città.
Nel vecchio modello di politica, quello sofistico, quello democratico che ha portato alla condanna di Socrate, lo strumento più potente è la retorica; nel nuovo modello di politica, invece, lo strumento di governo deve essere la filosofia, perché questa rappresenta l'unica sicura via di accesso ai valori di giustizia e di bene, che sono la vera base di ogni autentica politica e dunque del vero Stato.

Ogni forma di politica, se vuole essere autenticamente tale, deve mirare al bene dell'uomo, ma dal momento che l'uomo è fondamentalmente la sua anima, mentre il corpo non è che la sua transeunte e fenomenica larva, è chiaro che il vero bene dell'uomo è il suo bene spirituale. La vera politica ha di mira la “cura delle anime”, mentre la falsa politica mira al corpo, al piacere del corpo e a tutto ciò che è relativo alla dimensione inautentica dell'uomo.
Poiché non esiste altro mezzo per curare l'anima se non la filosofia, di qui deriva l'identificazione di politica e filosofia, tra uomo politico e filosofo.